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“Oggi più che mai la città, per piccola o grande che sia, dispone di innumerevoli possibilità educative. Essa racchiude in se stessa, in un modo o nell’altro, gli elementi importanti per una formazione integrale”. Così esordisce la Carta delle Città Educative.
Era il 1990 quando, su proposta dell’Ayuntamiento di Barcellona, si tenne in questa città il primo Congresso Internazionale de las Ciudades Educadoras, le Città Educative. Le 70 città che in rappresentanza dei 21 paesi vi parteciparono avevano un’idea chiara: pensavano che attraverso l’educazione i cittadini potessero riappropriarsi della loro città.
Da allora i congressi si sono tenuti ogni due anni e nel 1996 si è istituita l’Aice, l’Associazione Internazionale delle Città Educative, a cui attualmente aderiscono 521 amministrazioni locali di 38 paesi a livello mondiale. Sono città che hanno compreso come la grande sfida del ventunesimo secolo consista nell’investire nell’educazione permanente affinché ogni persona sia sempre più in grado di esprimere, affermare e sviluppare il proprio potenziale umano. Città che si impegnano a essere educative mettendo a disposizione dei cittadini tutte le opportunità e potenzialità possibili, insegnando loro ad utilizzarle.
L’intenzionalità formativa diviene, dunque, una dimensione forte e pregnante della vita della città.
In Italia sono 23 le città che aderiscono alla rete delle città educative, con in testa Torino, che si è dotata di un assessorato specifico.
D’altra parte continuare a invocare la società della conoscenza, il ruolo strategico dell’istruzione, lasciando poi tutto procedere come prima, sarebbe l’ennesimo esito del gattopardismo italico. Sapere che esiste una rete italiana di città educative è davvero una buona notizia. Perché parlare di città educativa è come significare che si intende configurare un sistema di formazione complesso, di apprendimento diffuso, in grado di mettere in gioco le sue varie componenti.
In sostanza la città educativa sottende un’idea buona, un’idea morbida di descolarizzazione, di superamento cioè del preconcetto che la formazione debba essere tutta giocata a scuola, di quel monopolio che invece di aprire la scuola al territorio ha finito per isolarla e richiuderla sempre più in se stessa. Insomma, la città educativa nutre una sana e salutare forma di descolarizzazione, che nulla toglie alla scuola, anzi la colloca intelligentemente al centro, al centro di un polo territoriale in grado di offrire un tessuto differenziato e diversificato di esperienze formative, più ricco, più pieno, più generoso, più autentico.
Dopo tanti “post”, post-moderno, post-industriale, post-capitalista, la Carta delle Città Educative invita al “pre”: a pre-pararsi al cambio di fase. Non siamo di fronte solamente a semplici cambiamenti, ma a sfide epocali, che richiedono soprattutto alle giovani generazioni nuovi attrezzi e nuovi modi di attrezzarsi. Anche la scuola fa parte di questo cambio di fase, essa stessa è al centro della crisi, per identità e ruolo, perché inadeguata di fronte alle sfide e alla complessità mondiale. Non può più essere lasciata sola, ha bisogno intorno a sé di città e di amministrazioni solidali e attente, soprattutto alle necessità dei propri giovani e ai loro bisogni formativi.
La città educativa è l’espressione della consapevolezza ormai diffusa che il territorio dell’istruzione è più ampio e aperto di quello scolastico, angusto e formale, che ci sono opportunità e modalità formative più accessibili e interconnesse, più immediate e dirette, più attive e più esperienziali della scuola. Ogni città, con la rete delle sue opportunità di apprendimenti formali e informali, è senz’altro anche questo. Non c’è migliore comunità di apprendimento di una città che fa propria la dimensione educativa permanente, non per rivolgersi solo ai bambini e alle bambine, ai cittadini in quanto alunni e studenti, ma a tutti indistintamente nella loro interezza.
È tempo ormai che la dimensione educativa proceda oltre la tradizionale caratterizzazione scolastica per assumere quella del territorialismo, di qui la forza della città educativa. La formazione, l’istruzione, i saperi non sono più solo una questione privata, singolare, ma per la prima volta nella storia di tutti i tempi, nella storia dei diritti dell’uomo, diventano parte del diritto di ognuno a esercitare la cittadinanza, trasformandosi in una questione plurale. Con questo le città devono fare i conti, perché nel nostro tempo l’enfasi sempre maggiore data alle competenze, significa in realtà la necessità di fornire ciascuno di tutte le mappe necessarie a orientarsi nel tragitto verso un mondo mai prima condiviso, e questo è tipicamente un tema di cittadinanza, di solidarietà e di democrazia.
Il diritto oggi non è più solo diritto a conoscere, a sapere, a possedere gli strumenti di un mondo in cui oltre ai linguaggi digitali, sempre più si impongono gli alfabeti della migrazione, ma diritto a esperienze educative calde, piene di risonanze, fortemente contestualizzate. La città può offrire questo, una full immersion nella realtà, non l’istruzione dei curricula, che non è certo suo compito, ma la dimensione dell’istruzione continua, dell’educazione permanente.
Nella città educativa ognuno ha il proprio ruolo, funzione e responsabilità. Le amministrazioni pubbliche, i servizi pubblici, le istituzioni, le strutture culturali, il mondo della creazione e produzione di cultura, arte, scienze e nuove tecnologie, il mondo delle organizzazioni economiche e del lavoro, le associazioni, la stampa, la radio e la televisione locale.
Nel contesto generale della città sono però le scuole che continuano a svolgere il ruolo più importante, perché è a scuola che si impara a imparare, a imparare per tutta la vita. Non c’è città educativa per nessuno dei suoi abitanti, se la scuola non assolve con serietà e impegno rinnovato a questo compito centrale, che non è di sapere, ma di imparare a sapere, per poter camminare verso qualsiasi futuro portando con sé la cassetta degli attrezzi dell’apprendimento, dell’apprendimento continuo in una città educativa, amica e solidale.