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Edilizia popolare

L’area di Ponticelli è un territorio difficile, come spesso lo sono quelli dei comuni che formano la cintura suburbana delle grandi città e che stentano a ritrovare una loro identità storica e un tessuto sociale che li allontani dal destino di anonime periferie dormitorio.

Un tema di grande attualità (non a caso è stato scelto tra le tracce assegnate agli studenti che hanno affrontato gli esami di maturità quest’anno) che per il Senatore a vita e architetto Renzo Piano rappresenta la vera sfida urbanistica e architettonica dei prossimi anni:“
é fragile il paesaggio e sono fragili le città, in particolare le periferie dove nessuno ha speso tempo e denaro per far manutenzione. Ma sono proprio le periferie la città del futuro, quella dove si concentra l’energia umana e quella che lasceremo in eredità ai nostri figli. C’è bisogno di una gigantesca opera di rammendo e ci vogliono delle idee. […] Spesso alla parola “periferia” si associa il termine degrado. Mi chiedo: questo vogliamo lasciare in eredità? Le periferie sono la grande scommessa urbana dei prossimi decenni. Diventeranno o no pezzi di città?”.
Una importante opera di “rammendo” è stata completata a Ponticelli dall’Istituto Autonomo Case Popolari di Napoli che ha portato a termine i lavori del complesso di alloggi popolari in via De Meis, un intervento programmato nel lontano 2002 e avviato, con lo stanziamento dei fondi necessari nel 2010.I 158 alloggi realizzati rappresentano solo una boccata di ossigeno per uno dei territori dove la fame di case è più disperata: nella zona di Napoli i senza tetto censiti sono più di 1500 e oltre 17.000 persone hanno partecipato al bando indetto nel 2011 per l’assegnazione di alloggi popolari.Qualità degli alloggi ed efficienza energetica
Il nuovo nucleo residenziale di Via De Meis è stato progettato con attenzione alla qualità globale del complesso: gradevoli gli affacci su aree verdi, ampi gli spazi delle unità abitative, con una razionale suddivisione tra zone giorno e nottee la presenza di doppi servizi.
Grande attenzione anche all’efficienza energetica degli edifici con l’adozione di strutture opache efficacemente isolate. Per i circa 25.000 metri quadrati di facciate è stata adottata la tecnica dell’isolamento a cappotto applicato direttamente alle murature in laterizio che compongono le pareti perimetrali. I vantaggi di questa tecnica applicativa, sempre più diffusa sia nelle nuove costruzione e sia nelle opere di ristrutturazione, consentono di:- dimensionare correttamente lo spessore del materiale isolante in assenza di vincoli determinati dalla necessità di limitare la riduzione dei volumi abitativi tipici degli isolamenti applicati dall’interno,
– migliorare il comfort abitativo sia in estate che in inverno; la massa delle strutture, concentrata verso il lato interno, offre i maggiori benefici di inerzia termica e le pareti si raffreddano e si riscaldano più lentamente,
– eliminare le dispersioni determinate dai ponti termici in corrispondenza di pilastri e solai,
– evitare i fenomeni di muffe e condense all’interno degli ambienti,
– proteggere le strutture dell’edificio dagli sbalzi termici garantendone una maggiore durata,
– adottare tipologie di pareti a muratura singola economicamente molto vantaggiose rispetto a soluzioni in doppia muratura con isolamento posto in intercapedine.

Tra i materiali isolanti di possibile impiego in un sistema a cappotto la scelta progettuale ha selezionato i pannelli in poliuretano espanso STIFERITE Class SK specificatamente sviluppati per gli isolamenti in sistema ETICS (External Thermal Insulation Composite System) ed impiegati all’interno di numerosi sistemi certificati ETA (European Technical Approval – Benestare tecnico europeo) sulla base delle prescrizioni prevista dalla Guida EOTA – ETAG 04. L’utilizzo dei pannelli STIFERITE Class SK ha permesso, rispetto a soluzioni alternative, di ottenere elevate prestazioni ed interessanti economie di sistema grazie a:

– riduzione degli spessori di materiale isolante necessario ad ottenere le prestazioni prefissate e conseguente riduzione dei tempi e degli oneri relativi alla movimentazione in cantiere e alla messa in opera
– limitazione del peso dell’intero sistema grazie alla massa contenuta dei pannelli in schiuma poliuretanica (35 kg/m3)
– minore incidenza del costo degli accessori necessari al montaggio e alla finitura del sistema (tasselli più corti, profili di contenimento di minore spessore, soglie e davanzali delle aperture meno profondi
– stabilità nel tempo delle prestazioni di isolamento termico, stabilità dimensionale e resistenza meccanica
– maggiore resistenza alle alte temperature determinate dall’irraggiamento
– ottime prestazioni di reazione al fuoco del sistema (ottenibile l’Euroclasse B s1 d0)
– limitato impatto ambientale grazie alla riduzione dei volumi e dei pesi dei materiali coinvolti e alla limitazione degli impatti determinati dai trasporti.

Le fasi di realizzazione del sistema a cappotto con STIFERITE SK negli edifici del comparto di Via De Meis hanno rispettato le linee guida definite dall’associazione europea EAE (European Association for External Thermal Insulation Composite Systems) e dal consorzio CORTEXA, il consorzio italiano per la cultura del Sistema a Cappotto a cui aderisce STIFERITE in qualità di Main Partner.

I pannelli termoisolanti STIFERITE Class SK sono stati posti in opera, a giunti sfalsati, con malta adesiva cementizia distribuita lungo il perimetro del pannello e per punti centrali e successivofissaggio meccanico mediante tasselli plastici in corrispondenza di tutti gli spigoli di ogni pannello e di due punti centrali. Nelle fasi successive si è proceduto all’applicazione di rasatura sottile con malta cementizia rinforzata in cui è stata annegatauna rete di armatura in fibra di vetro con appretto antialcalino. Lo strato armato è stato completato con una successiva rasatura e con l’applicazione di uno strato continuo di rivestimento granulato.

Le caratteristiche prestazionali delle schiume poliuretaniche sono state valorizzate anche nella fasi di isolamento degli 8000 metri quadrati di coperture piane che hanno previsto l’impiego del pannello STIFERITE Class B, destinato principalmente alle opere di coibentazione delle coperture sotto manti impermeabili bituminosi.

Nella prima fase dei lavori le coperture erano state realizzate con solai in laterocemento, strato di pendenza ed una prima impermeabilizzazione destinata a proteggere dalle precipitazioni le coperture fino al completamento delle opere. Si è quindi optato per il mantenimento in sede della membrana di sicurezza su cui è stata applicata:

– una barriera al vapore, con trattamento al textene per consentire sia l’adesione verso il piano di posa sia l’incollaggio dei pannelli isolanti mediante sfiammatura
– lo strato isolante in pannelli STIFERITE Class B
– un manto impermeabile in membrane bituminose con strato a finire in saglie di ardesia.

Oltre alle eccellenti prestazioni isolanti anche altre caratteristiche del pannello STIFERITE Class B hanno svolto una funzione determinate per la qualità dell’intera applicazione, tra queste soprattutto la resistenza alla alte temperature, sia in fase applicativa sia in fase di esercizio, ed il rivestimento in vetro bitumato che agevola una perfetta e stabile adesione dei pannelli all’elemento di tenuta.

Dati Cantiere
158 alloggi in edilizia residenziale pubblicaPonticelli – comparto Via De Meis (NA)

Tipo di intervento: Adeguamento sismico e completamento
Ente Appaltante: Istituto Autonomo Case Popolari di Napoli
Progettista: T.ec.a – Promoproject srl – Ing. Stefano Senes Napoli
Responsabile del procedimento: Dirigente settore tecnicoIng. Francesco Bellinetti
Direttore dei Lavori: Ing. Guido Peduto
Direttore Operativo: Geom. Giuseppe Orefice
Collaudatori in corso d’opera Ing. L. Ghezzi e Ing. A. Valeriani
Impresa Appaltatrice: A.T.I. Fin Consorzio – Roma
Impresa Specializzata: MV EDIL ASFALTI – Massa di Somma NA

Isolamento termico facciate con soluzione a cappotto
Stiferite Class SK spessore mm 40 e 50
Metri quadrati complessivi: 25.000

Isolamento termico copertura
Stiferite Class B spessore 60 mm
Metri quadrati complessivi: 8.000

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Il giornalismo al tempo dei Google Glass

Nonostante i ritardi nel lancio e le perplessità, gli smartglass di Big G potrebbero cambiare molte attività dell’uomo. Robert Hernandez, giornalista pioniere del web e professore associato all’università della California del sud ha lanciato dei corsi per studiare nuovi linguaggi di comunicazione con gli occhiali intelligenti. Lo abbiamo intervistato

IL 2014 non è stato l’anno dei Google Glass. Probabilmente non lo sarà nemmeno il 2015. Gli occhiali “intelligenti” prodotti da Google ritardano l’arrivo commerciale sul mercato. Analisti e appassionati s’interrogano sul futuro di uno dei gadget che negli ultimi tempi ha attirato di più l’attenzione sulle tecnologie indossabili, ben prima che Apple svelasse il suo Apple Watch. Eric Schmidt, presidente del consiglio di amministrazione di Google, in un intervento alla conferenza FT Innovate a New York, ha confermato che i Glass saranno commercializzati “quando pronti”. Resta quindi disponibile la versione Explorer (per sviluppatori), che è attualmente proposta in USA e Gran Bretagna a 1500 dollari.

Anche se l’impressione è che Google non voglia abbandonarli, le incognite relative ad alcuni aspetti legali e sociali stanno forse contribuendo in maniera decisiva a rallentare l’approdo dei Google Glass sul mercato. Negli USA si sono registrati diversi episodi di insofferenza verso chi indossava gli occhiali. Alcune attività commerciali (tra cui diverse catene cinematografiche) ne hanno già vietato l’utilizzo. Anche nei ristoranti l’accoglienza non è stata delle migliori. A Seattle un ingegnere informatico è stato messo alla porta in un pub mentre fotografava i piatti con gli occhiali, per ragioni di privacy. Non va meglio a chi ha provato a utilizzarli alla guida: multe e proposte di legge per vietarli sono arrivate in California e Illinois.
La natura stessa dei Google Glass, che di fatto sono il primo esperimento di “wearable device”, lascia quindi aperti parecchi interrogativi sul futuro di questo dispositivo, con una regolamentazione ancora tutta da immaginare. I punti a favore, però, non mancano. Le possibilità offerte dagli occhiali di Google in diversi settori li rendono uno strumento che, seppur acerbo nella versione attuale, può risultare utile e innovativo in diversi campi: dalla medicina all’industria, dalla comunicazione al giornalismo. Proprio nel giornalismo la sperimentazione ha portato negli Stati Uniti alla nascita di un corso di Glass Journalism. A idearlo è stato Robert Hernandez, giornalista pioniere del web, professore associato alla USC Annenberg School for Communication and Journalism, l’università della California del sud. Hernandez è stato direttore dello sviluppo del Seattle Times, dove si è occupato anche della creazione di strumenti e applicazioni per la fruizione del giornalismo da parte dei lettori. Con la sua classe, in pratica, sta studiando nuovi linguaggi di comunicazione giornalistica attraverso quegli strumenti tecnologici indossabili.

Ma i ragazzi del corso (oltre ai giornalisti ci sono anche sviluppatori, designer, hacker e giovani imprenditori) fanno anche altro. Studiano, in una sorta di brain storming permanente, nuovi modelli di business per chi produce informazione. I primi risultati hanno portato al rilascio di una glassware (così si chiamano le app per i Google Glass) che include un feed di notizie dei principali quotidiani americani ottimizzato per lo schermo dei Google Glass. C’è anche un motore di ricerca audio, che intercetta le parole dette in una conversazione e restituisce informazioni di attualità sull’argomento.

Gli smartwatch e gli smartglasses, con l’avvento di giganti come Google e Apple, saranno gli smartphone di domani. E chi oggi fabbrica notizie sta già pensando a come costruirle con nuovi linguaggi e veicolarle attraverso queste piattaforme. Il corso di Hernandez cerca di immaginare l’idea che fra tre o cinque anni giornalisti, editori e lettori avranno dell’informazione. Lo abbiamo intervistato per capire se la “wearable technology” cambierà il modo di produrre le notizie e quello degli utenti di riceverle.

Come sta andando il corso e come è nata quest’idea di portare i Google Glass in un’aula universitaria?
“Procede bene. La cosa che mi piace è che è una classe eterogenea, non ci sono soltanto giornalisti. Questo complica un po’ le cose nell’organizzazione, ma è anche molto stimolante. Le nostre diversità si fondono e diventano la forza del gruppo. L’idea mi è venuta dopo aver partecipato a un contest e aver vinto un paio di Google Glass. Ho cominciato a parlare con altre persone, sviluppatori e giornalisti, e ho capito che approfondire sarebbe stato utile. Non c’è un programma specifico, ci sono linee guida da seguire, ma i ragazzi sono collaborativi e lavoriamo bene insieme”.

Che cosa fate nello specifico?
“I ragazzi sono tutti intorno a un tavolo. Procediamo come in un team. Nessuno dice all’altro quello che deve fare. Cerchiamo di pensare insieme quello che il giornalismo potrà essere fra qualche tempo grazie allo sviluppo delle tecnologie indossabili”.

A che tipo di progetti lavorate?
“Ne stiamo seguendo due. Ci concentriamo sulla creazione di contenuti con i Google Glass, ma anche sulla fruizione di questi contenuti attraverso gli occhiali. Pensiamo al giornalista, ma anche all’utente che s’informa”.

Che tipo di contenuti giornalistici si possono immaginare sul piccolo schermo dei Google Glass?
“Ci è sembrato subito chiaro che non si potranno portare i titoli delle news o i video del New York Times o del Guardian su quel piccolo schermo. Va ripensato il linguaggio e la fruizione della notizia. I Google Glass sono adatti a visualizzare delle micro storie, magari costruite con un linguaggio specifico. Possono essere uno strumento utile anche per le breaking news, a patto che i giornalisti pensino, in fase di realizzazione della notizia, al supporto con il quale l’utente le riceverà”.

Possono essere immaginati come uno strumento di passaggio tra la ricezione dell’informazione e il suo approfondimento?
“Credo proprio di sì. Insomma ricevere una notizia sullo schermo dei propri occhiali è la cosa più immediata che ci sia. Poi ognuno di noi potrà decidere se approfondire ciò che ha letto o ascoltato. Magari tirando fuori dalla tasca il proprio smartphone. Sarà compito di chi produce informazioni rendere interessanti quelle poche righe per portare chi riceve la notizia fino al suo approfondimento”.

Attualmente è più difficile realizzare applicazioni per produrre giornalismo con i Glass o per ricevere notizie?
“Noi pensiamo a sviluppare entrambe. Certo, in questo momento la seconda categoria ha un pubblico più ampio. Ci sono pochi giornalisti che utilizzano i Google Glass per il proprio lavoro. In generale il successo di questa piattaforma, per ora, è relegata ad un 10% di chi utilizza gli occhiali. Gli altri sono giornalisti, geek, appassionati e non ti danno una reale sensazione di come strumenti come i Google Glass vengono percepiti dalla gente comune”.

Qual è la qualità più importante degli smartglasses attuali come supporto per chi fa giornalismo?
“Attualmente i vantaggi sono relativi alla narrazione di un fatto e al linguaggio. Nessuno strumento ti consente un punto di vista così personale come una telecamera e un microfono su un paio di occhiali. Anche nell’utilizzo la possibilità di scattare foto e registrare video senza utilizzare le mani è utile per chi produce contenuti giornalistici. Ci si concentra sul momento da cogliere, sulla storia da raccontare. Questo in certe situazioni è un privilegio”.

In Italia il direttore della Stampa, Mario Calabresi, ha intervistato il primo ministro Renzi con i Google Glass. Come valuta strumenti simili nella realizzazione di interviste?
“Credo siano un buon supporto per le interviste. La possibilità di ricevere in diretta domande da porre all’intervistato o il mostrare ciò che osserva mentre risponde sono elementi che innovano il modo di realizzare un’intervista. L’evoluzione di questi occhiali smart con telecamere migliori e microfoni sempre più precisi apriranno tantissime nuove possibilità per i giornalisti”.

Quando sentiremo parlare di “Glass Journalism” con più frequenza?
“E’ difficile da dire. Io stesso pensavo che i Google Glass potessero arrivare sul volto di molti americani già in questi mesi. Ma le esigenze del mercato e qualche ritardo da parte di Google hanno cambiato le cose. Oggi negli Stati Uniti non tutti hanno una visione positiva di questi strumenti. Molti li considerano gadgets per ricchi o peggio occhiali per spiare le persone. Invertire questo trend non sarà facile. Gli smartglasses sono una categoria di prodotto del tutto nuova. Questo è un elemento che chiaramente ne penalizza la diffusione. Però l’accordo di Google con Luxottica per la produzione di modelli più commerciali è una giusta intuizione. Ci vorrà del tempo, credo tra i tre e i cinque anni. Se diventeranno uno strumento diffuso come i telefoni o i tablet, sono pronto a scommettere che saranno fondamentali anche per il futuro del giornalismo”.

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Government, venture capital and the growth of European

Using a new European Union-sponsored firm-level longitudinal dataset, we assess the impact of government-managed (GVC) and independent venture capital (IVC) funds on the sales and employee growth of European high-tech entrepreneurial firms. Our results show that the main statistically robust and economically relevant positive effect is exerted by IVC investors on firm sales growth. Conversely, the impact of GVC alone appears to be negligible. We also find a positive and statistically significant impact of syndicated investments by both types of investors on firm sales growth, but only when led by IVC investors. Our results remain stable after controlling for endogeneity, survivorship bias, reverse causality, anticipation effects, legal and institutional differences across countries and over time and are stable with respect to potential non-linear patterns in the growth dynamics of entrepreneurial firms. Overall, our analysis casts doubt on the ability of governments to support high-tech entrepreneurial firms through a direct and active involvement in VC markets

Government, venture capital and the growth of European high-tech entrepreneurial firms

 




Ricerca, innovazione e competitività in Italia

Dire che l’economia italiana non è competitiva perché facciamo poca ricerca e innovazione è ormai diventato un luogo comune. Come dire che non c’è più la mezza stagione.

I luoghi comuni sono pericolosi. Mettono d’accordo tutti facilmente, ma spesso alimentano opinioni fuorvianti, basate su piccoli e grandi equivoci. Nel nostro paese, oggi, prevale l’opinione che i nemici dell’innovazione e della competitività siano la scarsità di risorse pubbliche e l’incertezza.

Le statistiche internazionali sulla ricerca e l’innovazione, praticamente da sempre, raffigurano l’Italia come fanalino di coda dei paesi avanzati (vedi per esempio l’ultimo “Science, Technology and Industry Outlook” dell’OCSE pubblicato a metà novembre). Spendiamo poco in ricerca e la nostra economia impiega poco capitale umano.

Si pensa subito alle risorse pubbliche per la ricerca che scarseggiano sempre di più a causa dell’austerity. A molti brillanti ricercatori italiani che sono costretti ad andarsene all’estero a causa dell’incertezza sul futuro lavorativo. E questo spinge a puntare il dito contro i tagli al bilancio pubblico e la precarizzazione dei rapporti di lavoro. Ma fa dimenticare altre importanti criticità.

Spesso si dimentica che la capacità innovativa e la competitività del tessuto produttivo non sono un semplice by-product dei risultati della ricerca. Il trasferimento della ricerca “dall’accademia all’industria” non è un fatto scontato e indolore. È un cammino a sé, complesso e difficile. Non esiste una ricetta in grado di assicurare il successo di un progetto imprenditoriale innovativo. Anche se nasce da risultati brillanti e di acclarato valore scientifico.

L’innovazione imprenditoriale è un processo che non può prescindere dalla selezione del mercato. Una idea innovativa non si trasformerà mai in un progetto d’impresa e poi, eventualmente, in una azienda di successo, se manca qualcuno che ha la passione e il coraggio di assumerne il rischio imprenditoriale, e se manca chi ha le capacità di assumerne il rischio finanziario.

In poche parole, non nascono imprese innovative e non si genera vera innovazione – quella dirompente, intendo, quella che crea discontinuità – se non c’è nessuno disposto a sobbarcarsi il rischio di fallire, professionalmente e finanziariamente.

La selezione delle start-up innovative è un processo crudele. Nel gergo imprenditoriale, la fase che separa l’avvio della start-up dalla sua stabile affermazione sul mercato viene chiamata “la valle della morte” – la metafora dovrebbe essere sufficiente a rendere l’idea.

Una start-up innovativa è un progetto ad elevatissimo rischio di fallimento. Un rischio molto più elevato di un normale progetto di impresa. Le banche di credito ordinario non finanziano la creazione di imprese innovative. Inutile illudersi sull’efficacia della stampa indiscriminata di moneta. Generalmente se ne occupano fondi specializzati di private equity e di venture capital. E gli investimenti di questi fondi si configurano a tutti gli effetti come vere e proprie operazioni speculative.

Sarà pure paradossale, ma un fondo di venture capital si comporta quasi come un giocatore di azzardo. Gioca in perdita nella speranza che ogni tanto gli capiti una grossa vincita in grado di ripagargli tutto.

La probabilità di successo delle start-up innovative è bassa, e la variabilità dei rendimenti elevata. E ciò anche se la selezione dei progetti è molto rigida e basata sulle qualità e le reali potenzialità dell’iniziativa imprenditoriale. Perciò il venture capitalist riuscirà a “pescare” la gallina dalle uova d’oro solo a fronte di un altissimo numero di progetti falliti o con rendimenti appena sufficienti.

Quella “gallina dalle uova d’oro”, per i benpensanti del politicamente corretto, è solo un guadagno speculativo. In realtà, tuttavia, andrebbe vista come un guadagno per l’intera economia, in termini di innovazione e competitività.

In un certo senso è un po’ il contrario di quello che voleva dire Keynes, quando affermava che “lo sviluppo del capitale di un paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò da gioco”. Il famoso economista sottolineava questo fatto in modo negativo, come a voler deprecare un aspetto dannoso dell’economia di mercato. Noi potremmo quasi parafrasarlo dicendo che “lo sviluppo dell’innovazione è il co-prodotto delle attività di un casinò da gioco”. Ma per sottolineare questo fatto in modo positivo, e non negativo.

I fondi pubblici per il finanziamento delle start-up innovative, a volte copiati dal modello del venture capital privato, non hanno mai dato risultati soddisfacenti o comunque comparabili con quelli dei fondi privati. Il venture capital di stato non funziona: una ricerca recente del Politecnico di Milano, “Government, Venture Capital and the Growth of European High-Tech Entrepreneurial Firms”, evidenzia questo punto in modo efficace.

Un fondo alimentato con risorse pubbliche, generalmente non gestito con l’obiettivo di fare profitto e che potenzialmente ammette anche la gestione in perdita, ha solo un obbligo formale ma nessun incentivo a selezionare i progetti in funzione del potenziale valore e delle possibilità di riuscita. Anche qui, è inutile farsi illusioni.

Un fondo pubblico per l’innovazione non seleziona le proposte come farebbe un fondo privato. Avrà sempre la tentazione di erogare denaro in favore di una determinata iniziativa perché è stata segnalata dall’amico politico. Molti fondi pubblici, nati per finanziare l’innovazione, finiscono per trasformarsi in strumenti per l’acquisizione di consenso elettorale. E il denaro pubblico finisce per finanziare i progetti degli amici.

Se si tiene a mente tutto questo, la mancanza di innovazione e competitività in Italia assume connotati un po’ diversi. Non è più (solo) un problema di scarse risorse pubbliche e di troppa incertezza. Perché sarà pur vero che la ricerca, quella di base soprattutto, ha bisogno di risorse pubbliche e di stabilità. Ma è altrettanto vero che per arrivare alla competitività si deve passare per l’innovazione. E, come abbiamo visto, l’innovazione ha bisogno di capitali privati, ed è sorella dell’attitudine al rischio e della speculazione, non della certezza e della tranquillità.

L’impalcatura dell’innovazione e della competitività, perciò, si regge su più pilastri. L’investimento pubblico in ricerca è importante, ma è soltanto uno dei pilastri. Non si può fare a meno dell’altro, rappresentato dal crudele processo di selezione delle innovazioni da parte del mercato.

La via maestra per tramutare la ricerca scientifica in innovazioni, poterle valorizzare economicamente e conseguire risultati utili anche in termini di competitività e occupazione è accettare il rischio della selezione sul mercato, e soprattutto dare la possibilità di assumere il rischio imprenditoriale e professionale a chi è disposto a farlo.

E invece, oggi, in Italia, chi è disposto ad assumere un rischio imprenditoriale e professionale non solo non è incentivato, ma è addirittura penalizzato dalle norme fiscali e da quelle sul lavoro. La capacità e la disponibilità ad assumersi il rischio non è vista come una cosa positiva, da valorizzare e da premiare. È vista, anzi, come il tentativo furbesco di aggirare le regole, di evadere il fisco, di bypassare le norme sul lavoro. Di sfruttare il lavoro dipendente.

In questo senso, è emblematica proprio la storia di Steve Jobs e Steve Wozniak, che crearono la loro start-up, la Apple, dentro un garage. Oggi, in Italia, questo sarebbe impossibile perché violerebbe chissà quante norme, gius-lavoristiche, amministrative, fiscali, sanitarie, e chi più ne ha più ne metta.

Mettiamo che sia possibile aumentare quanto vogliamo la spesa pubblica per la ricerca e formare tutti i cervelli che vogliamo nelle nostre università. Anche i migliori al mondo, in possesso di idee brillanti e ottimi risultati di ricerca.

Tuttavia, se la possibilità di fare innovazione imprenditoriale rimarrà preclusa, gran parte di loro potrà solo scegliere tra l’essere mortificato, accontentarsi di impieghi non all’altezza delle proprie aspettative e delle proprie potenzialità, oppure fuggire all’estero per provare a realizzare la propria idea o lavorare a fianco di chi l’ha potuta realizzare.

Quello di cui parliamo non ė soltanto un modo diverso di vedere l’economia. È in discussione il modo stesso di vedere la società e il contributo che gli individui potrebbero dare per migliorarla, se venisse, finalmente, restituita loro la libera iniziativa.

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Verso il Forum Corviale 2015

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 Giovedì 4 dicembre CESV via Liberiana 17 ore 9.30-18

Dalle linee guida ATER al concorso internazionale RIGENERARE CORVIALE

Senza legalità e sicurezza non si fa rigenerazione urbana.

Dal secchio della spazzatura al lavoro.

Reti consapevoli e infrastrutture al servizio delle comunità.

Centralità del patrimonio culturale per la coesione e l’integrazione sociale nelle periferie urbane.

Una giornata di confronto tra buone pratiche e realtà sociali per una progettazione partecipata per “comprendere e rispettare il passato, proporre il futuro”.

Comprendere i valori del passato, proporre le soluzioni per il futuroProsegue il cantiere di lavoro e il confronto sulle linee guida per il concorso internazionale di progettazione per la rigenerazione urbana del Quadrante Corviale promosso dall’ATER .

Giovedì 4 dicembre CESV
via Liberiana 17 ore 9.30-18

Dalle linee guida
“La rigenerazione rappresenta il punto di partenza per recuperare in termini attuali il carattere di avanguardia che lo ha caratterizzato… Il percorso di partecipazione deve essere previsto in tutte le fasi dalla stesura delle linee guida fino alla realizzazione del progetto per stralci funzionali secondo la metodologia del cantiere evento” (dalle linee guida per il concorso internazionale).

Introduzione
Lo sblocco dei fondi per “Rigenerare Corviale” e lo stanziamento di 517.000 euro per il concorso internazionale – presentato ad ottobre dal presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti – fanno voltare pagina alla lunga vertenza iniziata nel 2008 con il silenzio della giunta Alemanno e la complicità della giunta regionale Polverini-Buontempo, che volevano demolire il Palazzo Ater noto come il Kilometro.
Guardando caparbiamente l’orizzonte abbiamo avviato inchieste, mappato il territorio, connesso relazioni, promosso lotte, incontri, manifestazioni ed eventi, che la comunità di Corviale ha “messo in bella”, trasformando il “profit, no-profit, volontariato, istituzioni”, che il territorio aveva autogenerato, in un progetto concreto di rigenerazione urbana.

Il frutto dei “lavori in corso” perseguito nel corso degli anni è patrimonio condiviso da parte di tutti i partner che hanno sottoscritto l’Atto di Intesa (allegato), arricchito dalla cooperazione, spesso volontaria, di coloro che hanno animato e sostenuto il progetto e consentito ad esso di arrivare fino a questo punto.
Un patrimonio che va allargato e arricchito con un processo di partecipazione di buone pratiche, non solo nella stesura del bando del concorso internazionale che Ater promulgherà entro i primi mesi del 2015, ma in tutte le fasi del processo di rigenerazione, per presentarlo all’Expò 2015 di Milano.
Il bando di progettazione, che si offrirà allo scenario internazionale, si baserà sulle “linee guida” che Ater ha predisposte e su cui ha attivato la condivisione nel il Tavolo di Concertazione Istituzionale promosso e coordinato dal Ministero Beni e Attività Culturali e del Turismo.

L’iniziativa del 4 dicembre presso la sede del Cesv, con i “tavoli di lavoro” sugli specifici temi che caratterizzano la multidisciplinarietà del progetto, ha l’obiettivo di allargare e far vivere la progettazione partecipata nella concretezza delle future attuazioni, valore aggiunto negli indirizzi della U.E, per un “Corviale 2020 intelligente inclusivo sostenibile”, su cui stiamo lavorando a partire dai Forum del 2012 e 2013.

I partecipanti ai tavoli di lavoro delle “Miniere” dovranno raccordarsi alle “linee guida” Ater per delineare il contributo da apportare alla efficacia del progetto, frutto di esperienze personali o collettive, per connettere il più possibile i contenuti del concorso internazionale ai fabbisogni condivisi.
Per ulteriori approfondimenti sulle “linee guida”, visitare il sito www.aterroma.it o www.corviale.com in cui è riportato il contributo della comunità di Corviale.

PROGRAMMA DELLA GIORNATA DEL 4 DICEMBRE 2014

Mattina
Tavolo lavoro 1 sala 1
Ore 9.30 – 13.30

La Miniera della Qualità della Vita
“Senza legalità e sicurezza non si fa rigenerazione urbana”.

Dalle linee guida:
“Recuperare la vivibilità e la sicurezza spazi esterni ed interni è un dovere civile per non lasciare al degrado una eredità di creatività urbana, di qualità architettonica e infine una testimonianza di coraggio e di grande impegno costruttivo”

Interventi di prevenzione, rispetto delle regole, animazione e controllo sociale sono le condizioni per una rigenerazione consapevole e condivisa, sia da parte delle Istruzioni che della Comunità che vive all’interno, per il Palazzo ATER e per il territorio. Rigenerazione dell’edificio e del suo intorno vuol dire:
– interventi capaci di amplificare positivamente il potenziale di Comunità attraverso spazi adeguati a favorire relazioni sociali e a funzioni tradizionali (mercati, servizi di assistenza vari agli anziani, ai bambini, alle famiglie etc.);
– il potenziamento dell’offerta culturale, delle attività di animazione esistenti, per attività imprenditoriali di economia civile (esempi: concessioni di spazi per studi artista, piccoli artigiani, start-up per innovazioni tecnologiche, cooperative e imprese sociali, a servizi innovativi e formativi …);
– politiche attive sul lavoro, con particolare attenzione alle categorie svantaggiate e al disagio sociale. Il riferimento è in particolare al lavoro che presidia edificio e territorio, producendo identità e senso di appartenenza al vivere in comune (vedi appalti in autogestione di servizi, del ciclo dei rifiuti…);
– riorganizzazione ambientale e paesistica degli spazi verdi, dei percorsi e delle aree attrezzate esistenti intorno all’edificio stesso.

Coordinano:
Daniel Modigliani (ATER), Francesca Danese (CESV), Pino Galeota (Corviale Domani)
Report Alessandra Fraddosio (Magliana Solidale)
Partecipano:
Carla Bartolucci (CNCA), Fiammetta Mignella Calvosa (LUMSA) Luciano Castaldi (Regione Lazio), Roberto Crea (Cittadinanza attiva), Sergio Giovagnoli (Arci Solidarietà),) Giorgio Mirabelli (Amate l’Architettura), Bruno Monardo (la Sapienza), Gianni Palumbo (Forum Terzo Settore), Stefano Regio (Il cammino), Guendalina Salimei (architetto), Massimo Vallati (CalcioSociale), Maurizio Zucconi (Federculture), Miani Mimma (Municipio XI)Angelo Scamponi (CIC), Elio Bovati (Com. Arvalia), Marcello Paolozza, Alessandro Giangrande ( Roma Tre), Latella Roberto (Formazione sociale), Masimo Taddia (Social street), Paola&Daniele (ARCI Corviale), Paolo Gelsomini (Carte in Regola) , Paola Rossi ( architetto) Martini Mauro (architetto)

Tavolo di lavoro 2 sala 2

La Miniera dell’Ambiente e dell’Economia Verde
Ore 9.30 – 11.30

Dal “secchio della spazzatura al lavoro”.

Dalle linee guida:
“Corviale per la sua estensione e densità abitativa consente di sperimentare soluzioni spaziali e gestionali innovative per pratica la raccolta differenzia dei rifiuti (…) la previsione di attività di animazione sociale, artigianali e commerciali al servizio del quartiere al fine di recuperare quell’effetto città che a Corviale è sempre mancato, ma che il progetto originario prevedeva nel piano libero.”
– Rigenerazione delle reti impiantistiche finalizzate al riuso-riciclo-recupero locale e diretto.
– Rigenerazione delle coperture attraverso la creazione di orti, serre idroponiche fotovoltaiche, community gardens e mini labs e fablabs.
– Formazione per la consapevolezza della Comunità sull’importanza e sulle opportunità legate al nuovo modello dell’abitare.
– L’interazione con il sistema formativo, sia per la conoscenza che per le opportunità relative a sbocchi lavorativi per nuove figure professionali.
– Realizzare Centri di riparazione e riuso di beni e prodotti eccedenti non pericolosi, che avvii una filiera di recupero nel territorio di oggetti “ingombranti” e di comune uso personale, domestico e dell’abitare in grado di essere scambiati o riparati per essere re-immessi nel circuito del consumo privato.

Ore 11.45- 13.45

Coltiviamo insieme Corviale

Dalle linee guida:
“È necessario, inoltre, potenziare le connessioni con le attività produttive e gli spazi nelle aree agricole circostanti, come individuate dal piano di assetto delle Riserve Naturali di Roma Natura, e con le aree di verde pubblico interne ed esterne all’ambito stesso.”
– Valorizzare aree agricole e spazi naturali in una prospettiva multifunzionale integrata volta a sviluppare potenzialità inscritte nei parchi agricolo-naturalistici (Parchi Roma Natura Tenuta dei Massimi e Valle dei Casali), che delimitano il quadrante Corviale attraverso presidi agro-ambientali, prodotti a Km 0, mercati del contadino, agriturismi, agriasili, centri educazione ambientale, ecc.
– Favorire una politica e cultura della sana alimentazione, incentivare e promuovere artigianato alimentare e prodotti tipici. I Centri, luoghi di lavoro e cooperanti sui temi dell’educazione ambientale e alimentare (lotta agli sprechi e alla povertà crescente, all’obesità, agli acquisti compulsivi, cucina degli avanzf ecc.) connessi con attività di formazione, ludiche e culturali aperte a tutta la popolazione tesi ad avviare nuovi stili di vita.
– Importante ruolo del sistema scolastico per intervenire sull’intera filiera della Comunità.

Per entrambi i tavoli di lavoro, adottare strategie rivolte all’inclusione sociale e lavorativa per le categorie svantaggiate.

Coordinano:
Claudio Rosi (ATER) Maurizio Gubbiotti (Roma Natura) Eugenio De Crescenzo (AGCI) Alfonso Pascale (Reti Fattorie Sociali)
Report Rossella Ongaretto (Roma Natura)
Partecipano:
Giorgio Boldini (Verde pensile), Marotta Maurizio (Capodarco), Massimo Piras (Zero Waste) Andrea Ferraretto (Ass.to Ambiente) Lucilla Brignola (Amate l’architettura), Marco Fratoddi (Nuova Ecologia), Massimo Leone (ifoRD), Francesco Montillo ( la Sapienza), Teresa Bernardini (CD) , Adriano Zaccagnini (Camera dei Deputati), Antonio Alliva (3D Italy), Marina Galati (Cooperativa Ciarrapani), Roberto Leonardi (Consorzio Sociale)), Stefano Panunzi (Unimol), Augusto Pascucci (UNIAT), Gianni Russo (Keplero), Antonio Iannelli e Angelo Alesi (Corviale Domani) Vittorio Lovera (ATTAC Italia), Adolfo Riviello ( AMICA), Alessio Di Giacomo ( Imprenditore), Paolo Menichetti (Territorio Roma)

Pomeriggio

Tavolo lavoro 3

Ore 14.45-18.00 sala 1

La Miniera del Patrimonio Culturale.

Da “Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo e al Comitato delle Regioni. Verso un approccio integrato al patrimonio culturale per l’Europa. 22.7.2014″

Nei nuovi indirizzi della U.E. 2020 il patrimonio culturale, da intendersi come bene relazionale, assume un approccio integrato che permea la dimensione culturale, fisica, digitale, ambientale, umana e sociale, apportando un contributo alla crescita economica e alla coesione sociale.
Risposte ad uno stato sociale del ben-essere con positivi riscontri nelle persone, anche in condizioni di disabilità e di disagio sociale.
Il patrimonio culturale oltre che costituire un punto di riferimento imprescindibile per la storia del territorio offre opportunità e potenzialità capacità per incentivare l’integrazione sociale attraverso la condivisione di attività ludiche, ricreative, sportive, relazionali che contribuiscono alla riqualificazione di zone degradate, alla creazione di posti di lavoro radicati nei territori e la promozione di un’ idea condivisa e del senso di appartenenza ad una comunità.
L’offerta culturale deve essere sempre più parte integrante del territorio ( centri culturali, sportivi, del tempo libero…) e della comunità locale, dato che le strutture e i siti producono e distribuiscono capitale sociale e ambientale.
Possono dare riposte occupazionali diffuse, diventando motori dell’attività economica, centri di conoscenza, di ereatività, di interazione e integrazione della Comunità territoriale.
Generano innovazione e contribuiscono ad una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva in linea con gli obiettivi della strategia U.E. 2020.
E’ anche questo il tema da approfondire per valutare le ulteriori indicazioni che usciranno dalla Commissione europea a breve e che dovranno trovare, attraverso una mirata verifica di congmità, l’inserimento nelle linee guida per il concorso internazionale.

Coordinano:
Maria Grazia Bellisario (MIBACT), Claudio Bocci (Federculture), Umberto Croppi
Rapporteur Silvia D’Amico (Federculture)

Partecipano:
Antonio Trimarco (Biblioteche Roma), Concetta Di Spigno (Keplero), Simona Elmo (Fondazione IFEL), Roberto Ferrari (economista cultura), Pietro lacobone (CSV Matera ), Daniela Vaccher (Il Tempo Ritrovato), Monica Melani (Il Mitreo), Pino Galeota (Corviale Domani), Claudio Butera (Arvalia Nuoto) , Claudio Lombardi (Carte in Regola), ThemArt, Martini Stefano (Fedim), Tonino Tosto (Upter) Francesco Nucci ( Volume!)

Tavolo di lavoro 4

Ore 14.45-18 sala 2

La Miniera di infrastrutture e reti consapevoli.

Dalle linee guida:
Corviale non essendo un edificio ma una parte della città costituisce per la sua forma, la sua estensione e la densità abitativa un modello di sperimentazione di Smart Building

– Il Corviale come HUB di produzione e riproduzione, condensatore sociale, energetico, formativo e di comunicazione teso a favorire una migliore qualità del vivere in comunità.
– Il progetto di rigenerazione per essere efficace e duraturo deve essere soprattutto infiastrutturale e sistemieo a tutte le scale dimensionali. Dall’edificio, alle strutture esterne, al territorio, le infrastrutture devono corrispondere a reti, materiali e immateriali,
– consapevoli. Tutte le proposte, i progetti, le indicazioni e le future attività in campo economico, sociale, culturale e ambientale, nonché quelle relative all’ accessibilità urbana, devono tendere all’aumento del presidio e della sicurezza degli spazi aperti, delle reti e dei nodi, favorendo il movimento quotidiano dei cittadini con conseguente riduzione del traffico veicolare a favore del potenziamento del trasporto pubblico. L’obiettivo è di ridurre costi e consumi, aumentare il benessere, il confort e l’uso delle opportunità offerte da ogni tipo di rete sistemica nelle abitazioni, nelle attività sociali e produttive. –
– Rendere agevole gli spostamenti per l’accesso ai servizi adottando nuove tecnologie di comunicazione (leggi: servizi anagrafici, atti amministrativi, rilascio certificati ma anche visite mediche, biglietti per spettacoli, mostre, iscrizioni scolastiche).

Coordinano:
Lucina Caravaggi (Sapienza), e Stefano Panunzi (Unimol),
Report Costantino Carluccio (Unimol)

Partecipano:
Alessandro Fuschiotto (Agenzia Mobilità), Michele Lavizzari Alessandro Giangrande (Carte in Regola), Cristina Imbroglini (Sapienza), Francesco Pazienti ( Piattaforma Testaccio) Francesco Tupone ( Linus ) Alessandro Reali ( Undici Radio) Anna Lei ( Sapienza) Rodolfo Grimani (Rotetecnology), Federico Coppola (Expò 2015), Antonello Fratoddi (MediterRAId), Stefano Medori ( esperto reti)

Tavolo di lavoro 5 Saletta

Ore 14.30- 17.30

Le periferie. La partecipazione, il racconto, la comunicazione. Un nuovo mainstream?

Raccontare e far raccontare a chi le vive le periferie è un modo per ritrovare una nuova centralità delle persone che vivono e abitano le nostre città nel mainstream comunieativo. Corviale è una esperienza di frontiera che ha già sperimentato numerose forme di partecipazione e comunicazione che hanno la necessità di trovare nuove sintesi e nuovi percorsi per colonizzare gli altri spazi della città e degli immaginari contemporanei.

Coordinano:
Andrea Volterrani (Tor Vergata) e Tommaso Capezzone ( blogger )
Partecipano:
Anna Maria Bianchi (Carte in Regola) Salvatore De Mola (sceneggiatore) Giuseppe Manzo (Legacoopsociali) Gaia Peruzzi (Sapienza) Paola Springhetti (CESV), Federico Valerio (Undici radio), Alice Valle (social media blogger), Sandro Zioni (Informat srl), Elisa Longo (“Giornale Le periferie”), Ivan Selloni ( Corviale.com), Aldo Feroci (Fotografo)

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Terza edizione del rapporto ICity Rate

smart city

Fotografare la situazione delle città capoluogo italiane nel percorso verso città più intelligenti, ovvero più vicine ai bisogni dei cittadini, più inclusive, più vivibili. Il Rapporto è a disposizione di tutti coloro che a diverso titolo (amministratori, imprese, cittadini, associazioni) sono interessati a migliorare la qualità dei nostri insediamenti territoriali

Per realizzare “La classifica delle città intelligenti italiane”, ICity Lab individua e analizza diverse dimensioni urbane e, per ognuna di queste, un certo numero di variabili e di indicatori. I valori ottenuti dall’esame delle variabili/indicatori sulla base delle fonti esistenti, vengono poi trasformati e aggregati in un unico valore di sintesi che consente di stilare un indice finale (ICity index), in base al quale è definita “la classifica annuale delle città intelligenti italiane” (articolabile nelle componenti standard e smart) .

Gli indicatori: (circa 70) utili a descrivere il sistema delle città capoluogo italiane sono suddivisi  in  sei dimensioni: economia, ambiente, mobilità, governo, qualità della vita e capitale sociale,  seguendo uno schema ormai consolidato nelle analisi internazionali delle smart cities.

I risultati:  sono le città metropolitane del Centro-Nord a risultare le più avanzate: Milano con 623 punti è prima e guadagna due posizioni rispetto al 2013; seconda si riconferma Bologna (610 punti), e al terzo posto si colloca Firenze (558 punti), guadagnando quattro posizioni. In forte crescita anche Venezia, che passa dal 10° al 6° posto e Roma che guadagna 11 posizioni, dal 23° al 12°.

Rispetto al 2013 risulta ancora più evidente il divario tra le città del Nord e quelle di Sud e Isole. La migliore tra le realtà del Mezzogiorno è Cagliari, che si ferma al 60° posto. Seguono Pescara al 62° e L’Aquila al 64°, che insieme a Bari e Sassari costituiscono la fascia più avanzata del Mezzogiorno.

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ICityrate_2014




Alla luce di Expo

serra

Luce, cibo, piantagioni. Iniziamo controllando le serre via Arduino. Un modo di avvicinarci da maker alla mondiale kermesse milanese.

Ai più sembrerà un’originale lavatrice, retroilluminata e pilotabile dal telefonino. Durante Expo 2015, a Milano da maggio a ottobre, saranno in tanti a vederla, piazzata all’interno di cinque stazioni della metropolitana.

In realtà è una specie di serra, o meglio di Micro Experimental Growing, in sintesi MEG, che non vuole essere solamente un prodotto tecnologico interessante e di fascino stilistico, ma soprattutto si presenta come un progetto di conoscenza distribuita.

Grazie all’onnipresente scheda di controllo Arduino, MEG permette di impostare e monitorare tutti i parametri essenziali per la crescita sana e forte di pianticelle inserite nel suo contenitore e, soprattutto, di condividere in rete l’esperienza.

Tramite un’app di controllo remoto è possibile verificare e controllare al meglio tutti i parametri vitali, come la ventilazione, la temperatura, l’irrigazione, l’acidità o la basicità della terra e la migliore illuminazione per ogni specie di pianta inserita, realizzata con un sofisticato sistema di controllo a LED colorati.
CONTROLLO DI SERRA VIA CELLULARE.

Il sistema è indubbiamente meglio ingegnerizzato rispetto ai diversi prototipi più o meno fantasiosi che i maker hanno prodotto in questi anni, come i progetti Garduino, Arduino Grow Room Controller, Plant Box,
il casalingo progetto di un appassionato o i primi tentativi in questo settore iniziati da almeno tre anni.

Il progetto MEG ha cercato di sottolineare fin dall’inizio la sua duplice natura, parte attrezzatura e parte comunità in rete, come recita anche la presentazione nel primo tentativo di finanziamento tramite Kickstarter, peraltro fallito.

Un fallimento che sarebbe interessante approfondire, in contrasto con la nuova presentazione rilanciata sulla piattaforma Eppela che invece sembra avere maggiore successo.

Sicuramente ha giocato un ruolo positivo il concorso Hack The Expo, che lo ha visto vincitore a pari merito con Floome, un etilometro per smartphone, e gli occhiali del progetto Uptitude creati riciclando le tavole da snowboard.

Sono comunque tutti esperimenti di integrazione di nuove tecnologie con l’ambiente e soprattutto con il rapporto che abbiamo con esse. Carlo D’Alesio e Piero Santoro, i creatori del progetto MEG, hanno citato in più di un’occasione il rapporto tra luce e cultura:

…la parola luce in combinazione con la cultura implica anche l’utilizzo dello stato dell’arte della tecnologia, in attesa di un nuovo modo di pensare sistemi integrati, in cui la luce e le superfici siano permeate insieme.

Qui si tratta di incastonare realtà biologiche con sistemi di controllo tecnologici, sotto lo sguardo di una comunità di appassionati che possono interagire. La creatività dei maker penetra ovunque, perfino in Expo.

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La rivoluzione industriale e il “futuro a costo 0”

rifkinda L’Espresso:

Ognuno di noi diventerà sempre di più “prosumer”, cioè produttore e consumatore di energia, informazioni e persino oggetti. Grazie a una Rete sempre più diffusa che ci permetterà di condividere tutto. Una trasformazione già in corso che potrà riportare il benessere in Italia e in Europa. Il grande economista spiega la sua formula.

Lo scorso 9 luglio il primo ministro italiano Matteo Renzi ha inaugurato il semestre di presidenza italiana del Consiglio europeo, invocando un nuovo, coraggioso piano per la creazione di “un’Europa digitale”. Il premier Renzi e Neelie Kroes, vicepresidente della Commissione e commissario Ue per l’agenda digitale, hanno promosso una conferenza che ha visto riunirsi a Venezia numerosi leader d’impresa italiani ed europei, e che è sfociata nella “Dichiarazione di Venezia”, un documento per traghettare l’Italia e l’Unione nell’era digitale. Per l’occasione mi è stato chiesto di pronunciare il discorso d’apertura.

Ho spiegato che digitalizzare l’economia italiana ed europea significa ben più che offrire una banda larga senza soluzione di continuità e una rete wi-fi più affidabile. L’economia digitale rivoluzionerà l’economia globale in ogni suo aspetto, stravolgerà il modus operandi in pressoché tutti i settori produttivi e recherà con sé opportunità economiche e modelli d’impresa assolutamente inediti. Un nuovo sistema economico – il Commons collaborativo – sta facendo il suo ingresso sulla scena mondiale. È la prima affermazione di un nuovo paradigma economico da quando vennero alla ribalta il capitalismo e il socialismo. Il Commons collaborativo sta già trasformando il nostro modo di organizzare la vita economica, e nella prima metà del XXI secolo arriverà a creare milioni di nuovi posti di lavoro, a ridurre le disparità di reddito, a democratizzare l’economia globale e a dare vita a una società ecologicamente più sostenibile.
Ad accelerare questa grande trasformazione è, paradossalmente, lo straordinario successo dell’economia di mercato. Le imprese private sono alla continua ricerca di nuove tecnologie per aumentare la produttività e ridurre il costo marginale della produzione e della distribuzione di beni e servizi, così da abbassare i prezzi, attirare i consumatori e assicurare ai propri investitori un profitto sufficiente. Il costo marginale è il costo di produzione delle unità aggiuntive di un bene o di un servizio, al netto dei costi fissi. Ma nessun economista, però, aveva mai preconizzato una rivoluzione tecnologica che, sfociando nella “produttività estrema”, avrebbe spinto i costi marginali verso lo zero e sottratto all’economia di mercato l’informazione, l’energia e un gran numero di servizi e di beni materiali, resi abbondanti e virtualmente gratuiti. Ebbene, tutto questo ha già cominciato a realizzarsi.

Nell’ultimo decennio il fenomeno del costo marginale zero ha seminato lo scompiglio nell’industria dei “prodotti d’informazione”: milioni di consumatori si sono trasformati in “prosumers” (produttori e consumatori) e hanno iniziato a produrre e condividere musica attraverso i servizi di file sharing, video attraverso YouTube, sapere attraverso Wikipedia, notizie personali attraverso i social media, e persino e-book gratuiti attraverso il Web. Il fenomeno del costo marginale zero ha messo in ginocchio l’industria discografica, estromesso dal mercato giornali e riviste, indebolito l’editoria libraria. Pur riconoscendo le notevoli conseguenze legate al progressivo azzeramento del costo marginale, fino a non molto tempo fa gli analisti sostenevano che il fenomeno non avrebbe mai superato il confine che separa il mondo virtuale dalla realtà economica concreta dell’energia, dei servizi e dei beni materiali. Oggi quel confine è stato varcato.

L’internet delle cose
È in atto una nuova, dirompente rivoluzione tecnologica, che metterà milioni (e presto centinaia di milioni) di prosumers in condizione di produrre e condividere energia, così come una sempre più nutrita serie di oggetti realizzati mediante stampa 3D, a costi marginali quasi zero. La combinazione fra l’Internet delle comunicazioni, l’avviata Internet dell’energia e la nascente Internet dei trasporti e della logistica automatizzati sta dando vita all’Internet delle cose (Idc), la piattaforma di una Terza rivoluzione industriale che nei prossimi decenni trasformerà profondamente l’economia planetaria. Miliardi di sensori, collegati a ogni apparecchio, strumento, macchina o dispositivo, raccorderanno ogni cosa e ogni persona in un’unica rete neurale che si estenderà, senza soluzione di continuità, lungo tutta la catena economica del valore. Sono già 14 miliardi i sensori collegati a flussi di risorse, magazzini, sistemi stradali, linee di produzione industriali, reti elettriche, uffici, case, negozi e veicoli, per monitorarne ininterrottamente le condizioni e il rendimento e trasmettere la massa di dati così ricavata, i big data, alle Internet delle comunicazioni, dell’energia e della logistica e dei trasporti. Si ritiene che nel 2030 l’ambiente umano e quello naturale saranno collegati, in una rete intelligente a diffusione globale, da oltre centomila miliardi di sensori. Imprese e prosumers potranno connettersi all’Internet delle cose e sfruttarne i big data e le analisi per elaborare algoritmi predittivi al fine di migliorare la propria efficienza, aumentare drasticamente la produttività e abbattere quasi a zero i costi marginali di fabbricazione e distribuzione dei prodotti fisici, come già fanno i prosumers con i prodotti d’informazione.

 

Nei prossimi decenni, per esempio, l’enorme quantità di energia che usiamo per riscaldare le nostre case e azionare i nostri elettrodomestici, per alimentare le nostre imprese, per far marciare i nostri veicoli, insomma per fare funzionare ogni componente dell’economia globale, verrà generata a costo quasi zero e sarà quindi pressoché gratuita. È già così per quegli svariati milioni di pionieri che hanno trasformato le loro abitazioni e le sedi delle loro attività in microcentrali capaci di raccogliere sul posto energia rinnovabile. Già prima che il costo fisso dell’installazione di questi impianti solari o eolici sia recuperato (generalmente in un lasso di tempo molto breve che può variare dai due agli otto anni), il costo marginale dell’energia prodotta grazie a essi è quasi zero. Diversamente dai combustibili fossili e dall’uranio impiegato per generare energia nucleare, dove la fonte energetica continua ad avere un costo, i raggi solari catturati sui tetti e il vento intercettato tra gli edifici non costano nulla. L’Internet delle cose consentirà ai prosumers di monitorare il consumo di elettricità nei propri stabili, ottimizzarne l’efficienza energetica e cedere ad altri l’elettricità verde in eccesso attraverso la sempre più articolata Internet dell’energia.

Analogamente, centinaia di migliaia di hobbisti e di start-up sono già impegnati nella produzione in proprio di oggetti tramite stampa 3D, sfruttando software gratuiti ed economici materiali riciclati (plastica, carta e altre materie prime reperibili in loco a costo marginale quasi zero). Nel 2020 i prosumers saranno in grado di scambiarsi prodotti fabbricati con stampanti 3D in Commons collaborativi, affidandone il trasporto a veicoli senza conducente alimentati da propulsori elettrici o pile a combustibile, cioè da energia rinnovabile a costo marginale quasi zero, e supportati da un’Internet della logistica e dei trasporti.

Grazie al carattere distribuito e paritario dell’Intenet delle cose, milioni di piccoli soggetti – imprese sociali e individuali – saranno messi nelle condizioni di cooperare pariteticamente in Commons collaborativi, instaurando economie di scala laterali capaci di bypassare gli ultimi intermediari che nella Seconda rivoluzione industriale, dominio delle grandi aziende globali a integrazione verticale, tenevano alti i costi marginali. Questa fondamentale trasformazione tecnologica del modo in cui l’attività economica è organizzata e portata a dimensioni di scala prelude a un grande mutamento nel flusso del potere economico, che dalle mani di pochi soggetti passerà a quelle delle masse, con conseguente democratizzazione della vita economica.

Gli incrementi di produttività della Terza rivoluzione industriale supereranno quelli della Prima e della Seconda. Secondo le previsioni della Cisco Systems, nel 2022 l’Internet delle cose genererà risparmi ed entrate per 14.400 miliardi di dollari. Uno studio della General Electric pubblicato nel novembre 2012 conclude che nel 2025 i guadagni di efficienza e produttività resi possibili da una struttura Internet industriale intelligente potrebbero interessare tutti i settori economici, investendo “circa metà dell’economia globale”.

L’era del commons collaborativo
Milioni di persone stanno già trasferendo parti o segmenti della loro vita economica dai mercati capitalistici al Commons collaborativo globale. I prosumers non si limitano a produrre e condividere informazioni, contenuti d’intrattenimento, energia verde, oggetti fabbricati con stampanti 3D in Commons collaborativi a costo marginale quasi zero. Condividono tra loro anche automobili, case e persino vestiti, attraverso siti di social media, strutture per facilitare i noleggi, club di ridistribuzione e cooperative, ancora una volta a costo marginale quasi zero.
Questa economia della compartecipazione collaborativa vede attivamente impegnato il 40 per cento della popolazione statunitense. Gli americani che usano servizi di car sharing, per esempio, sono oggi svariati milioni. E ogni veicolo noleggiato in car sharing toglie dalla strada 15 automezzi di proprietà. Allo stesso modo milioni di persone che possiedono una casa o risiedono in un appartamento mettono oggi in condivisione le loro abitazioni con milioni di viaggiatori, sempre a costi marginali prossimi allo zero, tramite servizi online come Airbnb e Couchsurfing. Fra il 2012 e il 2013, nella sola New York le persone ospitate in case e appartamenti grazie ad Airbnb sono state 416.000, facendo perdere all’industria alberghiera newyorkese un milione di pernottamenti. Al “valore di scambio” sul mercato si va sempre più sostituendo il “valore della condivisione” nel Commons collaborativo.

In una società a costo marginale zero la produttività estrema riduce – una volta assorbiti i costi fissi – il costo delle informazioni, dell’energia, delle risorse materiali, del lavoro e della logistica necessari per produrre, distribuire e riciclare beni e servizi. Il passaggio dal possesso all’accesso significa un maggior numero di persone che condividono un minor numero di beni in Commons collaborativi, e una drastica riduzione del numero di nuovi prodotti venduti, con conseguente contrazione dell’uso di risorse e minori emissioni di gas serra nell’atmosfera. In altri termini, la spinta verso una società a costo marginale zero e la possibilità di scambiarsi in Commons collaborativi energia verde quasi gratuita, nonché beni e servizi fondamentali, portano alla più sostenibile ed ecologicamente efficiente delle economie possibili. La corsa all’azzeramento del costo marginale è la chiave per assicurare all’uomo un futuro sostenibile sul pianeta.

Recenti ricerche hanno evidenziato il potenziale economico del Commons collaborativo. Da uno studio del 2012 è emerso che il 62 per cento dei nati tra gli anni Sessanta e il nuovo millennio è attratto dall’idea di condividere beni, servizi ed esperienze in Commons collaborativi. Alla richiesta di indicare in ordine d’importanza i vantaggi di un’economia della condivisione, gli intervistati hanno assegnato il primo posto al risparmio di denaro, seguito dall’impatto sull’ambiente, la flessibilità nello stile di vita, la praticità della condivisione e la facilità d’accesso a beni e servizi. Tra i vantaggi emotivi gli intervistati hanno messo al primo posto la generosità, seguita dalla sensazione di essere parte importante di una comunità, la consapevolezza di vivere in modo intelligente, il maggior senso di responsabilità e quello di appartenenza a un movimento.

Ma quanto è verosimile che il Commons collaborativo arrivi a soppiantare il modello d’impresa convenzionale? In un sondaggio d’opinione condotto dalla Latitude Research, «il 75 per cento degli intervistati si è detto dell’avviso che nei prossimi cinque anni la condivisione di beni materiali e di spazi conoscerà un’espansione». Molti analisti del settore concordano con queste previsioni ottimistiche. Nell’era che si sta profilando le multinazionali operanti in un contesto di mercato capitalistico, dominato dal profitto, resteranno a lungo tra noi, ma in una posizione sempre più marginale, essenzialmente come forza d’aggregazione di servizi e soluzioni di rete, e affiancheranno come efficaci partner il Commons collaborativo. Tuttavia, il mercato capitalistico cesserà di essere l’arbitro esclusivo della vita economica. Stiamo per entrare in un mondo almeno parzialmente oltre i mercati, un mondo nel quale impareremo a vivere insieme in un Commons collaborativo globale sempre più interdipendente.

 

L’opportunità per l’europa
Potenzialmente l’Unione europea è il più grande mercato interno a livello mondiale, con 500 milioni di consumatori, cui vanno aggiunti i 500 milioni dei territori legati a essa da accordi di partnership, come i paesi del Mediterraneo e del Nordafrica. La creazione di un’Internet delle cose, in grado di collegare l’Europa e i territori a essa associati in un unico spazio economico integrato, consentirà a un miliardo di persone di produrre e scambiare a costo marginale quasi zero informazioni, energia rinnovabile, oggetti prodotti con stampa 3D e un’ampia gamma di servizi in un’economia digitale ibrida, un po’ mercato capitalistico e un po’ Commons collaborativo, con notevolissimi benefici per la società. La Dichiarazione di Venezia per lo sviluppo di un’Unione digitale nel semestre di presidenza italiana è il primo, fondamentale passo per la creazione di un mercato unico integrato.

Predisporre un’infrastruttura Idc per un’economia da Terza rivoluzione industriale richiederà un consistente volume di investimenti pubblici e privati, come già accaduto per le due rivoluzioni industriali precedenti. Nel 2012 l’Unione europea ha investito in progetti infrastrutturali 740 miliardi di euro, gran parte dei quali sono andati a puntellare l’obsoleta piattaforma tecnologica pensata per la Seconda rivoluzione industriale e giunta ormai da tempo alla sua massima capacità produttiva. Se solo il 10 per cento di quei fondi fosse indirizzato diversamente, se cioè in tutte le regioni dell’Unione europea venisse destinato alla costruzione di un’infrastruttura Idc e integrato da altrettanti fondi istituzionali e da altre forme di finanziamento, l’Unione digitale potrebbe diventare una realtà entro il 2040 (a fine 2011 gli investitori istituzionali dei Paesi Ocse contavano risorse per oltre 70.000 miliardi di dollari, di cui appena il 2 per cento risulta investito in programmi infrastrutturali).

L’Internet delle comunicazioni dell’Ue dovrà essere potenziata, a partire dalla diffusione universale della banda larga e dalla copertura wi-fi gratuita. L’infrastruttura per l’energia dovrà essere trasformata, passando dai combustibili fossili e dal nucleare alle energie rinnovabili. Milioni di edifici dovranno essere riadattati, dotati di impianti per sfruttare le fonti rinnovabili e convertiti in microcentrali elettriche. La rete elettrica dell’Unione europea dovrà essere trasformata in un’Internet dell’energia, una struttura digitale intelligente in grado di regolare il flusso dell’energia prodotto da milioni di microcentrali verdi. Il settore logistica e trasporti dovrà essere digitalizzato e diventare un network di veicoli senza conducente, spostati in automatico via gps su reti stradali e ferroviarie intelligenti. L’affermarsi della propulsione elettrica e a celle a combustibile richiederà milioni di apposite stazioni di rifornimento, tutte connesse all’Internet dell’energia. Occorrerà costruire strade intelligenti, attrezzate con milioni di sensori in grado di fornire in tempo reale all’Internet della logistica e dei trasporti informazioni sui flussi di traffico e sugli spostamenti dei carichi merci.

La progressiva instaurazione in tutta la Ue, e nei Paesi suoi partner, di un’infrastruttura Idc digitalizzata e intelligente restituirà lavoro a milioni di europei, genererà nuove occasioni di business sia nell’economia di mercato sia nel Commons collaborativo, propizierà un vertiginoso incremento di produttività e darà vita alla società sostenibile dell’era post-carbonio. L’investimento nelle infrastrutture innesca sempre un effetto moltiplicatore, che si ripercuote nell’intero spettro dell’economia. La ritrovata occupazione di milioni di persone farà salire il potere d’acquisto, e l’accresciuta domanda dei consumatori schiuderà nuove opportunità d’impresa, generando ulteriori posti di lavoro. Inoltre, la costruzione della piattaforma Idc renderà possibile un esemplare incremento di produttività lungo la catena del valore, potenziando, ancora una volta, l’effetto moltiplicatore in tutto l’organismo economico.

L’alternativa, arroccarsi in una Seconda rivoluzione industriale ormai al tramonto, con opportunità economiche sempre più modeste, un Pil sempre più contratto, una produttività sempre più in calo, un tasso di disoccupazione sempre più alto e un ambiente sempre più inquinato, è improponibile: significherebbe avviare l’Europa su una lunga china di contrazione economica e i suoi abitanti verso il declino della loro qualità della vita.

La presidenza italiana del Consiglio europeo costituisce un’occasione unica per guidare l’Europa sulla via di una nuova era economica. Il percorso deve iniziare con la trasformazione dell’economia italiana attraverso la coesione di Stato, industria e società civile in un organico programma economico di lungo periodo e in un piano d’azione che punti a fare del paese un’autentica vetrina della nuova Europa digitale.

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