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Dreamworldcup 2018 ⊗ 13-16 maggio al Palatiziano

Viviamo Corviale perché? Perché le persone non parlavano tra di loro, Padre Eberth risponde così alla mia domanda, colui che ha creato l’iniziativa del “Volontariato Sociale”, evento che si realizza il secondo sabato del mese per recuperare il bene comune, pulire le aree verdi e dare supporto ai ragazzi di Corviale.

Siamo nella sede della Comunità Peruviana a Roma per la Commemorazione di Luis Ramon , scomparso solo qualche giorno fa e per l’occasione il Sacerdote ci ha incontrato per raccontare la realtà di Corviale coinvolta in questo nuovo Evento dove ha aiutato con il supporto del quartiere i ragazzi per la Dreamworldcup 2018,  evento che si sta realizzando in questi giorni a Roma.

Padre Eberth ha coadiuvato con Renato Lopez Sociologo Membro del Mental Health in Perù di Lima in contatto con lo Psichiatra ideatore del progetto Santo Rullo la ricerca dell’alloggio e delle strutture per ospitare i ragazzi peruviani in viaggio a Roma per la Coppa del Mondo di Calcio a 5 per pazienti psichiatrici.

Cos’è la Dreamworldcup? È la coppa del mondo di calcio a 5 dei pazienti psichiatrici nata dal documentario e libro Crazy For Football di Volfango di Biase e Francesco Trento, che ha vinto un David di Donatello nel 2017.

Lo Psichiatra Santo Rullo , Head Quarter del Comitato Internazionale di Calcio per la Salute Mentale (IFCMH), ispiratore del movimento Calcio per la Salute Mentale insieme a Valerio Di Tommaso Presidente di European Culture and Sport Organization (ECOS) associazione no profit individuata dal comitato internazionale per l’organizzazione complessiva dell’evento ;

Parlare della malattia mentale ed esserne consapevoli è il primo passo per contrastarla e superare barriere e pregiudizi questo è  lo slogan per inseguire il sogno di combattere uno stigma e per questo abbiamo scelto il 13 Maggio come data di inizio per ricordare l’anniversario dei quaranta anni della Legge Basaglia.

La Dream World Cup 2018  dal 13 al 16 maggio 2018 al Palatiziano di Roma ha coinvolto nove nazionali: Italia, Spagna, Argentina, Cile, Francia, Giappone, Perù, Ucraina e Ungheria.

Ha coinvolto oltre 200 organizzazioni tra associazioni sportive, strutture sanitarie e centri di salute mentale da tutto il mondo.

I Soci/Utenti del Club Itaca di Roma si occuperanno del servizio d’ordine, dell’accompagnamento delle squadre ospiti e della promozione dell’evento.

Mercoledì 16 Maggio in diretta su RaiSport alle 16.00 presentati da Paolo Ruffini andranno in onda le finali del Campionato in onda anche su Facebook e su Instagram e per chiunque volesse aiutare i ragazzi ad inseguire questo sogno sarà possibile effettuare una donazione  su www.dreamworlducup.net/it/dona/

PER SAPERNE DI +




Il Sessantotto delle campagne

don milani

A differenza di quanto avviene in altre parti del mondo, il moto di contestazione che, nella seconda metà degli anni Sessanta, trasforma le coscienze, i modelli di vita e l’organizzazione collettiva di parti estese della società italiana, vede protagonista, in forme originali, anche il mondo rurale. Il Sessantotto non è, dunque, almeno in Italia, un fenomeno che riguarda esclusivamente studenti e operai, università e fabbriche. Non è un fatto meramente urbano. Averlo letto con le lenti urbanocentriche e operaiste è stato il motivo di fondo per il quale ancora oggi, a cinquant’anni da quell’evento, non siamo ancora riusciti a comprenderne il senso più profondo.

I limiti degli studi storici

Manca ancora una ricostruzione storica basata su documentazione non episodica o limitata. E soprattutto manca un quadro d’insieme del fenomeno nel lungo periodo. La crisi politica che allora si apre non si è mai risolta. Nonostante la domanda di profondi cambiamenti, in questi cinque decenni, non si è fatta alcuna riforma istituzionale seria, i partiti e le organizzazioni di rappresentanza non hanno per nulla rivisto i fondamenti dei propri statuti. La società civile ha dato vita a nuovi movimenti e organizzazioni sociali che però non hanno mai raggiunto un equilibrio con un sistema politico capace di rinnovarsi profondamente. La “guerra fredda” era di fatto finita con Kennedy, Krusciov, Adenauer, De Gaulle, Papa Giovanni e Togliatti. Ma usciti repentinamente di scena quei grandi protagonisti, i loro successori hanno continuato a “fingere” un conflitto che non aveva più ragion d’essere perché la “rivoluzione verde” aveva accresciuto enormemente la produzione agricola. Neanche, a seguito della caduta del Muro di Berlino, si prende atto che un mondo è finito e che bisogna costruire nuove istituzioni e nuove forme di rappresentanza politica e sociale. Arrivano la globalizzazione indotta dall’ultima rivoluzione tecnologica e la crisi economica del 2008. Ma niente. Tutto resta come prima. Perché la domanda di cambiamento espressa dal Sessantotto, dopo cinquat’anni non trova risposta? Per comprenderlo, bisognerebbe chiedersi: chi erano quegli studenti? chi erano quegli operai? Erano perlopiù i figli dei contadini fuggiti dalle campagne alle prese con la modernizzazione dell’agricoltura. Oppure i figli dei contadini che si erano appena trasformati in imprenditori. Era, dunque, tutta la società in ebollizione. E la storia di questo lungo ’68 va ricostruita esaminando tutti i gangli della società, l’insieme delle trasformazioni, se si vuole capire perché è una vicenda che non passa.

Le motivazioni di fondo del disagio sociale

Il grande esodo dalle campagne verso le città e dal Mezzogiorno verso il triangolo industriale non aveva spento la voglia dei contadini di partecipare alla vita del Paese. Anzi era emerso un protagonismo attento ai problemi nuovi e inediti, affiorati a seguito della “grande trasformazione”. E tale aspetto ora lo differenzia enormemente dal protagonismo che si era espresso in occasione delle lotte per la terra. Sono rimasti nelle campagne contadini che adesso posseggono finalmente il loro podere come veri imprenditori. L’hanno comprato o lo stanno riscattando oppure lo conducono in affitto e pagano un canone più equo. Ma si accorgono che il maggior grado di autonomia e libertà che deriva dalle condizioni più stabili di possesso della terra non si traduce in un’espansione soddisfacente dell’iniziativa economica.

La politica dei prezzi praticata da Bruxelles garantisce migliori condizioni di vita ma impedisce di crescere dal punto di vista imprenditoriale. All’agricoltore viene chiesto solo di produrre di più e se poi non vende quello che realizza non importa, perché è in parte comunque garantito. Non ci sono servizi che aiutino gli agricoltori ad utilizzare meglio le risorse del territorio, a diversificare le attività aziendali, a costruire relazioni economiche con le industrie di trasformazione e le imprese di commercializzazione di reciproca soddisfazione. Non ci sono azioni formative con cui migliorare le proprie conoscenze e competenze. Mancano rapporti stabili tra i centri di ricerca e sperimentazione e le aziende agricole per evitare che il progresso tecnico sia frutto solo dell’iniziativa dell’industria produttrice di mezzi tecnici e delle strutture commerciali. Non ci sono strumenti capaci di cogliere nuovi bisogni sociali che l’agricoltura può soddisfare da tradurre in un’effettiva domanda di beni e servizi e in nuovi mercati da costruire.

L’associazionismo imposto dai regolamenti comunitari in Italia è gestito quasi interamente dal sistema di potere che gravita intorno alla Coldiretti e alla Federconsorzi. Non costituisce, dunque, uno spazio di libera partecipazione per accrescere la dimensione economica della propria impresa. Si presenta, invece, sotto forma di un insieme di agenzie che gestiscono le politiche protezionistiche e sono fondate su meccanismi burocratici imposti dalla pubblica amministrazione.

Manca in generale una preparazione adeguata degli amministratori locali per organizzare i servizi civili e migliorare la viabilità nelle campagne, per avvicinare le condizioni di vita delle aree rurali a quelle delle zone urbane. Le differenze che permangono tra vita in città e vita in campagna vengono ora avvertite come un’ingiustizia non più motivabile nel nuovo contesto produttivo ed economico dell’agricoltura.

Gli effetti distruttivi di un “boom economico” non governato

Non si avverte l’urgenza di politiche pubbliche volte a mitigare il rischio idrogeologico connesso alla “grande trasformazione” e alle profonde modifiche negli usi del suolo e delle acque che si concretizzano a seguito della crescita dell’urbanizzazione e delle aree industriali nelle pianure e dei fenomeni di abbandono nelle alture collinari e montane. E gli eventi catastrofici non si fanno attendere: l’alluvione del 1954 nel Salernitano che causa oltre 300 morti; la frana che nel 1963 precipita nella diga idroelettrica del Vajont e provoca l’evento idrogeologico più grave nella storia dell’Italia unita, uccidendo 2 mila persone; la frana di Agrigento del 1966 che distrugge una parte consistente della città abusivamente edificata; l’alluvione del 1966 che colpisce Firenze e che ha come causa principale la costruzione avventata di due dighe idroelettriche; l’alluvione del 1968 nel Biellese che provoca oltre 70 vittime e trascina con violenza fino a Vercelli le spole dei lanifici Valmossesi incautamente edificati sugli argini di un corso d’acqua.

Tali episodi sono gli effetti luttuosi e distruttivi di un “boom economico” non governato. La gestione del territorio è, difatti, un aspetto del tutto marginale nell’agenda politica. E tutto ciò produce sgomento e spaesamento nelle campagne, dove invece è ancora viva la sensibilità alle pratiche secolari di manutenzione della terra. Sconcerta soprattutto l’incapacità delle classi dirigenti di ricordare che l’agricoltura è innanzitutto il grande archivio dove si conserva e si aggiorna la capacità degli uomini di riprodurre non solo gli agrosistemi ma anche l’insieme delle interrelazioni tra città e campagne.

La nuova condizione dei contadini

La condizione in cui molti contadini vengono ora a trovarsi mette in discussione due elementi di fondo della loro condizione precedente. Il primo è l’autonomia nell’introdurre il progresso tecnico in azienda e nell’organizzare le proprie relazioni economiche. Il secondo è la libertà di scegliere processi produttivi e attività in un ventaglio ampio di opportunità offerte dalle economie locali e informali.

Ma questi condizionamenti derivano direttamente dal progresso che si è realizzato nelle campagne e si possono attenuare solo con un protagonismo degli agricoltori sul terreno economico e con politiche che accompagnino e rafforzino tale protagonismo. In realtà, le politiche pubbliche che si realizzano svolgono proprio una funzione opposta perché sono improntate ad una logica assistenzialistica, tipica delle misure dei primi anni Cinquanta.

Le forme prevalenti d’intervento pubblico con riferimento ai mercati agiscono solo come sistema di garanzia e non costituiscono un’opportunità di crescita. Man mano che si rafforzano sul piano professionale e imprenditoriale, gli agricoltori avvertono sempre più l’importanza di questi nuovi problemi e fanno fatica a seguire le logiche della contrapposizione politica proprie degli anni della “guerra fredda”, che tra l’altro si riferivano a problemi che non esistono più o che si sono molto attenuati.

Non ci sono più i “capipopolo”

Del resto, la maggior parte dei “capipopolo” delle lotte contadine degli anni Quaranta, essendo i più svegli e intraprendenti, o sono emigrati definitivamente, oppure si sono trasformati in artigiani o in piccoli imprenditori industriali.

Nel Mantovano, Steno Marcegaglia, figlio di un emigrante e impegnato nell’Alleanza dei contadini, nel 1959 aveva deciso di avviare l’attività imprenditoriale nella metallurgia. Trasformerà in un trentennio la piccola azienda in un gruppo internazionale, leader nella lavorazione dell’acciaio.

Nelle organizzazioni agricole molti dirigenti sono stati, pertanto, sostituiti da agricoltori più giovani e meno legati ideologicamente ai partiti di riferimento. Ciò permette uno scambio più libero a livello di base tra le organizzazioni professionali. E la conseguenza è una richiesta sempre più pressante che si leva dagli agricoltori verso le rispettive strutture di rappresentanza per realizzare una maggiore autonomia dai governi, dai partiti e dai sindacati e organizzare la vita interna in modo tale che i gruppi dirigenti debbano rendere conto del proprio operato. Nella Coldiretti soprattutto, ma anche nelle altre organizzazioni, dove vigono pratiche verticistiche e gerarchiche, ciò che sta accadendo sconvolge la vita interna e genera crepe che si faranno sempre più vistose negli anni a seguire.

La scuola di Barbiana

Da una scuola di campagna, quella di Barbiana, e da una personalità del calibro di don Lorenzo Milani giungono due strali contro gli equilibri tradizionali che ne restano sconvolti.

Il primo è la pubblicazione di Lettera a una professoressa che rappresenta la critica più spietata che in quel periodo colpisce le istituzioni scolastiche. Il libro ha immediatamente un impatto enorme nella società italiana e contribuisce ad alimentare la protesta studentesca. Rivela, infatti, l’arretratezza dell’”istituzione-scuola” e il permanere di pesanti ingiustizie: “Voi dite d’aver bocciato i cretini e gli svogliati. Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri. Ma Dio non fa di questi dispetti ai poveri. È più facile che i dispettosi siate voi”. Ed elogia l’azione collettiva: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”.

L’altro strale è la difesa appassionata di un diritto relativamente nuovo, quello all’obiezione di coscienza. Fanno scalpore gli articoli di don Milani che affermano senza mezzi termini: “L’obbedienza non è più una virtù!”

Come osserverà acutamente Ernesto Balducci, don Milani opera nel passaggio cruciale dalla civiltà contadina a quella industriale, “non per facilitarne il traghetto, ma per porre una ricerca critica che investe lo stesso mondo industriale trionfante. E questa è la novità del suo contributo”. Lo riconoscerà anche Pier Paolo Pasolini quando esalterà lo “spirito critico” esercitato dal sacerdote di Barbiana “nei confronti degli uomini e della società” e definirà la sua esperienza che precorre il Sessantotto come “l’unico atto rivoluzionario di questi anni”.

Insomma, cova sotto la cenere un senso di ribellione che sta per esplodere. Non è la ribellione in nome del bisogno, che aveva caratterizzato l’Ottocento e la prima metà del Novecento. Ma è la ribellione in nome della felicità, della qualità della vita, del valore delle proprie capacità individuali. Un desiderio forte di liberarsi dal passato che trattiene e vincola, bloccando la libertà personale. E di liberarsi collettivamente.

Il disagio dentro la Coldiretti

I primi mesi del Sessantotto delle campagne sono caratterizzati, per la sua forte valenza simbolica, dalla manifestazione di protesta nei confronti del presidente della Coldiretti, Paolo Bonomi, e del ministro dell’Agricoltura, Franco Restivo. Ne sono protagonisti alcune centinaia di aderenti alla Coldiretti, che il primo marzo, alla Fiera internazionale di Verona, prendono d’assedio il tavolo della presidenza di un convegno a cui sono stati sollecitati a partecipare dalla stessa organizzazione. Lanciando cartocci di tetrapak pieni di latte, uova e ortaggi di vario tipo e dimensione, non smettono il tiro a bersaglio fino a quando non intervengono le forze dell’ordine.

Essi provano nei confronti della propria organizzazione un senso di delusione e, soprattutto, si sentono ingannati per il fatto di essere stati a lungo sollecitati dalla stessa Coldiretti a votare un partito (la Dc), che non mostra più di riservare la tradizionale attenzione verso il loro mondo. Gli agricoltori incominciano a comprendere che la scelta di Bonomi di attrezzare la Coldiretti come una sorta di “partito contadino” associato alla Dc non paga più. Alle manifestazioni che, da qualche anno e con crescente intensità, l’Alleanza dei contadini organizza in ogni parte d’Italia, partecipano, sempre più numerosi, anche molti agricoltori aderenti alla Coldiretti.

La manifestazione dei sessantamila

Per tutta la primavera del 1968, la mobilitazione nelle campagne diviene sempre più viva ed estesa. E sfocia, per iniziativa dell’Alleanza, nella “manifestazione nazionale dei sessantamila”, che si svolge il 5 luglio a Roma. Le parole d’ordine vanno dal “riequilibrio dei rapporti economici tra l’agricoltura e l’industria” al “miglioramento delle condizioni civili nelle campagne”, dalla “parità delle prestazioni previdenziali e sanitarie” ai “contratti agrari più equi”. Ma al di là delle rivendicazioni più immediate, si avverte il senso di aspirazione profonda a cambiamenti significativi delle stesse modalità della politica e dei rapporti tra cittadini e governanti, la cui portata dirompente sfugge agli stessi organizzatori della manifestazione.

Grande è l’impressione che suscita nella capitale il lungo corteo di agricoltori coi canti, i prodotti, i colori, gli animali e i mezzi meccanici delle mille campagne italiane. Si affacciano alle finestre e scendono in strada a salutarli centinaia di romani, che da quel mondo e dalle più disperse contrade, anche in anni recentissimi, sono giunti per occupare un posto di lavoro negli uffici pubblici.

Si fanno vedere anche gli studenti, che a febbraio avevano occupato la Facoltà di Architettura e si erano scontrati con la polizia a Valle Giulia. Distribuiscono ai coltivatori volantini che contengono parole d’ordine inneggianti alla socializzazione della terra; ma non già perché vogliono trasferire nelle campagne italiane il modello collettivistico esistente in Unione sovietica. I movimenti studenteschi sono, infatti, fortemente critici con l’autoritarismo e la restrizione delle libertà individuali che caratterizzano i Paesi comunisti. E non è a quel modello che essi guardano nel formulare i loro slogan per la manifestazione contadina. È piuttosto la lettura dei rappresentanti della Scuola di Francoforte ad influenzarli. In particolare, un loro esponente di spicco, Theodor Adorno, considera la famiglia contadina e il villaggio come contesti intrinsecamente incapaci di favorire l’emancipazione e la sprovincializzazione degli individui. Sicché per gli studenti solo un intervento esterno e una forma socializzante, come appunto la comune, potrebbero permettere di superare i limiti delle forme di vita borghigiane e rurali. È un modo per ribadire la presa di distanza dalla società tradizionale e dalle sue forme sociali autoritarie, ma anche per evidenziare il significato emancipante e liberatorio della cultura e della formazione insiti nella loro scelta di frequentare l’università. E i contadini, venuti a Roma a manifestare, sanno cogliere negli studenti quest’ansia di libertà e perciò dimostrano nei loro confronti affetto e simpatia.

Un’occasione mancata?

Tale ansia ha molto a che fare con l’assillo dell’autonomia che permea la cultura contadina più profonda. In questi valori dell’individualismo, dell’autonomia e della libertà, al di là dei contenuti specifici degli slogan utilizzati, potrebbero, dunque, esserci i termini per saldare le ragioni più intime degli uni e degli altri, ma nessuno sa trovare il modo per farlo. È forse un’occasione mancata per costruire movimenti intergenerazionali duraturi e profondi?

Emilio Sereni aveva appena scritto un saggio sulla rivista Critica marxista in cui invita la sinistra a cogliere le novità che si intravedono nelle lotte studentesche e ad aprire una riflessione critica e autocritica per adeguare le proprie strategie. Egli individua nella contestazione degli studenti, prima ancora di una ripulsa del sistema sociale, un rifiuto della collocazione che i primi sviluppi della rivoluzione scientifico-tecnologica assegna a studenti e ricercatori nell’ambito del sistema dell’informazione e della scienza. E coglie, dunque, il dischiudersi di una dialettica nuova che prelude il superamento di una società divisa in classi e l’affermarsi del protagonismo di un mondo che ha già compiuto il suo salto dal regno della necessità in quello della libertà.

Gaetano Di Marino, membro della presidenza dell’Alleanza, aveva tradotto, in un linguaggio più accessibile, questi concetti sul periodico dell’organizzazione Nuova Agricoltura, richiamando le grandi opportunità, che si aprono anche per il progresso delle campagne, quando sono posti al centro dell’attenzione i temi dell’istruzione e della conoscenza. E tuttavia, dopo la manifestazione di luglio, lo stesso Di Marino scrive una nota critica, dal titolo polemico “Non prestiamo tribune”.

“I gruppi studenteschi – denuncia – non hanno sollevato i temi della riforma dell’università, su cui si poteva fare un dibattito, (…) hanno invece preteso di indicare una strategia e una politica agraria del tutto nuova ed opposta a quella che faticosamente e autonomamente il movimento contadino è venuto elaborando.” Una posizione sacrosanta a cui però non dovrebbe seguire il rifiuto del dialogo e della reciproca comprensione dei significati più profondi nei propri convincimenti.

La riluttanza dei dirigenti dell’Alleanza a dialogare a tutto campo coi movimenti giovanili è il riflesso di una più generale incapacità della sinistra di offrire una sponda alla domanda di cambiamento, che le nuove generazioni esprimono. Una domanda che, qualora fosse letta attentamente, potrebbe incanalarsi, finalmente con un consenso molto più ampio, verso quella rivoluzione liberale mai avvenuta nel nostro Paese. Un’aspirazione storica che richiama antichi intrecci valoriali tra primato della persona, forme libere di gestione dei beni comuni e scambi fondati su relazioni di mutuo aiuto e reciprocità. Valori che erano stati eclissati e in parte distrutti dalle culture stataliste, nazionaliste e autarchiche, fondamentalmente illiberali e autoritarie.

Le cinque giornate di Asti

Intanto le manifestazioni contadine continuano. Memorabile è rimasta la forte e coesa mobilitazione di viticoltori che si sviluppa sulle strade di Asti, dentro e fuori la città, in cinque “giornate di lotta” con l’impiego di migliaia di trattori.

Dopo l’ennesima disastrosa grandinata che quasi ogni anno colpisce i vigneti del Monferrato e delle Langhe si avverte con maggiore acutezza l’esigenza di battersi per ottenere un fondo di solidarietà in grado di permettere ai coltivatori di fronteggiare la falcidie dei redditi.

Per tentare di spegnere la protesta viene impiegato lo schieramento delle forze di polizia in assetto antisommossa la cui imponenza è del tutto ingiustificata. La radicalità dei comportamenti e l’atteggiamento repressivo della polizia sono un tratto comune di tutte le azioni di lotta che in questo periodo si mettono in scena nelle città e nelle campagne.

L’eccidio di Avola

Alla fine di questo lungo Sessantotto rurale, una forte emozione suscitano i fatti di Avola, in provincia di Siracusa, dove il 2 dicembre due braccianti, Angelo Sigona e Giuseppe Scibilia, sono uccisi e altri cinquanta feriti dalla polizia. Scioperano per ottenere che i miseri salari agricoli siano almeno eguali all’interno della provincia. Ha molta eco nell’opinione pubblica l’uso immotivato delle armi su folle di contadini inermi. Insomma, si ripete quel moto spontaneo di solidarietà che avevano suscitato gli eccidi perpetrati dalla polizia in occasione delle occupazioni delle terre nel secondo Dopoguerra.

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Ma non se ne colgono le ragioni più profonde, i fili che collegano permanenze e cesure antiche e nuove domande di soggettività e di relazioni paritarie fondate sull’aiuto reciproco. Lo scontro di Avola è forse da mettere in relazione anche alla “strategia della tensione” che settori decisivi dell’apparato statale e dei gruppi dirigenti politici ed economici stanno avviando per respingere la domanda di cambiamento.

La protesta sindacale guidata dalla Federbraccianti-Cgil si propaga in moltissime province italiane coinvolgendo decine di migliaia di lavoratori agricoli. Il malessere crescente e il grave deterioramento delle relazioni sindacali nelle campagne inducono Alfonso Gaetani ad annunciare le dimissioni dalla presidenza della Confagricoltura e ad avviare la successione al vertice confederale. Si tratta di un primo segnale che indica con nettezza che gli equilibri di potere, che si erano costruiti solo da un paio di decenni nelle campagne italiane, si stanno sfaldando.

Alle iniziative di lotta dei lavoratori agricoli si uniscono gli studenti universitari e medi e nasce da qui, dal contatto diretto con le palesi e gravi ingiustizie sociali che si consumano nelle aree rurali, la decisione del movimento studentesco di alcune città di contestare le più aperte ostentazioni di sfarzo e di lusso. Il 7 dicembre, a Milano, come avevano fatto gli agricoltori il 1° marzo alla Fiera di Verona, si lanciano uova e ortaggi questa volta contro le pellicce e gli abiti da sera dei partecipanti all’inaugurazione della Scala, mentre il 31 dicembre la protesta riguarda il veglione che si svolge nel locale più prestigioso della Versilia, “La Bussola”, a Marina di Pietrasanta. Anche in quella occasione si fa viva in gran parata repressiva la polizia, che ferisce un ragazzo che manifesta, Soriano Ceccanti.

La lunga stagione dei movimenti collettivi

Le azioni di lotta nelle campagne continueranno intensamente anche nel 1969, alcune con caratteristiche diverse da quelle fin qui esaminate, ma rientranti comunque in quella che Guido Crainz ha definito “la stagione dei movimenti collettivi” che si dispiega nel “complesso rimescolarsi della società italiana”.

A Battipaglia, il 9 e il 10 aprile ci sarà una vera e propria rivolta a causa della crisi dell’industria conserviera dell’area e per la chiusura di uno zuccherificio e di un tabacchificio. Per la prima volta, la sinistra sindacale e politica sarà fuori dal movimento e fatta oggetto di contestazione. Anche a Fondi, nel Lazio meridionale, una manifestazione di alcune migliaia di contadini per protestare contro le conseguenze della crisi agrumaria porterà al blocco dei binari ferroviari. All’arresto di alcuni dimostranti, da parte delle forze dell’ordine, si risponderà con un assedio della locale caserma dei carabinieri sedato con idranti.

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La lunga e irrisolta crisi politica e sociale

Il lungo ciclo del Sessantotto delle campagne fa emergere una forte domanda di cambiamento da parte di una pluralità di nuovi soggetti sorti a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta. Non solo imprenditori agricoli professionali e a tempo parziale, ma anche tecnici, professionisti, operai specializzati, artigiani vivono nei territori rurali e chiedono a gran voce forme di rappresentanza politica e sociale capaci di affrontare i nuovi termini dello sviluppo.

Ma né i partiti, né le organizzazioni sociali sanno rispondere a questa domanda di rinnovamento adeguando la propria cultura politica, i propri programmi e le proprie strutture. È soprattutto carente un’analisi delle modificazioni culturali, economiche, sociali avvenute nelle campagne; e ciò impedisce di cogliere le interrelazioni tra i diversi settori produttivi, la pluralità dei soggetti sociali e i loro bisogni, le esigenze delle imprese agricole che producono per il mercato e le potenzialità dell’agoalimentare nel promuovere lo sviluppo dei sistemi territoriali.

Intorno ai problemi ambientali incomincia a prendere forma una consapevolezza individuale e collettiva che si trasforma in nuove sensibilità, in nuovi stili di vita, in nuovi comportamenti e sta per nascere così quel fenomeno – tipico dei paesi industrializzati – definito come «nuova ruralità». Nel Senato della Repubblica, grandi tecnici prestati alla politica affrontano in termini nuovi il problema del rapporto tra uomo e natura: Giuseppe Medici presiede la Conferenza nazionale delle acque, da cui emerge l’allarme per la scarsità di tale risorsa, e Rossi-Doria redige la relazione conclusiva dell’indagine conoscitiva sui problemi della difesa del suolo in cui prospetta un grande progetto per la salvaguardia e la valorizzazione della montagna.

Giungono dagli Stati Uniti le idee dei movimenti che avevano sostenuto il programma di ricostruzione ecologica, culminato nel Wildlife Restoration Act del 1937, col quale l’amministrazione Roosevelt aveva ritenuto di riparare a una politica d’indifferenza verso lo stato di conservazione della natura, e in particolare delle acque e delle foreste. Idee che si rafforzano con il principio di responsabilità di cui ha parlato Hans Jonas, allievo di Heidegger e sostenitore dell’esigenza di porre dei limiti alla nostra libertà, di coltivare un’etica dei valori in modo tale che ogni individuo possa agire nel rispetto di se stesso e degli altri, non sottovalutando l’ambiente nel quale vive l’uomo.

Alcuni avvertono l’esigenza di integrare tali apporti culturali di stampo anglosassone con la nostra cultura tecnico-scientifica, agronomica ed economico-agraria, che da tempo si cimentava, mediante un approccio aperto ad altre discipline, come la sociologia e le scienze dell’educazione, nell’accompagnare i processi di modernizzazione per prevenire i fenomeni negativi con cui si era manifestata la crisi ecologica. Un filone culturale combattuto, ridimensionato e ostacolato dalle forze dominanti, benché fosse erede di una lunga tradizione millenaria attenta a coniugare in modo equilibrato le ragioni produttivistiche dell’agricoltura, le ragioni conservative delle risorse naturali e i valori comunitari e solidaristici della civiltà agraria, non avversa alle innovazioni tecnologiche, ma decisiva per la configurazione di modelli-tipologie di sviluppo ecologicamente armoniche. Ma ancora oggi questa ricucitura culturale ancora non è avvenuta per poter avviare seriamente un ripensamento delle nostre idee di sviluppo e rimarginare la frattura ecologica che si produsse tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso.

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Il degrado dell’Università del marciapiede

A Napoli, il recente susseguirsi delle azioni di bande di ragazzini di 10 -15 anni o poco più, ai danni di altri coetanei, assaliti senza motivi e ridotti in fin di vita o gravemente feriti, è un segno preoccupante del degrado del valore della vita nel nostro Paese.

Il fenomeno della delinquenza minorile non è prerogativa unica della bella città partenopea, ma è sempre esistito in tutto il mondo ed anzi, si deve osservare che, in Italia, non ha ancora fortunatamente raggiunto i livelli delle metropoli d’oltre Oceano od europee.

Infatti, negli stessi giorni in cui i mezzi di comunicazione davano ampio spazio all’impiego delle armi in possesso dei fanciulli, che gioiosamente si rincorrevano tra i marciapiedi, sparando in aria, facendo alcune vittime, colpevoli soltanto di trovarsi nel luogo e nel tempo sbagliato, a Rio de Janeiro i morti si contavano a decine nella favela di Roihna ed a Vittoria, capitale dello Stato di Espirito Santo, ironia della sorte, raggiungevano il numero di 85.

Il salto di qualità nelle attività dei piccoli scugnizzi napoletani è indice del degrado “dell’Università del marciapiede”, che da sempre ha rappresentato la loro unica scuola al ladrocinio, che soffre, come del resto le altre istituzioni ufficiali, della perdita di autorità da parte dei docenti e dei genitori.

La corporazione dei ladri, universalmente diffusa tra tutte le classi sociali, ha sempre seguito regole ben precise, e fin dall’antichità ha goduto di importanti protezioni, incominciando da Mercurio, che si era guadagnato il riconoscimento ufficiale da parte della categoria, per l’abilità e l’astuzia con cui era riuscito a sottrarre ad Apollo il bestiame degli dei, tirandolo per la coda, per non lasciare tracce e per venire a tempi più recenti a San Dismas (25 marzo) ed all’autorevole San Nicola (6 dicembre), che oltre ai commercianti ed ai viaggiatori si fanno carico anche degli esecutori dei furti.

Una delle regole principali che nobilitava la categoria era l’assoluta proibizione di fare ricorso alla violenza e di portare qualsiasi tipo di armi, motivo aggravante.

Per entrare a fare parte della corporazione, era necessaria una elevata preparazione specialistica, legata alle capacità individuali che variavano con l’età, l’attitudine fisica, la preparazione intellettuale, la conoscenza delle lingue, il ceto sociale, ma soprattutto la tradizione e l’ambiente famigliare.

L’arte, la letteratura, il cinema, e la televisione hanno illustrato ladri famosi, che con le loro vite avventurose e spericolate hanno affascinato generazioni di amanti delle forti emozioni, e che a volte hanno cambiato il corso della storia.

In questi ultimi decenni, con la rapida diffusione dell’informatica e dell’elettronica, il percorso formativo dell’“Università del marciapiede”, il cui primo diploma riguarda il furto del portafoglio, della borsetta, della catenina, dell’orologio, della pensione, ecc. non è più sufficiente e la specializzazione richiede tempi lunghi, che non rispondono alle esigenze delle giovani generazioni.

Per riuscire a compiere con successo l’asportazione di gioielli preziosi da una bacheca sorvegliata con un sistema elettronico molto sofisticato, nel volgere di pochi minuti, come si è verificato, di recente nella Mostra, Tesori di Moghul e dei Maharaja a Palazzo Ducale, a Venezia, è necessario un bagaglio conoscitivo delle tecnologie molto approfondito, mentre è più semplice compiere una rapina a mano armata, uccidendo, se necessario, per eliminare ogni ostacolo alla fuga.

La prospettiva allettante per i minori è, quindi, quella di abbandonare la vecchia e tradizionale corporazione dei ladri, per andare ad ingrossare le file di quella più moderna e dinamica dei rapinatori, dove la richiesta di nuove energie e di manovalanza è in aumento, su sollecitazione del ricchissimo mercato della droga.

Alle famiglie dei bambini che hanno difficoltà a risolvere il problema di riuscire a mettere insieme il pranzo con la cena, il loro futuro interessa relativamente, poiché è importante che si rendano indipendenti, nel più breve tempo possibile.

Ne deriva che si stanno creando con l’impiego criminale dei minori, le premesse per un peggioramento diffuso dei rapporti sociali non solo nelle città, ma anche nei piccoli comuni.

Il presidio del territorio da parte delle Forze dell’ordine è un’esigenza prioritaria, ma non è sufficiente a riportare il rispetto della vita, che è la condizione fondamentale per dare significato alla sopravvivenza dell’umanità.

Lo aveva percepito con grande chiarezza un grande Santo italiano, Giovanni Bosco, due secoli orsono, quando aveva dovuto sostenere, con grande difficoltà e tra la generale indifferenza dello Stato e della Chiesa, il disegno degli oratori salesiani, che hanno contribuito all’inserimento nel mondo del lavoro di migliaia di giovani, costretti a vivere ai margini delle città, dominate dall’ansia della ricchezza.

Per il nostro futuro servono più poliziotti, più carabinieri, ma soprattutto più Salesiani.

Ervedo Giordano

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Giochi di bambini - Pieter Brueghel Il Vecchio

Giochi di bambini – Pieter Brueghel Il Vecchio

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Sfratti alle associazioni: la Corte dei Conti fa cadere le accuse

Le sentenze sugli affitti alle associazioni sono assolutorie e i magistrati della Conte dei Conti sembrano decisi a lasciar decadere progressivamente la cause contro i funzionari comunali, che negli anni scorsi avevano firmato le concessioni di sedi ad associazioni ed enti non profit a prezzo agevolato e che di conseguenza si erano visti accusare di danno erariale. Dovrebbe essere una svolta definitiva, anche se non è chiaro che cosa succederà alle associazioni che nel frattempo hanno ricevuto lo sfratto e, in qualche caso, lasciato le sedi e già pagato gli arretrati richiesti.

LA STORIA

Sotto la fuorviante etichetta di “affittopoli”, dal 2015 in poi erano finite anche una serie di realtà non profit, che avevano sede e svolgevano le proprie attività in locali concessi dal Comune ad un canone scontato dell’80%. Il viceprocuratore regionale della Corti dei Conti Patti aveva visto in queste situazioni elementi di illegalità e di conseguenza aveva contestato ai funzionari comunali il danno erariale e chiesto i conseguenti rimborsi. Cifre importanti, richieste a 7 funzionari finiti sotto processo attraverso 300 cause, di cui 200 già arrivate a procedimento; 100 milioni il danno ipotizzato dalla procura.
Di conseguenza era partita un raffica di sfratti alle associazioni e di richieste di arretrati, che in qualche caso hanno raggiunto anche il milione di euro.

LE ASSOLUZIONI

Le sentenze sugli affitti alle associazioni sono però assolutorie nei 22 procedimenti arrivati a conclusione. Ieri è stata assolta in appello anche l’unica funzionaria che in primo grado aveva ricevuto una condanna. E le assoluzioni portano tutte le stesse motivazioni: si trattava di beni “indisponibili”, dunque non collocabili sul mercato; c’erano delibere e regolamenti che legittimavano le concessioni a canone agevolato; le onlus svolgevano attività che avevano un valore sociale o culturale. Se anche i locali fossero stati riacquisiti, comunque, avrebbero dovuto essere concessi ad altre onlus.
In più, la sentenza di ieri aggiunge una considerazione sulla “inarrestabile riduzione del del personale”, che ha ingolfato i procedimenti per le concessioni provvisorie e, più in generale, la gestione dell’«abnormità del patrimonio del comune».

IL VALORE SOCIALE

Nelle sentenze sugli affitti alle associazioni, la Corte dei Conti ha quindi riconosciuto le motivazioni e le istante portate avanti, tra l’altro, dal Coordinamento Valore Sociale-9 marzo, che già nel marzo scorso aveva presentato una richiesta di deferimento del viceprocuratore Patti alla Commissione disciplinare, proprio con le motivazioni su cui poi si sono fondate le sentenze assolutorie.

In tutta questa vicenda degli sfratti alle associazioni spiccano alcuni elementi solo apparentemente collaterali: il silenzio degli eletti al Campidoglio nei confronti tanto dei funzionari quanto degli enti non profit: né gli uni né gli altri sono stati difesi; l’incapacità, da parte loro, di individuare soluzioni e vie d’uscita, a parte una delibera rimasta lettera morta.

Alla base c’è il mancato riconoscimento del valore sociale di queste realtà, guardate con sospetto e pregiudizio, nonostante siano da anni una parte fondamentale del capitale sociale della metropoli. Su pieno di riconoscimento del valore sociale il Coordinamento continuerà a lavorare, perché se non c’è un rapporto di fiducia tra Pubblica Amministrazione e mondo non profit, non è possibile alcuna collaborazione.
Speriamo che i rappresentanti dei cittadini in Campidoglio trovino soluzioni per gli enti che – a causa di tutto questo – rischiano di chiudere.




Il tema dei temi: gli immigrati – una riflessione di parte

Quello che avviene quotidianamente intorno a noi racconta di una tristezza disperante, una esigenza di chiudere il cerchio intorno a noi, alzare muri, ostacoli, costruire filtri, distacchi, elencare differenze, qualche volta essenziali qualche volta sottili, allertare sentinelle, selezionare chi entra e chi no.

La mistica del confine che si tramuta in confino. La ruota della fortuna tra chi nasce da una parte e chi no. Come la spieghiamo a noi stessi questa girandola fortunata o sfortunata?

Certo il dibattito si accende tra chi si trova tra i presunti fortunati. Gli altri, i dolenti, hanno negli occhi la disperata solitudine di chi si abbandona alla corrente. Così il mondo sta andando verso un medioevo futuro, c’è poco da fare, c’è poco da sperare, ciò che è rassicurante è la porta della città che si chiude alle spalle. ” E poi dietro la porta per sempre chiusa sarà la notte intera, la frescura, il silenzio “ ci dice la poetessa lombarda Antonia Pozzi (la porta che si chiude – 1931).

Già il silenzio ,che viene da silere, tacere, una forma di rispetto collettivo a raccoglimento delle persone defunte, quelle rimaste fuori. Quindi non disciplina spirituale ma, scelta politica di separazione.

Il noi e il voi affermato e vissuto quale motore del limite.

Gli aforismi presenti nel borgo di San Giulio sul Lago d’Orta ad opera della Madre Anna Maria Canopi, badessa del locale monastero benedettino, l’Abbazia Mater Ecclesiae, avevano lo scopo di separare il mondano dallo spirituale. Noi oggi lo attuiamo separandoci dai corpi e dalle anime dei consimili.

Ci teniamo stretta la povera ricchezza accumulata, il surplus energetico produttore di lipidi e i gadget comunicativi energivori a cui dedichiamo continue attenzioni: c’è campo? Il cavo di ricarica c’è? La presa c’è? La batteria di supporto è pronta all’uso?

Poca attenzione a chi fuori aspetta la conclusione di un destino. Una conclusione svogliata e convogliata dentro il grande contenitore dell’emergenza. Una emergenza che dura da dieci anni, un ordine pubblico e una prevenzione di sicurezza latente che informa scelte, affari e carriere politiche.

Ed invece è semplice ri – conoscere ciò che si vede. Chi ad esempio è uguale a noi e attende sulla porta, spesso neanche bussa, stesse mani stessi occhi. Aspetta qualcosa, forse qualsiasi cosa, stremato da quel che è vissuto alle sue spalle.

Orrori e tradimenti, perdite e disperazioni, testimoniano la mancanza di un futuro possibile, vivibile, attivo.

Dobbiamo scegliere? Come scegliere e chi? E’ chiaro che se scegliamo noi stessi perdiamo noi stessi, non rimane che scegliere di accogliere.

Tutti? Si tutti.

Senza se e senza ma.

Non esiste altra via che vivere pericolosamente. Per Nietzsche il segreto della felicità è nelle difficoltà. E’ la vita stessa instabile ed insicura, la nostra come quella degli immigrati. E’ la natura umana che si definisce limite all’esistenza.

Non possiamo vivere la vita senza attraversarla.

Quindi non c’è alternativa per l’Europa, se vuole vivere la vita, non può non accogliere.

Lo spazio non manca e con – vivere è una avventura, una sfida al destino di primaria forza.

Chi vuole annoiarsi fuggendo?




Modì in concerto

In occasione della fine dell’anno scolastico, l’I.C. Regina Margherita sarà coinvolto con la partecipazione delle classi VB, IIIA, IIIB ad un concerto musicale dove gli alunni delle suddette classi si esibiranno nel coro per accompagnare l’artista Giuseppe Chimenti, in arte Modì.

Il cantautore presenterà in anteprima il nuovo disco, ispirato ad alcune opere d’arte del Surrealismo, raccontate come fossero storie di tutti i giorni. Il messaggio insito nella manifestazione è “non bisogna educare all’arte, ma è l’arte che deve educare”, in quanto l’arte di per se’ ha un suo messaggio educativo a prescindere da significati e interpretazioni.

Il progetto prevede altresì l’approfondimento delle opere pittoriche trattate dal cantautore e lo studio degli artisti surrealisti citati nelle canzoni.

locandina definitiva




Usi di pubblica utilità sociali e culturali: il testo della sentenza della Corte

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE DEI CONTI

SEZIONE GIURISDIZIONALE PER LA REGIONE LAZIO

composta dai Sigg.ri Magistrati

dott.ssa Piera Maggi Presidente

dott.ssa Anna Bombino Consigliere

dott. Eugenio Musumeci Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio n.74720 proposto dal P.R. nei confronti dei sig.ri Mirella di Giovine, rappresentata e difesa degli avvocati Gennaro Terracciano e Amelia Cuomo, Cinzia Marani, rappresentata e difesa dall’avvocato Stefano Rossi, Lucia Funari, rappresentata e difesa degli avvocati Alessandro Fusillo e Jacopo Varalli, Francesca Saveria Bedoni, rappresentata e difesa dall’avvocato Maria Vertucci, Clorinda Aceti rappresentata e difesa dall’avvocato Giuseppe Lo Mastro;

Visti gli atti di causa;

Uditi, nella pubblica udienza del 6 aprile 2017, con l’assistenza della Segretaria Francesca Pelosi, il relatore, Presidente Piera Maggi, il Procuratore Regionale nella persona del Vice procuratore Generale dott. Guido Patti e, per le convenute, gli Avv.ti Giacomo Terracciano e Amelia Cuomo per Di Giovine, Giuseppe Lo Mastro per Aceti, Maria Vertucci per Bedoni, Alessandro Fusillo per Funari, Stefano Rossi per Marani;

FATTO:

Con atto di citazione depositato in data 26 maggio 2016, il Procuratore Regionale, ha evidenziato una fattispecie ritenuta dannosa che concerne:

l’assegnazione provvisoria in concessione, con ordinanza sindacale n. 3483/1997, di un immobile di proprietà del Comune di Roma Capitale, sito in Roma, via della Penitenza 33, alla Associazione Agorà 80 (in seguito: l’Associazione), che ivi gestisce l’omonimo teatro, ad un canone originariamente determinato in poco più di euro 500 mensili (conseguente all’abbattimento dell’80% dell’importo del canone di mercato determinato nel 1997).

L’Associazione avrebbe sempre goduto del bene immobile in modo illecito, atteso che essa non ha mai concluso un valido ed efficace atto di concessione.

Nonostante sia stata emanata una determinazione dirigenziale di riacquisizione del bene, non risulta che l’immobile sia stato restituito al Comune di Roma.

L’occupazione dell’immobile in questione da parte dell’Associazione risale al 1983, ma l’assegnazione provvisoria è stata disposta con ordinanza sindacale n. 3483 del 3 gennaio 1997, emanata ai sensi dell’art. 4, comma 11, della delibera del Consiglio comunale 3 ottobre 1996, n. 202, che prevede la possibilità di emanare un provvedimento provvisorio ed urgente nel caso in cui l’attività svolta dal concessionario non possa essere interrotta senza nocumento per la collettività (nel caso di specie il P.R. è dell’avviso che tale urgenza non ricorresse atteso che l’Associazione aveva per lungo tempo occupato, ed occupava ancora nel 1997, abusivamente l’immobile. Tale considerazione porrebbe in evidenza che la situazione illecita in cui versa l’immobile, sito in via della Penitenza, risale nel tempo e che, da decenni, sino ai giorni d’oggi, il Dipartimento del patrimonio del Comune sarebbe stato assolutamente incapace di gestire correttamente i beni immobili comunali ed in particolare il bene immobile in questione. Quello che si discute in questa sede, peraltro, è riferibile a tempi più recenti).

Nella ordinanza sindacale n. 3483/1997 è stabilito che la procedura istruttoria per la verifica dei requisiti richiesti avrebbe dovuto essere conclusa con l’emanazione del provvedimento formale di concessione da parte della G.C. entro il termine perentorio di 120 giorni, in conformità del disposto dell’art. 4, commi 12 e 13, della citata delibera del Consiglio comunale 3 ottobre 1996, n. 202.

Il predetto termine non è stato rispettato, con la conseguenza che il provvedimento provvisorio di assegnazione sarebbe divenuto inefficace, “valendo l’inosservanza del termine quale condizione risolutiva” della ordinanza adottata.

In considerazione della sopravvenuta inefficacia dell’ordinanza, l’immobile in questione avrebbe dovuto, quanto prima, rientrare nel possesso del Comune di Roma Capitale e,000000000000 per tutto il periodo di possesso del bene (possesso non giustificato da un idoneo titolo valido ed efficace), l’Associazione avrebbe dovuto (e tuttora dovrebbe, essendo essa inadempiente) corrispondere il canone di mercato. In tal modo sarebbe stato possibile evitare il perpetuarsi di una situazione illecita produttiva di danno erariale di cui sarebbero in perpetuo chiamati a rispondere i dirigenti dell’Ufficio competente, abilitati a richiedere il canone di mercato fino alla restituzione dell’immobile (ovvero alla legittima emanazione di un provvedimento di concessione e alla stipula del relativo contratto: ma, secondo il P.R., deve tenersi presente, al riguardo, l’attuale difficoltà di garantire la concessione di un immobile a favore di un (pre)determinato soggetto poiché la costante giurisprudenza richiederebbe, al fine di attuare una giustificabile par conditio, anche per la scelta del concessionario lo svolgimento di una apposita gara).

Successivamente, in data 5.8.1997, la G.C. ha emanato la deliberazione n. 3170 con cui è stato stabilito che l’immobile sito in Roma, via della Penitenza 33, fosse concesso alla Associazione. L’efficacia di tale deliberazione era espressamente subordinata al (preventivo) parere favorevole della Soprintendenza per i beni ambientali ed architettonici essendo l’immobile un bene sottoposto ai vincoli di cui alla legge n. 1089 del 1939 (fatto questo ben conosciuto dall’amministrazione comunale: v. nota in data 15 luglio 1997, prot. 22150, con cui è stato richiesto il parere alla Soprintendenza). Tale organo, con nota in data 28.7.1997, prot. 29357, espresse netto parere contrario, essendo l’immobile oggetto di un programmato intervento di restauro. A seguito di molteplici riunioni, peraltro, in data 18.1.2001, prot. RIS. 1280, la Soprintendenza comunicò di avere rilasciato il proprio nulla osta, modificando in tal modo il precedente parere contrario.

Peraltro, così come risulta dagli atti trasmessi dall’amministrazione, il relativo contratto di concessione, che dovrebbe sempre seguire il provvedimento amministrativo, non fu concluso e l’Associazione continuò tranquillamente ad avere il possesso del bene.

Nonostante il mancato perfezionamento del procedimento di concessione (mancanza del contratto di concessione), l’amministrazione ha richiesto all’Associazione, peraltro, in virtù dell’abbattimento dell’80% previsto per lo svolgimento di attività anche culturali, lire 12.815.057 (il canone a prezzi di mercato in precedenza era stato quantificato dalla Commissione stima in lire 64.075.286 annue).

Tale richiesta, secondo parte attrice, sarebbe illecita poiché il termine di 120 giorni era ed è già da tempo scaduto e, precisamente, in data 3.5.1997. Alla data del 31.7.1997, considerando anche il credito derivante dal pregresso illecito possesso, l’amministrazione risultava creditrice, secondo il P.R., di lire 270.365.100 (324.165.100 — 53.800.000) (v. nota in data 2.6A 997, prot. 17124).

Soltanto in data 10.6.2002, il Comune di Roma (v. nota prot. 9664) comunicò all’Associazione che essa — a quel momento, secondo parte attrice, illecitamente in possesso del bene – sarebbe stata abilitata al lecito possesso soltanto dopo che fosse stato completato il restauro ed in base ad un formale atto di concessione. Tale provvedimento avrebbe considerato e legittimato anche l’accertata occupazione illecita da parte dell’Associazione di aree ulteriori rispetto a quelle oggetto della precedente deliberazione G.C. n. 3170 ed avrebbe determinato il nuovo canone concessorio dovuto (v. nota del 18.11.2003, prot. 19896).

Tale nuova concessione non è stata mai deliberata (ed il conseguente necessario contratto mai concluso) e, pertanto, il possesso del bene, nel quale l’Associazione fu illecitamente reintegrata (v. verbale di consegna del 19.1.2004), dovrebbe essere sin dal 1983 ritenuto illecito ed illegittimo (per l’individuazione dell’estensione dell’immobile occupato v. nota della Polizia municipale in data 10 febbraio 2014 prot. 26184).

Il Comune, dopo un lasso di tempo di otto anni, ha:

1) in data 18.1.2012 effettuato un sopralluogo in via della Penitenza 33;

2) alla fine del 2012, con nota del 27.12.2012, prot. 28491, a firma dell’arch. Bedoni (direttore della U.O. Gestione amministrativa), si è di nuovo interessato alla vicenda in questione richiedendo alla Polizia municipale di effettuare un ulteriore sopralluogo al fine di accertare quali porzioni del bene fossero possedute dall’Associazione;

3) identica richiesta è stata formulata con nota in data 1.10.2013, prot. 21399, a firma dell’arch. Di Giovine (direttore del Dipartimento patrimonio). Tale sopralluogo è stato effettuato in data 21.11.2013 (v. nota della Polizia municipale del 10.2.2014, prot. 26184), ma esso non ha prodotto alcun risultato;

4) successivamente, la dott.ssa Aceti (direttore della U.O. Gestione amministrativa), in data 31.3.2014, 25 agosto 2014 e 24 marzo 2015 ha redatto alcune note indirizzate all’Associazione. Altresì, in data 6.11.2014 essa ha rivolto alla U.O. Direzione commissione stime la richiesta di effettuare la determinazione di una nuova indennità d’uso.

Tutte le note sopra indicate non apparirebbero corrette poiché esse non considererebbero che il possesso del bene da parte dell’associazione era illecito mancando un provvedimento di concessione valido ed efficace. Le suindicate dirigenti avrebbero dovuto richiedere immediatamente la restituzione dell’immobile ed ottenere il pagamento del canone di mercato da tempo dovuto.

L’amministrazione non avrebbe saputo quantificare esattamente le somme pagate nel corso del tempo dall’Associazione, sia per i locali originari sia per quelli occupati successivamente, né avrebbe provveduto a determinare il nuovo canone concessorio (v. le richieste formulate con la nota istruttoria in data 13.11.2015, rimasta senza risposta nonostante il successivo sollecito).

In base alla documentazione trasmessa risulterebbe che l’Associazione, per quel che vale, avrebbe risposto ai quesiti posti dall’amministrazione in merito al possesso dei locali diversi da quelli originari occupati abusivamente, ma non che abbia pagato, per il bene occupato, il dovuto canone di mercato.

Alla luce di quanto accertato il P.R. ritiene che:

  1. a) l’illecito produttivo di danno imputabile nel corso del tempo ai soggetti destinatari dell’atto di citazione, nella loro qualità di dirigenti dell’Ufficio V.U.O. — II Servizio amministrativo Spazi Sociali (adesso Gestione patrimoniale amministrativa) consisterebbe nel non avere richiesto il pagamento del canone di mercato e la restituzione dell’immobile a decorrere dalla data di scadenza dei 120 giorni a seguito della intervenuta inefficacia automatica della deliberazione sindacale n. 3483 del 1997 determinata dal mancato rispetto del termine perentorio di 120 giorni fissato per la conclusione del procedimento (nel caso di specie mai concluso) dall’art. 4 della delibera del Consiglio comunale n. 202 del 1996 e dalla stessa deliberazione sindacale sopra citata;
  2. b) responsabili del danno sarebbero anche tutti coloro che, indipendente dal ruolo da essi rivestito nell’ambito del Dipartimento del patrimonio, nel corso del tempo hanno esaminato il fascicolo riguardante la concessione disposta in favore dell’Associazione e che, con grave colpa, avrebbero omesso di dare la dovuta rilevanza al fatto che il termine di 120 giorni dalla data di emanazione dell’ordinanza provvisoria di assegnazione era da tempo scaduto e che l’Associazione risultava possedere sine titulo il bene immobile.

Se essi, sicuramente consapevoli dell’intervenuta inefficacia dell’ordinanza sindacale, avessero da tale fatto tratto le dovute conseguenze ed avessero immediatamente posto in evidenza la necessità della repentina riacquisizione del bene e l’applicabilità del canone di mercato al posto di quello ridotto dell’80% sino ad allora applicato, il considerevole danno cagionato all’erario comunale non si sarebbe prodotto.

Il P.R. osserva che, per il periodo successivo al 5.8.1997, data di emanazione della deliberazione G.C. n. 3170, l’Amministrazione comunale non avrebbe correttamente valutato che il possesso del bene (quello concesso originariamente in base all’ordinanza sindacale) non sarebbe stato mai legittimato dal menzionato provvedimento deliberato dalla Giunta comunale poiché il provvedimento concessorio era espressamente condizionato al parere favorevole — non intervenuto — della Soprintendenza (probabilmente, per tale motivo, non sarebbe stato stipulato il successivo atto di concessione). Successivamente, il bene, dapprima è stato riacquisito dal Comune, e poi — nel 2004 – è stato illecitamente restituito all’Associazione pur in mancanza di un idoneo provvedimento concessorio (la inefficace deliberazione n. 3170 nel frattempo aveva perso significato).

In base agli accertamenti istruttori espletati, l’ufficio competente a richiedere il canone di mercato e la restituzione dell’immobile è stato individuato nel Dipartimento patrimonio del Comune di Roma patrimonio (diretto dall’arch. Mirella Di Giovine dal 16.9.2013 all’1.5.2015), Direzione generale gestione amministrativa, V U.O. — II Servizio amministrativo Spazi Sociali, nel corso del tempo, per quel che interessa in questa sede, diretta dalle dott.sse Funari, Bedoni ed Aceti.

Tutte le menzionate dirigenti sarebbero responsabili del danno cagionato al Comune di Roma:

  1. a) l’arch. Di Giovine poiché essa, quale capo del Dipartimento patrimonio, per lungo tempo avrebbe omesso di impartire chiare e semplici direttive alla VU.O. — II Servizio amministrativo Spazi Sociali di agire nei confronti di tutti coloro (la quasi totalità dei ‘concessionari’) che illecitamente godevano del possesso di immobili comunali a seguito dell’inutile decorso dei 120 giorni, decorrenti dall’emanazione dell’ordinanza sindacale, fissati per l’emanazione del definitivo provvedimento concessorio;
  2. b) le altre perché, quali soggetti competenti ad agire, avrebbero omesso di richiedere l’aumento del canone e la restituzione dell’immobile. Esse, ad avviso del P.M., sarebbero responsabili del danno subito dall’erario comunale in base alla condotta omissiva posta in essere nell’ambito del procedimento che avrebbe permesso all’Associazione di godere ingiustificatamente dell’immobile ad un canone ridotto pur non esistendo un valido ed efficace titolo concessorio giustificativo del suo possesso.

Inoltre, il P.R. ritiene, come detto, che responsabili del danno siano anche tutti coloro che, indipendentemente dal ruolo da essi rivestito nell’ambito del Dipartimento del patrimonio, nel corso del tempo hanno esaminato il fascicolo riguardante la concessione disposta in favore dell’Associazione e che, con grave colpa, hanno omesso di dare la dovuta rilevanza al fatto che il termine di 120 giorni dalla data di emanazione dell’ordinanza provvisoria di assegnazione era da tempo scaduto e che l’Associazione risultava possessore sine titulo del bene immobile. Tali soggetti sono i sigg. Colalillo (nota del 24.5.2011, prot. 18), Bedoni (nota del 27.12.2012, prot. 28491), Di Giovine (nota dell’1.10.2013, prot. 21399), Aceti (note del 31.3,2014, prot. 7820, 25.8.2014, prot. 18893, 6.11,2014, prot. 24626, 24.3.2015, prot. 7293, quest’ultima di messa in mora per meri euro 5.328,00). Secondo il P.R. essi erano sicuramente consapevoli dell’intervenuta inefficacia dell’ordinanza sindacale e dell’illiceità del possesso dell’immobile da parte dell’Associazione (ad es. la dott.ssa Di Giovine con la menzionata nota dell’1.10.2013 ha richiesto alla Polizia Municipale di effettuare un sopralluogo e tanto dimostrerebbe che era consapevole della illiceità del godimento del bene), e, quindi, da tale fatto avrebbero dovuto trarre le dovute conseguenze ed avrebbero dovuto porre immediatamente in evidenza la necessità della repentina riacquisizione del bene e l’applicabilità del canone di mercato al posto di quello ridotto dell’80% sino ad allora applicato; in tal modo il considerevole danno cagionato all’erario comunale non si sarebbe prodotto.

Il P.R. ritiene, pertanto, che la condotta di tutti i soggetti sopra indicati (tranne quella del dott. Colalillo, mero responsabile del procedimento) sia illecita, connotata da colpa grave ed abbia concorso alla produzione del danno subito dal Comune atteso che essi, quali dirigenti e soggetti redigenti gli atti del procedimento, avrebbero dovuto provvedere in modo adeguato ed omettere di redigere inutili atti istruttori. Essi avrebbero dovuto rispettivamente emanare o predisporre tutti gli atti necessari per garantire immediatamente la corresponsione del canone di mercato e la restituzione dell’immobile.

Oltre alle suindicate dott.sse Di Giovine, Funari, Bedoni, ed Aceti, responsabili per avere omesso, pur avendo esaminato concretamente il fascicolo relativo alla vicenda in questione, di redigere atti idonei a tutelare la posizione creditoria del Comune, il P.R. ritiene responsabile del danno erariale anche la dott.ssa Marani, dirigente della menzionata U.O. dal 14.8.2008 al 14.1.2010. La responsabilità della dott.ssa Marani, come delle sue colleghe, andrebbe riconosciuta in conseguenza della sua titolarità dell’ufficio protrattasi per un lungo periodo di tempo e della sua completa condotta omissiva, così come stabilito nella recente sentenza della Sezione Lazio n. 486 del 2015, che ha condannato la predetta dirigente per motivi analoghi a quelli di cui si discute in questa sede.

Il danno subito dal Comune di Roma Capitale sarebbe difficilmente quantificabile non essendo stata trasmessa — nonostante apposita richiesta – idonea documentazione da parte dell’amministrazione. La somma dovuta, tuttavia, viene ritenuta dal P.R. quantomeno pari ad euro 357.283,76.

Il canone, determinato nel 1997, era pari a lire 64.075.286 = euro 32.037,64. Tale somma rivalutata — coefficiente 1,394 — risulta pari ad euro 44.660,47. Tale canone annuale dovuto, moltiplicato quantomeno per 8 (dal marzo 2008 al marzo 2016) ammonterebbe ad euro 357.283,76. Tale somma è stata calcolata sino al 31.3.2016. Sarebbe risarcibile anche il danno di euro 3.721,70, relativo a ciascuno dei mesi successivi a tale data, da calcolare fino all’emanazione del provvedimento che applichi il canone di mercato, alla sua successiva accettazione da parte dell’associazione ed al conseguente pagamento fino al rilascio dell’immobile.

Tale quantificazione si riferisce al canone di mercato. La relativa richiesta si basa su una corretta ripartizione dell’onere della prova a carico delle parti processuali. Il P.R. ritiene, infatti, che non sia onere della Procura regionale provare che il concessionario non ha pagato il canone, bensì che sia a carico di quest’ultimo provare l’avvenuto pagamento.

Da un punto di vista giuridico, secondo l’attore, si tratterebbe di accertare:

  1. a) se spetti alla pubblica amministrazione provare non soltanto l’esistenza del titolo che obbliga il debitore ad effettuare una determinata prestazione ma anche l’inadempimento del debitore, ovvero,
  2. b) se sull’amministrazione gravi soltanto l’onere della prova relativo al fatto costitutivo dell’obbligo e l’obbligo di allegazione dell’inadempimento, restando a carico del debitore (le varie organizzazioni incaricate) l’onere di fornire la prova del corretto adempimento delle obbligazioni contrattuali.

In materia, al fine di risolvere l’annosa questione sarebbero intervenute le Sezioni Unite della Corte di cassazione con la fondamentale sentenza n. 13533 del 30 ottobre 2001, che ha accolto la seconda opzione sopra descritta.

Ciò determinerebbe l’obbligo del rappresentante della pubblica amministrazione (così come di colui che agisce per un’impresa privata) di richiedere al debitore complete ed esaustive prove dell’adempimento del contratto, specialmente qualora venga sottoposta al suo esame documentazione assolutamente insufficiente ed inidonea in quanto predisposta dallo stesso debitore.

Ritiene il P.M. che, sulla Procura regionale attrice, in fattispecie del tipo di quella oggi all’esame, graverebbe unicamente l’onere di provare che il soggetto convenuto in giudizio non ha effettuato le necessarie verifiche dirette ad accertare che il debitore ha eseguito correttamente il contratto e che egli, conseguentemente, ha supinamente ed ingiustificatamente pagato il prezzo richiesto, non potendo ritenersi soddisfatto l’obbligo a carico del pubblico amministratore, in conseguenza della mera ricezione delle fattura, di brevi ed inconcludenti relazioni e di fotografie descrittive dell’attività che il debitore afferma essere stata svolta.

Secondo l’attore, quindi:

– tutti gli oneri ingiustificati in precedenza indicati (euro 357.283,76 + interessi) costituirebbero un danno per l’amministrazione ed inoltre i danni non ancora prodottisi alla data del 31.3.2016 dovrebbero essere determinati dalla Sezione giurisdizionale e dovrebbero essere oggetto della eventuale sentenza di condanna, in base alle regole che disciplinano la risarcibilità del danno futuro per i danni non ancora verificatisi al momento del deposito della sentenza di condanna;

– di tutti i danni subiti dall’amministrazione dovrebbero rispondere i destinatari dell’atto di citazione nella loro qualità di dirigenti dell’ufficio competente ad attivare la procedura finalizzata alla quantificazione del canone di mercato e ad ottenere il pagamento del dovuto, ovvero al rilascio dell’immobile, nonché coloro che hanno posto in essere atti del procedimento finalizzato all’emanazione della concessione definitiva, salva la responsabilità dell’attuale (dott. Gherardi) e dei futuri dirigenti della V U.O. — II Servizio amministrativo Spazi Sociali i quali, nel corso del tempo (successivamente al 30.11.2015), ometteranno con colpa grave di richiedere ed ottenere il pagamento del canone di mercato fino al rilascio dell’immobile, sicuramente da richiedere ed ottenere immediatamente;

– nella condotta dei soggetti destinatari del presente atto di citazione sarebbe rinvenibile, quantomeno, l’elemento soggettivo della colpa grave; tale colpa grave consisterebbe nella concreta ed ingiustificata applicazione della deliberazione della Giunta comunale n. 3170/1997, provvedimento inefficace per mancanza del parere favorevole della Soprintendenza (al rilascio di tale parere favorevole era espressamente condizionata la menzionata deliberazione), nel non aver tenuto in considerazione il fatto che, a seguito di tale deliberazione, non era stato concluso il necessario contratto di concessione, e nell’aver consentito il possesso dell’immobile senza che fosse stato preventivamente emanato un idoneo atto giustificativo del possesso in capo all’Associazione; in aggiunta all’aver consentito l’illecito possesso del bene, i dirigenti avrebbero omesso di richiedere ed ottenere il pagamento del canone di mercato (per quel che concerne il dott. Gherardi, al quale l’invito a dedurre, rivolto alle convenute, è stato inviato per mera ed opportuna conoscenza, il P.R. pone in evidenza che egli, nominato dirigente della Direzione generale gestione amministrativa in sostituzione della dott.ssa Aceti, è stato personalmente reso edotto della grave situazione in cui versava la Direzione generale da lui diretta. Sinora egli si è attivato con diligenza a sanare la situazione dell’Ufficio);

– sussisterebbe il richiesto nesso di causalità tra la condotta ascrivibile ai soggetti destinatari del presente atto e gli oneri finanziari ingiustificatamente sostenuti dalla amministrazione;

– in termini generali, non sarebbe condivisibile una condanna della Sezione giudicante ad una somma “comprensiva di rivalutazione e/o di interessi” poiché il giudice deve esaurientemente motivare in merito al calcolo di rivalutazione ed interessi, chiarendo quale sia il metodo seguito (es. indici Istat) e l’importo esatto di tali elementi, da distinguere nettamente rispetto alla somma capitale.

Le deduzioni contrapposte all’invito a dedurre sono state ritenute insufficienti dal P.R. ad escludere le contestate responsabilità e, pertanto, è stata emessa citazione nei confronti delle convenute citate in epigrafe per ivi sentirle condannare, in parti eguali, in favore del Comune di Roma Capitale al pagamento di curo 357.283,76 calcolati sino al marzo 2016, oltre ad euro 3.721,70 per ogni mese successivo al marzo 2016, salva diversa ripartizione; in ogni caso con condanna al pagamento degli interessi dalla data di emanazione della sentenza fino al saldo e alle spese di giudizio.

E’ presente in atti appunto del P.R. in cui si svolgono talune considerazioni:

  • la prescrizione si ritiene non maturata in quanto, ove nell’ultimo giorno del quinquennio si fosse attivata una azione di recupero, il danno si sarebbe potuto evitare;
  • la chiamata in giudizio è stata estesa anche ai soggetti che, dopo i 120 giorni, non si sono attivati per ottenere la restituzione dell’immobile ed il pagamento dell’intero canone concessorio;
  • è stata chiamata in giudizio la dott.ssa Aceti e non i suoi successori in quanto i successori si sono trovati in una situazione ormai compromessa;
  • la chiamata in giudizio ha riguardato coloro che sono stati in servizio per almeno un anno;
  • in caso di occupazione abusiva sine titulo sono stati chiamati in giudizio i dirigenti degli ultimi dieci anni dell’ufficio competente;
  • in ipotesi di doppia concessione dopo i 120 giorni, entrambe sono state ritenute illecite anche perché assentite senza i prescritti pareri;
  • il canone richiesto era sempre del 20% e ciò configurerebbe dolo e motivo per non far luogo al potere riduttivo;
  • non si provvedeva ad eseguire gli sgomberi e tutte le concessioni, a maggio del 2016, risultavano scadute;
  • nel termine di 120 giorni doveva essere intervenuto il provvedimento di concessione;
  • la concessione doveva essere risolta per il mancato pagamento di tre annualità, ma non vi sono state conseguenze,
  • in alcuni casi il concessionario svolgeva attività commerciali senza rispetto delle norme di sicurezza;
  • si sono verificati casi di rinuncia alla concessione e di subentro di altro soggetto non previsto dall’ordinamento;
  • mancato rispetto del termine di 90 giorni fissato per la presentazione della domanda prevista dall’art. 3 comma 3 della del. n. 26/1995;
  • l’istruttoria non è stata quasi mai completata nei 120 giorni previsti e l’ordinanza è stata solo un mezzo per attribuire gli immobili;
  • il danno è stato determinato nella differenza tra il canone di mercato e quello del 20% corrisposto in quanto la finalità non era colpire la morosità del concessionario, ma censurare la mancata pretesa del canone intero in mancanza di regolare concessione.

L’architetto Francesca Saveria Bedoni si è costituita in giudizio con il patrocinio dell’avvocato Maria Vertucci e il difensore, con memoria, ha precisato che la sua assistita ha ricoperto l’incarico di dirigente presso la U.O. concessioni per soli 199 giorni in modo frammentario per le plurime competenze del suo ufficio e, nel 2005, aveva fatto contratto di servizi con la Romeo gestioni per monitoraggio e censimento del patrimonio comunale ed iniziative al riguardo, ma tanto non è stato considerato. Inoltre la Bedoni chiese, ai sensi della delibera di Giunta n. 670 del 19 novembre 2002, di poter assegnare gli immobili a canone di mercato, ma il dott. Palumbo non dava seguito né provvedeva a dar seguito alle richieste di personale. Non sono stati chiamati in giudizio né il Colalillo, responsabile dei procedimento, né la società Romeo. Ripercorre la parte l’iter già descritto di assegnazione dei locali e ricorda gli atti normativi che regolavano le concessioni e rileva che esisteva il responsabile del procedimento non citato in giudizio. Né sarebbe stato possibile chiedere la restituzione degli immobili in quanto tale obbligo non era contenuto in alcuna disposizione e la Bedoni presumeva la liceità dell’occupazione e risultava che il canone fosse pagato. Mancano poi, nell’atto di citazione, le singole e specifiche imputazioni nei confronti di ciascun chiamato. La mancanza di colpa grave deriverebbe anche dalla sentenza n. 486/2015 di questa Sezione che ha trattato analoga fattispecie. Le norme non prevedono la richiesta di restituzione e il danno non è provato né attuale non essendo certa la attribuibilità del bene, con sue peculiari caratteristiche, ad altro soggetto, ma, comunque, mai a prezzo di mercato. Si contesta poi l’’asserita inversione dell’onere della prova e si sostiene che la Bedoni agì in conformità alla legge. Il personale dell’ufficio è passato da 22 ad 8 persone e risulta che, nel periodo della gestione Bedoni, sono state smistate 55 pratiche al giorno e molto lavoro è stato svolto. Alla luce di quanto sopra mancherebbe la colpa grave ed il nesso causale in quanto, allo spirare del termine, vi era altro dirigente non chiamato. Sussisterebbe, infine, il concorso di colpa dell’Ente per la disorganizzazione. La parte eccepisce anche, ferma la mancanza di responsabilità, la prescrizione.

Concludendo la parte chiede, in via principale, di dichiarare inammissibili e/o infondate in fatto e in diritto le domande del P.R., con conseguente rigetto di esse, nei confronti dell’arch. Bedoni; in via subordinata, accertare e, per l’effetto, dichiarare infondate e/o inammissibili le azioni incardinate e, dunque, rigettare le domande per carenza dei presupposti legittimanti l’azione in mancanza di danno, colpa grave, nesso di causalità, per mancanza della specificità delle condotte omissive e di qualsivoglia portata; in ogni caso assolvere da ogni responsabilità l’arch. Bedoni; in via subordinata chiede l’applicazione della prescrizione quinquennale; in via subordinata, nella denegata ipotesi di non accoglimento delle eccezioni sollevate, chiede la riduzione dell’addebito con vittoria di spese, competenze ed onorari.

La dott.ssa Aceti si è costituita in giudizio con il patrocinio dell’avvocato Giuseppe Lo Mastro il quale, nella memoria, ha lamentato l’enorme numero di inviti a dedurre e di citazioni di cui è stata destinataria la sua assistita ed ha illustrato la situazione del patrimonio immobiliare del Comune e degli Spazi speciali. Ha citato il giudicato di cui alla sentenza n. 486/1985 ed ha escluso che, nelle condizioni in cui si svolgeva il lavoro, potesse riscontrarsi la colpa grave. Comunque non sussisteva possibilità di applicare un canone di mercato all’immobile di cui trattasi. Rileva che i comportamenti che il P.R. ritiene che si sarebbero dovuti tenere non erano previsti nei regolamenti comunali che vengono esaminati. Evidenzia la mole di lavoro svolta dalla dott.ssa Aceti nelle sue competenze di ufficio, anche con carattere di urgenza, pur in carenza di organico. A seguito dell’azione della Procura sono state poi avviate numerose azioni per migliorare la gestione dei beni. Ritiene persecutorio il comportamento della Procura e singolare la ritenuta sufficienza di uno scadenzario per evitare il problema che si è verificato. Ha illustrato il lavoro svolto per migliorare la gestione dei beni. Conclusivamente ha chiesto il rigetto dell’azione.

L’avvocato Lo Mastro ha anche prodotto, per l’odierna udienza, ulteriore memoria in cui, oltre a ribadire le precedenti argomentazioni, ha criticato il modus operandi del P.R. che si sarebbe ingerito nelle competenze dell’amministrazione forzando l’emissione di provvedimenti di sfratto posti in essere da taluno onde evitare la chiamata in giudizio. L’avvocato ha poi ancora analizzato le delibere regolamentari del Comune e le procedure adottate per le concessioni escludendo la configurabilità di un danno discendente da esse.

La dott.ssa Mirella Di Giovine si è costituita in giudizio, con il patrocino degli avvocati Gennaro Terracciano e Amelia Cuomo, i quali hanno sostenuto l’insussistenza del nesso causale e di qualsiasi profilo di responsabilità della loro assistita che è stata direttore Apicale del Dipartimento Patrimonio e di responsabile ad interim U.O. Concessioni dal 16.9.2013 al 30.10.2013 e direttore Apicale dal 16.9.2013 al 15.5.2015 e, quindi, lontano dal periodo di genesi del danno. L’interim è durato 45 giorni e, nel periodo, erano molte altre le incombenze affidate né esisteva un servizio informatizzato affidabile per la gestione di 860 beni. Ciononostante la Di Giovine ha agito con discontinuità rispetto al passato intraprendendo iniziative per migliorare la gestione del patrimonio chiedendo anche un potenziamento degli uffici e provvedendo a sgomberi e diffide. Mancherebbe, comunque, l’elemento soggettivo del dolo e/o della colpa grave in quanto, nel caso di specie, si registrano interventi specifici, ma anche precise disposizioni della Sovrintendenza dei beni culturali e dell’assessore alle Politiche del Patrimonio del Comune di Roma sull’utilizzo del bene. Comunque sono state anche inviate diffide all’Agorà per la corresponsione del canone di mercato, degli arretrati e per il rilascio del bene. La Di Giovine è stata già assolta nel giudizio di questa Sezione che è stato esitato con la sentenza n. 486/2015. Mancherebbe, comunque, il danno erariale in quanto la natura del bene ne impediva la locazione a canone di mercato (del n. 26/1995 e n. 202/1996 del Comune di Roma) e l’eventuale riattribuzione dell’immobile presupponeva, comunque, lo sgombero di esso e tanto esulava dalle competenze del dipartimento Patrimonio. Infine, a tutto voler concedere, sussistendo il credito, non sarebbe da ritenere maturato il danno.

Conclusivamente la parte chiede che sia dichiarata la nullità/inammissibilità delle domande ed il rigetto di esse come infondate in fatto e in diritto per mancanza di danno e dell’elemento soggettivo e, in via subordinata, che venga considerata l’assoluta marginalità dell’attività della Di Giovine ai fini della quantificazione del danno con uso anche del potere riduttivo e vittoria di spese, competenze ed onorari.

L’arch. Lucia Funari si è costituita in giudizio con il patrocinio degli avvocati Alessandro Fusillo e Jacopo Vavalli e, nella memoria, i difensori hanno eccepito l’intervenuta prescrizione sostenendo l’inammissibilità della tesi proposta dal P.R. in appunto diverso dalla domanda e ritenendo, comunque, maturata la prescrizione dai 5 anni antecedenti l’invito a dedurre (12.2.2011) e non oltre la cessazione dalle funzioni del 17.5.2011. Da tanto conseguirebbe anche che, essendo il relativo periodo di svolgimento delle funzioni inferiore all’anno (dal 17 novembre 2010 al 17 maggio 2011) la stessa non avrebbe dovuto essere chiamata in giudizio alla stregua dei principi di cui alla sentenza n. 486/2015. Inoltre la gestione degli immobili comunali non era affidata al Dipartimento Patrimonio, cui spettava solo l’alta sorveglianza ed attività amministrativa connessa alle comunicazioni del gestore, ma alla Romeo Gestioni s.p.a. che deteneva anche i fascicoli, come dimostrato dalle notizie di stampa relative al cattivo stato di riconsegna dei fascicoli stessi. Sostengono ancora i difensori la mancanza del danno erariale per la destinazione del bene da utilizzarsi per finalità sociali e ciò sarebbe dimostrato anche dalla sentenza del TAR n. 3764/2016 che ha annullato l’ordinanza di riacquisizione. Viene poi descritta l’organizzazione del Dipartimento, la carenza dell’organico disponibile e la individuazione, comunque, di un responsabile del procedimento. In ogni caso, sussisterebbe una incertezza e scarsa chiarezza sul procedimento di assegnazione dei beni in concessione e il termine di 120 giorni per la concessione definitiva contrasterebbe con l’art. 20 della legge n. 241/1990 che qualifica il silenzio dell’amministrazione come assenso ed ancora, non era prevedibile un termine perentorio per provvedere al riguardo. Il danno mancherebbe anche in relazione al fatto che non vi è prova della riallocabilità del bene alle condizioni ipotizzate dal P.R. e, comunque, ove ciò fosse ipotizzabile, non sarebbe ancora maturata la prescrizione per chiedere il surplus ipotizzato, non senza considerare che l’art. 3 del Regolamento comunale n. 5625 del 1983 prevede che, alla scadenza della concessione, si debba provvedere al suo rinnovo a meno che non sussistano fondate ragioni per rientrare nel possesso del bene, fermo restando che, per il periodo di occupazione senza titolo, il concessionario è tenuto a pagare il medesimo canone pagato vigente il titolo concessorio.

Conclusivamente la parte chiede la declaratoria di prescrizione, la disapplicazione, ove occorra, del regolamento 201/1996 del Consiglio Comunale e il rigetto delle domande della Procura e, in via subordinata, ai sensi dell’art. 83, 2° comma n.c.g.c., ridurre a zero la percentuale di responsabilità nei confronti della convenuta per totale responsabilità della Romeo Gestioni s.p.a, con vittoria di spese, competenze ed onorari.

La dott.ssa Cinzia Marani si è costituita in giudizio con il patrocinio dell’avvocato Stefano Rossi e il difensore, ripercorsa la cronistoria dei fatti, ha sostenuto la mancanza degli elementi di cui all’art. 86 n.c.g.c. e la nullità della citazione, l’inammissibilità dell’appunto presentato dal P.R. con argomentazioni aggiunte, la prescrizione dell’azione, la manifesta infondatezza, in fatto e in diritto di tutti gli addebiti. Si sostiene poi l’abuso della potestà punitiva per l’esagerato numero di citazioni e, ricostruita la normativa in materia di concessioni, si rileva che non sussisterebbe alcun automatismo tra la scadenza della concessione e l’affitto a prezzi di mercato per beni destinati ad utilità sociale tant’è che la richiesta di ottenere il canone a prezzi di mercato è stata impugnata davanti al TAR. Inoltre la gestione dei beni era affidata alla Romeo gestioni s.p.a. e, comunque, sussisteva una preesistente disorganizzazione degli uffici e carenza di personale di cui non si è tenuto minimamente conto. La scadenza del termine di 120 giorni non esauriva il potere del Comune di provvedere al riguardo e non sono state indicate le condotte riferibili a colpa grave della Marani, che non aveva ricevuto alcuna consegna all’atto del suo insediamento, mentre è stata esclusa la chiamata del responsabile del procedimento dott. Colalillo.

Si insiste, poi, per l’inesistenza di un danno erariale certo, attuale e concreto e per la erronea quantificazione di esso. Mancherebbe, inoltre, l’elemento soggettivo non essendo definiti i comportamenti riferibili a colpa grave della Marani, che era al suo primo incarico in un Dipartimento che era stato senza dirigente per 8 mesi. La difesa eccepisce anche la prescrizione dell’azione e chiede la compensatio lucri cum damno, poiché l’Agorà ha fatto lavori nell’immobile, nonché l’uso del potere riduttivo.

Conclusivamente la parte chiede, previa riunione del procedimento con gli altri, di assolvere la dott.ssa Cinzia Marani e, comunque, di rigettare l’azione risarcitoria per le ragioni esposte ivi inclusa la prescrizione. In via subordinata chiede la riduzione dell’addebito e la compensazione del danno con i vantaggi avuti da Comune.

Alla precedente udienza del 21 febbraio 2017, su istanza del P.R. e per consentire una trattazione unitaria almeno di un rilevante numero di ricorsi e la loro eventuale riunione, si è disposto il rinvio alla presente udienza.

All’odierna pubblica udienza il P.R. ed i difensori delle parti presenti hanno ribadito ed ampiamente illustrato le proprie tesi degli scritti e confermato le rispettive conclusioni.

DIRITTO:

Il P.R., nel presente giudizio, ha chiesto la condanna delle parti citate in epigrafe che, nelle rispettive qualità di dirigenti del Comune di Roma, egli ha ritenuto responsabili del danno, a suo avviso derivante dalla differenza tra il prezzo agevolato della concessione (20% del prezzo di mercato) del bene immobile descritto in fatto e detto prezzo di mercato in quanto, allo scadere dei 120 giorni previsti dall’ordinanza provvisoria per l’emanazione del provvedimento concessorio definitivo, o, comunque, alla scadenza della concessione, si sarebbe dovuto procedere alla riacquisizione del bene e provvedere alla sua locazione a prezzo corrente di mercato o pretendere tale importo dall’assegnatario, ma ciò non è stato fatto.

L’ipotesi oggi all’esame, pertanto, non riguarda casi di morosità per canoni di locazione di appartamenti o altri beni del patrimonio disponibile gestibili secondo le regole del mercato (questione che, più propriamente, potrebbe inquadrarsi nel fenomeno della c.d. “affittopoli”) ma riguarda, unicamente, la tesi, che sostiene il P.R., secondo cui il canone concessorio di beni demaniali o del patrimonio indisponibile, avrebbe dovuto essere incrementato fino al prezzo di mercato in caso di mancata formalizzazione dei provvedimenti concessori, o di tardività degli stessi, o di mancato loro rinnovo, sia pure assentiti con provvedimenti provvisori.

Le parti convenute hanno sollevato plurime eccezioni pregiudiziali e preliminari, non immediatamente risolvibili anche per la fondata previsione di necessità istruttorie sui relativi punti, ma si ritiene, considerato anche il primario interesse delle parti stesse ad ottenere una pronuncia di merito favorevole, che, per economia processuale, possa affrontarsi subito la questione di merito dirimente. Tanto è consentito in applicazione della giurisprudenza della Cassazione che, con sent. n. 17/03/2015 n. 5264, ha ribadito il suo precedente orientamento secondo cui una domanda può essere respinta sulla base di una questione assorbente, pur se logicamente subordinata, senza che sia necessario esaminare tutte le altre, essendo ciò suggerito dal principio di economia processuale e da esigenze di celerità anche costituzionalmente protette dall’art. 111 Cost. (v. Cass. 16/05/2006 n° 11356 ma anche Cass. 27/12/2013 n° 28663). In particolare la Cass. (sent. 28/05/2014 n. 12002), ha affermato che “il principio della ragione più liquida, imponendo un approccio interpretativo con la verifica delle soluzioni sul piano dell’impatto operativo, piuttosto che su quello della coerenza logico-sistematica, consente di sostituire il profilo di evidenza a quello dell’ordine delle questioni da trattare, di cui all’art. 276 c.p.c., in una prospettiva aderente alle esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, costituzionalizzata dall’art. 111 Cost., con la conseguenza che la causa può essere decisa sulla base della questione ritenuta di più agevole soluzione, – anche se logicamente subordinata – senza che sia necessario esaminare previamente le altre” (così v. anche Cass. 22/01/2015 n° 1113)”.

Ciò posto, si osserva che la tesi del P.R. non convince.

L’ordinanza del Sindaco n. 3483/1997 di provvisoria concessione è stata, infatti, emessa ai sensi delle deliberazioni regolamentari comunali n. 5625/1983, n. 26/1995 e n. 202/1996 che prevedevano la assegnazione di beni demaniali o patrimoniali indisponibili per le utilità sociali ivi previste (anche culturali) con pagamento di canone ridotto al 20% del prezzo di mercato.

Nulla eccepisce parte attrice su tale ordinanza i cui firmatari e proponenti non sono stati citati o, comunque, sul fatto che i beni e i destinatari di essi non fossero stati, originariamente, correttamente individuati a fini concessori per le finalità socio-culturali.

Non viene contestato, pertanto, che detti beni potessero essere dati in concessione al prezzo ridotto indicato e ai destinatari individuati per le finalità da essi perseguite, ma il P.R. ritiene che l’assegnazione a dette condizioni potesse valere solo fino allo scadere del termine di provvisorietà entro il quale doveva emettersi il provvedimento definitivo, invece non intervenuto, o, comunque, valesse solo fino alla scadenza del termine concessorio ove intervenuto.

Ritiene parte attrice che, dopo detti termini, il bene avrebbe dovuto essere riacquisito e locato, a mezzo gara, a prezzi di mercato, cosa che non è avvenuta ed il danno consisterebbe in tale mancata entrata differenziale.

Deve al riguardo osservarsi che la particolarità dei locali individuati, destinati, comunque, a usi di pubblica utilità sociali e culturali, non li rendeva utilizzabili e sfruttabili alla stregua di locali da affittare e, quindi, tale peculiarità rafforzava la natura di beni non fruibili sul libero mercato e rientranti tra quelli per i quali era prevista, dai regolamenti comunali 5625/1983, 26/1995 e 202/1996, una utilizzazione a prezzo ridotto e agevolato per finalità sociali e culturali.

In disparte ogni altra considerazione, pertanto, la scadenza del termine senza che fosse intervenuta la concessione definitiva o senza che la stessa fosse stata rinnovata, non cambiava la natura del bene e la sua utilizzabilità alle stesse condizioni agevolate attuate con il provvedimento originario con conseguente impossibilità di praticare, per esso, un prezzo di mercato.

D’altro canto, come è stato rilevato, sarebbe singolare che l’inosservanza, da parte del Comune, del rispetto del termine per la conclusione o per il rinnovo del procedimento concessorio, si possa risolvere in un pregiudizio per la parte che lo subisce e che dal silenzio dell’amministrazione possa derivare la risoluzione del rapporto in quanto ciò contrasterebbe con l’art. 20 della legge n. 241/1990, di rango superiore rispetto ai regolamenti, che qualifica il silenzio dell’Amministrazione come silenzio assenso.

Non si esclude che una diversa e più accorta gestione del patrimonio avrebbe consigliato modalità di regolamentazione più ponderate e più attente al pubblico interesse, ma tanto non è oggetto del presente giudizio, né, nel caso, riguarda le parti convenute che non possono essere chiamate a rispondere per la diversa causa petendi più volte indicata.

Non si ravvisa, pertanto, l’esistenza del danno e manca, quindi, l’elemento presupposto per poter riconoscere responsabilità delle parti chiamate nella presente fattispecie ed esse devono, conseguentemente, mandarsi assolte dalla domanda attrice.

Né l’esistenza di precedente sentenza, peraltro appellata, su fattispecie analoga, limita questo Collegio ad una diversa valutazione stante la non vincolatività della giurisprudenza.

Lamentano talune parti le modalità con cui il P.R. ha sviluppato l’azione, instaurando, nei confronti di almeno alcune di esse, un numero di giudizi che viene ritenuto persecutorio, e concretizzante abuso del processo e, pertanto, chiedono la applicazione dell’art 96, 3° comma c.p.c. per la responsabilità aggravata.

Al riguardo si osserva che, di per sé, la scelta attorea di non operare ab origine con un unico atto di citazione o con pochi atti cumulativi, ha comportato l’effetto positivo di una maggiore attenzione su ogni singolo caso e ha reso più gestibile la trattazione dei giudizi che, comunque, si riferiscono a chiamati o gruppi di chiamati non sempre identici. Ciò rende evidente la mancanza, comunque, dell’intento persecutorio adombrato dalle parti e dimostra l’inesistenza dell’elemento soggettivo (dolo o colpa grave) di parte attrice che la giurisprudenza ha ritenuto necessario per il concretizzarsi della fattispecie.

Infatti, per un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma e per evitare che il Giudice possa applicare ad libitum la predetta sanzione in caso di soccombenza, la disposizione non può che essere applicata a quelle condotte che siano imputabili soggettivamente alla parte a titolo di dolo o colpa grave, ovvero ad una condotta negligente che abbia determinato un allungamento dei termini del processo (cfr Tribunale di Terni, 17 maggio 2010 e anche Tribunale di Varese, 27 maggio 2010).

Ove si prescindesse dai predetti requisiti, dal solo agire o resistere in giudizio potrebbe derivare la giustificazione della condanna (cfr Tribunale Verona 28 febbraio 2014) in contrasto anche con l’art. 24 della Costituzione.

D’altro canto, la mancanza di abuso e dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave può desumersi sia dal fatto che l’esistenza di molti casi da perseguire era un fatto obiettivo, sia dall’esistenza di una precedente sentenza che ha innescato una serie di ulteriori procedimenti.

Né si può ritenere che l’esistenza di più citazioni sia più vessatoria di un’unica citazione, ove, cumulativamente, la somma richiesta sia la stessa del totale delle singole considerata anche l’estrema difficoltà e/o ingestibilità di un unico giudizio comprendente oltre trecento casistiche.

Da tanto consegue che, ferma restando la possibilità dei singoli Collegi di valutare le modalità di trattazione, anche allo stato non si ritiene utile, nel caso, la riunione dubitandosi fortemente che essa si risolverebbe in una concreta semplificazione dell’attività difensiva.

Le spese legali si liquidano nella misura di €. 1.000,00 (mille/00) per ciascuna parte.

P.Q. M.

La Corte dei Conti – Sezione giurisdizionale per la Regione Lazio, ogni contraria istanza ed eccezione reiette, definitivamente pronunziando,

RIGETTA

– la domanda del P.R. e, per l’effetto, assolve le parti convenute in epigrafe dalla domanda attrice;

– l’istanza delle parti convenute per l’applicazione dell’art. 96 3° comma c.p.c..

Le spese legali si liquidano nella misura di €. 1.000,00 (mille/00) per ciascuna parte oltre spese generali IVA e CPA.

Così deciso in Roma, nelle Camere di consiglio del 6 aprile, 10 aprile e 11 aprile 2017.

Il Presidente Estensore

F.to Piera Maggi

Depositata in Segreteria il 18 aprile 2017

Il Dirigente

F.to Dott.ssa Paola Lo Giudice

Corte dei Conti Sezione Giurisdizionale per la Regione Lazio, sentenza n.77/2017
Corte dei Conti Sezione Giurisdizionale per la Regione Lazio, sentenza n.77/2017



La Corte dei Conti smentisce il suo Procuratore e riconosce le finalità sociali delle Associazioni sfrattate

Giustizia è fatta: La Corte dei Conti assolve i dirigenti comunali che non avevano sfrattato le Associazioni assegnatari di beni del Comune per fini sociali.

La sentenza è chiara: “L’ordinanza del Sindaco n. 3483/1997 di provvisoria concessione è stata, infatti, emessa ai sensi delle deliberazioni regolamentari comunali n.5625/1983, n. 26/1995 e n. 202/1996 che prevedevano la assegnazione di beni demaniali o patrimoniali indisponibili per le utilità sociali ivi previste (anche culturali) con pagamento di canone ridotto al 20% del prezzo di mercato.

(…)

Non viene contestato, pertanto, che detti beni potessero essere dati in concessione al prezzo ridotto indicato e ai destinatari individuati per le finalità da essi perseguite, ma il P.R. (Procuratore Regionale) ritiene che l’assegnazione a dette condizioni potesse valere solo fino allo scadere del termine di provvisorietà entro il quale doveva emettersi il provvedimento definitivo, invece non intervenuto, o, comunque, valesse solo fino alla scadenza del termine concessorio ove intervenuto.
Ritiene parte attrice (sempre il Procuratore Regionale) che, dopo detti termini, il bene avrebbe dovuto essere riacquisito e locato, a mezzo gara, a prezzi di mercato, cosa che non è avvenuta ed il danno consisterebbe in tale mancata entrata differenziale.
Deve al riguardo osservarsi che la particolarità dei locali individuati, destinati, comunque, a usi di pubblica utilità sociali e culturali, non li rendeva utilizzabili e sfruttabili alla stregua di locali da affittare e, quindi, tale peculiarità rafforzava la natura di beni non fruibili sul libero mercato e rientranti tra quelli per i quali era prevista, dai regolamenti comunali 5625/1983, 26/1995 e 202/1996, una utilizzazione a prezzo ridotto e agevolato per finalità sociali e culturali.
In disparte ogni altra considerazione, pertanto, la scadenza del termine senza che fosse intervenuta la concessione definitiva o senza che la stessa fosse stata rinnovata, non cambiava la natura del bene e la sua utilizzabilità alle stesse condizioni agevolate attuate con il provvedimento originario con conseguente impossibilità di praticare, per esso, un prezzo di mercato.”
Vorremmo mettere in rilievo che la Corte dei Conti ci dà ragione nel merito proprio della nostra battaglia sull’importanza delle “finalità sociali e culturali” che vincono sulla supposta pretesa del Procuratore Regionale di mettere tali beni a reddito “a prezzi di mercato“.

 




Sfrattopoli: associazioni di volontariato e terzo settore colpiti da provvedimenti amministrativi criminali

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Si pensava di aver toccato il fondo con Mafia Capitale e invece leggiamo su carte e cartelle impazzite che chi persegue il bene comune e combatte ogni giorno il degrado a Roma è più criminale di chi ha lucrato per anni sul disagio. Sono le cifre a dirlo: 100 milioni di euro è il danno erariale ipotizzato dalla Conte dei Conti, nell’ambito della inchiesta erroneamente chiamata “Affittopoli”, per canoni di locazione non riscossi su immobili che il Comune ha concesso, a partire dagli anni ’80, per uso sociale, contro i 21 milioni circa quantificati per Mafia Capitale.

Dunque, secondo la valutazione della procura contabile, le associazioni che si occupano di Sclerosi Laterale Amiotrofica a Roma, sono più mafiose di chi ha lucrato sul trasporto dei disabili, associazioni come Puzzle che insegna l’italiano agli stranieri e offre spazi gratuiti di coworking a giovani professionisti sono più criminali di chi ha lucrato sui migranti, organizzazioni come AGOP Onlus che assistono bambini affetti da tumori e danno ospitalità gratuita alle famiglie, sono più mafiosi di chi ha lucrato sulle politiche abitative, realtà come ARESAM Onlus, che si occupano di salute mentale, sostenendo chi ne soffre e i loro familiari, sono più criminali di chi ha lucrato per anni sui campi Rom, chi come il Coordinamento genitori democratici Onlus, si occupa di diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, è più mafioso di chi ha guadagnato illecitamente sui minori non accompagnati.

E il Comune? Cosa intende fare degli innumerevoli sfratti indiscriminati e delle esorbitanti richieste di risarcimento, in alcuni casi si parla di milioni di euro, scagliati contro l’associazionismo romano? Cosa ne farà l’Amministrazione di Roma Capitale del Bene comune, della sussidiarietà, si prenderà la responsabilità nei confronti dei cittadini del vuoto socio-culturale che quelle decine e decine di locali lasceranno, tornando al loro stato di origine, prima della concessione d’uso, di beni pubblici in disuso ed abbandono?

Una cosa è certa, le associazioni colpite non ci stanno ad essere gettate nel calderone di Affittopoli, molte si sono organizzate e stanno conducendo da tempo una lotta contro questa grave ingiustizia. Si sono mosse ad esempio con la consegna il 9 marzo scorso alla Corte dei Conti della richiesta di deferimento del Vice Procuratore della Corte Regionale del Lazio dott. Guido Patti alla Commissione Disciplinare, il quale ha notificato finora 200 inviti a dedurre e 132 atti di citazione ad un gruppo di funzionari refrattari ai suoi “suggerimenti”, ovvero di procedere senza indugio con gli sfratti e le richieste di risarcimento alle associazioni.

Hanno fatto sentire la loro voce con sit-in, flash mob in piazza e davanti al Campidoglio, per chiedere di essere finalmente viste e perchè venisse riconosciuto il valore sociale delle attività che svolgono a beneficio delle fasce di cittadini più deboli (e spesso in collaborazione con l’amministrazione comunale). Il 5 aprile scorso un gruppo di associazioni (Aresam, CESV CILD, Corviale Domani, Coordinamento Periferie, Forum Terzo Settore Lazio, CGD Roma, CGD Nazionale, Fed.I.M, Reter, A Roma Insieme, Illuminatissimo, Ass. Amici Lazio, Fondazione Di Liegro, Ass. Vivere 2001 – Il Cantiere, Circolo Culturale Omosessuale M. Mieli) ha sottoscritto e consegnato una lettera alla Sindaca Raggi, nella quale le si chiedeva di “far finire questo scempio”, di riprendersi il ruolo di garante del benessere dei propri cittadini, di verificare ogni singolo caso e “non lasciare la vita di quelli più deboli ed emarginati in mano ai burocrati”. Il 6 aprile mentre all’interno della Corte dei Conti si teneva la prima delle udienze che vede come imputati i dirigenti di Roma Capitale per danno erariale (900 casi circa) e che ha affrontato solo le prime 20 storie (tra cui quelle di Sant’Egidio, Accademia del Cartone animato, Cgil, Capodarco, Unione inquilini, Agesci, Azione Parkinson), fuori si svolgeva un flash mob di protesta organizzato da Decide Roma, per chiedere con urgenza alla Sindaca un nuovo Regolamento partecipato sulla concessione ed uso dei beni comunali.

L’associazionismo e il volontariato romano sta percorrendo la sua Via Crucis, ma alla fine non pretenderà miracoli nè effetti speciali, solo buon senso, consapevolezza e giustizia sociale.

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Habitare. Le nuove forme

65.000 provvedimenti esecutivi di rilascio delle abitazioni emessi nel 2015.
Solo 8 mila per necessità del locatore o fine locazione contro 57 mila per morosità.
Questo dice il rapporto annuale del Ministero dell’Interno sugli sfratti in Italia.

Dall’osservazione di questa fotografia nasce l’idea di Uniat aps di proporre al pubblico un quadro di proposta e di prospettiva con un lavoro di studio e di indagine messo a punto dall’Ing. Fabrizio Piemontese, già formatore di Uniat aps sul tema della sharing economy e il ciclo dei rifiuti.

Il libro, che sarà presentato il 13 dicembre 2016 presso il CESV a Roma, si propone di ampliare l’osservazione degli utenti “casa” secondo un nuovo paradigma che va dal possesso all’uso in un quadro di mutate condizioni di reddito, fortemente eroso da un decennio di crisi economica.

La presenza di “voci dal basso”, intesa come testimonianza, chiamate a svolgere il ruolo di dignitosi interpreti di questa penosa condizione abitativa rendono il Convegno più autentico e coinvolgente.

Le conclusioni dei lavori affidate ad Aurelio Mancuso, da decenni icona del movimento per la difesa dei diritti e delle unioni civili, attualizza il tema delle “nuove forme dell’abitare” anche alla luce delle “Legge Cirinnà” che per la prima volta in Italia equipara tutti i nuclei familiari nell’accesso al diritto abitativo.

lochabitare_sclicca qui per scaricare il comunicato stampa