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Di fronte al progressivo impoverimento generale, alle diseguaglianze economico-sociali, alle conseguenti tensioni di ordine pubblico, all’incapacità degli Stati di far fronte ai nuovi bisogni, oggi non basta ripensare le politiche sociali: serve, piuttosto, rivedere completamente il modello di sviluppo.
Lo hanno capito già Paesi come Gran Bretagna, Usa, Canada e Australia, che da alcuni anni hanno cominciato a introdurre il concetto di innovazione sociale alla base delle proprie scelte. Ciò ha significato ribaltare il concetto stesso di “politica sociale”, concepita non più come intervento settoriale e limitato a una parte minoritaria di cittadini, quelli colpiti da povertà e altri disagi: il sociale riguarda tutti, perché attiene allo sviluppo equilibrato di una intera comunità. La politica, infatti, non deve preoccuparsi solo di soccorrere gli ultimi, ma di fare in modo che ce ne siano sempre meno.
Come? Attraverso quelle politiche che vanno sotto il nome di social impact innovation, in cui il punto di vista è completamente rovesciato rispetto al passato. Lo Stato, infatti, non è più chiamato a risolvere ogni problema, né a farsi sostituire da soggetti privati e da no-profit, quanto, piuttosto, a diventare uno degli attori in gioco, insieme a investitori privati, intermediari finanziari, organizzazioni no-profit. Il risultato è uno Stato capace di spendere di meno, fare di più e meglio, creare benessere per tutti all’interno di una comunità.
Non si tratta di un’utopia, ma di una sperimentazione coraggiosa già avviata con il nome di Social Impact Investing: la finanza rapace comincia a diventare paziente e sostenibile, in quanto si pone come funzionale non più solo all’interesse privato ma anche a quello pubblico.
Naturalmente, questo non significa che gli investitori speculativi stanno diventando improvvisamente buoni, ma che si sono accorti di una doppia convenienza: scegliere il social impact investment, infatti, significa sia fare investimenti ad alto tasso di decorrelazione (meno soggetti al cosiddetto rischio Paese) e quindi meno volatili, sia guadagnare in termini di qualità della vita nella propria comunità.
L’innovazione a impatto sociale è una sfida per la cultura italiana, abituata a pensare la spesa sociale come un costo improduttivo, mentre, al contrario, può diventare generatore di benessere per la comunità e di crescita per l’economia, con un effetto moltiplicatore di posti di lavoro e, conseguentemente, di domanda interna.
Un esempio di investimento a impatto sociale sono le obbligazioni a impatto sociale, i cosiddetti social impact bond: nel Regno Unito è già stato sperimentato con successo nel settore carcerario già nel 2010. La nostra proposta è di seguire quell’esempio, magari coinvolgendo Cassa Depositi e Prestiti.
Del resto, anche la Commissione Europea ha cominciato a muovere i primi passi in questa direzione, istituendo una disciplina regolatoria e un sistema di certificazione e accreditamento per i fondi di Venture Capital sociali europei. Inoltre, ha deciso di istituire un fondo, denominato European Social Investment and Entrepreneurship Fund (ESIEF), con una dotazione di 90 milioni di euro.
Per quanto qualcosa si sia mosso anche in Italia, non si segnala ad oggi alcuna discontinuità significativa nella programmazione delle politiche sociali, improntate ancora allo schema tradizionale secondo cui è lo Stato a provvedere alla copertura della spesa sociale, mentre i privati investono altrove, salvo poi compensare con elargizioni filantropiche. Né può più essere considerata innovativa la delega in bianco che lo Stato consegna a soggetti no-profit per lo svolgimento di molti servizi.
Per questo abbiamo spinto affinché la nostra proposta, all’insegna dell’innovazione sociale, venisse recepita in una mozione parlamentare (1/00729), depositata alla Camera dei Deputati lo scorso febbraio.
Spazzare via corruzione e ruberie non passa certo dall’arruolamento di magistrati nei governi dei diversi livelli territoriali, quanto dal ripensamento del ruolo stesso del pubblico. Cosa dice il governo su questa che potrebbe diventare una riforma epocale del sistema di welfare?