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L’azione di contrasto alle mafie ha bisogno congiuntamente di legalità, legalitarismo e disobbedienza civile. Ognuna di queste parole rappresenta concetti diversi e distinti ma, tenute insieme, possono contribuire a un vero e proprio programma di iniziative concrete per liberarci dalle mafie.
La legalità è uno dei principi che caratterizzano lo Stato di diritto ed esprime l’idea che ogni attività dei pubblici poteri debba trovare fondamento in una legge. Le norme possono disciplinare una certa discrezionalità entro cui la pubblica amministrazione si può muovere. Ma se si oltrepassano gli spazi di discrezionalità consentiti dalla legge si cade nell’arbitrio. E l’arbitrio, il favoritismo, il clientelismo creano malgoverno e non governo, sottraggono risorse pubbliche ad un loro utilizzo efficiente, comprimono i diritti civili e sociali dei cittadini e favoriscono la corruzione e il malaffare, in cui si annidano e prosperano le mafie. Battersi per la legalità è, dunque, esigere che i pubblici poteri agiscano nel rispetto della legge e non già in modo arbitrario. E, nello stesso tempo, promuovere ogni forma di collaborazione tra istituzioni e cittadini per denunciare qualsiasi atto illegale e favorire così il rispetto della legge.
Il legalitarismo è, invece, una concezione etico-politica generalmente professata da partiti e movimenti politici che, prefiggendosi radicali e profonde riforme di carattere economico e sociale, cercano di realizzarle attraverso un confronto democratico nelle istituzioni e nella società anziché ricorrendo a metodi e mezzi violenti. Essere legalitari significa, dunque, raggiungere i propri fini politici di giustizia sociale con gli strumenti della democrazia e non imponendoli con la violenza.
Infine, il concetto di disobbedienza civile o di obiezione di coscienza risponde alla domanda: è giusto disobbedire alle leggi ingiuste? Un contributo originale volto ad approfondire questo tema è stato fornito da don Lorenzo Milani nella famosa Lettera ai giudici. Nel 1965 il priore di Barbiana scrive la Risposta ai cappellani militari che avevano sottoscritto un ordine del giorno in cui «considera(va)no un insulto alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta obiezione di coscienza che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà». Avendo difeso gli obiettori, don Milani viene denunciato da un gruppo di ex combattenti per apologia di reato. Durante il processo, egli scrive la Lettera ai giudici in cui affronta il tema dal punto di vista laico e civile che qui ci interessa.
Don Milani parte dal principio che le leggi vanno amate perché il loro rispetto da parte di tutti è alla base degli ordinamenti democratici e della convivenza civile. Ma aggiunge di non poter dire ai suoi allievi «che l’unico modo d’amare la legge è d’obbedirla». Perché? «Posso solo dir loro – continua – che essi dovranno tenere in tale onore le leggi da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate».
Fin qui non c’è ancora il tema della disobbedienza civile. C’è l’incitamento a battersi per cambiare le leggi quando sono ingiuste, cioè quando permettono ai forti di vessare i deboli. E la lotta per cambiarle non fa venir meno la tensione morale per osservarle. Ma il testo continua così: «La leva ufficiale per cambiare le leggi è il voto. Ma la leva vera è influire con la parola e con l’esempio sugli altri votanti. E quando è l’ora non c’è scuola più grande che pagare di persona un’obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede».
La disobbedienza civile è, dunque, per don Milani un atto educativo («…non c’è scuola più grande…»), un atto di testimonianza, un modo per pagare di persona (davvero e non per finta!) la pena prevista per aver violato una legge ingiusta. «Chi paga di persona – precisa il sacerdote – testimonia che vuole la legge migliore, cioè che ama la legge più degli altri».
Come si può chiaramente notare, nella concezione di don Milani riguardo alla disobbedienza civile non c’è alcunché di anarchico ma «un amore costruttivo per la legge» (sono parole sue). Si potrebbe dire che nel suo pensiero il concetto di legalità è declinato fino alle estreme conseguenze: battersi per migliorare le leggi fino a renderle giuste mediante atti concreti che comportino anche il sacrificio di pagare di persona per la violazione di norme ingiuste. Per l’educatore di Barbiana è in questo modo che si formano cittadini consapevoli e responsabili e classi dirigenti capaci di mettere l’interesse generale innanzi ad ogni tornaconto personale o di gruppo.
Cosa può significare tutto questo nella lotta alle mafie?
Promuovere la legalità, cioè battersi perché i pubblici poteri osservino le leggi. Le mafie si diffondono quando la discrezionalità delle pubbliche amministrazioni esorbita dalle norme legali e diventa arbitrio. E nell’arbitrio pullulano la corruzione e il malaffare. Diventa, quindi, necessaria una mobilitazione per scovare ogni forma di illegalità, sopruso, prepotenza, favoritismo, clientelismo che si consuma nelle istituzioni a danno dei cittadini e combattere tali comportamenti a viso aperto e con tutti i mezzi legali e non violenti, dalla denuncia all’azione penale. La mobilitazione per la legalità è, al contempo, conflittuale e collaborativa. Ed è legalitaria perché si svolge nelle regole democratiche senza alcun uso della violenza.
Battersi per cambiare le leggi quando negano i diritti dei più deboli fino al punto di disobbedire alle norme che la propria coscienza reputa ingiuste, ma accettando di buon grado la pena prevista per chi le viola. Guai a venire a patti coi pubblici poteri per ottenere l’impunità mediante un atto d’arbitrio o un favore di chi è tenuto a far osservare le leggi che si violano. La lotta per la giustizia sociale scadrebbe in collusione con chi, nella pubblica amministrazione, invece di applicare le leggi agisce in modo arbitrario e clientelare. La testimonianza è efficace, cioè muove altri ad agire per il cambiamento, se la mobilitazione sociale non provoca soprusi o favoritismi da parte dei pubblici poteri e se non assume il significato di scardinare l’ordinamento ma di migliorarlo mediante un’azione legalitaria, ossia non violenta, e che porta a pagare di persona l’obiezione di coscienza.
Si toglie acqua di coltura al proliferare delle mafie se maturano la consapevolezza e la responsabilità degli individui e dei gruppi, se crescono i diritti sociali e civili delle persone, se aumentano le occasioni di lavoro mettendo a frutto risorse pubbliche e private, se migliorano la qualità e l’efficienza delle istituzioni pubbliche. È questo il senso della legalità che dovremmo sempre più accogliere nel nostro modo di essere e di pensare per contrastare le mafie.