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Collaborative mapping: se la mappa viene dal territorio

mappacorviale_d0In questi anni stiamo assistendo alla crescita di una nuova generazione di geografi, sono i mappers di OpenStreetMap: esperti GIS, informatici, ma anche ciclisti, blogger locali e semplici appassionati accomunati dal desiderio di collaborare alla più sorprendente mappa mundi di tutti i tempi. Il progetto raccoglie ogni giorno migliaia di contributi che permettono di dar vita a iniziative di empowerment della cittadinanza a progetti “umanitari” e anche prodotti commerciali. Maurizio Napolitano, tecnologo di FBK e ambasciatore della Open Knowledge Foundation (OKF), ci ha raccontato le peculiarità e potenzialità per i territori di questa mappa in fieri.

Da sempre abbiamo avuto bisogno di rappresentare simbolicamente il territorio sulle mappe. Maurizio Napolitano della Fondazione Bruno Kessler racconta che la mappa era anticamente il panno di lino che guidava i pastori e le loro greggi. Le mappe sono state da sempre strumenti preziosi per esplorare, conoscere e governare, ma anche strumenti di potere, di controllo e conquista dei territori. Proprio per questo motivo venivano custodite gelosamente, come accadeva in Europa, oppure venivano distribuite e condivise perché si arricchissero di informazioni durante le esplorazioni, come nel caso dell’America. Nel corso della storia si sono susseguite diverse tecniche cartografiche e molti sono stati i tagli dati alla rappresentazione (planimetrica, a veduta prospettica, a volo d’uccello, etc).

Le mappe raccontano molto della storia del tempo: nelle rappresentazioni cartografiche si addensano questioni sociali, economiche, espressioni di potere e conoscenza. Nei secoli la tecnica si è evoluta e, soprattutto negli ultimi anni, con l’avvento dirompente della tecnologia per tutti, anche in questo mondo si è assistito a una grande innovazione nei sistemi di produzione e rappresentazione. “Dal momento in cui è diventato facile produrre dati geografici georeferenziati, chiunque può farlo e lo fa, e questo ha portato a una vera rivoluzione”, fa notare Napolitano. I mezzi e gli strumenti che abbiamo oggi a disposizione ci hanno trasformato potenzialmente in un’enorme comunità di neogeografi. “Piuttosto che essere destinatari passivi di una distribuzione top-down della mappa, le persone ora hanno l’opportunità di rivendicare sovranità sui processi di mappatura”[1].

Condividere la conoscenza del territorio

Attualmente, strumenti come uno smartphone ci mettono nella condizione di poter condividere la conoscenza del territorio. Così è nato il tour virtuale della città de L’Aquila realizzato da Graziano Di Crescenzo. Il progetto del ciclista neogeografo, HelloL’Aquila, è un ottimo esempio di quanto oggi siamo in grado di fare condividendo informazioni georeferenziate. (Qui l’intervista video a Barnaby Gunning, durante #SCE2014)
In questo orizzonte in cui le tecnologie ci suggeriscono che è tempo di innovare, nasce OpenStreetMap. Si tratta di un progetto ambizioso, ideato nel 2004 dell’ingegnere britannico Steve Coast esupportato dall’omonima fondazione: il più grande sforzo di collaborative mapping al mondo. L’idea è creare una mappa mundi ben diversa da tutte le altre: una mappa che viene dal territorio, dalle persone, e si offre gratuitamente e in modalità open al territorio. “Un prodotto come Wikipedia, ma per le mappe”, racconta Napolitano. Ad oggi, a distanza di dieci anni dalla nascita, la comunità di mappers è costituita da oltre due milioni di cittadini sparsi in tutto il mondoche contribuiscono, impiegando tempo ed energie nell’iniziativa. Nell’ultima settimana sono stati attivi circa 10.000 membri (fonte: OSMstats), i quali hanno raccolto le più svariate informazioni sul territorio: dalle fontanelle di Roma (nasoni) al tipo di asfalto delle strade, dal numero degli alberi di una strada al numero di gradini per accedere a un parco, etc.

Rendere visibile ciò che è invisibile

Negli anni il progetto di OSM ha stimolato la nascita di numerose iniziative umanitarie, di collaborative mapping ed empowerment delle popolazioni. Nell’agosto 2010, immediatamente dopo il terremoto di Haiti, è nata l’organizzazione HOT (Humanitarian OpenStreetMap Team): un punto di connessione tra gli attori umanitari e le comunità di open mapping. L’ONG americana, supportata anche dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti attraverso MapGive (qui la versione italiana), ha presto dato vita a nuovi progetti interessanti come il Missing Maps Project, che ha l’obiettivo di mappare i luoghi più vulnerabili nel mondo in via di sviluppo affinché ONG internazionali e locali, così come gli individui, possano usare liberamente mappe e dati per meglio rispondere alle crisi che interessano le aree.
Un’altra entusiasmante iniziativa, avviata nel 2008, è MapKibera. Kibera è infatti il nome di un luogo non riconosciuto, un blank spot: il più grande slum della città di Nairobi, uno spazio invisibile alle mappe, macon un’altissima concentrazione demografica (circa un milione di persone vive in questa baraccopoli, la più estesa di tutta l’Africa subsahariana). Il motto del progetto è stato “rendere visibile ciò che è invisibile”. Oggi le toilette pubbliche di Kibera, i generatori dove ricaricare le torce elettriche, la sua stessa toponomastica sono riconoscibili grazie alla mappa di OSM e ciò invita a riflettere. Secondo dati ONU, entro il 2030 circa due miliardi le persone vivranno in shantytowns, bidonvilles, slums, favelas, etc. Per quella data saranno ancora luoghi invisibili?

Il potere di tracciare la rotta

Il progetto OSM enfatizza la conoscenza locale del territorio e mette propriamente nelle mani delle persone il potere di scegliere cosa mappare. Prerogativa solo apparentemente simile, ad esempio, alle mappe di Google che, pur essendo oggi aperte a contributi volontari grazie a Google Map Maker, restano sempre mappe commerciali, di proprietà di una multinazionale, che mantiene il pieno controllo su cosa viene pubblicato sulla propria mappa. “Quello che c’è sulla mappa lo decide chi fa la mappa”, insiste e sottolinea Napolitano, “se io decido di far sparire una cosa, quella cosa sparirà”. E questo è effettivamente il punto nodale. OpenStreetMap si distingue profondamente da ogni altro progetto simile perché mette al centro di tutto il processo i cittadini, che sono al contempo artefici, fruitori e “proprietari” dei dati, nonché potenziali inventori di nuovi prodotti a partire da questi. “We’re giving people the freedom to play with the data, whereas [other services] keep it to themselves”, scrive Coast. Non si tratta soltanto di un progetto crowdsourced, ma soprattutto di un progetto open. I dati di OSM sono resi disponibili secondo la ODbL (Open Database License), rendendoli a tutti gli effetti open data, riutilizzabili e condivisibili a patto di garantire la stessa libertà agli altri. La visualizzazione della mappa è quindi solo la punta dell’iceberg: i dati aperti consentono diverse rappresentazioni, evidenziando molteplici aspetti del territorio, e diverse modalità di fruizione. Le mappe di Google o Bing sono invece accessibili esclusivamente tramite modalità predeterminate dalla multinazionale che le rende disponibili e che può in ogni momento cambiarle o renderle indisponibili, a seconda della propria convenienza e in base alle proprie logiche commerciali.

Le PA al bivio

Nell’articolo Why the World Needs OpenStreetMap – divenuto rapidamente popolare – Serge Wroclawski spiega come un governo, o una PA in questo caso, avrebbe bisogno di rimanere sempre imparziale, anche nella scelta di che tipo di mappe del territorio veicolare. Dando in outsourcing le proprie mappe, di fatto affida il controllo di queste a terzi, ad esempio consentendo a Google di scegliere quali attività commerciali mostrare sulla mappa (già oggi vengono favorite le attività commerciali che maggiormente curano il proprio profilo sui siti Google). Scegliere di utilizzare una mappa aperta e libera significa invece mantenersi imparziali rispetto a interessi commerciali estranei al bene della comunità, riconoscendo allo stesso tempo ai cittadini un ruolo attivo nella produzione di conoscenza relativa al territorio.
Nel corso di questo decennio, la comunità italiana di OpenStreetMap ha organizzato molti mapping party sul territorio. Si tratta di momenti strutturati in sessioni di lavoro collaborativo (mappature) e conviviali, in cui si approfondiscono i significati e il valore del condividere la conoscenza di un territorio. Alcune regioni italiane – Lombardia, Veneto, Friuli Venezia-Giulia, Sardegna – si sono incuriosite molto e hanno preso parte al progetto ottenendo risultati interessanti, sensibilizzate anche da Simone Cortesi, uno dei pionieri di OpenStreetMap in Italia e a livello internazionale.
Già nel 2010, per fare un esempio, l’Autorità per la Partecipazione della Regione Toscana ha promosso il progetto Libero accesso, accesso libera tutti! per il Comune toscano di Castelfiorentino. Utilizzando i dati e la mappa di OSM si sono organizzati laboratori per raccogliere dati sulle barriere architettoniche all’interno del tessuto urbano. Uno strumento di resilienza del territorio “che è solo il punto di partenza per poi potere ripianificare l’assetto urbano”. Durante l’alluvione del 2013 la Regione Sardegna si è servita della mappa SardSOS che ha aiutato la comunità sarda a gestire il momento di crisi, informando la popolazione in tempo reale con segnalazioni geolocalizzate.

Solo un paio di giorni fa a Torino si è tenuto un Mappathon, un workshop promosso da Piemonte Visual Contest per imparare ad utilizzare OSM e implementare e raccogliere dati del territorio piemontese.
Un altro esempio è la mappatura della città di Matera su OSM, che in vista dell’elezione a capitale europea della cultura è cresciuta esponenzialmente.

[1] M. Dodge C. Perkins, Reclaiming the map: British Geography and ambivalent cartographic practice, 2008

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Come ottenere i finanziamenti del bando Smart&Start in 10 punti

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Guida completa al bando nazionale per il finanziamento di startup innovative. A disposizione fino a 1,5 milioni per azienda

Torna il bando Smart&Start, ma soprattutto tornano 200 milioni di euro per l’innovazione. Il decreto è approdato in Gazzetta ufficiale mercoledì 12 novembre e di fatto sostituisce il precedente. I finanziamenti per i singoli progetti possono arrivare fino a 1,5 milioni di euro, partendo da un minimo di 100 mila euro. Possono partecipare le imprese giovani, quelle appena nate, ma anche quelle che ancora non hanno visto la luce. E le richieste possono arrivare da tutta Italia.

Ecco una guida in dieci domande e risposte per orientarsi meglio nella ricerca dei fondi.Qui intanto per scaricare il bando. 

  1. Quanti soldi ci sono nel bando Smart&Start? 

Quest’anno il bando  Smart&Start mette a disposizione complessivamente circa 200 milioni di euro. L’aiuto è dedicato alla “nuova imprenditorialità” e punta a “sostenere la nascita e lo sviluppo, su tutto il territorio nazionale, di startup innovative”. L’importo, che andrà a coprire le spese o i costi sostenuti dalle startup, potrà arrivare a un massimo di 1,5 milioni di euro e non scenderà sotto i centomila per ciascun piano d’impresa finanziato.

2.  Chi li mette e da dove vengono?  

L’iniziativa parte dal ministro dello Sviluppo economico che il 24 settembre scorso ha firmato un decreto, recentemente pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, in cui vengono disciplinati e illustrati gli incentivi del programma Smart&Start. Per conoscere altri dettagli, relativi alla presentazione delle domande a ai requisiti specifici dei piani d’investimento, bisognerà aspettare una circolare “esplicativa” del ministero.

Le risorse economiche vengono recuperate dai fondi rimasti dei programmi PON“Ricerca e competitività” 2007-2013, PON “Sviluppo Imprenditoriale Locale” 2000-2006. Ma anche da quelli destinati dal ministro per la coesione territoriale nel 2013 al finanziamento di progetti per la nascita e lo sviluppo di nuove imprese innovative e di spin off della ricerca nel territorio del cratere sismico aquilano. Con un altro decreto del ministro dello Sviluppo economico possono poi essere individuate ulteriori risorse.

L’ente che si occuperà della gestione dei finanziamenti (burocrazia, concessione ed erogazione dei fondi, controlli e ispezioni) sarà – come per lo scorso anno – Invitalia, ovvero l’agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa.

3. Di che tipo di agevolazioni si tratta?

L’aiuto offerto dal bando Smart&Start è fondamentalmente di due tipi. Il primo è strettamente economico, trattandosi della concessione di un prestito. Il finanziamento è “agevolato” perché si rimborsa con interessi a “tasso zero” e può arrivare a coprire un importo pari al 70% delle spese o dei costi ammissibili dal bando (max 1.050.000 euro).

Per le startup costituite interamente da giovani under 35, da donne o che prevedano la presenza di almeno un esperto con un dottorato di ricerca (preso da non più di sei anni), l’importo del prestito arriva all’80% delle spese (max 1.200.000 euro). Il prestito ha una durata massima di otto anni e va rimborsato con rate semestrali costanti posticipate, che scadono il 31 maggio e il 30 novembre di ogni anno.

All’agevolazione economica però si affianca, solo per le imprese nate da meno di un anno, anche un aiuto meno “materiale” ossia un servizio di tutoraggio tecnico-gestionale che le aiuti a orientarsi meglio con il mercato dei capitali, il marketing, l’organizzazione delle risorse umane, l’innovazione e la tecnologia.

4. Cosa cambia tra Nord e Sud Italia?

Rispetto allo scorso anno, questa volta possono beneficiare delle agevolazioni le startup provenienti da tutto il territorio nazionale. Per quelle del Sud (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sardegna e Sicilia) e del territorio del cratere sismico aquilano è previsto però un aiuto in più: dovranno restituire solo l’80% del finanziamento ricevuto. Il restante 20% è, a conti fatti, un contributo offerto loro a fondo perduto.

Anche nel servizio di tutoraggio cambia qualcosa a seconda della provenienza dell’impresa. Nelle zone del Mezzogiorno e del territorio aquilano, infatti, il valore del servizio è pari – per ogni singola impresa – a 15 mila euro. Il contributo si dimezza per le altre startup localizzate nel resto d’Italia.10632634_10203967786388597_6242021403406882393_n

Leggi anche i consigli dell’avvocato De Paolis
5 passi per partecipare ai bandi in modo vincente

 

5. Chi può ottenere i finanziamenti Smart&Start? 

Possono beneficiare delle agevolazioni Smart&Start le startup innovative che abbiano compiuto al massimo quattro anni di attività. Le aziende devono essere di piccole dimensioni, con un valore di produzione inferiore ai cinque milioni di euro e con sede legale e operativa su tutto il territorio nazionale, devono avere i conti in ordine ed essere iscritte nel Registro delle imprese. Può presentare domanda anche chi ha intenzione di mettere in piedi una startup entro i termini previsti dal bando, compresi i cittadini stranieri (che siano però in possesso del visto startup). Possono accedere agli aiuti anche le imprese non residenti in Italia, a patto che – insieme a tutti gli altri requisiti – abbiano almeno una sede sul territorio italiano.

6. Chi non può?

Non sono ammesse ai benefici  le startup controllate da altre imprese che, nell’anno precedente la presentazione della richiesta, abbiamo smesso di svolgere un’attività analoga a quella cui si riferiscono nella domanda di partecipazione. Le agevolazioni non valgono per le imprese di produzione agricola primaria o del settore del carbone. I fondi disponibili non possono essere utilizzati per sostenere attività connesse all’esportazione.

7. Cosa si può fare con i soldi di Smart&Start? 

Con le risorse messe a disposizione si possono coprire diversi tipi di spese e costi. Si parte dai piani d’impresa caratterizzati da un significativo contenuto tecnologico e innovativo, passando per lo sviluppo di prodotti, servizi e soluzioni nel campo dell’economia digitale, fino ad arrivare alla valorizzazione dei risultati della ricerca pubblica e privata. Le spese devono essere sostenute dopo la presentazione della domanda ed entro i due anni successivi alla stipula del contratto di finanziamento.

Con i prestiti si possono quindi comprare: impianti e attrezzature tecnologiche, componenti software e hardware, brevetti e licenze, certificazioni, Know how e conoscenze tecniche, progettazione, sviluppo, personalizzazione e collaudo di soluzioni architetturali informatiche.  Non si possono fare spese che riguardino la sostituzione degli impianti, macchinari e attrezzature oppure relative a commesse interne, quelle sostenute attraverso il sistema di locazione finanziaria. I finanziamenti non valgono per pagare spese notarili, imposte, tasse e scorte.

Inoltre, i beni acquistati devono essere nell’attivo di bilancio per almeno tre anni, ammortizzabili e utilizzati nell’unità produttiva destinataria dell’agevolazione. Non possono essere comprati da soggetti che hanno relazioni con l’acquirente e la compravendita non può avvenire tra società controllate o collegate. Il pagamento deve avvenire attraverso un conto corrente bancario dedicato alla realizzazione del programma di investimento.

I fondi possono coprire anche i coti sostenuti dall’impresa beneficiaria nei 2 anni successivi alla firma del contratto di finanziamento, a patto che questi siano costituiti da: interessi sui finanziamenti esterni , quote di ammortamento di impianti, macchinari e attrezzatture tecnologiche (con particolare riferimento a quelli che riguardano informazione e comunicazione), canoni di leasing, costi relativi al personale dipendente, licenze e diritti di proprietà industriale, licenze di software e servizi di incubazione e acceleratori d’impresa.

8. Come si fa domanda? 

Le domande andranno presentate al “soggetto gestore”, Invitalia, o almeno così si faceva l’anno scorso, quando erano previste procedure di accesso esclusivamente telematiche ed era necessario dotarsi di una firma digitale di formato .p7m e registrarsi nell’area riservata attraverso il sito www.smartstart.invitalia.it. Un’interfaccia web consentiva la compilazione della domanda e il successivo invio. Al momento non è ancora possibile presentare domanda per il nuovo Smart&Start: la data di apertura dello sportello sarà stabilita da una circolare ministeriale, che chiarirà anche le modalità di accesso alle agevolazioni.

Il 13 novembre 2014 (giorno di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del nuovo decreto) è stato l’ultimo giorno utile per presentare domanda per il “vecchio” Smart&Start (DM 6 marzo 2013). Le domande saranno valutate in base alla coerenza e alla competenza possedute da chi le redige, rispetto all’attività svolta. Importante anche che l’idea alla base del piano di impresa sia innovativa, la potenzialità del mercato di riferimento, la sostenibilità economica del progetto e la fattibilità tecnologica e operativa.

Un punteggio aggiuntivo è previsto per chi abbia conseguito il rating della legalità  e per chi finanzia il piano di impresa per almeno il 30% dei fondi richiesti attraverso “conferimenti in denaro iscritti alla voce del capitale sociale e della riserva da sovrapprezzo delle azioni o quote delle start-up innovative, anche in seguito alla conversione di obbligazioni convertibili in azioni o quote di nuova emissione, da parte di uno o più investitori qualificati”.

9. Tempi? 

Smart&Start è una misura a sportello. Non c’è un termine per la presentazione delle domande, ma le agevolazioni sono concesse nei limiti delle risorse finanziarie disponibili, quindi non conviene perdere tempo. L’eventuale esaurimento delle risorse disponibile comporterà, infatti, la chiusura anticipata dello sportello. La valutazione delle richieste si conclude entro 60 giorni dalla data della lor presentazione. I programmi devono essere avviati dopo la presentazione della domanda e vanno realizzati entro due anni dalla stipula del contratto di finanziamento.

10. Come si possono perdere le agevolazioni? 

Le agevolazioni Smart&Start non sono cumulabili con altre, fatta salva la garanzia rilasciata dal Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese. In più, prima dell’erogazione del finanziamento e poi in ogni fase del procedimento, Invitalia e ministero dello Sviluppo economico possono effettuare controlli e ispezioni  sulle imprese agevolate per verificare che siano effettivamente operative. Se qualcosa non va, Invitalia può sospendere il prestito per un periodo massimo di sei mesi. Se, dopo questo periodo, l’impresa continua a non essere operativa, le agevolazioni vengono completamente revocate. La sospensione può essere decisa anche se l’attività dell’impresa comincia a discostarsi troppo da quella presentata nella richiesta di fondi.

La revoca del prestito, invece, può arrivare se l’impresa: perde i requisiti previsti per la qualificazione di startup innovativa, non rispetta i tempi della realizzazione del programma, cessa l’attività o si trasferisce, viene sottoposta a procedure concorsuali, e in altre situazioni che verranno poi eventualmente descritte dalla circolare ministeriale.

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Scusate se esisto! Il film ispirato a Guendalina Salimei e al suo progetto (vero) per Corviale

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Arriva nelle sale la commedia brillante di Riccardo Milani con Paola Cortellesi e Raul Bova, il film è ispirato a un vero concorso di architettura e all’architetto che lo ha vinto

Una giovane appassionata di architettura (Paola Cortellesi) studia sodo, dopo la laurea va all’estero e accumula master. Alla fine diventa project manager di uno dei tanti interventi che stanno trasformando Londra. Ma c’è un problema. È sola, ha nostalgia dell’Italia e ci vuole tornare. Prende la sua decisione: rientrare nel suo Paese, che ama. Detto fatto. Sbarca a Roma, che l’accoglie a calci in bocca: chiede aiuto per strada e gli rubano il motorino; cerca lavoro come architetto e riesce solo a farsi assumere come cameriera (con curriculum); cerca un alloggio e si sistema in una soffitta alta un metro e mezzo; si innamora del suo datore di lavoro (Raul Bova) ma scopre che è gay.

Alla fine capita davanti a Corviale, l’immenso complesso di edilizia popolare in periferia, e ha suo colpo di fulmine: quella periferia romana popolata da giovani facce da galera e casalinghe pronte a prenderti a randellate – ma poi anche ad aprirti la porta di casa e darti da mangiare – la conquista. Ancora una volta prende la sua decisione: partecipa a un bando di architettura per riqualificare quel palazzone enorme e spersonalizzante. Alla fine lo vince.

Scusate se esito! il film immaginato da Riccardo Milani prende spunto da una storia vera, e da un architetto in carne e ossa. Quell’architetto è Guendalina Salimei: 50% passione e 50% tenacia. Con il suo T-studio ha vinto il vero bando di architettura per riqualificare il “famoso” quarto piano di Corviale, cioè il piano che, negli anni delle sbornie ideologiche, l’architetto Mario Fiorentino aveva immaginato come l’isola felice fatta di negozi, servizi pubblici, aree di socializzazione, divertimento… In realtà, dopo 10 anni, il vuoto del quarto piano è stato riempito dalle residenze autocostruite dagli intraprendenti inquilini.

Il progetto del chilometro verde, che attraversa l’intera gigantesca stecca del falansterio, cerca di dare ai residenti quel decoro, quella dignità e quella dotazione di spazi che gli era stata promessa e che renderebbe più umano abitare a Corviale. Ma il progetto va oltre, cercando anche di sperimentare forme di residenzialità condivisa e di soluzioni ecosostenibili. Un bel progetto, lanciato nel 2008, e finora – purtroppo come tanti altri concorsi di architettura – rimasto sulla carta (in questo caso, sullo schermo).

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il progetto a cui è ispirato il film




Il rammendo delle periferie

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La rivoluzione industriale e il “futuro a costo 0”

rifkinda L’Espresso:

Ognuno di noi diventerà sempre di più “prosumer”, cioè produttore e consumatore di energia, informazioni e persino oggetti. Grazie a una Rete sempre più diffusa che ci permetterà di condividere tutto. Una trasformazione già in corso che potrà riportare il benessere in Italia e in Europa. Il grande economista spiega la sua formula.

Lo scorso 9 luglio il primo ministro italiano Matteo Renzi ha inaugurato il semestre di presidenza italiana del Consiglio europeo, invocando un nuovo, coraggioso piano per la creazione di “un’Europa digitale”. Il premier Renzi e Neelie Kroes, vicepresidente della Commissione e commissario Ue per l’agenda digitale, hanno promosso una conferenza che ha visto riunirsi a Venezia numerosi leader d’impresa italiani ed europei, e che è sfociata nella “Dichiarazione di Venezia”, un documento per traghettare l’Italia e l’Unione nell’era digitale. Per l’occasione mi è stato chiesto di pronunciare il discorso d’apertura.

Ho spiegato che digitalizzare l’economia italiana ed europea significa ben più che offrire una banda larga senza soluzione di continuità e una rete wi-fi più affidabile. L’economia digitale rivoluzionerà l’economia globale in ogni suo aspetto, stravolgerà il modus operandi in pressoché tutti i settori produttivi e recherà con sé opportunità economiche e modelli d’impresa assolutamente inediti. Un nuovo sistema economico – il Commons collaborativo – sta facendo il suo ingresso sulla scena mondiale. È la prima affermazione di un nuovo paradigma economico da quando vennero alla ribalta il capitalismo e il socialismo. Il Commons collaborativo sta già trasformando il nostro modo di organizzare la vita economica, e nella prima metà del XXI secolo arriverà a creare milioni di nuovi posti di lavoro, a ridurre le disparità di reddito, a democratizzare l’economia globale e a dare vita a una società ecologicamente più sostenibile.
Ad accelerare questa grande trasformazione è, paradossalmente, lo straordinario successo dell’economia di mercato. Le imprese private sono alla continua ricerca di nuove tecnologie per aumentare la produttività e ridurre il costo marginale della produzione e della distribuzione di beni e servizi, così da abbassare i prezzi, attirare i consumatori e assicurare ai propri investitori un profitto sufficiente. Il costo marginale è il costo di produzione delle unità aggiuntive di un bene o di un servizio, al netto dei costi fissi. Ma nessun economista, però, aveva mai preconizzato una rivoluzione tecnologica che, sfociando nella “produttività estrema”, avrebbe spinto i costi marginali verso lo zero e sottratto all’economia di mercato l’informazione, l’energia e un gran numero di servizi e di beni materiali, resi abbondanti e virtualmente gratuiti. Ebbene, tutto questo ha già cominciato a realizzarsi.

Nell’ultimo decennio il fenomeno del costo marginale zero ha seminato lo scompiglio nell’industria dei “prodotti d’informazione”: milioni di consumatori si sono trasformati in “prosumers” (produttori e consumatori) e hanno iniziato a produrre e condividere musica attraverso i servizi di file sharing, video attraverso YouTube, sapere attraverso Wikipedia, notizie personali attraverso i social media, e persino e-book gratuiti attraverso il Web. Il fenomeno del costo marginale zero ha messo in ginocchio l’industria discografica, estromesso dal mercato giornali e riviste, indebolito l’editoria libraria. Pur riconoscendo le notevoli conseguenze legate al progressivo azzeramento del costo marginale, fino a non molto tempo fa gli analisti sostenevano che il fenomeno non avrebbe mai superato il confine che separa il mondo virtuale dalla realtà economica concreta dell’energia, dei servizi e dei beni materiali. Oggi quel confine è stato varcato.

L’internet delle cose
È in atto una nuova, dirompente rivoluzione tecnologica, che metterà milioni (e presto centinaia di milioni) di prosumers in condizione di produrre e condividere energia, così come una sempre più nutrita serie di oggetti realizzati mediante stampa 3D, a costi marginali quasi zero. La combinazione fra l’Internet delle comunicazioni, l’avviata Internet dell’energia e la nascente Internet dei trasporti e della logistica automatizzati sta dando vita all’Internet delle cose (Idc), la piattaforma di una Terza rivoluzione industriale che nei prossimi decenni trasformerà profondamente l’economia planetaria. Miliardi di sensori, collegati a ogni apparecchio, strumento, macchina o dispositivo, raccorderanno ogni cosa e ogni persona in un’unica rete neurale che si estenderà, senza soluzione di continuità, lungo tutta la catena economica del valore. Sono già 14 miliardi i sensori collegati a flussi di risorse, magazzini, sistemi stradali, linee di produzione industriali, reti elettriche, uffici, case, negozi e veicoli, per monitorarne ininterrottamente le condizioni e il rendimento e trasmettere la massa di dati così ricavata, i big data, alle Internet delle comunicazioni, dell’energia e della logistica e dei trasporti. Si ritiene che nel 2030 l’ambiente umano e quello naturale saranno collegati, in una rete intelligente a diffusione globale, da oltre centomila miliardi di sensori. Imprese e prosumers potranno connettersi all’Internet delle cose e sfruttarne i big data e le analisi per elaborare algoritmi predittivi al fine di migliorare la propria efficienza, aumentare drasticamente la produttività e abbattere quasi a zero i costi marginali di fabbricazione e distribuzione dei prodotti fisici, come già fanno i prosumers con i prodotti d’informazione.

 

Nei prossimi decenni, per esempio, l’enorme quantità di energia che usiamo per riscaldare le nostre case e azionare i nostri elettrodomestici, per alimentare le nostre imprese, per far marciare i nostri veicoli, insomma per fare funzionare ogni componente dell’economia globale, verrà generata a costo quasi zero e sarà quindi pressoché gratuita. È già così per quegli svariati milioni di pionieri che hanno trasformato le loro abitazioni e le sedi delle loro attività in microcentrali capaci di raccogliere sul posto energia rinnovabile. Già prima che il costo fisso dell’installazione di questi impianti solari o eolici sia recuperato (generalmente in un lasso di tempo molto breve che può variare dai due agli otto anni), il costo marginale dell’energia prodotta grazie a essi è quasi zero. Diversamente dai combustibili fossili e dall’uranio impiegato per generare energia nucleare, dove la fonte energetica continua ad avere un costo, i raggi solari catturati sui tetti e il vento intercettato tra gli edifici non costano nulla. L’Internet delle cose consentirà ai prosumers di monitorare il consumo di elettricità nei propri stabili, ottimizzarne l’efficienza energetica e cedere ad altri l’elettricità verde in eccesso attraverso la sempre più articolata Internet dell’energia.

Analogamente, centinaia di migliaia di hobbisti e di start-up sono già impegnati nella produzione in proprio di oggetti tramite stampa 3D, sfruttando software gratuiti ed economici materiali riciclati (plastica, carta e altre materie prime reperibili in loco a costo marginale quasi zero). Nel 2020 i prosumers saranno in grado di scambiarsi prodotti fabbricati con stampanti 3D in Commons collaborativi, affidandone il trasporto a veicoli senza conducente alimentati da propulsori elettrici o pile a combustibile, cioè da energia rinnovabile a costo marginale quasi zero, e supportati da un’Internet della logistica e dei trasporti.

Grazie al carattere distribuito e paritario dell’Intenet delle cose, milioni di piccoli soggetti – imprese sociali e individuali – saranno messi nelle condizioni di cooperare pariteticamente in Commons collaborativi, instaurando economie di scala laterali capaci di bypassare gli ultimi intermediari che nella Seconda rivoluzione industriale, dominio delle grandi aziende globali a integrazione verticale, tenevano alti i costi marginali. Questa fondamentale trasformazione tecnologica del modo in cui l’attività economica è organizzata e portata a dimensioni di scala prelude a un grande mutamento nel flusso del potere economico, che dalle mani di pochi soggetti passerà a quelle delle masse, con conseguente democratizzazione della vita economica.

Gli incrementi di produttività della Terza rivoluzione industriale supereranno quelli della Prima e della Seconda. Secondo le previsioni della Cisco Systems, nel 2022 l’Internet delle cose genererà risparmi ed entrate per 14.400 miliardi di dollari. Uno studio della General Electric pubblicato nel novembre 2012 conclude che nel 2025 i guadagni di efficienza e produttività resi possibili da una struttura Internet industriale intelligente potrebbero interessare tutti i settori economici, investendo “circa metà dell’economia globale”.

L’era del commons collaborativo
Milioni di persone stanno già trasferendo parti o segmenti della loro vita economica dai mercati capitalistici al Commons collaborativo globale. I prosumers non si limitano a produrre e condividere informazioni, contenuti d’intrattenimento, energia verde, oggetti fabbricati con stampanti 3D in Commons collaborativi a costo marginale quasi zero. Condividono tra loro anche automobili, case e persino vestiti, attraverso siti di social media, strutture per facilitare i noleggi, club di ridistribuzione e cooperative, ancora una volta a costo marginale quasi zero.
Questa economia della compartecipazione collaborativa vede attivamente impegnato il 40 per cento della popolazione statunitense. Gli americani che usano servizi di car sharing, per esempio, sono oggi svariati milioni. E ogni veicolo noleggiato in car sharing toglie dalla strada 15 automezzi di proprietà. Allo stesso modo milioni di persone che possiedono una casa o risiedono in un appartamento mettono oggi in condivisione le loro abitazioni con milioni di viaggiatori, sempre a costi marginali prossimi allo zero, tramite servizi online come Airbnb e Couchsurfing. Fra il 2012 e il 2013, nella sola New York le persone ospitate in case e appartamenti grazie ad Airbnb sono state 416.000, facendo perdere all’industria alberghiera newyorkese un milione di pernottamenti. Al “valore di scambio” sul mercato si va sempre più sostituendo il “valore della condivisione” nel Commons collaborativo.

In una società a costo marginale zero la produttività estrema riduce – una volta assorbiti i costi fissi – il costo delle informazioni, dell’energia, delle risorse materiali, del lavoro e della logistica necessari per produrre, distribuire e riciclare beni e servizi. Il passaggio dal possesso all’accesso significa un maggior numero di persone che condividono un minor numero di beni in Commons collaborativi, e una drastica riduzione del numero di nuovi prodotti venduti, con conseguente contrazione dell’uso di risorse e minori emissioni di gas serra nell’atmosfera. In altri termini, la spinta verso una società a costo marginale zero e la possibilità di scambiarsi in Commons collaborativi energia verde quasi gratuita, nonché beni e servizi fondamentali, portano alla più sostenibile ed ecologicamente efficiente delle economie possibili. La corsa all’azzeramento del costo marginale è la chiave per assicurare all’uomo un futuro sostenibile sul pianeta.

Recenti ricerche hanno evidenziato il potenziale economico del Commons collaborativo. Da uno studio del 2012 è emerso che il 62 per cento dei nati tra gli anni Sessanta e il nuovo millennio è attratto dall’idea di condividere beni, servizi ed esperienze in Commons collaborativi. Alla richiesta di indicare in ordine d’importanza i vantaggi di un’economia della condivisione, gli intervistati hanno assegnato il primo posto al risparmio di denaro, seguito dall’impatto sull’ambiente, la flessibilità nello stile di vita, la praticità della condivisione e la facilità d’accesso a beni e servizi. Tra i vantaggi emotivi gli intervistati hanno messo al primo posto la generosità, seguita dalla sensazione di essere parte importante di una comunità, la consapevolezza di vivere in modo intelligente, il maggior senso di responsabilità e quello di appartenenza a un movimento.

Ma quanto è verosimile che il Commons collaborativo arrivi a soppiantare il modello d’impresa convenzionale? In un sondaggio d’opinione condotto dalla Latitude Research, «il 75 per cento degli intervistati si è detto dell’avviso che nei prossimi cinque anni la condivisione di beni materiali e di spazi conoscerà un’espansione». Molti analisti del settore concordano con queste previsioni ottimistiche. Nell’era che si sta profilando le multinazionali operanti in un contesto di mercato capitalistico, dominato dal profitto, resteranno a lungo tra noi, ma in una posizione sempre più marginale, essenzialmente come forza d’aggregazione di servizi e soluzioni di rete, e affiancheranno come efficaci partner il Commons collaborativo. Tuttavia, il mercato capitalistico cesserà di essere l’arbitro esclusivo della vita economica. Stiamo per entrare in un mondo almeno parzialmente oltre i mercati, un mondo nel quale impareremo a vivere insieme in un Commons collaborativo globale sempre più interdipendente.

 

L’opportunità per l’europa
Potenzialmente l’Unione europea è il più grande mercato interno a livello mondiale, con 500 milioni di consumatori, cui vanno aggiunti i 500 milioni dei territori legati a essa da accordi di partnership, come i paesi del Mediterraneo e del Nordafrica. La creazione di un’Internet delle cose, in grado di collegare l’Europa e i territori a essa associati in un unico spazio economico integrato, consentirà a un miliardo di persone di produrre e scambiare a costo marginale quasi zero informazioni, energia rinnovabile, oggetti prodotti con stampa 3D e un’ampia gamma di servizi in un’economia digitale ibrida, un po’ mercato capitalistico e un po’ Commons collaborativo, con notevolissimi benefici per la società. La Dichiarazione di Venezia per lo sviluppo di un’Unione digitale nel semestre di presidenza italiana è il primo, fondamentale passo per la creazione di un mercato unico integrato.

Predisporre un’infrastruttura Idc per un’economia da Terza rivoluzione industriale richiederà un consistente volume di investimenti pubblici e privati, come già accaduto per le due rivoluzioni industriali precedenti. Nel 2012 l’Unione europea ha investito in progetti infrastrutturali 740 miliardi di euro, gran parte dei quali sono andati a puntellare l’obsoleta piattaforma tecnologica pensata per la Seconda rivoluzione industriale e giunta ormai da tempo alla sua massima capacità produttiva. Se solo il 10 per cento di quei fondi fosse indirizzato diversamente, se cioè in tutte le regioni dell’Unione europea venisse destinato alla costruzione di un’infrastruttura Idc e integrato da altrettanti fondi istituzionali e da altre forme di finanziamento, l’Unione digitale potrebbe diventare una realtà entro il 2040 (a fine 2011 gli investitori istituzionali dei Paesi Ocse contavano risorse per oltre 70.000 miliardi di dollari, di cui appena il 2 per cento risulta investito in programmi infrastrutturali).

L’Internet delle comunicazioni dell’Ue dovrà essere potenziata, a partire dalla diffusione universale della banda larga e dalla copertura wi-fi gratuita. L’infrastruttura per l’energia dovrà essere trasformata, passando dai combustibili fossili e dal nucleare alle energie rinnovabili. Milioni di edifici dovranno essere riadattati, dotati di impianti per sfruttare le fonti rinnovabili e convertiti in microcentrali elettriche. La rete elettrica dell’Unione europea dovrà essere trasformata in un’Internet dell’energia, una struttura digitale intelligente in grado di regolare il flusso dell’energia prodotto da milioni di microcentrali verdi. Il settore logistica e trasporti dovrà essere digitalizzato e diventare un network di veicoli senza conducente, spostati in automatico via gps su reti stradali e ferroviarie intelligenti. L’affermarsi della propulsione elettrica e a celle a combustibile richiederà milioni di apposite stazioni di rifornimento, tutte connesse all’Internet dell’energia. Occorrerà costruire strade intelligenti, attrezzate con milioni di sensori in grado di fornire in tempo reale all’Internet della logistica e dei trasporti informazioni sui flussi di traffico e sugli spostamenti dei carichi merci.

La progressiva instaurazione in tutta la Ue, e nei Paesi suoi partner, di un’infrastruttura Idc digitalizzata e intelligente restituirà lavoro a milioni di europei, genererà nuove occasioni di business sia nell’economia di mercato sia nel Commons collaborativo, propizierà un vertiginoso incremento di produttività e darà vita alla società sostenibile dell’era post-carbonio. L’investimento nelle infrastrutture innesca sempre un effetto moltiplicatore, che si ripercuote nell’intero spettro dell’economia. La ritrovata occupazione di milioni di persone farà salire il potere d’acquisto, e l’accresciuta domanda dei consumatori schiuderà nuove opportunità d’impresa, generando ulteriori posti di lavoro. Inoltre, la costruzione della piattaforma Idc renderà possibile un esemplare incremento di produttività lungo la catena del valore, potenziando, ancora una volta, l’effetto moltiplicatore in tutto l’organismo economico.

L’alternativa, arroccarsi in una Seconda rivoluzione industriale ormai al tramonto, con opportunità economiche sempre più modeste, un Pil sempre più contratto, una produttività sempre più in calo, un tasso di disoccupazione sempre più alto e un ambiente sempre più inquinato, è improponibile: significherebbe avviare l’Europa su una lunga china di contrazione economica e i suoi abitanti verso il declino della loro qualità della vita.

La presidenza italiana del Consiglio europeo costituisce un’occasione unica per guidare l’Europa sulla via di una nuova era economica. Il percorso deve iniziare con la trasformazione dell’economia italiana attraverso la coesione di Stato, industria e società civile in un organico programma economico di lungo periodo e in un piano d’azione che punti a fare del paese un’autentica vetrina della nuova Europa digitale.

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Tor Sapienza, ci riguarda…

I fatti di Tor Sapienza ci costringono a guardare in faccia la realtà: in tutta la città sta montando un’intolleranza verso gli stranieri che bisogna affrontare seriamente,  prima che sia troppo tardi. E non possiamo limitarci a invocare  l’intervento   della politica e delle istituzioni: dobbiamo farcene carico tutti, anche noi comitati di quartiere, che  possiamo trovare il  modo per affrontare i problemi  con giustizia e responsabilità, tenendo a bada quell’ ondata di irrazionalità che potrebbe  distruggere anni di impegno sui territori.

Trailer non morire fino a domaniNon Morire Fino a Primavera Documentario realizzato da Camilla Ruggiero (prodotto da Il Labirinto) all’inizio di quest’anno nel Centro di Accoglienza di Tor Sapienza, teatro degli scontri di questi giorni (2014) (> guarda il trailerhttp://vimeo.com/83641304 )

Mentre  il dibattito cittadino continua a squadernarsi   sulla vicenda delle multe del Sindaco,  il malessere,  non solo delle periferie, sta diventando sempre più irreversibile. Per troppo tempo, in una sorta di rimozione collettiva,  soprattutto  della politica e dell’informazione, l’attenzione   si è  concentrata (inutilmente)  su  contingenze come il traffico, il  trasporto pubblico, il degrado, senza mai guardare davvero cosa stesse montando in città sotto il solito  tran tran.  E  lo scontento ha  cominciato a tracimare,  come i fiumi quando piove molto a monte, o  come la terra quando frana all’improvviso perchè si sono tagliati tutti  gli alberi, finendo   inesorabilmente   addosso  ai soliti  “diversi”.  Si è creato nel tempo un  “humus”  micidiale, che è  il risultato di quei problemi cronici di Roma  mai affrontati sul serio da decenni – la mancanza di alloggi a distanze decenti, le ore di vita perse nel traffico, i quartieri/ghetto senza servizi  –  a cui si è aggiunta la crisi,  che ha cancellato, insieme ai posti di lavoro, quel senso di sicurezza minimo per affrontare le difficoltà della vita senza angoscia,  più   quella sorta di  “mutazione genetica”  dei rapporti sociali, con  esistenze  sempre più consumate in ambiti ristretti  e lo smantellamento di comunità, legami, solidarietà.

 

Si percepisce  oggi  uno smarrimento  generalizzato che va molto al di là delle difficoltà  quotidiane,  che è in cerca di responsabili da additare.  E troppo spesso abbiamo visto il malessere   imboccare  la strada più facile, quella di difendere  la propria dignità  a scapito di quella di qualcun altro.   Sta succedendo  in tutti i quartieri,   anche in quelli centrali, lontani dai centri di accoglienza e dai campi Rom, dove si guarda con sospetto l’aumento dei negozi etnici  o l’” occupazione” dei giardinetti da parte delle comunità straniere.  Succede sul web, in conversazioni di gruppi di cittadini dove si incappa sempre più spesso  in considerazioni razziste di cui nessuno si vergogna e di cui nessuno si scandalizza. Intendiamoci, i problemi di convivenza sono drammaticamente reali e sono andati peggiorando, sia  per la mancanza di politiche  efficaci di integrazione, sia,  soprattutto,  per le poche risorse  disponibili per assicurare a tutti i diritti fondamentali (dagli alloggi ai posti all’asilo). Scarsità di servizi  che suscita spesso  quel “noi prima di loro” che suona razzista soprattutto a chi la casa ce l’ha, ma che in genere è dettato solo dalla disperazione di chi si sente scivolare verso gradini più bassi  della scala sociale. Come  è  un  problema, forse meno appariscente,   la mancanza  di spazi pubblici di incontro per chi  ha pochi soldi: in molte zone della città  l’ostilità monta intorno a quelle  piazze in cui si danno appuntamento gli stranieri, che  spesso  diventano luogo di schiamazzi e mondezzai e latrine a cielo aperto.  E soprattutto monta dove aumenta la microcriminalità: bisognerebbe capire se è davvero collegata alla presenza di  campi  o  di insediamenti di immigrati,  e cercare le soluzioni per riportare un senso di sicurezza nei territori. E garantire “tolleranza zero”  per lo spaccio, chiunque lo pratichi. Questioni da affrontare seriamente,  ascoltando i punti di vista di tutti e  garantendo il rispetto delle regole da parte di tutti.  Le istituzioni hanno grandissime responsabilità in quello che è successo, per aver sottovalutato il problema (da anni e anni) e aver lasciato soli i cittadini di fronte a situazioni critiche. Ma la realtà mostrata da Tor Sapienza  riguarda tutta la città e ognuno di noi:  le realtà territoriali – non solo quelle delle zone “a rischio” – dovrebbero diventare  parte attiva anche per la prevenzione o la composizione  dei conflitti sociali.  Prendersi cura del proprio quartiere è importante, ma non bisogna perdere di vista che vuol dire prendersi cura anche e soprattutto della comunità delle persone che ci abitano. Non possiamo permettere che  gli immigrati diventino ancora una volta i “responsabili” su cui si riversa tutta la paura e l’insofferenza del mondo. Facciamo la nostra parte.

annaemmebi@gmail.com

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Leggi anche La pentola a pressione della rabbia sociale  I luoghi sono fatti dalle persone, innanzitutto. Poi, ma solo poi, anche i luoghi fanno le persone
14 novembre 2014 di Claudio Lombardi di Carteinregola

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RASSEGNA STAMPA

Cinquequotidiano 14 novembre 2014 Comune di Roma, a Tor Sapienza fra degrado e malavita Il quartiere al centro degli scontri di questi giorni vive un degrado che viene da lontano

huffingtonpost 2014/11/14 Tor Sapienza contesta Ignazio Marino. La lettera dei rifugiati: “Temiamo per la nostra vita”

Repubblica 14 novembre Tor Sapienza, Marino va dagli abitanti: “Qui per ascoltare i cittadini”. Fischi e contestazioni

Repubblica 14 novembre 2014  Intervista a Roberto Morassut – “La biblioteca, i punti verdi la rinascita del quartiere bloccata dal centrodestra” di Boccacci Paolo

Il Messaggero 13 novembre 2014 Tor Sapienza, incappucciati e bombe carta: la procura indaga sugli infiltrati di estrema destra di Cristiana Mangani

Europa 12 novembre il video degli scontri

scontri tor sapienza 12 novembre 2014

Roma Today 11 novembre 2014 Tor Sapienza, la rivolta diventa guerriglia: nuovo assalto ai rifugiati, tensione con la polizia La protesta dei manifestanti degenera in violenza. Un giovane sarebbe rimasto ferito. Sul posto anche i vigili del fuoco per domare l’incendio di auto e cassonetti. Contusi anche quattro poliziotti

Repubblica 25 settembre 2014 Immigrazione, Marino: “A Roma 7400 rifugiati. Centri di accoglienza anche a Parioli” Il sindaco: “Priorità Corcolle. Ho parlato con il prefetto Pecoraro, soluzione ai disagi nelle prossime ore”

BIBLIOGRAFIA

Copertina anterioreLe banlieues: immigrazione e conflitti urbani in Europa di Umberto Melotti Meltemi Editore srl, 2007 – 118 pagineL’esplosione dei conflitti nelle banlieues di Parigi e di molte altre città della Francia nel novembre del 2005 ha portato alla luce, in modo eclatante, i nuovi conflitti urbani variamente connessi con l’immigrazione. Questi conflitti, di natura assai complessa (etnica, sociale, generazionale, culturale, religiosa), avevano già cominciato a manifestarsi sin dagli anni Cinquanta in tutti i paesi europei caratterizzati da una significativa immigrazione (Regno Unito, Francia, Germania) e ora si affacciano anche in Italia, ormai diventata il quarto paese d’immigrazione dell’Unione Europea. Il libro affronta la questione da varie angolature, grazie ai contributi di tre noti sociologi da tempo

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Video > Rassegna stampa su “Corviale rinasce”

Parte la «rinascita»

Corriere della Sera‎ – 2 ore fa
ROMA – Parte la «rinascita» di Corviale: un progetto di rigenerazione urbana che passa anche per un concorso internazionale di progettazione …

Corviale, parte la riqualificazione del “Serpentone”: 19,6 milioni La Repubblica
Corviale, altro che abbattimento! Dalla Regione 19 milioni per la RomaToday
Corviale, al via il concorso internazionale di progettazione… Casa & Clima
Il Sole 24 OreMetro

Corriere della Sera

Roma: da regione Lazio oltre 19 mln per riqualificazione Corviale

AGI – Agenzia Giornalistica Italia‎ – 23 ore fa
(AGI) – Roma, 1 ott. – Una nuova vita per il quartiere di Corviale, a Roma. Oltre diciannove milioni di euro sono stati stanziati dalla Giunta …

EDIFICI: VINCENZI, DA GIUNTA ZINGARETTI 19 MLN DI EURO

Agenparl‎ – 21 ore fa
(AGENPARL) – Roma, 01 ott – corviale “Il progetto illustrato oggi dal presidente Zingaretti di rigenerazione urbana e riqualificazione …

Agenparl



Crescita digitale 2.0

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Giovedì mattina si è svolto a Palazzo Chigi l’incontro di presentazione del Piano per la crescita digitale da parte del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Graziano Del Rio e dalla direttrice dell’Agenzia Digitale italiana, Alessandra Poggiani.

Il Piano è sinergico alla Strategia per la banda ultralarga presentato pochi giorni prima dal Vice Segretario Generale di Palazzo Chigi, Raffaele Tiscar e di cui rappresenta la logica continuità riferita alla offerta/domanda di servizi.

In parole povere stiamo parlando di un pezzo consistente di quell’Agenda Digitale che stenta a decollare e, soprattutto, a mostrare i suoi effetti benefici per lo sviluppo e il benessere del paese.

I destinatari della presentazione di giovedì erano le Regioni italiane. Gran parte del budget su cui il Governo punta per investire nella crescita digitale, infatti, è riferito proprio ai fondi del POR-FESR 2014-2020 e in particolare a quelli previsti per il raggiungimento dell’Obbiettivo Tematico 2 denominato appunto Agenda Digitale.

Al netto di tutti questi tecnicismi, la proposta prevede di mettere assieme 1,8 miliardi di euro gestiti dalle regioni e 2 miliardi di euro gestiti dallo stato.

Questo tipo di collaborazione, o meglio di co-progettazione (parole della direttrice Poggiani), rappresenta l’unica possibilità per il raggiungimento di obbiettivi ambiziosi e di larga scala.

Proviamo a fare un po’ di chiarezza e a interpretare meglio la presentazione di giovedì che, comunque, verrà a breve pubblicata sul sito di Agid assieme al documento di dettaglio del Piano, che verrà poi aperto alla consultazione pubblica.

Temi:

I destinatari del piano (direi FINALMENTE) sono i cittadini e le imprese, e non la PA. Questo al sottoscritto era chiarissimo sin da quando l’allora Ministro alla coesione Barca pubblicò il documento metodi e obbiettivi per un uso efficace dei fondi comunitari. Purtroppo molte amministrazioni centrali e regionali hanno sin qui provato ad eludere questa indicazione, cercando di negoziare finanziamenti per il GOV2GOV invece di seguire il documento Barca e i successivi Accordi di Partenariato che ben indicavano come obbiettivo esclusivo delle azioni derivanti dall’uso dei fondi UE, ovvero quello del GOV2BIZ.

Insomma, il digitale deve servire alla crescita del paese e non alla Pubblica Amministrazioni per rifarsi il trucco. La PA è il mezzo, non il fine della crescita digitale.

Certo, in mezzo a tutto ciò c’è lo switch-off della PA (servizi erogati SOLO in modalità digitale) ma per questo obbiettivo non servono fondi europei, serve il buon senso.

Su tutto ciò si innestano le grandi azioni già concluse o in fase di completamento (identità digitale SPID, Sistema Pubblico di connettività SPC, Riduzione dei Data Center pubblici e passaggio al Cloud PA, Sistema dei pagamenti, Anagrafe Nazionale della Popolazione, Open Data, ecc.) che rappresentano l’infrastruttura sulla quale costruire in modalità collaborativa (co-progettazione) i nuovi servizi digitali ospitati da Italia Login.

Cosa sarà Italia Login non è ancora del tutto chiaro ma, dalla presentazione, si immagina un contenitore di dati, servizi e sistemi pubblici che espone API (Application Program Interface) attraverso l’interrogazione delle quali costruire servizi locali e/o collaborativi.

Governance:

Veniamo al punto dolente. Nonostante lo sforzo di semplificazione comunicativa rimangono grossi dubbi sulla frammentazione dei ruoli e delle competenze.

La slide presentata semplifica sin troppo quella che è un matassa intricata e che forse potrebbe rappresentare un ostacolo alla realizzazione dell’intero impianto dell’Agenda Digitale.

I soggetti protagonisti di nomina governativa sono molteplici e vado a memoria nell’elencarli, sicuro di dimenticarne molti:

  • Paolo Barberis – Consigliere per l’innovazione del Presidente del Consiglio
  • Riccardo Luna – Digital Champion per l’Italia presso la UE
  • Paolo Coppola – Presidente Tavolo permanente per l’innovazione e l’Agenda digitale italiana presso Presidenza del Consiglio dei Ministri
  • Alessandra Poggiani – Direttore Agenzia per l’Italia Digitale
  • Stefano Quintarelli – Presidente del Comitato di indirizzo AGID
  • Raffaele Tiscar -Vice Segretario Generale di Palazzo Chigi con delega alla Banda Larga e ultra larga

poi ci sono le organizzazioni/istituzioni (ne elenco alcune che hanno competenze specifiche o Piani Operativi in materia di Digitale):

  • Agenzia per la Coesione – Fondi strutturali UE
  • Ministero per la Salute – Fascicolo sanitario elettronico, Tessera sanitaria (TS), Centro unificato di prenotazione (CUP), Ricetta elettronica, ecc.
  • Ministero Università e Ricerca – Smart Cities, Competenze digitali, Scuola digitale, ecc.
  • Ministero Sviluppo Economico – Banda Larga, Start-Up, ecc.
  • Ministero della Giustizia – Processo telematico, ecc.
  • Conferenza Stato Regioni/Cisis – Coordina le politiche regionali in ambito Digitale
  • ANCI
  • Sistema Camerale
  • ecc.

Inoltre, durante al riunione di giovedì il sottosegretario Del Rio ha proposto alle regioni di entrare al più presto nella ‘Cabina di regia‘ che, a questo punto, mi piacerebbe conoscere meglio da chi è formata e che competenze di indirizzo ha.

Ovviamente dimentico altri soggetti decisori strategici e/o stakeholder di primaria importanza come ad esempio Confindustria e il mondo delle Associazionismo/ONLUS, ecc.

Tanta gente, forse troppa. Qui rivedo le mie riflessioni di qualche mese fa e mi convinco sempre di più che ci vorrebbe un Ministero ad hoc sul digitale con ampia disponibilità di portafoglio ma soprattutto con SUPERPOTERI!

Risorse:

Qui la situazione è più chiara. In primis ovviamente i Fondi Strutturali 2014-2020 per le componenti nazionali PON e regionali POR. Poi molte aspettative sul Fondo Sviluppo e Coesione al quale tutti guardano con grande attenzione e speranza.

L’ammontare per la parte crescita, e dunque servizi per cittadini e imprese (quindi senza considerare sanità, giustizia, banda larga, ecc.) viene stimato in 4,5 di Euro, cui 3,8 miliardi di Fondi UE e 0,7 miliardi che, molto probabilmente, dovranno essere reperiti da qualche capitolo statale.

Poco, tanto? Non lo so. Sinceramente gli unici indicatori quantitativi che abbiamo sono quelli sul da farsi (Digital Agenda Scoreboard), mentre disponiamo di pochi e chiari e documentati sul ciò che è stato fatto e su quanto è stato speso. Anche se la situazione di ritardo digitale ci fa capire per approssimazione che sinora si è speso troppo e male.

Considerazioni:

Il vero problema ora è far presto, stabilire un rapporto collaborativo Stato – Regioni per accelerare quelli che molto probabilmente verranno configurati come Accordi di Programma per l’attuazione dell’Agenda Digitale.

Accordi snelli, basati sugli obbiettivi comuni e non sulla governance. Sarebbe un errore creare sovrastrutture di gestione anche se l’esperienza dei vecchi CRC potrebbe essere un esempio da rispolverare.

Di cosa ha bisogno il paese lo sappiamo tutti, speriamo solo che dopo questa presentazione non ci si perda in liturgie infinite per affidare a soggetti individuali, strutture ad hoc o peggio ancora forme consorziate, la governance di singoli progetti.

Non abbiamo bisogno di protagonisti, abbiamo bisogno di fatti.

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La rigenerazione urbana è l’infrastruttura base europea

araba feniceC’era un tempo in cui si pensava che lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione avrebbe trasformato a forme remote buona parte delle attività produttive che originarimenete erano svolte nelle città o nelle periferie urbane. Oggi più che mai si assiste a fenomeni inversi di attrazione dei grandi poli urbani di cittadini e competenze che trovano dalla connettività del tessuto urbano terreno fertile per la relaizzazione delle proprie ambizioni.  Lo sviluppo mondiale avrà al centro le città. Ma i grandi investimenti europei vanno dalla parte opposta.

“L’Unione Europea deve mettere al centro della propria azione le politiche di rigenerazione urbana sostenibile, uscendo da una visione miope che porta ad investire, prioritariamente, sulle grandi infrastrutture di trasporto, e considerando, invece, secondarie le politiche dell’abitare; tutto ciò senza tenere conto che decine di milioni di europei vivono e lavorano nell’altra Europa, quella non collegata dalle reti veloci, dove tantissime città ricche di storia e dense di vita rischiano di morire perché abbandonate dagli investimenti pubblici e privati”.

E’ questo il monito lanciato dal Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori nel corso del Forum EU Cities Reloading che gli architetti italiani hanno organizzato in collaborazione con il Forum Europeo per le Politiche Architettoniche,  il Consiglio Europeo degli Architetti e l’Ance, Associazione nazionale dei costruttori edili.

Dati sulle città italiane

Nel corso del Forum sono stati diffusi alcuni dati che riguardano le città italiane: 24 milioni di persone vivono in zone ad alto rischio sismico in oltre 6 milioni di edifici; oltre il 70% del totale degli edifici è stato realizzato prima delle norme antisismiche. Tra questi oltre il 50% delle scuole che dovrebbero, invece essere i luoghi più sicuri; 5 milioni e mezzo di persone vivono in 1,2 milioni di edifici in zone a grave rischio idrogeologico; il 55% degli edifici italiani ha oltre 40 anni di vita, il 75% di questi sorge nelle nelle città; oltre un quarto degli 11 milioni di edifici italiani sono in stato di conservazione mediocre o pessimo e si avvia rapidamente a fine vita. Ed ancora: dal 1948 al 2009 si contano 4,6 milioni di abusi edilizi, 450 mila edifici illegali e 1,7 milioni di alloggi illegali. Solo un quarto degli iter autorizzativi rispetta i tempi prescritti dalle norme; siamo il fanalino di coda dell’Unione Europea nell’attesa di un sì o di un no dell’Autorità pubblica a un progetto (la World Bank ci pone al 153° posto su 180 Stati rispetto all’efficienza dei tempi per la burocrazia in edilizia). Il 35% dell’energia consumata in Italia – pari a 48 Mtep, milioni di tonnellate equivalenti in petrolio – è usata per gli edifici, veri e propri colabrodi energetici che ci fanno “buttare” 22 miliardi ogni anno, risparmiabili dalle famiglie italiane.

L’architettura è in grado di offrire soluzioni pratiche ai problemi delle città, ambiente e inclusione sociale

L’architettura europea non è solo una grande risorsa culturale e scientifica per l’Unione. E’ anche capace di offrire soluzioni pratiche ai problemi della rigenerazione delle città, dell’ambiente, dell’inclusione territoriale e sociale. Ed è anche in grado di declinare il nuovo paradigma di riduzione del consumo del suolo e di riuso delle aree urbane, affinchè le città europee, grandi e piccole, siano adeguate alla contemporaneità che coniuga innovazione, sviluppo e ambiente, senza lasciare che cittadini, comunità e luoghi vengano messi ai margini a causa di strategie macroeconomiche indifferenti alla vita quotidiana e cieche verso il futuro.

Le città italiane sono in emergenza
Per Leopoldo Freyrie, presidente del Consiglio Nazionale “esiste una vera e propria emergenza per le città italiane: serve che il Paese adotti una politica urbana seria e una specifica politica per l’architettura, ma entrambe oggi sono del tutto assenti. Il primo passo è quello di costruire una visione organica e d’insieme capace di generale progetti ambiziosi ma realistici in grado, anche, di fruire di finanziamenti europei. Le risorse comunitarie sono una fonte importante, ma se mancano un disegno complessivo, obiettivi chiari da raggiungere e progetti definiti in ogni loro parte, il Paese non saprà come fruire delle risorse comunitarie e finirà – come spesso succede – di perderle”.

La questione urbana è il principale problema dei governi europei di questi anni e lo sarà anche per i prossimi: la maggior parte della vita delle persone si svolge – e sempre di più si svolgerà – negli agglomerati urbani e l’esaurimento delle risorse energetiche ne segna un destino inimmaginabile anche solo pochi decenni fa: nel mondo, come in Italia, la città e l’habitat sono a rischio “default” e l’allarme è già stato suonato dalle istituzioni internazionali e dai cittadini

I lavori del Forum EU Cities Reloading – che fruisce dei patrocini della Presidenza italiana del Consiglio dell’Unione Europea, della Commissione europea, del Dipartimento Affari regionali della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero dell’ambiente e del Comune di Milano – si sono conclusi sabato 8 novembre.

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ARDUINO CONQUISTA IL MOMA: ECCO L’ITALIA CHE INNOVA ANCORA

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6375 chilometri. In linea d’aria è la distanza che separa Ivrea da New York. La prima, cittadina di 24.000 abitanti in provincia di Torino, è famosa per essere stata la culla del sogno italiano targato Olivetti. La seconda, tra le innumerevoli cose per cui può essere ricordata, è sede del MoMa, il museo d’arte contemporanea più importante del pianeta. Al MoMa Olivetti è di casa, simbolo di un’Italia industriale e creativa che stupiva il mondo e ispirava anche i colossi americani nel design come nell’informatica. Dal prossimo anno, però, Ivrea al MoMa sarà rappresentata anche da Arduino.

Arduino è una scheda elettronica con un microcontrollore, chiamata così in omaggio al pub della città che nel 2005 ospitava spesso Massimo Banzi e i suoi amici, inventori di un’eccellenza italiana divenuta famosa nel mond0. Banzi all’epoca lavorava all’Interaction Design Institute di Ivrea. Pensò a questo piccolo computer autocostruito per rispondere alle esigenze dei suoi studenti, che non riuscivano a reperire sul mercato microcontroller potenti ed economici adatti ai propri progetti creativi. Insieme all’ingegnere spagnolo David Cuartielles, a David Mellis, Tom Igoe e Gianluca Martino, Banzi crea qualcosa che nel giro di pochi anni prima conquista i makers, i geek e gli smanettoni, poi rompe i confini dell’universo degli appassionati, vendendo milioni di pezzi.

(il servizio di Wired dedicato ad arduino)

 

La piccola scheda madre permette di far prendere vita a progetti estremamente diversi tra loro. Controllare una serie di luci, far volare un drone, far funzionare una stampante 3d. La bellezza di Arduino risiede nella sua flessibilità. Nasce come piattaforma hardware dedicata ai creativi, si trasforma e diventa la possibilità per tutti (o quasi) di partire da un’idea e realizzarla. La forza del progetto risiede nella sua logica open source. Arduino può essere modificato liberamente (è disponibile sotto licenza Creative Commonsed è supportato da una community molto attiva. Ormai è alla base di numerosi oggetti: lettori mp3, router, amplificatori, mixer, telecomandi. Insieme all’hardware c’è un software, un sito e un forum dove scambiarsi idee, arricchire i propri progetti e confrontarli con gli altri makers. Chiunque può scaricare gli schemi del microcontroller, modificarli e ridistribuire, sempre con licenza CC. L’aspetto vincente di Arduino è proprio questo. Come con il pongo, bastano voglia e capacità per modellarlo a proprio piacimento. L’unico limite risiede nell’immaginazione. Ci si può lavorare per adattarlo a qualsiasi ambito: dagli strumenti musicali ai sistemi di irrigazione intelligente.

Arduino può diventare il cuore pulsante di una buona idea e non richiede necessariamente competenze da ingegnere elettronico o programmatore. L’ultima evoluzione riguarda la wearable technology. LilyPad è un microcontroller nato per essere cucito su maglie e oggetti indossabili. Grazie ai sensori può restituire informazioni e dati direttamente da ciò che indossiamo. Molti progetti di IOT (internet of things) hanno alla base una soluzione Arduino che ne permette il funzionamento. Su Kickstarter, una delle principali piattaforme di crowdfunding per progetti creativi, tante delle idee proposte hanno come cuore pulsante proprio la scheda immaginata nel 2005 da Banzi e soci, magari modificata a seconda delle esigenze. Arduino dal prossimo anno sarà esposto al MoMa, simbolo di design e integrazione tra discipline diverse che, grazie alla piccola scheda made in Italy, restituiscono applicazioni concrete. Un mix di tecnica e pensiero, scienza e genio creativo. Da Olivetti ad Arduino. Dal 2015 Ivrea e New York tornano ad essere più vicine.

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