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G124: un anno di ‘rammendo urbano’ per 6 giovani architetti

periferie

Un bando che ogni anno sceglierà 6 giovani architetti affiancati da Piano e da un team di professionsiti

Si è concluso il lavoro del primo gruppo G124 fondato dal senatore Renzo Piano e che ha coinvolto 6 giovani architetti nella riprogettazione delle periferie urbane

Un anno di lavoro per trovare una soluzione al degrado che affligge le periferie italiane; un gruppo, il G124, composto dall’architetto Renzo Piano e da sei giovani architetti selezionati attraverso un bando anonimo che annualmente permetterà ad altrettanti giovani progettisti di dare il proprio contributo alla riqualificazione del nostro Paese.

 

L’idea è nata a pochi giorni di distanza dalla nomina a Senatore a vita dell’architetto Renzo Piano che decide di intraprendere un progetto unico nel suo genere, basato sulla formazione continua di un gruppo di giovani architetti, con l’obiettivo di formare una nuova classe di persone e professionisti responsabili ed attenti al proprio territorio. Soprannominato G124, indicando simbolicamente la stanza numero 24 al 1° piano del senatore Piano a palazzo Giustiniani, il gruppo si è dedicato al “rammendo”, per usare le parole dello stesso architetto, di tre periferie italiane: Torino, Roma e Catania.

Un’occasione decisamente unica nel suo genere che vorrebbe rappresentare un punto di partenza per dettare le regole e definire gli obiettivi urbanistici e territoriali delle periferie di oggi, definite da Piano le “città di domani”.

 

G124

 

Vista la precaria situazione lavorativa dei giovani architetti italiani, a stupire ancora di più è il fatto che per i sei di G124 non c’è solo la gloria, ma un contratto annuale con tanto di stipendio, interamente finanziato dai soldi percepiti per l’attività parlamentare del Senatore Renzo Piano che, per garantire la massima trasparenza, ha pubblicato un rendiconto completo delle spese sostenute dal progetto.

Ad affiancare i sei prescelti di quest’anno ovvero l’arch. Michele Bondanelli, arch. Roberto Giuliano Corbia, arch. Francesco Lorenzi, arch. Roberta Pastore, arch. Federica Ravazzi e arch. Eloisa Susanna, anche un gruppo eterogeneo di esperti in numerosi campi e tre tutor d’eccezione scelti da Piano, quali l’arch. Massimo Alvisi, l’arch. Mario Cucinella e l’ing. Maurizio Milan, che volontariamente e senza percepire alcuno stipendio, hanno seguito il lavoro dei giovani.

 

Tre periferie di oggi, le tre città di domani

 

Torino---Borgata-Vittoria-2

TORINO – “La città qui è fatta per lavorare, non per vivere” è la prima testimonianza raccolta, in un brano di città dove le “strade hanno dimensione di tangenziali e più che unire dividono”.

Il caso studio di Torino ha interessato il quartiere di Borgata Vittoria, un’area in prevalenza residenziale densamente popolata, che insieme a Madonna di Campagna e Parco Dora si incastra tra il degrado di Barriera di Milano, Rebaudengo e Basse di Stura, da un lato, e le problematiche di Lucento e della nuova immigrazione dall’altro. Qui, i due membri del gruppo G124 Michele Bondanelli e Federica Ravazzi coordinati dall’ingegnere Maurizio Milan, hanno dato voce al “vivace tessuto associativo del quartiere”, che grazie alla ricca attività partecipativa, ha facilitato l’ascolto dei desideri e delle esigenze della popolazione.

Partendo dalle due scuole elementari del quartiere, il rammendo torinese ha cercato di rianimare gli spazi del tempo libero per trasformare i due istituti non solo nel centro educativo, ma anche in spazi per la condivisione ed il ritrovo. Servendosi di un “parco senza nome”, ribattezzato Parco G124, il progetto ha fatto convergere in questo luogo le energie del quartiere, riqualificando lo spazio verde, migliorando l’arredo urbano, la mobilità lenta e le piste ciclabili.

 

Roma - Sotto il Viadotto dei Presidenti 1

ROMA – “Non è un mondo dismesso, ma un mondo che non è nato. Perciò non bastano gli spazzini, bisogna portarci la gente, i valori comuni, l’urbanità”, sono le parole con cui la Repubblica descriveva il Viadotto incompiuto.

A Roma l’iniziativa ha preso il nome di «Sotto il Viadotto» e ha coinvolto il territorio che si estende tra il fiume Aniene e la Riserva Naturale della Marcigliana, dove la riqualificazione ha interessato il Viadotto dei Presidenti per il tratto che avrebbe dovuto collegare le aree periferiche a nord-est del quartiere Montesacro, ma che oggi è invece diventata una notevole barriera fisica.

A lavorarci sono stati i giovani progettisti Eloisa Susanna e Francesco Lorenzi, coordinati dall’architetto Massimo Alvisi che hanno trasformato il chilometro e 800 metri del viadotto in un parco lineare, senza ulteriore consumo di suolo, dove far nascere piste ciclabili, botteghe e laboratori di quartiere, officine per le biciclette, tutto rigorosamente costruito con materiali di recupero e autocostruzione, per mettere finalmente in contatto tra loro gli oltre 100mila abitanti che popolano i 2.500 ettari del quartiere.

 

 

Catania--quartiere-Librino-2

CATANIA – “Tra gli edifici degradati abbiamo trovato la bellezza nelle storie portate avanti dai volontari”. “Ecco tutti i problemi da ascoltare e da risolvere attraverso uno straordinario strumento: la creatività“.

Del quartiere Librino a Catania si sono occupati l’arch.Roberta Pastore e Roberto Giuliano Corbia con la supervisione dell’Arch. Mario Cucinella.

Perfetta sintesi delle periferie nate negli anni ’70, il quartiere Librino è una delle famose New Town, il sogno utopico di un periodo storico che vedeva nelle periferie il riscatto per un futuro migliore, ma che in realtà ha dato vita a spazi incompleti privi dei più elementari servizi pubblici.

Per Catania il gruppo G124 ha lavorato ad un rammendo invisibile, riqualificando prima di tutto il rapporto tra le persone che popolano un quartiere composto per la maggioranza da persone con meno di 33 anni. Un grande rammendo urbano e sociale che ha permesso di formare un percorso fisico, e non, che collega i punti nevralgici della vita del quartiere: la scuola, le strutture dello sport, gli orti sociali, i luoghi per il gioco, le piazze, il tutto collegato dal verde e da microinterventi sugli elementi urbani.

Venti punti per la riqualificazione

 

G124-Renzo-Piano-nella-stanza-24-a-Palazzo-Giustiniani

 

Sin dalle prime battute del progetto G124, l’architetto Renzo Piano ha parlato di rammendo delle periferie “piccole scintille, che però potrebbero stimolare l’orgoglio di chi quei luoghi li vive”, innescando “la rigenerazione anche attraverso mestieri nuovi, microimprese, start up, cantieri leggeri e diffusi, creando così nuova occupazione”.

Per affrontare un tema tanto complesso quanto importante il Gruppo G124 è partito da 20 punti annotati a mano in ordine sparso dall’architetto Piano, venti domande alle quali trovare una risposta, approfondite poi nel corso dell’anno di lavoro, tematiche che vanno dall’adeguamento energetico, alla funzione del verde, dal trasporto pubblico, ai processi partecipativi per coinvolgere gli abitanti.

 

  1. La crescita della città per implosione e non per esplosione. Basta alla crescita ormai insostenibile a “macchia d’olio”.
  2. Greenbelt: difesa del suolo agricolo attorno alla città.
  3. Greenbelt: difesa dei valori paesaggistici attorno alla città.
  4. Costruire sul costruito con un’opera di rammendo delle periferie.
  5. Trasformare i brownfield in greenfield. (e non l’opposto come si è fatto fino ad oggi).
  6. Trasformazione delle aree dismesse (industriali, ferroviarie, militari).
  7. Le aree costruite (abusivamente!) in zone a rischio.
  8. Trasporto pubblico nel rapporto centro/periferia/periferie: smettere di costruire parcheggi, favorire un uso dell’automobile intelligente attraverso i sistemi di car sharing e rendere sostenibile il trasporto pubblico.
  9. Consolidamento strutturale degli edifici a partire da quelli pubblici, come le scuole: sono 60mila le scuole a rischio sparse per l’Italia.
  10. Adeguamento energetico: si potrebbero ridurre in pochi anni i consumi energetici degli edifici del 70-80 per cento.
  11. L’autocostruzione. Promuovere cantieri leggeri e forme cooperative per il rammendo degli edifici.
  12. Il cambiamento delle periferie non può essere imposto dall’alto ma occorre prevedere processi partecipativi degli interessati.
  13. L’identità delle periferie: così spesso trascurate, dimenticate, trasformate in luoghi senza nessuna identità. In una stessa città ci sono periferie con identità differenti tra loro.
  14. Le procedure da seguire per la riuscita del progetto: l’attività di pianificazione.
  15. Il verde urbano dentro la cintura come verde agricolo/orti urbani.
  16. Il verde urbano dentro la cintura come sorgente di bellezza e di migliori condizioni climatiche.
  17. La microimpresa, i finanziamenti pubblici diffusi ed il regime fiscale dei progetti di rammendo.
  18. I finanziamenti Europei a cui non si accede per ignavia.
  19. I luoghi iconici della città, luoghi dell’urbanità: piazze, strade, ponti, parchi, fiumi che   mancano nelle periferie.
  20. Gli edifici iconici che fecondano la città, ma di rado le periferie. Scuole, università, musei, spazi musicali, biblioteche, ospedali, municipi, tribunali, carceri, etc.

Anche nel 2015 sarà attiva una nuova squadra G124 con nuovi partecipanti, nuovi tutor e nuovi obiettivi per continuare il percorso di rammendo urbano che, si spera, possa presto essere imitato da molte alte realtà urbane.

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Tetti verdi per produrre energia

L’energia prodotta dalle radici delle piante potrebbe essere utilizzata per l’alimentazione una batteria organica

Se, oltre a produrre cibo e ad aggiungere un tocco di colore agli skyline cittadini, i green roof possono essere utilizzati per raffreddare gli edifici, perché in futuro non potrebbero anche generare elettricità?

Questa l’idea di Marjolein Helder e della start-up olandese di cui fa parte Plant-e. che hanno individuato nelle piante delle vere e proprie fonti di energia tramite lo sviluppo di un sistema modulare che genera energia della radici.

Solitamente, le piante durante il processo di fotosintesi, ovvero quando trasformano la luce solare in energia, producono sostanze organiche generate dalla combinazione di anidride carbonica, acqua e luce solare. Il meccanismo pensato dal team consentirebbe di sfruttare ciò che viene espulso dalla pianta nel terreno e di posizionare in prossimità delle radici alcuni elettrodi, in modo tale da sfruttare l’energia prodotta dalla differenza di potenziale e trasformarla in elettricità.

Attualmente la start-up ha realizzato due sistemi di 100 mq ciascuno sui tetti adiacenti la propria sede centrale, ma a entro la prossimo primavera vorrebbe costruire una vera e propria “centrale” in una zona umida e meno controllata, con la speranza di poter commercializzare il sistema sul mercato già nel 2017.

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Ricerca, innovazione e competitività in Italia

Dire che l’economia italiana non è competitiva perché facciamo poca ricerca e innovazione è ormai diventato un luogo comune. Come dire che non c’è più la mezza stagione.

I luoghi comuni sono pericolosi. Mettono d’accordo tutti facilmente, ma spesso alimentano opinioni fuorvianti, basate su piccoli e grandi equivoci. Nel nostro paese, oggi, prevale l’opinione che i nemici dell’innovazione e della competitività siano la scarsità di risorse pubbliche e l’incertezza.

Le statistiche internazionali sulla ricerca e l’innovazione, praticamente da sempre, raffigurano l’Italia come fanalino di coda dei paesi avanzati (vedi per esempio l’ultimo “Science, Technology and Industry Outlook” dell’OCSE pubblicato a metà novembre). Spendiamo poco in ricerca e la nostra economia impiega poco capitale umano.

Si pensa subito alle risorse pubbliche per la ricerca che scarseggiano sempre di più a causa dell’austerity. A molti brillanti ricercatori italiani che sono costretti ad andarsene all’estero a causa dell’incertezza sul futuro lavorativo. E questo spinge a puntare il dito contro i tagli al bilancio pubblico e la precarizzazione dei rapporti di lavoro. Ma fa dimenticare altre importanti criticità.

Spesso si dimentica che la capacità innovativa e la competitività del tessuto produttivo non sono un semplice by-product dei risultati della ricerca. Il trasferimento della ricerca “dall’accademia all’industria” non è un fatto scontato e indolore. È un cammino a sé, complesso e difficile. Non esiste una ricetta in grado di assicurare il successo di un progetto imprenditoriale innovativo. Anche se nasce da risultati brillanti e di acclarato valore scientifico.

L’innovazione imprenditoriale è un processo che non può prescindere dalla selezione del mercato. Una idea innovativa non si trasformerà mai in un progetto d’impresa e poi, eventualmente, in una azienda di successo, se manca qualcuno che ha la passione e il coraggio di assumerne il rischio imprenditoriale, e se manca chi ha le capacità di assumerne il rischio finanziario.

In poche parole, non nascono imprese innovative e non si genera vera innovazione – quella dirompente, intendo, quella che crea discontinuità – se non c’è nessuno disposto a sobbarcarsi il rischio di fallire, professionalmente e finanziariamente.

La selezione delle start-up innovative è un processo crudele. Nel gergo imprenditoriale, la fase che separa l’avvio della start-up dalla sua stabile affermazione sul mercato viene chiamata “la valle della morte” – la metafora dovrebbe essere sufficiente a rendere l’idea.

Una start-up innovativa è un progetto ad elevatissimo rischio di fallimento. Un rischio molto più elevato di un normale progetto di impresa. Le banche di credito ordinario non finanziano la creazione di imprese innovative. Inutile illudersi sull’efficacia della stampa indiscriminata di moneta. Generalmente se ne occupano fondi specializzati di private equity e di venture capital. E gli investimenti di questi fondi si configurano a tutti gli effetti come vere e proprie operazioni speculative.

Sarà pure paradossale, ma un fondo di venture capital si comporta quasi come un giocatore di azzardo. Gioca in perdita nella speranza che ogni tanto gli capiti una grossa vincita in grado di ripagargli tutto.

La probabilità di successo delle start-up innovative è bassa, e la variabilità dei rendimenti elevata. E ciò anche se la selezione dei progetti è molto rigida e basata sulle qualità e le reali potenzialità dell’iniziativa imprenditoriale. Perciò il venture capitalist riuscirà a “pescare” la gallina dalle uova d’oro solo a fronte di un altissimo numero di progetti falliti o con rendimenti appena sufficienti.

Quella “gallina dalle uova d’oro”, per i benpensanti del politicamente corretto, è solo un guadagno speculativo. In realtà, tuttavia, andrebbe vista come un guadagno per l’intera economia, in termini di innovazione e competitività.

In un certo senso è un po’ il contrario di quello che voleva dire Keynes, quando affermava che “lo sviluppo del capitale di un paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò da gioco”. Il famoso economista sottolineava questo fatto in modo negativo, come a voler deprecare un aspetto dannoso dell’economia di mercato. Noi potremmo quasi parafrasarlo dicendo che “lo sviluppo dell’innovazione è il co-prodotto delle attività di un casinò da gioco”. Ma per sottolineare questo fatto in modo positivo, e non negativo.

I fondi pubblici per il finanziamento delle start-up innovative, a volte copiati dal modello del venture capital privato, non hanno mai dato risultati soddisfacenti o comunque comparabili con quelli dei fondi privati. Il venture capital di stato non funziona: una ricerca recente del Politecnico di Milano, “Government, Venture Capital and the Growth of European High-Tech Entrepreneurial Firms”, evidenzia questo punto in modo efficace.

Un fondo alimentato con risorse pubbliche, generalmente non gestito con l’obiettivo di fare profitto e che potenzialmente ammette anche la gestione in perdita, ha solo un obbligo formale ma nessun incentivo a selezionare i progetti in funzione del potenziale valore e delle possibilità di riuscita. Anche qui, è inutile farsi illusioni.

Un fondo pubblico per l’innovazione non seleziona le proposte come farebbe un fondo privato. Avrà sempre la tentazione di erogare denaro in favore di una determinata iniziativa perché è stata segnalata dall’amico politico. Molti fondi pubblici, nati per finanziare l’innovazione, finiscono per trasformarsi in strumenti per l’acquisizione di consenso elettorale. E il denaro pubblico finisce per finanziare i progetti degli amici.

Se si tiene a mente tutto questo, la mancanza di innovazione e competitività in Italia assume connotati un po’ diversi. Non è più (solo) un problema di scarse risorse pubbliche e di troppa incertezza. Perché sarà pur vero che la ricerca, quella di base soprattutto, ha bisogno di risorse pubbliche e di stabilità. Ma è altrettanto vero che per arrivare alla competitività si deve passare per l’innovazione. E, come abbiamo visto, l’innovazione ha bisogno di capitali privati, ed è sorella dell’attitudine al rischio e della speculazione, non della certezza e della tranquillità.

L’impalcatura dell’innovazione e della competitività, perciò, si regge su più pilastri. L’investimento pubblico in ricerca è importante, ma è soltanto uno dei pilastri. Non si può fare a meno dell’altro, rappresentato dal crudele processo di selezione delle innovazioni da parte del mercato.

La via maestra per tramutare la ricerca scientifica in innovazioni, poterle valorizzare economicamente e conseguire risultati utili anche in termini di competitività e occupazione è accettare il rischio della selezione sul mercato, e soprattutto dare la possibilità di assumere il rischio imprenditoriale e professionale a chi è disposto a farlo.

E invece, oggi, in Italia, chi è disposto ad assumere un rischio imprenditoriale e professionale non solo non è incentivato, ma è addirittura penalizzato dalle norme fiscali e da quelle sul lavoro. La capacità e la disponibilità ad assumersi il rischio non è vista come una cosa positiva, da valorizzare e da premiare. È vista, anzi, come il tentativo furbesco di aggirare le regole, di evadere il fisco, di bypassare le norme sul lavoro. Di sfruttare il lavoro dipendente.

In questo senso, è emblematica proprio la storia di Steve Jobs e Steve Wozniak, che crearono la loro start-up, la Apple, dentro un garage. Oggi, in Italia, questo sarebbe impossibile perché violerebbe chissà quante norme, gius-lavoristiche, amministrative, fiscali, sanitarie, e chi più ne ha più ne metta.

Mettiamo che sia possibile aumentare quanto vogliamo la spesa pubblica per la ricerca e formare tutti i cervelli che vogliamo nelle nostre università. Anche i migliori al mondo, in possesso di idee brillanti e ottimi risultati di ricerca.

Tuttavia, se la possibilità di fare innovazione imprenditoriale rimarrà preclusa, gran parte di loro potrà solo scegliere tra l’essere mortificato, accontentarsi di impieghi non all’altezza delle proprie aspettative e delle proprie potenzialità, oppure fuggire all’estero per provare a realizzare la propria idea o lavorare a fianco di chi l’ha potuta realizzare.

Quello di cui parliamo non ė soltanto un modo diverso di vedere l’economia. È in discussione il modo stesso di vedere la società e il contributo che gli individui potrebbero dare per migliorarla, se venisse, finalmente, restituita loro la libera iniziativa.

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Ispra: Rapporto 2014 sul recupero energetico da rifiuti urbani

rifiutiDiminuiscono nelle nostre discariche i rifiuti speciali, ma aumentano quelli pericolosi. Sono alcuni dei dati forniti dall’ Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale nel “Rapporto sul Recupero Energetico da Rifiuti Urbani in Italia 2014”.
Vista l’attualità della sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea che ha multato pesantemente l’Italia per il mancato rispetto delle direttive sulle discariche, sono forniti alcuni dati.
Le discariche che smaltiscono rifiuti speciali sono 418 (237 al nord, 66 al centro e 115 al sud; di queste solo 10 per rifiuti pericolosi). Nel 2012 vanno in in discarica circa 11,5 milioni di tonnellate di rifiuti speciali (90,7% non pericolosi e 9,3% pericolosi). Gli impianti di incenerimento di rifiuti speciali sono 90 e nel 2012 hanno trattato oltre 856 mila tonnellate di rifiuti speciali; i rifiuti sanitari sono il 13,4% del totale di quelli inceneriti (115 mila tonnellate).
Pertanto aumenta la produzione di rifiuti pericolosi (+8,1%) e diminuisce quella dei non pericolosi (-2,7%), rispetto ad un calo della produzione totale di rifiuti speciali (-2,1%).
Sull’andamento generale del sistema rifiuti sembra pesare anche la crisi economica, in particolare “tra il 2011 e il 2012, la produzione totale di rifiuti speciali registra una flessione del 2,1%, passando da 137,2 milioni a 134,4 milioni di tonnellate”.
La riduzione riguarda “i soli rifiuti speciali non pericolosi, soprattutto i rifiuti da costruzione e demolizione: la flessione, rispetto al 2011, è del 2,7%, corrispondente a circa 3,5 milioni di tonnellate”. Mentre “la produzione totale di rifiuti pericolosi, quasi 9,4 milioni di tonnellate, aumenta dell’8,1% (700 mila tonnellate)”. La maggior parte dei rifiuti pericolosi è attribuibile al settore manifatturiero: 40% del totale, pari a oltre 3,7 milioni di tonnellate; il 26,9% deriva da trattamento rifiuti, mentre il 19,8% proviene dal settore servizi, commercio e trasporti (che produce anche 1,2 milioni di tonnellate di veicoli fuori uso).
I rifiuti speciali non pericolosi provengono in gran parte dal settore costruzioni e demolizioni (42,1%) e da attività manifatturiere (24,5%). La forma di gestione prevalente è il recupero di materia (62,1% del totale dei rifiuti gestiti); tra le altre operazioni di smaltimento, la discarica con l’8,4%.
Esclusi gli stoccaggi, la quantità di rifiuti speciali avviati a recupero e smaltimento nel 2012 è di circa 118 milioni di tonnellate, di cui 110,5 milioni (93,8%) rifiuti non pericolosi.
Per i rifiuti pericolosi l’operazione più diffusa è il “riciclo e recupero dei metalli o composti metallici” che riguarda 546 mila tonnellate (29,1% del totale dei rifiuti pericolosi recuperati).
Gli impianti industriali che nel 2012 utilizzano i rifiuti speciali come fonte di energia sono 469. I rifiuti pericolosi avviati a recupero energetico sono oltre 149 mila tonnellate (7,3%); quelli non pericolosi sono 1,9 milioni di tonnellate (92,7%).

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Europa Creativa live: interviste ai vincitori

202

Roma, 5 Dicembre 2014
Ore 10:00-14:00
MAXXI – Museo nazionale delle arti del XXI secolo, Auditorium
Via Guido Reni 4A – 00196 Roma

Il 5 Dicembre 2014 Europa Creativa diventa live: l’Ufficio Cultura e l’Ufficio MEDIA di Roma del Creative Europe Desk Italia – MiBACT (CED ITA) organizzano in collaborazione con il MAXXI – Museo nazionale delle arti del XXI secolo un workshop su Europa Creativa in cui i protagonisti saranno i vincitori delle prime call del Sottoprogramma Cultura e del Sottoprogramma MEDIA di Europa Creativa.
Leila Nista, Project Manager del CED ITA Cultura, introdurrà i lavori nella prima parte del workshop, per poi passare la parola a Maria Cristina Lacagnina, Project Officer del CED ITA Cultura, e a Giuseppe Massaro, Head del CED ITA MEDIA di Roma, che presenteranno Europa Creativa e le statistiche 2014 del Sottoprogramma Cultura e del Sottoprogramma MEDIA.

La seconda parte del workshop sarà dedicata alla sezione Cultura di Europa Creativa: Marzia Santone, Project Officer del CED ITA Cultura, presenterà la call sui progetti di cooperazione e la call sulle Piattaforme. Seguiranno le prime interviste ai protagonisti di Europa Creativa nel settore culturale, ovvero: Alessandra Giappi di LABA – Libera Accademia di Belle Arti, capofila del progetto di cooperazione su piccola scala Virtual Sets: Creating and promoting virtual sets for the performing arts; Emilia Garda, Marika Mangosio, Caterina Franchini del Politecnico di Torino, capofila del progetto di cooperazione su larga scala Women’s creativity since the Modern Movement; Michele Cruciani e Marianna Massimiliani del Circolo degli Artisti, membro della Piattaforma Liveurope coordinata dall’Ancienne Belgique.

La terza parte del workshop sarà dedicata alla sezione MEDIA di Europa Creativa: Giuseppe Massaro, Head del CED ITA MEDIA di Roma, presenterà la call sui videogames. Seguiranno le interviste ai beneficiari italiani del bando sopra citato, ovvero: Max Mauri di Ebooks&Kids, per il progetto Save The Queen!; Alessandra Tomasina di Digital Tales Srl, per il progetto Super Awesome Brigade; Giovanni Caturano di Spinvector Spa, per il progetto Party Tennis: Euro Tour.

Europa Creativa è un programma quadro di 1,46 miliardi di euro dedicato al settore culturale e creativo per il 2014-2020, composto da due sottoprogrammi (Sottoprogramma Cultura e Sottoprogramma MEDIA) e da una sezione transettoriale (fondo di garanzia per il settore culturale e creativo + data support + piloting).

La call sui progetti di cooperazione del Sottoprogramma Cultura di Europa Creativa finanzia progetti che devono promuovere sia la capacità del settore culturale e creativo di operare a livello transnazionale, sia la mobilità di opere e operatori culturali. La call sulle Piattaforme del Sottoprogramma Cultura di Europa Creativa è in fase di pubblicazione e finanzia piattaforme europee di almeno 10 membri che promuovono la mobilità e la visibilità di creatori e artisti, in particolare di talenti emergenti e artisti privi di visibilità internazionale.

La call sui videogames rappresenta un’innovazione per il Sottoprogramma MEDIA di Europa Creativa: l’obiettivo della call consiste nel dare ai videogames europei un maggior respiro internazionale e, quindi, aumentarne il potenziale di circolazione transfrontaliera.
Sono previste due tipologie di finanziamento, secondo lo stadio di avanzamento del progetto e la capacità di co-finanziamento del candidato: la prima fino a un max. di 50.000 euro, per lo sviluppo del concept, ossia per quelle attività richieste per giungere alla definizione del concept del gioco, la seconda fino a un max. di 150.000 euro per lo sviluppo del progetto, ossia per supportare quelle attività che conducono al prototipo giocabile. Il contenuto digitale deve presentare sostanziale interattività unita a una componente narrativa.

Il Creative Europe Desk Italia rappresenta l’unico Desk ufficiale in Italia sul Programma Europa Creativa. Coordinato dal Ministero dei Beni e della Attività Culturali e del Turismo in cooperazione con Istituto Luce Cinecittà s.r.l, fa parte del network dei Creative Europe Desks, nominati e cofinanziati dalla Commissione Europea.
La rete dei Creative Europe Desks è stata creata dalla Commissione Europea per fornire assistenza tecnica gratuita ai potenziali beneficiari di Europa Creativa e per promuovere il Programma in ogni paese partecipante.
In Italia il Creative Europe Desk nasce dall’esperienza pluriennale dell’ex Cultural Contact Point Italy e degli ex Uffici MEDIA Desk Italia e Antenna Media ed è formato dall’ Ufficio CULTURA, responsabile del Sottoprogramma Cultura, e dagli Uffici MEDIA di Roma, Torino, Bari (gestiti da Istituto Luce Cinecittà s.r.l.), responsabili del Sottoprogramma MEDIA.

L’evento è gratuito ed è rivolto a tutti gli operatori del settore culturale e creativo.
Le iscrizioni scadono il 4 Dicembre alle ore 12 e sono disponibili su eventbrite fino ad esaurimento posti.

ISCRIVITI ADESSO TRAMITE EVENTBRITE

Programma
Comunicato Stampa

Per maggiori info: 3311485606 o 3311485671 (da Lunedì a Venerdì negli orari 10:00-13:00/15:00-18:00)

Per seguire l’evento sui social: #europacreativalive; #europacreativa

Link utili:
Creative Europe Desk italia – Ufficio Cultura: sito ufficiale
Creative Europe Desk Italia – Ufficio MEDIA: sito ufficiale

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L’architetta del film: «In periferia serve una Cortellesi»

guendalina salimeiProtagonista Guendalina Salimei, archistar e docente alla Sapienza, interpretata dall’attrice nel film «Scusate se esisto»

Va spesso all’estero e non soffre di nostalgia. Quando è a Parigi, Bratislava o Hanoi non le manca l’aria di casa, non compensa annusando foglie di basilico. E a Roma, la sua città, mai è rimasta per strada perché due balordi le hanno rubato il motorino. Ha talento come Serena, la giovane architetta di «Scusate se esisto», l’ultimo film-commedia di Riccardo Milani, ma a differenza di lei, anche negli anni degli esordi, non è mai stata così spiantata. «La cameriera per pagarmi l’affitto non l’ho mai fatta», dice. Guendalina Salimei è l’ultima stella, in ordine di tempo, dell’architettura italiana. Il Corriere di Roma le ha appena dedicato un editoriale accostandola a Zaha Hadid. Già sei anni fa, Luigi Prestinenza Puglisi la definì «punta di diamante» delle donne progettiste. Ora la gloria mediatica grazie a Paola Cortellesi, che ha portato la sua storia (professionale) sullo schermo.
Anche se ha vinto concorsi in mezzo mondo e ha progettato una nuova Venezia vietnamita nella baia di Holong, Salimei non si atteggia ad archistar. Si limita ad apprezzarne alcune come Steven Holl, Rem Koolhaas ed Elia Torres. Insegna alla Sapienza e parla convinta di architettura «partecipata», periferie da risanare, progettazione ecosostenibile: parola, ammette «che vuol dire tutto e niente». Per lei, comunque, è sinonimo di materiali locali, soluzioni low-tech e basso consumo energetico. Da quando il film è nelle sale, non ha pace. Amici, colleghi: tutti a complimentarsi. Sanno che il progetto di cui si parla, la ristrutturazione del Corviale, la grande muraglia romana, è suo ed è reale.
Allora, com’è finita in quel film?
«Mi chiama il regista e mi racconta di una commedia con un’architetta protagonista. Mi dice che ha bisogno di me. Di me? E lui: incontriamoci».
E la storia del Corviale?
«Milani e Cortellesi sapevano tutto del mio progetto: che era già stato selezionato, e che lo avevo chiamato “Il chilometro verde”, perché avevo immaginato un giardino pensile. Volevano conoscere i dettagli, il prima, il come, il perché».
Il film le è piaciuto?
«Molto, fa ridere e pensare».
Sorpresa dall’attualità della storia? Si parla di una periferia simbolo proprio mentre quelle reali si infiammano.
«Il mistero, semmai, è come ci si possa essere dimenticati delle periferie. Noi che le frequentiamo, sapevamo. Renzo Piano ci sta lavorando con i suoi giovani architetti e siamo in attesa dei risultati della sua sperimentazione».
A un certo punto è sembrato che l’Italia avesse una sola periferia: Scampia.
«È vero, poi, dopo le rivolte negli Usa e prima ancora in Francia, la cronaca ha scoperto le periferie di Milano, di Roma, di Torino. Tutte molto simili».
Perché le periferie italiane sono così brutte?
«Non sono più brutte delle altre. È vero, invece, che le nostre città sono bellissime, al Nord come al Sud; e che i nostri centri storici e le nostre piazze sono rari condensati di storia e cultura. Al confronto, la periferia ci perde, è ovvio. Qui il Pantheon, lì il Corviale. Qui i decumani napoletani, lì le “vele” di Secondigliano. E su!».
Perché, senza Pantheon o decumani cosa cambierebbe?
«A Roma si dice che il Corviale è buono solo a fermare il ponentino. Ma fu progettato negli Anni 70, in un’altra era. Mario Fiorentino non poteva certo immaginare l’uso e l’abuso degli anni a seguire: il vuoto intorno, l’incuria, l’assenza di articolazione sociale».
Quando le periferie cominciano a imbruttire?
«Quando diventano monofunzionali, buone solo per andarci a dormire. E, più di recente, quando le città cominciano a scaricare qui il peso dell’immigrazione e le conseguenze della cattiva integrazione».
Abbattere o recuperare?
«Recuperare. Noi italiani sappiamo farlo, ma un certo punto abbiamo smesso. I sindaci hanno pensato ad altro».
Recuperare anche se costa di più?
«Non costa di più. So di cosa parlo».
Lei è ottimista?
«Sì, ma a tre condizioni».
La prima.
«Le nostre periferie non sono connesse. Bisogna renderle accessibili».
Ma la connessione, si obietta, talvolta “periferizza” i centri storici.
«Senza, c’è il conflitto. L’isolamento crea insicurezza sia in periferia sia in centro».
La seconda condizione.
«La periferia ha bisogno di spazi di relazione, perché non c’è solo l’isolamento dei luoghi, c’è anche quello delle persone. E quello che ho cercato di fare al Corviale. Bisognerebbe fare come la Cortellesi nel film: ascoltare chi in periferia ci vive, sedersi allo stesso tavolo».
La terza.
«Farla finita con la monofunzionalità. Bisogna portare in periferia parti vive della città. Le università, tanto per cominciare. Ammiro molto gli olandesi: devono vedersela col mare incombente, eppure recuperano l’irrecuperabile».
Vedremo davvero il chilometro verde?
«Pare proprio di sì».

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Calciosociale all’ombra del Serpentone: Corviale riparte da qui

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Per anni simbolo di degrado, oggi il quartiere offre ai ragazzi uno spazio dedicato allo sport e alla legalità
A Corviale il verde è davvero il colore della speranza. Sono le 17 e sul prato del campo sociale si accendono i riflettori della possibilità. Trenta ragazzini in divisa rossa iniziano il loro riscaldamento. Non diventeranno tutti calciatori, non sono tutti campioni, ma si sentono tutti uguali ed è quello che conta. Anche per questo lo hanno chiamato “il campo dei miracoli”, perché non è facile crescere all’ombra del Serpentone, il simbolo stesso di Corviale e delle degradate periferie romane. Attorno a quel fallito progetto avveniristico sono fiorite tante leggende negative: dal suicidio del progettista Mario Fiorentino, a quella, metaforica, secondo cui l’imponente costruzione avrebbe bloccato il ponentino romano. Calciosociale, invece, è una realtà positiva.

Il Calciosociale – La parola d’ordine è inclusione: tutti in campo. Nasce così la squadra tipica del Calciosociale: giocatori e giocatrici, bambini, anziani e disabili corrono tutti verso la porta per fare goal. E se non vincono le partite, di certo danno un calcio a emarginazione e barriere sociali.
Nel 2005, la prima a scendere in campo è una squadra di educatori sportivi che attraverso il calcio vuole sciogliere i nodi di realtà difficili. L’esperimento in pochi anni si trasforma in un’energia contagiosa. I tesserati di Calciosociale diventano centinaia, raccolti intorno alle 5 strutture presenti in Italia: Roma, Napoli, Cagliari, Montevarchi (Ar) e Carsoli (Aq).

Il campo di Corviale – Cinque anni fa il campetto di Via Poggio Verde era una distesa d’asfalto coperta d’erba sintetica. Una struttura fatiscente: in quella che oggi è una piccola cappella a bordo campo, dormiva un ex militante della banda della Magliana. Finalmente, nel 2009, l’Azienda Territoriale per l’Edilizia Residenziale del comune di Roma affida l’area a Calciosociale. I volontari si rimboccano le maniche e parte la ristrutturazione: demolire, sistemare, ricostruire, scortecciare la legna per ricavarne il soffitto della futura palestra. è un duro lavoro: c’è chi viene da lontano, chi addirittura dorme nel cantiere per sorvegliarlo. Ancora una volta, nessuno si tira indietro. L’impegno collettivo fa nascere una struttura all’avanguardia, premiato esempio di bioarchitettura.

Attività – Nel centro dedicato a Valentina Venanzi, volontaria scomparsa in un tragico incidente stradale nel 2008, il calcio non è il solo protagonista. Ginnastica artistica per le bambine, dolce per le loro mamme e nonne. E poi studio guidato, eventi culturali, attività creative. Con un unico scopo: diffondere la cultura della legalità.

Illegalità e riqualificazione – Vorremmo girare qualche immagine all’interno del Serpentone, sottolineare il contrasto tra la bellezza del Campo dei miracoli e quei corridoi spersonalizzanti, gli spazi occupati, le gole nere che inghiottono un silenzio surreale. Alcuni abitanti ci rassicurano: “Non c’è da temere, ma non andate al lotto due”. A Corviale, inutile nasconderlo, c’è un problema di legalità, ma gli abitanti ne sono solo le vittime. Qui la gente ha voglia di rinascita e il Calciosociale li sta aiutando a capire che il risveglio corre sulle gambe di tutti. Perché il Serpentone ha tutta l’intenzione di cambiare pelle.

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Stampante 3D per il calcestruzzo

3dIl processo di stampa 3D sviluppato presso la Loughborough University per produrre componenti per l’edilizia sfiora un grado di personalizzazione mai visto finora

Il colosso svedese del settore edile Skanska e la Loughborough University (Regno Unito) hanno firmato un accordo di collaborazione per sviluppare l’uso della stampa 3D nel settore costruzioni. Obiettivo dell’accordo è quello di consentire a Skanska di utilizzare la tecnologia di stampa 3D, sviluppata nei laboratori dell’Università già dal 2007, nel mondo delle costruzioni per poter realizzare la prima stampante 3D capace di produrre cemento.

“Il settore delle costruzioni – ha dichiarato Richard Buswell della Loughborough University – sta diventando sempre più esigente in termini di progettazione e costruzione. Abbiamo raggiunto un punto in cui sono necessari nuovi sviluppi per affrontare le nuove sfide. La nostra ricerca ha cercato di rispondere proprio a questa sfida. Siamo lieti dalla possibilità di sviluppare la prima stampante 3D capace di produrre cemento, ma prima di arrivare a questo è necessario che la tecnologia si adatti il prima possibile alle applicazioni reali in edilizia e architettura.”




Alla luce di Expo

serra

Luce, cibo, piantagioni. Iniziamo controllando le serre via Arduino. Un modo di avvicinarci da maker alla mondiale kermesse milanese.

Ai più sembrerà un’originale lavatrice, retroilluminata e pilotabile dal telefonino. Durante Expo 2015, a Milano da maggio a ottobre, saranno in tanti a vederla, piazzata all’interno di cinque stazioni della metropolitana.

In realtà è una specie di serra, o meglio di Micro Experimental Growing, in sintesi MEG, che non vuole essere solamente un prodotto tecnologico interessante e di fascino stilistico, ma soprattutto si presenta come un progetto di conoscenza distribuita.

Grazie all’onnipresente scheda di controllo Arduino, MEG permette di impostare e monitorare tutti i parametri essenziali per la crescita sana e forte di pianticelle inserite nel suo contenitore e, soprattutto, di condividere in rete l’esperienza.

Tramite un’app di controllo remoto è possibile verificare e controllare al meglio tutti i parametri vitali, come la ventilazione, la temperatura, l’irrigazione, l’acidità o la basicità della terra e la migliore illuminazione per ogni specie di pianta inserita, realizzata con un sofisticato sistema di controllo a LED colorati.
CONTROLLO DI SERRA VIA CELLULARE.

Il sistema è indubbiamente meglio ingegnerizzato rispetto ai diversi prototipi più o meno fantasiosi che i maker hanno prodotto in questi anni, come i progetti Garduino, Arduino Grow Room Controller, Plant Box,
il casalingo progetto di un appassionato o i primi tentativi in questo settore iniziati da almeno tre anni.

Il progetto MEG ha cercato di sottolineare fin dall’inizio la sua duplice natura, parte attrezzatura e parte comunità in rete, come recita anche la presentazione nel primo tentativo di finanziamento tramite Kickstarter, peraltro fallito.

Un fallimento che sarebbe interessante approfondire, in contrasto con la nuova presentazione rilanciata sulla piattaforma Eppela che invece sembra avere maggiore successo.

Sicuramente ha giocato un ruolo positivo il concorso Hack The Expo, che lo ha visto vincitore a pari merito con Floome, un etilometro per smartphone, e gli occhiali del progetto Uptitude creati riciclando le tavole da snowboard.

Sono comunque tutti esperimenti di integrazione di nuove tecnologie con l’ambiente e soprattutto con il rapporto che abbiamo con esse. Carlo D’Alesio e Piero Santoro, i creatori del progetto MEG, hanno citato in più di un’occasione il rapporto tra luce e cultura:

…la parola luce in combinazione con la cultura implica anche l’utilizzo dello stato dell’arte della tecnologia, in attesa di un nuovo modo di pensare sistemi integrati, in cui la luce e le superfici siano permeate insieme.

Qui si tratta di incastonare realtà biologiche con sistemi di controllo tecnologici, sotto lo sguardo di una comunità di appassionati che possono interagire. La creatività dei maker penetra ovunque, perfino in Expo.

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Il rammendo delle periferie: il bilancio di un anno del gruppo di lavoro G124 guidato da Renzo Piano

periferie_magazineGrazie all’indennità di senatore, sei giovani architetti si sono occupati nell’ultimo anno di rendere più vivibili le periferie di Roma, Torino e Catania

Finalmente il tema dell’importanza del progetto e del ruolo dell’architettura, nel suo essere al servizio della società civile, torna ad essere di attualità, mostrando la sua fondamentale importanza”.
Così Leopoldo Freyrie, presidente del Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori in occasione della presentazione del primo rapporto annuale dedicato dalle “Periferie”, realizzato dal “Gruppo di lavoro G124” guidato dall’architetto e senatore a vita Renzo Piano.

“Iniziative come questa dimostrano la funzione che l’architettura può svolgere nel nostro Paese, recuperando, attraverso progetti di rigenerazione, il rapporto con i bisogni dei cittadini, forse dimenticato dopo anni di architettura magniloquente, ed il confronto con le comunità”.
“Dimostrano anche -continua – nella giornata in cui i lavoratori delle costruzioni sono tornati nelle piazze per chiedere interventi incisivi contro la gravissima crisi del comparto, la direzione verso cui deve andare il settore per poter agganciare la ripresa.”
A proposito dei giovani progettisti coinvolti nel “Gruppo di lavoro G124”, Freyrie sottolinea che “l’attenzione e la sensibilità che il senatore Piano ha dimostrato e dimostra nei confronti dei giovani architetti deve essere di stimolo per far ripartire al più presto la proposta di legge sulla qualità dell’architettura che premia la realizzazione delle opere pubbliche attraverso concorsi di progettazione o di idee, aprendo in tal modo ai giovani la strada del mercato della progettazione dalla quale sono oggi esclusi”.
RENZO PIANO: LE PERIFERIE LA SFIDA URBANISTICA DEI PROSSIMI DECENNI. “Credoche il grande progetto del nostro Paese sia quello delle periferie: la città del futuro, la città che sarà, quella che lasceremo in eredità ai nostri figli. Sono ricche di umanità, qui si trova l’energia e qui abitano i giovani carichi di speranze e voglia di cambiare. Ma le periferie sono sempre abbinate ad aggettivi denigranti. Renderli luoghi felici e fecondi è il disegno che ho in mente”, spiega Renzo Piano. “Questa è la sfida urbanistica dei prossimi decenni: diventeranno o no parte della città? Riusciremo o no a renderle urbane, che vuole anche dire civili? Al contrario dei nostri centri storici, già protetti e salvaguardati, esse rappresentano la bellezza che ancora non c’è”.
PROGETTO DI RAMMENDO. “Anche oggi i miei progetti più importanti – ricorda Piano – sono la riqualificazione di periferie urbane, dalla Columbia University ad Harlem, al nuovo palazzo di giustizia nella banlieue di Parigi al polo ospedaliero di Sesto San Giovanni che sorgerà dove un tempo c’era la Falck. Un’area che gli anglosassoni chiamano brownfield, ovvero un terreno industriale dismesso. Questo è un punto importante nel nostro progetto di rammendo. Oggi la crescita delle città anziché esplosiva deve essere implosiva, bisogna completare le ex aree abbandonate dalle fabbriche, dalle ferrovie e dalle caserme, c’è un sacco di spazio a disposizione. Si deve intensificare la città, costruire sul costruito, sanare le ferite aperte. Di certo non bisogna costruire nuove periferie oltre a quelle esistenti: devono diventare città ma senza espandersi a macchia d’olio, vanno ricucite e fertilizzate con strutture pubbliche. È necessario mettere un limite a questo tipo di crescita, non possiamo più permetterci altre periferie remote, anche per ragioni economiche. Diventa insostenibile portare i trasporti pubblici, realizzare le fogne, aprire nuove scuole e persino raccogliere la spazzatura sempre più lontano dal centro”.
CASI STUDIATI DAI SEI GIOVANI ARCHITETTI NELLE PERIFERIE DI TORINO, ROMA E CATANIA. “Per questo – spiega l’archistar – con il mio stipendio da parlamentare ho messo a bottega sei giovani architetti che si sono occupati nell’ultimo anno di rendere più vivibili lembi di città a Roma, Torino e Catania. E il prossimo anno saranno altri ragazzi a raccoglierne il testimone e a continuare. Mi piace parlare di giovani perché sono loro e non io il motore di questa grande opera di rammendo e sono loro il mio progetto. Le periferie e i giovani sono le mie stelle guida in questa avventura da senatore, e non solo. Mi piace anche il concetto di bottega che ha una nobile e antica origine, una sorta di scuola del fare che in questo caso significa fare per il nostro Paese. Anche perché i nostri ragazzi devono capire quanto sono stati fortunati a nascere in Italia. Siamo eredi di una storia unica in tutto il pianeta, siamo nani sulle spalle di un gigante che è la nostra cultura”.
“Qualcosa – conclude Renzo Piano – noi del G124 abbiamo fatto, come potete leggere in questa pubblicazione: si tratta di piccoli interventi di rammendo che possono innescare la rigenerazione anche attraverso mestieri nuovi, microimprese, start up, cantieri leggeri e diffusi, creando così nuova occupazione. Si tratta solo di scintille, che però stimolano l’orgoglio di chi ci vive. Perché come scriveva Italo Calvino “ci sono frammenti di città felici che continuamente prendono forma e svaniscono, nascoste nelle città infelici”. Questi frammenti vanno scovati e valorizzati. Ci vuole l’amore, fosse pure sotto forma di rabbia, ci vuole l’identità, ci vuole l’orgoglio di essere periferia”.

PERIFERIE