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An architet returns to Italy

The architect Renzo Piano has offices in Genoa, where he grew up; in Paris, where he currently lives; and in New York, where he is perhaps best known for having designed the Times Building, on Eighth Avenue. Piano spends a lot of time in New York—among his current projects is the new Columbia University campus that’s going up in West Harlem— and he was in the city when he got a call, a year and a half ago, from Italy’s President, Giorgio Napolitano. Napolitano wanted to appoint Piano a “senator for life.” The job comes with a salary and a vote in the Italian Senate, and since it’s “for life” there are no pesky reëlection campaigns. Was Piano interested? He was taken aback.
“For some funny reason, you don’t understand that you are aging,” Piano said the other day, in Rome. “So when President Napolitano called me, I said, ‘But I’m too young!’ And he laughed over the phone, and he said, ‘No, you are not too young.’ ”
Piano, who is seventy-seven, was sitting in his Senate office in the Palazzo Giustiniani, around the corner from the Pantheon. The room is almost entirely taken up by a large round table, and its walls are covered with drawings and plans. As soon as Piano became a senator, he handed over the office, along with his government salary, to six much younger architects and asked them to come up with ways to improve the periferie—the often run-down neighborhoods that ring Rome and Italy’s other major cities. The six were about to present their first year’s worth of work to the public, which was why Piano was in the capital.
“In the nineteen-sixties and seventies, the big challenge—in Europe certainly, but everywhere—was to establish as a principle that historic centers have to be preserved,” he went on. “But in the twothousands—probably for the next three, four, five decades—the real challenge is to transform the periphery. If we fail in doing this, it will be a real tragedy.”
Much as recent immigrants in France are shunted to the banlieues, in Italy they are pushed into the periferie. As immigration to Europe has soared, so, too, have tensions; in November, riot police were dispatched to Tor Sapienza, a neighborhood on the eastern edge of Rome, after residents attacked an immigrant center there. “The periphery is always accompanied by an adjective that is negative,” Piano said. “But the truth is the energy is there; the desire for change is there. There is always, even in the most difficult periphery, something good, and that is what you have to find, to bring up.”
In the early nineteen-seventies, Piano and his partner at the time, Richard Rogers, designed the Centre Georges Pompidou, in Paris. The building, with its inside-out construction, has been called “one of the most radical” of the twentieth century, and it transformed ideas about what a museum could be. Piano believes in the power of museums and libraries and concert halls. “They become places where people share values, where they stay together,” he said. “And this is what I call the civic role of architecture.”
Rome is full of what might be called un-civic architecture: projects that were started but not completed, like a halffinished sports complex that resembles a giant spinnaker; or completed and then abandoned, like the bicycle-sharing stations that dot the sidewalks but have no bikes. One of the projects Piano’s team came up with would use the space under an empty viaduct. The viaduct was supposed to improve tram service to the northeastern rim of the city, but the trams never arrived. Piano shrugged: “Typical.” Two of his young architects had drawn up plans to convert the viaduct into a sort of upside-down High Line, with a park running beneath. Only a tiny part of the project had been completed, but “in one year it’s not bad,” Piano said. He recalled his own years studying architecture, in the early-nineteen-sixties in Milan. He and his fellow-students were occupying the university, “so that was my job in the night,” he said. “And in the day I was working in a nice office.”
“The real point for students like me was to change the world,” he said. “It was a kind of mad, insane, but great utopia. And I think it’s good to grow up like this, because you grow with this idea that never leaves you, so when you are seventy-seven you still feel like a kid and this is what you want to do.”

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Spazi vuoti rianimati dalle startup sociali

Erano le ciminiere a delineare, nell’Ottocento, il profilo delle città. Oggi sono i palazzi e i capannoni, simboli del mix tra terziario e manifatturiero. Nell’economia della conoscenza quali saranno i luoghi che disegneranno il profilo del futuro? Per scoprirlo basta seguire le tracce dei luoghi dell’innovazione e della creatività, come i fablab, i coworking, gli incubatori, i luoghi culturali come le esposizioni d’arte, co-housing, nuove residenze d’artista, luoghi di nuovo welfare. Queste attività stanno trovando una nuova casa nei tanti luoghi abbandonati disseminati per l’Italia. All’insegna della sostenibilità.

Il paese dispone di un patrimonio di oltre sei milioni di beni inutilizzati o sottoutilizzati (significa più di due volte la città di Roma) tra abitazioni ed altri immobili pubblici, parapubblici e privati, come ex fabbriche e capannoni industriali dismessi, ex-scuole, asili, oratori e opere ecclesiastiche chiuse, cinema e teatri dismessi, monasteri abbandonati, spazi di proprietà delle società di Mutuo Soccorso e delle Cooperative Case del Popolo, Cantine Sociali, colonie, spazi comunali chiusi (sedi di quartiere ed altri spazi di proprietà quali lasciti), beni confiscati alla mafia, “paesi fantasma”. E la lista dell’Italia lasciata andare a se stessa è lunghissima.

È proprio in questi luoghi marginali, in questi residui della storia che si stanno scrivendo pezzetti di futuro, fatto di innovazioni, micro-impresa e talenti creativi, accompagnata sempre dall’entusiasmo delle comunità. «Non è la grande industria, l’infrastruttura che in altre epoche cambiava i destini di un paese. Si tratta di nuove nicchie di mercato, magari piccole e locali, ma che funzionano» spiega Giovanni Campagnoli, che ha raccolto le migliori best practice sul sito www.riusiamolitalia.it. Ne emerge un’Italia in fermento, con luoghi marginali che tornano a rinascere grazie soprattutto alla spinta di giovani. Non si tratta solo di presidi sociali sul territorio ma di vere e proprie attività economiche nell’ambito del welfare, dell’educazione, del turismo, della green economy. «I giovani mettono in campo piani di sostenibilità economica con startup sociali e culturali – aggiunge Campagnoli, autore del libro Riusiamo l’Italia (edito da Il Sole 24 Ore) –. Puntano alla diversificazione delle entrate, dipendono sempre meno da enti pubblici e sono più autonomi, grazie alla raccolta fondi, alle fondazioni ex bancarie, alla partecipazione a bandi». Così ad esempio a Rovereto lo spazio giovani Smart Lab, gestito da un’associazione di promozione sociale, nei primi sei mesi di avvio ha oltre 3.200 soci, l’80% under 35, occupandosi di programmazione musicale, artistica, incubatore di imprese, spazi co-working, sale prove, culture giovanili (generando un fatturato previsto, per questo primo anno, di circa 250mila euro).

«Questi spazi sono veri e propri “beni comuni” – scrive Campagnoli nel libro – che possono rappresentare una piccola, ma significativa misura “anticiclica”, perché producono occupazione giovanile, risorse economiche, socialità, cultura, aggregazione, sviluppo locale». Campagnoli, che lavora da anni nel sociale ed è di formazione bocconiana, ha anche calcolato l’impatto sull’occupazione: l’intervento anche solo sull’1 per mille degli immobili indurrebbe la creazione di 73mila posti di lavoro, con un contributo al calo dell’occupazione del 4,8 per cento. La stima potrebbe certamente crescere laddove il pubblico agisca da facilitatore. E proprio con questa consapevolezza il Comune di Bologna ha approvato a febbraio di quest’anno il «Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani». Altri 15 Comuni lo hanno adottato e un’altra cinquantina ci stanno lavorando. Perché il problema maggiore è come risolvere alcuni ostacoli, anche burocratici, come per esempio l’assunzione di responsabilità.

Cosa succede se qualche genitore si fa male mentre sistema la scuola del figlio il sabato? Il regolamento scioglie questo e altri nodi riuscendo così a dare applicazione concreta al principio di sussidiarietà. «Di fatto il regolamento libera risorse – spiega Gregorio Arena, docente di Diritto amministrativo all’Università di Trento e presidente di Labsus, che ha lavorato due anni col Comune per il regolamento –. E permette un salto culturale per cui agli occhi dello Stato i cittadini diventano portatori di capacità, di risorse, non più oggetto di bisogni da soddisfare». E a Bologna da due anni il Comune offre gratis gli spazi abbandonati nei quartieri. Sono un centinaio di palazzi e 1.200 aree di edilizia pubblica concessi a costo zero o a bassi canoni per far ripartire l’aggregazione e l’economia.

Anche lo Stato, a livello centrale, si muove. L’anno scorso il ministero della Difesa ha annunciato la concessione gratuita di 700 tra caserme, depositi, fortificazioni, bunker, terreni e rifugi alpini. La formula prescelta dovrebbe essere la valorizzazione d’onore con una concessione gratuita per dieci anni a chi presenterà un adeguato progetto. Il ministero conferma l’intenzione di dare seguito all’annuncio, con iniziative nei primi mesi del 2015.

 

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Acqua potabile ed elettricità dai rifiuti organici umani, il progetto riuscito della fondazione di Bill Gates

Progetto Omniprocessor è stato finanziato dal magnate americano Bill Gates

Acqua potabile dai rifiuti umani. E’ questo l’ultimo progetto finanziato da Bill Gates attraverso la sua fondazione, la Bill & Melinda Gates Foundation.

Il progetto, che prende il nome di Omniprocessor, è stato sviluppato dalla società di Seattle Janicki Bioenergy per trasformare i rifiuti umani in energia rinnovabile e acqua potabile.

E lo dimostra lo stesso Gates sorseggiando un bicchiere d’acqua e dichiarando:

Un bicchiere di deliziosa acqua potabile. Come quella di una bottiglia.

Il progetto Omniprocessor è stato creato principalmente per affrontare sia il problema della scarsa igiene che la frequente mancanza di acqua potabile ed energia elettrica nei Paesi in via di sviluppo.

COME FUNZIONA. Al momento l’impianto di prova si trova a Seattle, ma presto ne sarà realizzato uno in Senegal, nella città di Dakar, dove entrerà in funzione a pieno regime per la sperimentazione a fine 2015. Grazie ad un motore a vapore questo macchinario è in grado di trasformare i rifiuti organici in elettricità e acqua potabile producendo esclusivamente cenere come rifiuto da smaltire. Il macchinario impiega solamente cinque minuti per trasformare rifiuti organici solidi in acqua potabile ed è in grado di produrre fino a 86.000 litri di acqua al giorno e 250 kW di energia elettrica con i rifiuti organici di circa 100.000 persone.

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Siamo cresciuti nel ghetto e lo raccontiamo senza paure

Marc-Nammour-La-Citta-Nuova

In un momento storico di grave disagio per le periferie delle nostre città, è naturale cercare il confronto con altri paesi europei, come la Francia, che vivono certe situazioni già da anni. Sappiamo che i sobborghi parigini sono molto diversi dai quartieri di Tor Sapienza a Roma e di Corvetto a Milano, ma parlare con il rapper franco-libanese Marc Nammour, definito spesso “la voce della banlieue”, può aiutarci a capire se esiste qualche tratto in comune e, magari, qualche buona pratica da imitare. A settembre è uscito La nausée, terzo album de La Canaille, la band di Montreuil con la quale Marc Nammour suona dal 2007, mescolando i suoi taglienti testi con una musica ibrida tra hip hop e rock. «Il nome del gruppo deriva da un vecchio poema rivoluzionario, scritto nel 1871 da Alexis Bouvier durante La Comune di Parigi, e descrive perfettamente che cosa e chi è La Canaille. In quel contesto il termine indicava le fasce disagiate della popolazione, che soffrivano in silenzio mentre sulle loro spalle si facevano i grossi profitti, e allo stesso tempo era usato anche come insulto da parte delle classi alte nei confronti dei poveri. La radice è quella di “Canis”, che in latino significa “cane”. Dopo quasi un secolo e mezzo la situazione non è cambiata, la battaglia prosegue.»

Il nuovo album, che segue Une goutte de miel dans un litre de plomb (2009) e Par temps de rage (2011), s’intitola La nausée «perché quello era il mio stato d’animo mentre mi accingevo a scrivere queste canzoni». A provocare la nausea di Marc Nammour è stato «l’eccesso di nazionalismo, razzismo, omofobia, miseria e capitalismo. In Francia, come negli altri paesi europei, la situazione per i lavoratori è diventata sempre più dura durante la crisi. È difficile trovare un lavoro o conservarne uno. È difficile mantenere la propria famiglia, pagare l’affitto e le bollette. Quando scrivo i miei testi ho sempre in mente le classi disagiate, perché è lì che sono nato e cresciuto. Ora è veramente un brutto periodo, così ho scelto di parlare apertamente di certi problemi, invece di ignorarli. L’unico filo conduttore delle dodici canzoni del disco è il mio grande sentimento di tristezza».

La fase di registrazione è avvenuta tra novembre 2013 e marzo 2014 al Music Unit Studio, sempre nel sobborgo parigino di Montreuil, dove Nammour ha lavorato insieme a tre produttori – Mathieu Lalande, Jérôme Boivin e Lorenzo Bianchi – e ad alcuni musicisti, amici di lunga data come Antoine Berjeaut (fiati), dj Pone e dj Fab, Serge Teyssot Gay (chitarra), Lazar e Sir Jean (voci). Ma per un rapper, o poeta di strada, la fase cruciale è quella della scrittura dei testi: «Il mio modo di scrivere canzoni è sempre diverso. Non ci sono regole quando si tratta di ispirazione, viene quando vuole, ed è una sensazione strana. A volte scrivo di mattina, altre volte in piena notte, ma quando l’emozione giusta arriva, la riconosco immediatamente e le parole scorrono con naturalezza e facilità». Le parole non sono indipendenti, dice Nammour, che ha «bisogno della musica per scrivere, anche di un breve loop, per entrare in un certo stato d’animo e immaginare situazioni. Mi dà il tempo e suggerisce il flow per rappare le mie poesie. Posso scrivere con o senza rime, per esempio questo album è diviso a metà, ma senza il vincolo delle rime posso essere molto più preciso ed è interessante scoprire come le parole inseguano il beat».

Come quasi tutti i suoi colleghi, Marc ha scoperto il rap da ragazzino, nella Francia degli anni Novanta. «All’epoca il rap pompava da tutti gli impianti stereo del quartiere. Alcuni ragazzi cominciavano a fare breakdance, altri scratchavano sui giradischi, altri dipingevano sui muri e altri ancora, come me, erano interessati alle parole, alla poesia, alle rime. Ho iniziato a scrivere i miei primi testi per divertimento nel 1996, entrando a far parte di alcune piccole band nella zona orientale della Francia. Poi ho deciso progressivamente di farlo più seriamente quando mi sono trasferito a Montreuil nel 2001.»

In effetti, la storia di Marc Nammour non comincia a Montreuil, ma in Libano. «Sono nato nel 1978, durante quella terribile guerra. La mia famiglia è stata costretta a fuggire dal paese per proteggere mia sorella e me, così siamo arrivati in Francia nel 1986, nella piccola città di Saint Claude, vicino alla Svizzera. Come per tutti gli immigrati, per me non è stato facile crescere in una terra straniera. Ricordo che a scuola facevo sempre a botte con gli altri ragazzini, perché mi prendevano in giro e mi chiamavano “straniero”. Poi mi sono abituato al nuovo posto e alla nuova vita. La mia famiglia viveva in uno di quei grandi agglomerati urbani progettati per i lavoratori e da bambino mi sembrava una fortuna, perché bastava uscire di casa per poter giocare con i miei coetanei. Ancora non potevo capire che si trattava di una strada senza uscita, di un ghetto. Ero l’unico ragazzino libanese della zona, la maggior parte delle famiglie veniva dal Nord Africa e dalla Turchia, perciò mi sentivo speciale. Allo stesso tempo ero sempre imbarazzato, perché tutti i telegiornali francesi parlavano del mio paese in termini orribili: guerra, terrorismo, morte, contrasti religiosi ecc. Così sono cresciuto tra due paesi con la strana sensazione di provenire da nessun luogo.»

Per i suoi testi fortemente impegnati, Marc Nammour è spesso definito “la voce delle banlieue”. «Concordo con quest’etichetta, ma lo stesso vale per la maggior parte dei rapper francesi. Siamo cresciuti nel ghetto, lo abbiamo visto con i nostri occhi, e quando raccontiamo quella realtà lo facciamo attraverso la conoscenza diretta. Sappiamo che non è una vita facile. Le periferie francesi stanno diventando progressivamente più brutte con il passare del tempo. Molta violenza, disoccupazione, droga, esclusione sociale, divisioni fra comunità… come in ogni ghetto del mondo. Hai la sensazione che nessuno si curi di te. Ma allo stesso tempo puoi trovare anche grandi esempi di umanità e solidarietà

Molti paesi europei, come Francia, Italia e Regno Unito, hanno visto l’esplosione di partiti nazionalisti e xenofobi. «La povertà è il miglior pane per nutrire i sentimenti di odio e razzismo. Le persone diventano ogni giorno più povere, così si affidano al bieco populismo che individua lo straniero come il pericolo più grave, come il diverso che vuole rubare il loro lavoro o cambiare la loro identità culturale. Tutto questo ha a che fare con la paura. I governi giocano con il fuoco quando accettano di dialogare o scendere a patti con partiti che alimentano l’odio. In Francia, per esempio, il nostro governo socialista ha espulso molti più immigrati di quanto abbia mai fatto qualunque altro partito di destra. L’Europa sta diventando sempre più conservatrice, ha costruito muri verso il resto del mondo per proteggersi da un’invisibile minaccia proveniente dal sud. Ecco perché la mia identità non sarà mai nazionale, ma sociale. La cultura è l’unico strumento per combattere l’ignoranza e la stupidità che portano a certe derive nazionaliste.» Essere cresciuto tra due culture, quella araba e francese, è comunque una grande ricchezza, anche se bisogna far dialogare le proprie radici con la realtà di un paese totalmente diverso. «Non è sempre semplice. Io mi sento come se provenissi da ogni luogo e da nessuno. Per esempio, capisco l’arabo, ma non lo parlo molto bene. Sono un arabo incompleto. Non sono religioso, ma amo il Libano, la musica, il cibo, la cultura, il modo di parlare. È una specie di dono che cerco di condividere con mia figlia. Cerco di andare a trovare la mia famiglia là ogni volta che posso e, quando sono là, avverto qualcosa di magico. Di solito al ritorno in Francia sono molto triste, perché purtroppo in quella parte di mondo non c’è speranza per la pace. Tutti i cugini della mia età sono cresciuti con la guerra e il suo frastuono. I cristiani odiano i musulmani, gli sciiti odiano i sunniti, gli arabi odiano gli israeliani e viceversa. La situazione è estremamente complicata, soprattutto per i giovani che soffocano sotto tutte le tensioni politiche e religiose.»

Recentemente Marc Nammour è stato in Egitto, invitato dall’Istituto di cultura francese di Alessandria, per suonare dal vivo con il suo elettro-sufi Saleh & Miniawy. «Era la prima volta che suonavo in Medioriente e spero che non sia l’ultima, perché mi è piaciuto tantissimo essere là. I miei genitori sono nati in Egitto e per me è stato una sorta di ritorno alle mie origini, un viaggio davvero intenso. Sono passato anche al Cairo, una città pazza: così tanti abitanti, un tale inquinamento, moltissimi poveri. Dopo la rivoluzione il paese mi è sembrato diviso tra progresso e tradizione, si percepisce nell’aria. Ho accettato quell’invito con enorme piacere, dopo aver sentito in rete alcune tracce di Saleh & Miniawy. Non li conoscevo, ma ho capito subito che saremmo andati nella stessa direzione. L’idea di creare uno spettacolo di musica elettronica e poesia, mescolando arabo e francese, mi sembrava estremamente interessante. Infatti, penso che questa collaborazione continuerà e stiamo lavorando su alcune tracce per realizzare un album e portare in tour questo progetto.» Diviso tra Francia e Medioriente, chi è Marc Nammour? «In Francia sono un libanese e in Libano sono un francese. Chi sono io? Sto ancora cercando di scoprirlo… Ma questo mi dà la forza per ricominciare ancora la mia vita. Questa è la ricchezza dei migranti, sono abituati a ricominciare da capo ogni giorno. Sempre. Anche se sembra impossibile o sono stanchi, hanno imparato che ci può essere sempre una soluzione. E anch’io ho imparato che devo contare solo su me stesso per andare avanti.»

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Sfratti, Milano con Roma e Napoli «Il Governo proroghi il blocco»

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Nel capoluogo lombardo sono 4 mila le sentenze di sfratto dal 2008 al 2013. In Lombardia un quinto dei procedimenti eseguiti

È allarme sfratti nelle grandi città: tra queste, anche il capoluogo lombardo. A lanciarlo sono Francesca Danese, Daniela Benelli e Alessandro Fucito, assessori alle Politiche abitative di Roma, Milano e Napoli, le tre aree metropolitane più grandi d’Italia, che chiedono al governo di prorogare il blocco degli sfratti e scongiurare una situazione altrimenti ingestibile da un punto di vista sociale e da quello dell’ordine pubblico. Fra le 30 e le 50 mila famiglie, in tutta Italia, rischiano di finire in strada per la mancata proroga degli sfratti di fine locazione. Dall’inizio della crisi, sotto la Madonnina sono state 4 mila le sentenze di sfratto a Milano tra il 2008 al 2013. In Italia, il 70% delle famiglie avrebbe i requisiti di reddito e sociali (anziani, minori, portatori di handicap) previsti dalla legge per la proroga. «E comunque, lo stesso Viminale ammette l’incompletezza dei suoi dati — sottolineano Francesca Danese, Daniela Benelli e Alessandro Fucito — . Oltre 70 mila le sentenze di sfratto in Italia alla fine dello scorso anno, più di 30 mila quelli eseguiti, il 90% dei quali per morosità, spesso incolpevole. Il presupposto delle proroghe consisteva nell’impegno del governo di sostenere con adeguati piani i comuni ma questi piani non si sono ancora visti».

Le richieste di intervento della forza pubblica da parte degli ufficiali giudiziari sono state oltre 120 mila. Ogni giorno sono 140 gli sfratti eseguiti con la forza pubblica. Non esistono statistiche su quelli che avvengono senza la polizia e, più in generale, le cifre ufficiali sono largamente sottostimate. Una sentenza di sfratto colpisce, secondo le statistiche, una ogni 353 famiglie. Ma, escludendo le famiglie proprietarie di case e gli assegnatari di alloggi pubblici, significa che ogni anno in Italia una sentenza di sfratto, quasi sempre per morosità incolpevole, tocca una famiglia su quattro. Quasi un quinto degli sfratti sono stati eseguiti in Lombardia, il 15% nel Lazio e l’8% in Campania. «Ecco perché torniamo a chiedere con forza la proroga del blocco degli sfratti e politiche abitative strutturali che ci consentano di uscire dalla logica dell’emergenza. Su questo sollecitiamo una urgente riunione della consulta casa dell’Anci perché sia ben chiaro il grido di dolore proveniente dalle città metropolitane dove forte è il disagio».

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La favola milionaria di Gianluigi: “Dal Salento agli Usa l’eolico per tutti”

A neanche 20 anni ha brevettato in Puglia le mini pale “casalinghe” sulle quali un gruppo di finanziatori americani sta investendo cinque milioni e mezzo di euro. “Da una piccola startup ai capitali stranieri, ma la produzione resterà in Italia”

La Befana, nella calza di un ragazzo salentino, ha infilato cinque milioni e mezzo di euro; e quando è ripartita, per l’America o chissà dove, invece della scopa, era a cavallo di una mini turbina eolica fatta in Puglia. Questa storia è una fiaba da raccontarci la sera per credere ancora che non è tutto perduto.
Non è tutto perduto se esistono ragazzi come Gianluigi Parrotto che, senza chiedere un euro a nessuno, si è inventato un prodotto innovativo, ci ha costruito attorno una azienda e ha avuto così successo che in un anno appena ha venduto tutto ad un misterioso gruppo americano non con l’obiettivo di diventare ricco, ma per continuare a produrre turbine – e non solo – nella sua terra: «Voglio far nascere altre startup nel Salento» dice con la sua parlantina sicura, e per un attimo dimentichi che lui stesso è nato soltanto nel 1994: ha vent’anni.

Ma chi è davvero? E come ha fatto?
«Sono nato a Poggiardo, in ospedale, ma i miei stavano a Casarano, in provincia di Lecce. Dopo il biennio di Istituto industriale, a 16 anni mi sono trasferito da solo a Brindisi perché volevo frequentare una nuova scuola di cui avevo letto meraviglie».

Parla del Majorana, dove il preside Salvatore Giuliano aveva appena iniziato la sperimentazione di libri scritti da docenti, computer e wi-fi per tutti, lezioni “rovesciate”, classi scomposte e colorate: il progetto Book in Progress. Parrotto è subito uno degli studenti migliori. L’anno seguente, la prima coincidenza: su un volo da Brindisi a Roma siede accanto a un piccolo produttore bresciano di impianti fotovoltaici.
«Proprio quel giorno a Casarano avevano iniziato l’installazione di pannelli che non mi piacevano affatto. “Possibile fare di meglio?”, gli chiedo». Una mini turbina eolica, niente di davvero speciale in fondo. «Sì, ma avevo davanti due strade: o diventavo un venditore di turbine o me ne inventavo una mia. Ho scelto la seconda».

Dopo i primi prototipi, realizzati in un capannone a Brescia, nel maggio del 2012 Parrotto presenta domanda di brevetto: la sua mini turbina ha una distanza fra albero e vele che le permette di partire anche con pochissimo vento, «arriva ad un picco di potenza di 6 kilowatt con appena 130 rotazioni al minuto».

Nel marzo del 2013 nasce la GP Renewable, le iniziali del fondatore nel nome. A dicembre il primo impianto viene installato in Puglia: «Lo abbiamo venduto sottocosto, per 13 mila euro». Già, e i soldi? Dove ha trovato Parrotto i soldi per partire? Non dai bandi pubblici, «mai partecipato»; non dagli investitori professionali in startup, i venture capitalist, «mai visti». E non dalla famiglia, anzi: sebbene il papà sia diventato socio al 10 per cento, nel frattempo aveva perso il lavoro «e oggi è un dipendente della mia società, fa l’installatore».

E qui c`è la seconda coincidenza: un altro volo, stavolta fra Brindisi e Milano.
Il compagno di viaggio stavolta è il direttore generale di una grande banca. Insomma, si innamora del progetto (e della parlantina di Parrotto) e il giovane startupper ottiene un affidamento bancario sufficiente a partire. Anche perché le sue turbine si vendono alla grande: «Un centinaio in un anno». Cosa hanno di speciale? Qui Parrotto si fa serio: «Lo ammetto. Non molto. A parte il fatto che l`azienda era guidata da un adolescente e questo ci ha aiutato a farci conoscere».

I nuovi prodotti invece saranno una bomba, dice: «Vetroresina, fibra di carbonio, titanio: il team di ingegneri che lavora al mio fianco ha fatto meraviglie, vedrete». Quando? A fine gennaio: presentazione ufficiale del nuovo gruppo, “gli americani”. Chi sono? Mistero, ma i giornali locali hanno già sparato la notizia in prima pagina cantando le lodi di quello che un tempo li chiamavano “Il Briatore dei poveri” per via degli occhiali azzurri ormai archiviati, ma che adesso merita un soprannome molto più generoso, probabilmente. Insomma, gli americani: «Un fondo di investimento, roba grossa, nomi grossi: hanno investito 5,5 milioni di euro nella creazione di una nuova società, la Air Group Italy, che ha inglobato la GP Renewable e io sarò presidente. Prenderemo capannoni industriali abbandonati a Casarano: le turbine le produrremo li. Ma non solo: vogliamo creare un polo di startup innovative in Salento. Spazi e consulenza li metteremo a disposizione gratis».

Sembra anche troppo, persino per una fiaba, e molte cose sono ancora da raccontare e chiarire.
Ma intanto giù il cappello per questo ragazzo-grande, sempre elegante, sicuro ma mai arrogante, che guarda avanti e parla come se fosse destinato a un futuro più grande quando dice: «La turbina diventerà come la lavatrice, un elettrodomestico alla portata di tutti».




Periferie, una rinascita senza ghetti

Una nuova concezione del territorio contro ogni specializzazione ingiustificata, contro ogni idea di «gated community» di poveri, di ricchi o di diversi in senso lato.

Gli scontri nelle periferie delle città italiane hanno fatto riemergere alla fine del 2014 la questione sociale generale della vita nelle periferie. È certo una questione che nelle forme che conosciamo ha inizio soltanto duecento anni or sono. Prima dell’età della meccanizzazione, non senza ragione, esse si definivano borghi o sobborghi o banlieues; e dopo invece slums, o bidonvilles nei Paesi in via di sviluppo. La questione delle periferie è stata oggetto (nelle vicende della società europea) di dibattiti, studi e proposte molto articolate e, da parte dell’architettura, di molte proposte strutturali, come le garden cities e le new towns. E, prima ancora, delle utopie di Fourier oppure in quanto «ripresa» del modello insediativo rurale (come nel Movimento Moderno) o ancora in quanto «risposta» razionale e moralmente doverosa dell’abitazione operaia: il tutto secondo diverse interpretazioni degli ideali socialdemocratici del welfare state, ma pur sempre in quanto «risposta» di soccorso urgente di un problema abitativo a basso costo di costruzione, di terreno e di servizi.

Tutto questo anche con progressivi interventi di miglioramento delle loro connessioni con le parti centrali e storiche della città accanto alla quale erano collocate e la cui espansione le avrebbe poi travolte e riassorbite in quanto categoria insediativa e sociale diversa e separata. Nello stato di incertezze culturali, di forte scarsità economica e di richiesta di attenzione nell’aumento della povertà e delle emergenze sociali dei nostri ultimi anni, mi rendo conto, forse è possibile rispondere solo con l’idea di «rammendo» e di «aggiustamento»; tuttavia questo non dovrebbe far dimenticare la necessità di indirizzare le opere nuove o di modificazione verso una concezione strutturale che deve proporre una discussione di fondo sulla nozione stessa di periferia, anche in relazione alla tensione in aumento verso l’abitare urbano e, quindi, verso un’organizzazione nuova dell’espansione delle città. Le città, almeno quelle europee, grandi e piccole, di fondazione, o come ingrandimento di un villaggio, come polis o come «città coloniale», con tutte le loro stratificazioni hanno conservato nella storia (pur con le loro modificazioni, rifacimenti, ristrutturazioni, aumenti e diminuzioni di popolazione) il carattere irrinunciabile della loro mescolanza sociale e funzionale e della presenza di servizi essenziali. Ma anche di monumenti di riferimento all’identità della città stessa e della sua cultura delle sue parti.

Nonostante le rilevanti differenze della vita collettiva e singolare dei nostri anni, l’espansione delle tecnologie e delle comunicazioni (e nonostante la presa di coscienza della globalità e delle differenze culturali dell’abitare del nostro intero pianeta) il fatto urbano deve offrire ovunque il proprio carattere fondamentale di mescolanza sociale, di lavoro, di cultura e di servizi che caratterizza da sempre l’idea di città: contro ogni specializzazione ingiustificata, contro ogni idea di gated community di poveri, di ricchi o di diversi. Questo non significa negare il carattere dei quartieri che costituiscono l’insieme urbano ognuno dei quali nasce in una particolare occasione economica e di costume storico, con regole insediative, densità, eccezioni e principi diversi di costruzione delle forme architettoniche, e degli spazi aperti. Quindi anche il «rammendo», l’emergenza, il soccorso dovuto, non dovrebbero mai dimenticare l’obbiettivo di modificazione strutturale di qualunque parte urbana costituito dalla coltivazione progressiva della mescolanza funzionale, sociale, di lavoro. Ma anche della presenza di elementi eccezionali (un’università, un teatro, un museo, ecc.) a servizio dell’intera città che favoriscano l’interscambio necessario delle parti alla costituzione dell’identità urbana.

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La carovana delle periferie riparte da Tor Sapienza

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#romaripartedatorsapienza l’hastag scelto da Asia Usb per la mobilitazione in programma sabato 10 gennaio in viale Morandi. “È ora di mandare un avviso di garanzia a chi governa la città”

“È da Tor Sapienza che parte l’atto d’accusa delle periferie della capitale al sistema affaristico, malavitoso e parassitario che sta affamando gli abitanti della città”. Lo afferma il Sindacato Asia Usb il quale, dopo le battaglie contro la vendita all’asta delle case popolari, ha annunciato una nuova ondata di mobilitazioni che partirà proprio da Tor Sapienza sabato 10 gennaio.

PROCESSO AL GOVERNO DELLA CITTA’ – L’incontro promosso dal Sindacato si terrà in viale Giorgio Morandi, presso il Centro Culturale situato nell’area centrale all’interno dei palazzi popolari “Vogliamo partire da Tor Sapienza – scrive sul proprio sito l’associazione inquilini e abitanti – Cominciare da lì la carovana e il processo. La carovana delle periferie ed il processo al governo della città.

“Questo movimento deve unire i quartieri e le persone, deve rompere l’isolamento ed accumulare forza. Deve mettere in moto un’onda impetuosa destinata ad abbattersi su un sistema ormai senza alcuna credibilità. Il processo deve servire a raccogliere tutti gli atti d’accusa che ogni territorio scriverà contro chi governa ed ha governato Roma”.

PERCHE’ TOR SAPIENZA – #romaripartedatorsapienza l’hastag scelto per la manifestazione. Perché Tor Sapienza? “Tor Sapienza – spiega l’associazione – vanta un’origine di centro culturale, costruito da lavoratori e cresciuto sui valori dell’antifascismo. Nelle scorse settimane invece è stato descritto come un quartiere razzista che dà la caccia all’immigrato e sostiene le esibizioni odiose della destra xenofoba.

“I media hanno partecipato alla costruzione di questo stereotipo e la politica si è preoccupata di spostare il centro di accoglienza, tornando a dimenticare il quartiere per le sue tante sofferenze. Poi l’inchiesta giudiziaria su Mafia Capitale ha messo in luce come il sistema degli affari sui centri di accoglienza fosse collegato agli stessi attori che promuovevano le proteste, in un circolo infernale che favorisce la guerra tra poveri e lascia le periferie abbandonate a sé stesse”.

CASE IN VENDITA – Non mancano critiche al Piano Casa del governo Renzi. “In questa città spremuta, sfruttata e nello stesso tempo abbandonata si cala poi la paradossale scelta del governo Renzi di mettere in vendita tutto il patrimonio di case popolari. Piove sul bagnato, non solo non intervengono a combattere disagi ed esclusione sociale, ma ci cacciano di casa. La misura è colma, la periferia non può rimanere a guardare. È ora di mandare un avviso di garanzia a chi governa la città, una notifica formale che gli abitanti delle periferie stanno indagando su di loro”.

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Legge di Stabilità 2015: una spinta per riqualificare le periferie

La Legge di Stabilità approvata in extremis pochi giorni prima di Natale contiene al suo interno una importante misura per riqualificare le periferie delle nostre città. Andiamo ad analizzarne rapidamente gli aspetti principali.
All’interno della manovra 2015 viene predisposto un Piano nazionale per la riqualificazione sociale e culturale delle aree urbane degradate: è infatti previsto che i Comuni elaborino progetti di riqualificazione costituiti da un insieme coordinato di interventi diretti alla riduzione di fenomeni di marginalizzazione e degrado sociale, nonché al miglioramento della qualità del decoro urbano e del tessuto sociale ed ambientale, e entro il 30 giugno 2015 li trasmettano alla Presidenza del Consiglio dei ministri.
Nel testo di legge viene disciplinata la procedura per la selezione dei progetti comunali da inserire nel Piano, la stipula di convenzioni o accordi di programma con i Comuni promotori dei progetti medesimi, la trasmissione di dati e informazioni finalizzate al monitoraggio degli interventi. L’insieme delle convenzioni e degli accordi stipulati costituisce il Piano.

I Comuni che intenderanno presentare progetti di riqualificazione delle aree periferiche dovranno fornire, secondo quanto esposto nell’emendamento, la seguente documentazione:
– relazione degli interventi con tavole illustrative ed elaborati tecnici;
– documentazione comprovante lo stato di progettazione e il cronoprogramma attuativo;
– quadro tecnico-economico e piano economico contenente le risorse economiche pubbliche e quelle cofinanziate;
– schede relative agli interventi privati con definizione delle risorse impiegate e le modalità di affidamento lavori.
Per quanto riguarda i criteri di valutazione dei progetti si terrà conto dei seguenti elementi: capacità di ridurre il disagio abitativo e il degrado sociale, miglioramento del decoro urbano, in particolar modo per ciò che concerne il riuso e la rigenerazione dell’edificato, tempestività cantierabilità dell’intervento ed in ultima istanza e coinvolgimento di capitali privati oltre che pubblici.

In ultima istanza, all’interno della Legge di Stabilità, viene istituito il Fondo per l’attuazione del Piano nazionale per la riqualificazione sociale e culturale delle aree urbane degradate, a decorrere dall’esercizio finanziario 2015 e fino al 31 dicembre 2017, nello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze. Questo contiene le somme da trasferire alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. A tal fine è autorizzata la spesa di 50 milioni di euro per l’anno 2015 e 75 milioni di euro per ciascuno degli anni 2016 e 2017.

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Social Housing, progetto Ance per valorizzare gli immobili delle banche

Conferire gli asset immobiliari delle banche a un fondo partecipato da Cdp con l’obiettivo di destinarli all’edilizia sociale

Sottrarre alla crisi gli asset immobiliari delle banche, completarli e valorizzarli per destinarli al social housing.
Il progetto, elaborato dall’Associazione nazionale dei costruttori edili (Ance), mira anche a dare una soluzione al problema delle sofferenze bancarie (il cui valore è pari a circa 170 miliardi) che in Italia sono garantite da asset immobiliari nel 40% dei casi.

CONFERIMENTO DEGLI ASSET IMMOBILIARI A UN FONDO PARTECIPATO DA CDP. Il progetto, ora al vaglio dell’Esecutivo, dell’Abi, Anci, Cassa depositi e prestiti (Cdp) e Alleanza delle cooperative, prevede il conferimento di tali asset immobiliari a un fondo partecipato da Cdp con l’obiettivo di destinarli al social housing.
In particolare, spiega una fonte riportata da Il Sole 24 Ore, è prevista la creazione di un fondo specifico per ogni banca aderente al programma. Ogni istituto bancario potrebbe coinvolgere la Cassa depositi e prestiti per individuare gli asset potenzialmente apportabili al fondo e valutarli. Successivamente la Cdp formulerebbe un’offerta all’istituto di credito e all’impresa costruttrice, oppure alla curatela nel caso di procedure giudiziarie. Una volta apportati gli immobili al fondo, l’impresa e la banca parteciperebbero con il 15-20% delle risorse necessarie, ragionevolmente sotto forma di equity.
VANTAGGI PER LE BANCHE E PER LE IMPRESE DI COSTRUZIONI. In questo modo le banche liberano dalle sofferenze i loro bilanci e le imprese edili hanno lavoro una volta apportati gli immobili da completare e valorizzare, per destinarli all’housing sociale.

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