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Corviale: scoperta cantina per spaccio di droga

Un agente della polizia residente a Corviale ha sorpreso un uomo che si aggirava furtivamente tra le cantine del suo stabile con alcune dosi di cocaina e un mazzo di chiavi.
L’uomo di 23 anni e residente ad Ardea aveva adibito una cantina dello stabile a vero laboratorio dove confezionare dosi di hashish e cocaina.
la perquisizione è continuata nella sua residenza dove sono state trovate altre dosi già preparate.

fonte:
http://www.romatoday.it/cronaca/arresto-droga-corviale-26-agosto-2013.html




Davide, da nerd a imprenditore high tech




L’affare Bezos-Washington Post e i nuovi monopoli della notizia

giornaleCome giudicare l’acquisto del Washington Post da parte di Jeff Bezos, il ricchissimo patron di Amazon: è un bene o un male per l’informazione, per la sua economia, per la sua libertà?

Si tratta, certamente, di un evento-choc, che può segnare l’inizio di una nuova tendenza, l’assalto dei poteri forti della Rete (quelli veri) ai mass media tradizionali. Qualche risposta può venire dall’osservazione di quanto e’ accaduto, negli ultimi dieci anni, nel mondo della musica. Dove il passaggio all’era digitale e alle nuove forme distributive non e’ stato dominato dall’industria discografica, proprietaria della creatività e dei contenuti, ma da Apple con l’iPod e da tutto ciò che ha creato la musica in Rete, cioè dai padroni di Internet.

E anche nell’industria delle notizie la “soluzione” dei problemi economici potrebbe arrivare dalle società come Amazon e Google, dominatrici assolute della distribuzione online.

C’è un ché di paradossale e di beffardo in tutto questo, se i venditori e gli aggregatori di informazioni, dopo aver messo in crisi i suoi produttori, ora se li comprano. Ma così va il mondo e ancor più va il mondo web, dove comanda non chi produce i contenuti ma chi li distribuisce, forte di innovazioni geniali che hanno cambiato le regole del gioco. E oggi, grazie all’immensa liquidità accumulata, può permettersi il lusso di ergersi a paladino dell’informazione di qualità.

Editori e giornalisti, d’altra parte, hanno sposato in fretta la causa di Internet ma regalando le notizie in Rete, e solo più tardi sviluppando l’offerta a pagamento, convinti che la pubblicità avrebbe fatto quadrare i conti. Non e’ accaduto. E, senza aspettare i posteri, già oggi i contemporanei possono giudicare quanto lungimirante e saggia sia stata questa nostra scelta.

E’ un bene dunque, per l’informazione, l’”affare” Bezos-Washington Post? Può anche darsi: purché non sia l’inizio, com’e’ legittimo temere, di una nuova stirpe di monopoli mediatico-digitali in confronto ai quali gli odierni tycoon sono teneri agnellini.

E. Segantini

corriere.it

http://estory.corriere.it/2013/08/08/laffare-bezos-washington-post-e-i-nuovi-monopoli-della-notizia/




Buone nuove

002Un potpourri di news che ci fanno ben sperare :

– George Clooney con i soldi che riceve per gli spot Nespresso paga un satellite spia con cui controlla Omar Al Bashir il dittatore del Sudan accusato di crimini di guerra e di genocidio.

– Facebook diventa sempre più uno strumento d’informazione: “La miss denuncia i pestaggi dell’ex su facebook”

– Varato un decreto legge sulla cultura che tra l’altro prevede il ritorno ai musei degli introiti dei biglietti e del merchandisng, l’assunzione di 500 giovani, il ripristino della detassazione per chi produce o finanzia le opere di cinema e di musica, l’agevolazione delle donazioni dei privati

– Disoccupazione USA al minimo da 4 anni

– Movimento 5 stelle: “pronti a legge elettorale e governo col partito democratico”

– La band dei Rudimental fa musica raccontando belle notizie come il recupero dei ragazzi dei ghetti di Philadelphia con l’ippoterapia

by Tommaso Capezzone




Dal Cdm via libera al dl cultura. Letta: “Diamo lavoro a 500 giovani”

culturaIl provvedimento include interventi per la stabilità delle fondazioni lirico-sinfoniche, la valorizzazione del sito archeologico di Pompei e il rilancio degli Uffizi. Il premier: “L’approvazione è il primo segnale di inversione di tendenza: la possibilità di attrarre investimenti nella cultura è tra le nostre priorità”. “In Parlamento si apra a privati nello sviluppo della cultura”.

E’ terminata a Palazzo Chigi, dopo circa due ore, la riunione del Consiglio dei ministri che, fra l’altro, ha approvato il decreto per la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle attività culturali e del turismo. Nel provvedimento, attenzione a Pompei, al Museo degli Uffizi, alle fondazioni lirico-sinfoniche, ma soprattutto a una visione della cultura come valore aggiunto del Paese, in grado di creare lavoro e attrarre investimenti, non solo turisti.

“Diamo lavoro a 500 giovani per la cultura” ha subito annunciato il presidente del Consiglio Enrico Letta al termine del Cdm a proposito di una delle misure del decreto legge sulla cultura: “E’ un’opportunità di lavoro offerta a 500 giovani per un periodo determinato di tempo sullo sviluppo della digitalizzazione e della catalogazione del patrimonio culturale del Paese”.

Il ministro Massimo Bray ha invece dato risalto a un’altra misura: dal 2014 l’economia restituirà ai musei gli introiti diretti dei biglietti. “Questo aspetto ci consentirà di tenere aperti i musei e di utilizzare al meglio le risorse”, ha aggiunto Bray chiarendo che nel decreto c’è una possibilità di donazione di 5000 euro da parte dei privati per la cultura. Bray ha sottolineato come uno dei criteri del decreto è quello della trasparenza.

L’approvazione del dl cultura “è il primo segnale di inversione di tendenza che il governo vuole dare di investimento nel campo della cultura – ha sottolineato Letta -. La cultura è il cuore del nostro Paese e la possibilità di attrarre investimenti è una delle nostre priorità”. Ci sono molti problemi nel campo della cultura, soprattutto sulla mancanza di fondi, ammette il presidente del Consiglio: “Abbiamo ritenuto necessario un intervento di largo impatto che desse alcuni messaggi molto forti: vogliamo investire sulla cultura e legare un legame tra giovani e cultura”.

Il dl sulla cultura, inoltre, contiene “un intervento complessivo” di salvataggio delle fondazioni lirico-sinfoniche, spiega ancora Letta in conferenza stampa, “un tema che si è avvitato in una condizione di grande difficoltà economica. Ma è importante che (le fondazioni, ndr) siano stabili e non abbiano l’acqua alla gola. Con questo provvedimento si crea una condizione che salva le fondazioni lirico-sinfoniche e dà loro una prospettiva di stabilità”.

C’è poi un articolo per la “valorizzazione di Pompei” che dà una “grande risposta al mondo” visto che “abbiamo una responsabilità di rendere fruibile” il sito archeologico che, in base al provvedimento approvato dal Cdm, fra l’altro prevede un direttore generale con ampi poteri. “E’ un messaggio per il Sud”, ha aggiunto Letta, soffermandosi anche sulla Reggia di Caserta.

Nel dl sui beni culturali anche un intervento “a favore dei nuovi Uffizi di Firenze” che prevede interventi di “sviluppo e rilancio” del museo.

Il presidente del Consiglio ha poi fatto un “appello al Parlamento: in sede di conversione di questo decreto, si apra alla discussione sulla partecipazione dei privati nello sviluppo della cultura. Siamo aperti con il

 

Parlamento per valutare se possono essere introdotti elementi migliorativi”.

All’ordine del giorno del Cdm anche il disegno di legge costituzionale di abolizione delle Province e il disegno di legge su ‘Ratifica ed esecuzione della Convenzione sulla competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l’esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione dei minori, nonché norme di adeguamento dell’ordinamento interno’.

repubblica.it

http://www.repubblica.it/politica/2013/08/02/news/cdm_letta_ok_dl_cultura-64168655/?ref=HRER1-1




Il New York Times torna in utile con gli abbonamenti in digitale

nytL’editore del quotidiano newyorkese ha chiuso il secondo trimestre dell’anno con profitti per 20,1 milioni – oltre le stime degli analisti – contro una perdita di 87,6 milioni dello stesso periodo dello scorso anno.

Gli abbonamenti digitali spingono i conti del New York Times che compensa il calo della raccolta pubblicitaria. Nel secondo dell’anno, l’editore del quotidiano newyorkese, è tornato in attivo, grazie all’aumento degli abbonamenti online (+40% a 738.000): i profitti netti sono saliti a 20,1 milioni di dollari, 13 centesimi per azione, contro il rosso da 87,6 milioni, -58 centesimi per azione, dello stesso periodo dell’anno scorso. Escludendo le voci straordinarie i profitti sono saliti da 11 a 14 centesimi per azione. Il fatturato, invece, è calato dello 0,9% a 485,4 milioni di dollari.

Gli analisti attendevano un utile di 12 centesimi per azione su un fatturato di 487 milioni di dollari. Complessivamente il fatturato generato dalla diffusione del quotidiano è cresciuto del 5,1%, ma quello pubblicitario è sceso del 5,8% (-6,8% sulla carta stampata, -2,7% sul digitale). I risultati riflettono “l’evoluzione in corso delle iniziative per gli abbonamenti digitali”, ha detto l’amministratore delegato Mark Thompson.

E sulla stessa lunghezza d’onda si muove Ruper Murdoch: la versione online del tabloid The Sun da oggi diventa a pagamento con un costo di due sterline a settimana. La decisione era stata annunciata a marzo quando l’editore aveva spiegato che i costi della versione gratuita non potevano più essere sostenuti. Il Sun, che si definisce il quotidiano più popolare della Gran Bretagna, ha una tiratura di 2,3 milioni di copie e vanta 1,7 milioni di visite sul suo sito ogni giorno.

 

Anche il Times, altro giornale di proprietà del magnate australiano, e il Daily Telegraph avevano scelto di diventare a pagamento.

repubblica.it

http://www.repubblica.it/economia/2013/08/01/news/ny_times_utili_digitale-64115249/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-17_01-08-2013




La prossima sfida dei Bric si gioca tutta nelle città

favelasIl movimento sociale che ha scosso il Brasile a giugno è stato animato da studenti, in grande misura di classe media, che hanno manifestato la crescente insoddisfazione per l’asimmetria tra accesso a beni di consumo e capacità di orientare le politiche pubbliche. Che sia successo proprio in Brasile, tra i quattro Bric, non è casuale. In nessun altro coesistono tolleranza politica e pluralità democratica, diffusione dei social network e di Internet e, soprattutto, alti indici di urbanizzazione.

L’essere umano è un animale non solo sociale ma anche urbano: la città rende liberi, produttivi, ricchi e felici. Nessuno dei milioni di contadini che negli ultimi decenni si sono trasferiti dalle campagne alle città, magari sfidando rigide norme, come l’hukou, che regolano le migrazioni in Cina, è a conoscenza della tesi di Edward Glaeser, professore a Harvard. Ma è un dato di fatto che per la prima volta nella storia più della metà degli abitanti del pianeta vivono in città (erano 14% nel 1900); che la crescita delle città produce maggiore efficienza economica e sviluppo; e che la relazione tra dimensione delle città e povertà è inversa. Ma le differenze tra paesi rimangono importanti. Mentre in Brasile la popolazione urbana rappresenta l’84% del totale (censimento 2010) e in Russia arriva al 74% (2011), in Cina ha superato il 50% solo nel 2012 (era 49% nel censimento 2010) e in India non è che al 31% (2011). Shanghai e Pechino, Mumbai e Delhi possono pure essere mega-metropoli di decine di milioni di abitanti, ma concentrano appena il 30% della popolazione cinese e indiana; invece un russo ogni nove vive a Mosca e San Pietroburgo, un brasiliano su dieci a San Paolo e Rio de Janeiro.

 

Le immagini delle megalopoli possono tradire, in realtà considerando l’effetto dell’urbanizzazione sul reddito in Cina, le città cinesi sono più piccole del dovuto. Spingere l’acceleratore della crescita urbana è diventato un imperativo in Asia. Li Keqiang, nel discorso programmatico di marzo, ha indicato che tra poco più di un decennio il 70% dei cinesi dovrà abitare in città. Vuol dire aumentare di quasi 250 milioni la popolazione non solo delle grandi città, ma anche di quelle medie. Secondo i calcoli McKinsey, nel 2025 in Cina ci saranno 221 città con almeno un milione di abitanti (in Europa sono 35). In India, già nel 2007 Manmohan Singh considerava vicino il momento in cui mezzo miliardo di cittadini sarebbero stati in città.

Perpetuare le tendenze del recente passato rischia di essere insostenibile. Le favelas non sono più solo un luogo di povertà, ma rimangono prive dei servizi sociali essenziali. E dove questi esistono sono il risultato di investimenti privati e servono dei clienti, non dei cittadini. Due terzi della popolazione di Mumbai vive in slums, magari a poche decine di metri dalle residenze principesche delle star di Bollywood. A Bangalore, grazie al successo dell’informatica la popolazione è cresciuta del 40% negli ultimi 10 anni, la superficie costruita del 25 per cento. Il mismatch ha prodotto maggiore congestione.

Il rischio che queste lezioni non siano sufficienti è sempre latente, ma per il momento l’ottimismo è legittimo. Il prossimo salto dell’urbanizzazione potrà accompagnare il rebalancing dell’economia cinese verso un modello di sviluppo fatto di maggiore produttività, non solo di costi salariali ridotti all’osso; di domanda interna dinamica, non solo di politiche commerciali mercantilistiche; di utilizzo più intelligente delle risorse naturali. Secondo le notizie filtrate, è proprio perché la prima versione non era abbastanza ambiziosa sul fronte delle riforme che Li Keqiang ha chiesto alla National Development and Reform Commission di riscrivere il piano di politiche urbane entro cui verranno spesi 40 miliardi di yuan.

Rivoltando Gandhi sulla sua testa, i veri Bric si trovano non nei villaggi che vanno spopolandosi, ma nelle loro grandi città. Che sono destinate a crescere grazie alla nascita di nuove realtà e alla migrazione dalle zone rurali a quelle urbane. Rendendo sempre più necessario pianificare la crescita fisica delle agglomerazioni per renderle compatibili con la dinamica demografica e lo sviluppo economico.

ilsole24ore.com

http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2013-08-01/prossima-sfida-bric-gioca-071253.shtml?uuid=Abp1jIJI




Come trasformare Firenze in un desiderio

firenze

Via al concorso per inventare un brand che dia un sapore nuovo alla città

 

Matteo Renzi ha deciso di buttarsi in un’avventura forse più difficile della scalata a Palazzo Chigi, ovvero il «branding» della sua Firenze. Per questo ha pensato di lanciare online un concorso aperto ai creativi di ogni parte del pianeta anziché ai soliti guru del marketing, della pubblicità e della grafica. Chi sarà in grado di creare il nuovo «brand Firenze» vincerà 15.000 euro. Ma soprattutto avrà la soddisfazione di essere riuscito a dare un’immagine rinnovata a una delle città più famose ma anche più difficili al mondo. Suggerisco a ogni partecipante di registrare le proprie idee così che dopo, per il resto dei suoi giorni, il vincitore potrà avere una percentuale sui diritti di autore tutte le volte che il suo «I Fire», per esempio, sarà venduto su cartoline, magliette, cappellini e via di seguito.

 

Meglio però spiegare a chi non lo sa, e sono molti, cosa voglia dire inventarsi il «branding» di una città. Non significa semplicemente creare un logo, una griffe, un marchio. Bisogna inventarsi e trasformare una città in qualcosa di più di un semplice luogo.

 

Bisogna riuscire a far diventare la città un’idea, un desiderio, un oggetto da consumare e anche da comprare portandosi a casa un pezzettino di lei ogni volta che uno la visita. Non solo. «Branding» non vuol dire solo trovare un simbolo, ma anche costruire nella pratica opportunità e regole nuove per incentivare aziende, studenti, famiglie, imprenditori e turisti a venire in una città che è sempre esistita ma che ora ha tutto un sapore nuovo, nel caso di Firenze come direbbe il Pascoli «anche di antico». Chi pensa che a Bilbao sia bastato costruire il museo Guggenheim di Frank Gehry per dare un brand nuovo alla città, si sbaglia di grosso. Prima del museo la città basca ha messo in piedi un progetto di nuove infrastrutture gigantesco, da nuove linee di trasporto urbano alla riqualificazione di aree industriali. Il Guggenheim è stato soltanto la punta di diamante di una visione molto ambiziosa dei politici locali. L’ambizione di Renzi è sicuramente quella di far diventare Firenze una sorta di Grande Mela, New York in riva all’Arno.

 

E’ chiaro che non basterà un nuovo brand trovato grazie al contributo della Rete a risolvere i problemi di una città che ha una parte coperta di una patina gloriosa, quella del Rinascimento, e un’altra da uno spesso strato di polvere accumulatosi negli anni, parecchi, che sono passati dal tempo dei Medici a oggi. Ma l’iniziativa di Palazzo Vecchio è comunque un passo nella direzione giusta. New York, per la quale oggi tutti stravedono, agli inizi degli Anni 70 era data per morta, non proprio come Detroit ma quasi. L’Alitalia nel 1971 fece addirittura una pubblicità per spingere le nuove rotte su Boston e Washington che diceva: «Today New York City disappears», oggi New York City scompare. Firenze non è proprio in queste condizioni, anzi è amata e ammirata nel mondo più che mai. Ma come gran parte delle città d’arte e dei tesori culturali italiani, ha bisogno di lavorare sul look.

 

Il cammino, in questo campo, è lungo e complicato. Sempre per citare New York, solo nel 1977 la città iniziò a rialzare il capo. A quei tempi la rete non esisteva e quindi l’amministrazione pubblica si rivolse a un guru della grafica, Milton Glaser, che inventò il famoso slogan con il cuore «I (cuore) New York», I Love New York. Un branding cosi semplice e geniale che nessuno è mai stato in grado di superarlo in nessuna altra città del mondo. Ci riuscisse Firenze sarebbe un miracolo e glielo auguriamo tutti.

 

Amsterdam ha avuto la fortuna di avere all’inizio del suo nome «am», che sfruttando l’inglese – ormai lingua planetaria – è stato utilizzato per il branding «I (io) Am (sono) sterdam». Non so cosa voglia dire «sterdam», ma comunque pare abbia funzionato. «I Fire» – fire inteso come Fire-nze ma anche come fuoco – potrebbe funzionare. «Si fossi foco» lo cantava anche il poeta Cecco Angiolieri. Ma «I Fire» vuole anche dire «Io sparo» e forse non è il branding migliore. Andava bene per la Chicago degli Anni 20, non per la Firenze del 2020.

 

Matteo Renzi ha deciso di buttarsi in un’avventura forse più difficile della scalata a Palazzo Chigi, ovvero il «branding» della sua Firenze. Per questo ha pensato di lanciare online un concorso aperto ai creativi di ogni parte del pianeta anziché ai soliti di guru del marketing, della pubblicità e della grafica. Chi sarà in grado di creare il nuovo «brand Firenze» vincerà 15.000 euro. Ma soprattutto avrà la soddisfazione di essere riuscito a dare un’immagine rinnovata a una delle città più famose ma anche più difficili al mondo. Suggerisco a ogni partecipante di registrare le proprie idee così che dopo, per il resto dei suoi giorni, il vincitore potrà avere una percentuale sui diritti di autore tutte le volte che il suo «I Fire», per esempio, sarà venduto su cartoline, magliette, cappellini e via di seguito.

 

Meglio però spiegare a chi non lo sa, e sono molti, cosa voglia dire inventarsi il «branding» di una città. Non significa semplicemente creare un logo, una griffe, un marchio. Bisogna inventarsi e trasformare una città in qualcosa di più di un semplice luogo.

 

Bisogna riuscire a far diventare la città un’idea, un desiderio, un oggetto da consumare e anche da comprare portandosi a casa un pezzettino di lei ogni volta che uno la visita. Non solo. «Branding» non vuol dire solo trovare un simbolo, ma anche costruire nella pratica opportunità e regole nuove per incentivare aziende, studenti, famiglie, imprenditori e turisti a venire in una città che è sempre esistita ma che ora ha tutto un sapore nuovo, nel caso di Firenze come direbbe il Pascoli «anche di antico». Chi pensa che a Bilbao sia bastato costruire il museo Guggenheim di Frank Gehry per dare un brand nuovo alla città, si sbaglia di grosso. Prima del museo la città basca ha messo in piedi un progetto di nuove infrastrutture gigantesco, da nuove linee di trasporto urbano alla riqualificazione di aree industriali. Il Guggenheim è stato soltanto la punta di diamante di una visione molto ambiziosa dei politici locali. L’ambizione di Renzi è sicuramente quella di far diventare Firenze una sorta di Grande Mela, New York in riva all’Arno.

 

E’ chiaro che non basterà un nuovo brand trovato grazie al contributo della Rete a risolvere i problemi di una città che ha una parte coperta di una patina gloriosa, quella del Rinascimento, e un’altra da uno spesso strato di polvere accumulatosi negli anni, parecchi, che sono passati dal tempo dei Medici a oggi. Ma l’iniziativa di Palazzo Vecchio è comunque un passo nella direzione giusta. New York, per la quale oggi tutti stravedono, agli inizi degli Anni 70 era data per morta, non proprio come Detroit ma quasi. L’Alitalia nel 1971 fece addirittura una pubblicità per spingere le nuove rotte su Boston e Washington che diceva: «Today New York City disappears», oggi New York City scompare. Firenze non è proprio in queste condizioni, anzi è amata e ammirata nel mondo più che mai. Ma come gran parte delle città d’arte e dei tesori culturali italiani, ha bisogno di lavorare sul look.

 

Il cammino, in questo campo, è lungo e complicato. Sempre per citare New York, solo nel 1977 la città iniziò a rialzare il capo. A quei tempi la rete non esisteva e quindi l’amministrazione pubblica si rivolse a un guru della grafica, Milton Glaser, che inventò il famoso slogan con il cuore «I (cuore) New York», I Love New York. Un branding cosi semplice e geniale che nessuno è mai stato in grado di superarlo in nessuna altra città del mondo. Ci riuscisse Firenze sarebbe un miracolo e glielo auguriamo tutti.

 

Amsterdam ha avuto la fortuna di avere all’inizio del suo nome «am», che sfruttando l’inglese – ormai lingua planetaria – è stato utilizzato per il branding «I (io) Am (sono) sterdam». Non so cosa voglia dire «sterdam», ma comunque pare abbia funzionato. «I Fire» – fire inteso come Fire-nze ma anche come fuoco – potrebbe funzionare. «Si fossi foco» lo cantava anche il poeta Cecco Angiolieri. Ma «I Fire» vuole anche dire «Io sparo» e forse non è il branding migliore. Andava bene per la Chicago degli Anni 20, non per la Firenze del 2020.

FRANCESCO BONAMI

La Stampa

http://lastampa.it/2013/07/31/cultura/opinioni/editoriali/come-trasformare-firenze-in-un-desiderio-SomZA9wmisjNRwE4SRJiqI/pagina.html

 http://zooppa.com/it-it/contests/firenze/brief




Regno Unito. È epidemia di morbillo. La causa? Paura dell’autismo

Qualcuno continua ad essere convinto che l’immunizzazione causa la comparsa di disordini dello spettro autistico. Nulla di più errato, eppure c’è chi ci crede. Tanto che, a distanza di 15 anni da quando in Galles si è dato ampio risalto a uno studio “irresponsabile e disonesto” che lo affermava, è scoppiata un’epidemia.

morbillo

29 LUG – 15 anni fa la diffusione di una credenza errata sul legame tra vaccini per il morbillo e autismo. Oggi una grande epidemia di morbillo, con centinaia di contagi. Questo, in poche parole, quello che è accaduto nel sud-est del Galles negli ultimi mesi. Una storia emblematica, raccontata anche sulle pagine delWall Street Journal, che dimostra come un’informazione scientifica errata, con la dovuta risonanza mediatica, possa causare molti danni.

La vicenda è iniziata nel 1998, quando un dottore inglese, Andrew Wakefield, ha ipotizzato che l’immunizzazione da morbillo, orecchioni e rosolia potesse causare autismo. In un piccolo studio pubblicato su The Lancet, il medico aveva infatti descritto come alcuni bambini “precedentemente sani” avessero sviluppato problemi gastrointestinali e disordini comportamentali (compreso il disturbo tanto temuto) a seguito della somministrazione del vaccino trivalente, concludendo che fossero “necessari ulteriori studi per investigare il possibile legame tra immunizzazione e sindromi dello spettro autistico”.
Un legame che non esiste, come dimostrato da numerosi studi, il più recente dei quali è uscito lo scorso aprile su Journal of Pediatrics, ma che aveva avuto ampio risalto su giornali locali nel sud del Galles, tanto che una parte consistente della popolazione si era convinta della sua fondatezza.
Nonostante la comunità accademica avesse immediatamente precisato che si trattava di una ricerca incompleta con una conclusione speculativa, e che non vi fosse alcuna reale evidenza di un collegamento, nel Galles la paura si era irrimediabilmente diffusa, soprattutto a causa di una copertura mediatica piuttosto ampia data alla notizia dal quotidiano locale The Post. Tanto che, secondo le stime, entro il terzo trimestre del 1998 la diffusione del vaccino era crollata del 14% nelle zone di maggiore distribuzione del giornale, contro una diminuzione di appena il 2,4% nel resto della regione.

A nulla è valsa anche la tardiva smentita dello studio da parte del Lancet stesso, arrivata nel 2010 dopo che il General Medical Council britannico aveva concluso che  il lavoro pubblicato da Wakefield fosse talmente “irresponsabile e disonesto” da rendere necessaria la radiazione del medico dall’ordine.
Ci possono volere anni prima che scoppi un’epidemia a seguito di un calo delle vaccinazioni: nella regione del Galles oggi colpita, ad esempio, dal 1999 al 2008 i casi di morbillo si sono attestati tra 104 e i 223, per poi arrivare a 567 nel 2009, e ridiscendere nel 2010 e nel 2011 a 117 e 105 casi rispettivamente. Finché, nel novembre 2012, il numero di casi è ricominciato a salire, e i medici hanno osservato dozzine di nuovi casi a settimana, fino ad arrivare al numero record di 1219. La maggior parte dei quali sono proprio ragazzi dai 10 ai 18 anni che avevano saltato la vaccinazione negli anni in cui si era diffusa la paura dell’autismo tra gli abitanti della regione.

Un problema economico e sociale per la regione del Regno Unito, visto che tra coloro che hanno contratto il morbillo circa il 10% è stato anche ricoverato in ospedale per l’insorgenza di complicazioni (come disidratazione grave o polmonite) ed una persona è morta. Ma la questione non riguarda esclusivamente il Galles: la patologia è estremamente contagiosa e può superare i confini nazionali abbastanza facilmente dando luogo ad una epidemia, mettendo a repentaglio i risultati ottenuti grazie  allo sforzo dell’Oms nella lotta alla sua eradicazione.

Le morti causate da questa malattia infettiva sono infatti crollate del 71% dal 2000 al 2011, passando da 542 mila a 150 mila, secondo gli ultimi dati pubblicati a gennaio scorso all’interno del Morbidity and Mortality Weekly Report dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC) statunitensi. Ma il risultato potrebbe essere ancora oggi a rischio, proprio per via di una opposizione “filosofica” ai vaccini che ancora oggi è latente. Ciò è pericoloso per i paesi in via di sviluppo, più che per le nazioni occidentali: il Galles è una regione piuttosto moderna che garantisce alla popolazione accesso alle cure mediche, ma in altri luoghi la situazione è diversa. Secondo le stime dell’Oms, ad esempio, nel 2011 erano ancora 20 milioni i bambini che non avevano fatto neanche il primo richiamo del vaccino, di cui circa la metà si trovano in sole cinque nazioni: Congo, Etiopia, India, Nigeria e Pakistan.

Insomma, questa epidemia potrebbe essere solo una sorta di “canarino da miniera”, come ha spiegato James Goodson, esperto di morbillo dei CDC: le persone che si rifiutano di vaccinarsi potrebbero mettere a rischio anche la salute di chi gli è intorno. “Nonostante sia una delle misure sanitarie più importanti mai inventate da un uomo o da una donna, sembra che ci sia ancora una parte dell’umanità che si oppone all’idea stessa dell’immunizzazione”, ha commentato Dai Lloyd, uno dei medici che nel Galles in questi mesi ha cercato di curare i pazienti vittime dell’epidemia di morbillo.
Senza contare che questa epidemia è qualcosa di molto frustrante per chi tenta di fare buona sanità nel Regno Unito, come ha concluso Paul Cosford, direttore medico di Public Health England, agenzia governativa per la salute pubblica in Gran Bretagna: “È piuttosto irritante il fatto che fossimo vicini all’eradicazione e invece ora il problema si sia ripresentato”. Soprattutto per questo motivo.

Laura Berardi

29 luglio 2013

da: http://www.quotidianosanita.it/scienza-e-farmaci/articolo.php?articolo_id=16271




Autobus in fiamme a Corviale

Verso le ore 14.30 un autobus è andato in fiamme mentre sostava al capolinea di Largo Reduzzi creando diasagi alla traffico, molto spavento tra gli abitanti ma per fortuna nessun danno grave.
A segnalare il fatto è stato il capogruppo di Fratelli d’Italia del Municipio XI Valerio Garipoli che uscito da una riunione ha notato il fumo nero che saliva nei pressi del primo lotto di Corviale.

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“Doloso o colposo il fatto è grave, qualunque sia la sua reale natura, poiché ha creato notevoli problemi all’ambiente e alla mobilità, oltre alla paura tra i residenti. – dichiara Garipoli in un comunicato stampa – Nel ringraziare il pronto intervento dei vigili del fuoco ci auguriamo che il Presidente Veloccia e la sua Giunta possano vigilare con maggiore accuratezza affinché anche la nostra periferia possa rientrare nella città ideale del Sindaco Marino”.

In un altro comunicato il Comitato Inquilini Corviale denuncia un fatto grave che ha ritardato le operazioni di soccorso:

” I pompieri presenti con l’autobotte non sono riusciti a spegnere l’incendio perchè non hanno potuto rifornirsi d’acqua dalla colonnina dell’antincendio perchè manomessa, la colpa di chi è? a voi le risposte! intanto il pericolo incombe sui cittadini”.