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Investimenti per il recupero delle aree marginali e dismesse con le rinnovabili in Emilia Romagna

eneaNUOVE OPPORTUNITÀ PER L’AMBIENTE E L’ECONOMIA DELL’EMILIA-ROMAGNA

CON INVESTIMENTI PER LE RINNOVABILI SU TERRENI MARGINALI 

Si è svolto oggi presso la sede ENEA di Bologna, il seminario per le Pubbliche Amministrazioni:  “Come trasformare le aree marginali in opportunità per l’ambiente, il territorio e l’economia della Regione Emilia-Romagna”, che ha evidenziato i risultati raggiunti nell’ambito del Progetto M2RES – “From Marginal to Renewable Energy Source Sites”, cofinanziato dall’Unione Europea attraverso il programma South East Europe, e coordinato dall’ENEA. Il progetto vede la partecipazione di partner provenienti da sette Paesi dell’Unione Europea (Italia, Slovenia, Grecia, Romania, Bulgaria, Ungheria e Austria) e da Serbia, Albania e Montenegro.

M2RES si pone l’obiettivo di valorizzare terreni marginali, come ad esempio, insediamenti industriali dismessi, cave abbandonate, ex-aree militari, discariche di rifiuti, attraverso investimenti mirati alla produzione di energie rinnovabili. In tal modo porzioni inutilizzate di territorio potranno subire un’opera di riqualificazione in grado di generare un ritorno economico e sociale. Inoltre, la formazione di partnership tra soggetti pubblici e privati favorirebbe la creazione di valore aggiunto a beneficio delle comunità locali.

Il progetto ha finora consentito di sviluppare una serie di studi di fattibilità, linee guida e strumenti operativi a supporto della pianificazione territoriale e energetica. Ad esempio, è già on line un sito web-GIS, realizzato in collaborazione con il Servizio Geologico della Regione Emilia-Romagna, che consente di mappare e qualificare le aree marginali con una serie di dati che includono sia i vincoli normativi, geologici e ambientali che le potenzialità produttive di ciascun sito.

Il seminario, rivolto in particolare alle Pubbliche Amministrazioni, ha approfondito il tema della pianificazione e dello sviluppo delle energie rinnovabili sul territorio della Regione Emilia-Romagna. Protagonista negli anni scorsi di un forte sviluppo, dovuto soprattutto a cospicui contributi statali, questo settore deve oggi misurarsi con un quadro normativo più complesso, anche dal punto di vista della tutela del territorio, e con margini di ritorno economico più esigui. In questa prospettiva, le aree marginali costituiscono una risorsa importante per le comunità locali, grazie alla capacità di coniugare una gestione rispettosa del territorio con la produzione di energia.

Al centro del Seminario, a cui hanno contributo anche i responsabili del Servizio Energia della Regione Emilia-Romagna e dell’ANCI, gli strumenti e le modalità per capitalizzare i risultati raggiunti e per permettere alle Amministrazioni Locali di pianificare altri interventi nell’ottica M2RES.

Maggiori informazioni sul Progetto sono reperibili sul sito http://www.m2res.eu/




Ecco la tangenziale verde: giardini, vigneti, mercati e anche una pista per lo skate

tangenzialeIl piano per la sopraelevata da Batteria Nomentana a Tiburtina. L’area lunga due chilometri e larga 20 metri sarà attraversata da una pista ciclabile

Una lunga “spiga verde” fra i palazzi e la ferrovia. Una lingua d’asfalto trasformata in un giardino agronomico di nuova generazione, con coltivazioni autoctone, giardini didattici e familiari, campi sportivi, uno skate park e persino un mercato a chilometro zero. Così immagina il futuro del tratto di Tangenziale dismesso fra Batteria Nomentana e la stazione Tiburtina, oggi sostituito dal percorso interrato, il progetto realizzato dall’architetto Nathalie Grenon, partner dello studio Sartogo Architetti Associati. Presentato ieri alla libreria “Assaggi” di San Lorenzo, il progetto pilota “Coltiviamo la città” è nato nel II Municipio dalla proposta di due associazioni, Res e Coltiviamo, sulla base del principio dell’Agenda 21 per le città sostenibili, con un processo partecipativo che coinvolge cittadini e realtà del territorio. E dopo più di tre anni di lavoro è ora praticamente ultimato.
“Si tratta di un innovativo progetto di riqualificazione urbana attraverso la rigenerazione ambientale” spiega Grenon. Ma, a differenza di esperienze simili, come quella dell’High Line di New York (ieri ricordata dall’architetto paesaggista Elizabeth Fain La Bombard, ospite del dibattito), “sarà un giardino agronomico, quindi produttivo, che prediligerà le coltivazioni autoctone, anche perché il Lazio è la regione italiana più ricca di biodiversità”. Spazio, quindi, a un giardino di meli, di 16 tipologie diverse, e a un vigneto autoctono. Ma anche a orti urbani per le scuole, giardini per le famiglie e per “nonni e nipoti” e a un mercato a chilometro zero, con una grande copertura a pannelli solari di nuova generazione. Non solo. Nell’area verde lunga due chilometri e larga 20 metri, attraversata da una pista ciclabile con stazioni di bike sharing e da vari percorsi pedonali, sorgerebbero anche campi sportivi e di bocce, una sala conferenze, un’area per cani, uno skate park e un giardino in cui piantare un albero per ogni neonato, come la legge prevederebbe dal ’92.

“Grazie a grandi cisterne poste sotto l’attuale tangenziale si recupererà l’acqua piovana, mentre l’organico di tutto il quartiere potrà essere raccolto qui nelle compostiere e riutilizzato” sottolinea Grenon. “Il giardino sarà sostenibile e autosufficiente anche perché saranno le associazioni, le famiglie e i cittadini a prendersene cura, gestendo i segmenti loro affidati”. Ma potrebbe diventare anche un laboratorio di sperimentazione innovativa sul monitoraggio ambientale e l’utilizzo di fonti rinnovabili, grazie al coinvolgimento in sinergia degli istituti di ricerca della zona, dall’Enea al Cnr. Presentato in Campidoglio e finito sul tavolo della commissione Politiche comunitarie, il progetto da 9 milioni di euro potrebbe essere finanziato in parte con fondi europei. “Il sogno – conclude Grenon – sarebbe di poter aprire la prima parte nel 2015, in concomitanza con l’Expo di Milano”.

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Perché La Grande Bellezza è un capolavoro

o-grande-bellezza-facebookTolgo qualche ora alla scrittura di un saggio dedicato alla creatività perché ho bisogno di spiegare il motivo per cui ritengo La Grande Bellezza un film magnifico. Lo faccio dopo l’assegnazione del premio Oscar al film, e lo faccio il giorno dopo averlo visto al cinema: ormai ero determinato a capire il perché buona parte del mondo intellettuale italiano, spesso sussurando tra una cena e un aperitivo, lo ritenesse un film brutto e sbagliato, o comunque in ogni caso sopravvalutato. Volevo capire perché si ripetesse come un noioso argomento che quella era l’immagine dell’Italia che piace agli americani. E volevo vedere se fosse mai vero che si trattava di una scopiazzatura di Federico Fellini, e ancora di più se poteva avere un senso un’altra delle tante cose che ho sentito sul film di Paolo Sorrentino: che era costruito per prendere l’Oscar. Come se fosse mai possibile una cosa simile.

Non avevo visto La Grande Bellezza quando uscì per molti motivi. Vado poco al cinema (spesso mi annoiano i film che si producono oggi) e non mi era piaciuto Il Divo, che avevo trovato un film sbagliato, dove il ragionamento estetico sul potere, e la figura di Andreotti, raggiungevano un paradosso che a suo tempo avevo trovato un po’ stucchevole. Insomma avevo trovato Il Divo un’idea molto bella, ma anche un’occasione persa. Per cui non mi si poteva annoverare tra i fan di Paolo Sorrentino, ma neppure tra i detrattori, visto che mi erano piaciuti molto L’uomo in più e Le conseguenze dell’amore. Questo per la premessa.

Ma quando leggo in giro, e quando ascolto in giro giudizi negativi così netti mi insospettisco. Quando utilizzo l’espressione in giro intendo nell’ambiente che mi appartiene, e che conosco assai bene, forse meglio di tutti quelli che dell’ambiente fanno parte. Parlo dei giornalisti, degli scrittori, dei critici e in genere degli intellettuali italiani, che ho conosciuto uno a uno, anche se non li ho mai frequentati molto (non sono salottiero, ho da sempre delle timidezze relazionali che mi vengono da una parte di anima sabauda e provinciale che quasi 30 anni di Roma non mi hanno scrollato ancora di dosso). Così, non essendo riuscito a vedere La Grande Bellezza in televisione, sono andato al cinema. Ancora meglio: niente interruzioni pubblicitarie, concentrazione, e visione degna di quello che chiamiamo spettacolo.

Non mi aspettavo niente, ma una cosa mi balenava per la testa: eccetto Bernardo Bertolucci, non avevo sentito da nessuno parole profonde che mi accendessero una curiosità sul film. Solo banalità distaccate. Per quel poco che conosco Bertolucci non è un uomo che usa l’espressione, «è un film che ti resta dentro», a caso. Ha un uso delle parole che è quello di suo padre Attilio, un uomo meraviglioso, un grande poeta, che sorrideva sempre (a proposito degli intellettuali conosciuti, e di un’altra Italia che non esiste più).

Dopo pochi minuti de La Grande Bellezza avevo capito che mi trovavo di fronte a un film magnifico, scritto per uno spettatore colto, sofisticato, capace di entrare fino in fondo dentro un sogno che scardina tutti i luoghi comuni e le banalità che certo cinema e certo mondo intellettuale propinano da trent’anni. Solo che Sorrentino nella sua fortuna è sfortunato. In Italia non c’è più una classe culturale e giornalistica, un’intellighentia che possa capire un film del genere e apprezzarlo. Esiste solo fuori d’Italia. E infatti lo hanno premiato gli americani, ma non perché hanno visto una certa immagine dell’Italia. Questo film non è sull’Italia, ma è un film sulla religione e sulla morte, sul sesso, sul potere, sulla dissoluzione della storia. E solo Roma poteva permettere questo. L’unica città dove la storia si manifesta in strati sovrapposti, in strati di pietre che cambiano dall’età Augustea al Medioevo, dal Rinascimento al Barocco fino al periodo Umbertino e al Novecento.

Certo ci voleva coraggio a mettersi a girare un film che non è scritto secondo le regole rimbambite che insegnano in tutte le scuole di regia e sceneggiatura e che stanno mandando all’ammasso il cervello di tutte le nuove generazioni. Ci voleva coraggio a spazzare via con una mirabile battuta qualsiasi impegno politico, qualsiasi riferimento alla nostra sinistra, alla nostra destra, alla politica corrotta, e agli ideali. Jep Gambardella liquida tutto una sera sul suo terrazzo quando spiega a Stefania chi è lei veramente, demolendola. Forse è lì che una parte dei nostri critici binari (ovvero capaci solo di una scarnata dicotomia come: bello/brutto) ha cominciato a sviluppare una certa antipatia per Jep e per Sorrentino.

Davvero scrittori e giornalisti, intellettuali e artisti, sono stati solo degli ininfluenti provinciali affannati a prendersi un po’ di gloria con qualche spinta in Rai, o qualche posto di potere culturale dove compiacere la grande politica, quella che ci avrebbe resi tutti migliori, oltre che compiacere se stessi?

Ho visto ne La Grande Bellezza trent’anni della mia vita. Ma forse anche 50 anni, per quello che 30 anni fa mi raccontavano i più vecchi, quelli che avevano vissuto il dopoguerra, gli anni 50 e 60. Ed era questo. Era il racconto di Sorrentino nel film. In questa Roma struggente, che è struggente per qualsiasi provinciale che ci arriva da fuori (vale per me, per Sorrentino, e ancor di più per Fellini) è come se fosse in atto una dissoluzione che non è solo fisica, non è solo morale (quanta morale, nel cinema italiano, quanto neorealismo camuffato quando ormai si era fuori tempo, quanta pedagogia politica mascherata da arte, bellezza, ed estetica… basti solo pensare a casi come La meglio gioventù) ma è una dissoluzione ancestrale, come se la storia trasudasse comunque da tutto.

Quel Colosseo che incombe non è uno specchietto per gli americani che lo fotografano, e non è il simbolo di una grandezza perduta, è il capro espiatorio, la pietra del sacrificio, il luogo di un martirio che non finisce mai. Ed è il martirio consapevole di una modernità e di una contemporaneità che non è in grado di comprendere perché non c’è niente da comprendere.

Ovvio che Toni Servillo è un grandissimo attore. Ovvio che il film senza di lui non sarebbe immaginabile. Ma non è solo questo. Questo è un film fitto di contaminazioni musicali,  di citazioni. E le citazioni non sono solo quelle felliniane, che i critici binari comprendono subito, ma ad esempio c’è Todo Modo di Elio Petri. Il vero film sul potere che Sorrentino ha girato è proprio La Grande Bellezza, e non Il Divo. Il vero film sul potere del divino e sul mistero originario è questo.

Ho conosciuto il mondo di Jep Gambardella. Non è importante se le feste fossero in quel modo oppure no. La Grande Bellezza non è un film felliniano e non è un film realista. È un film sorrentiniano, perché ormai il termine ci sta. Ho visto quei giornalisti, quegli scrittori, ho ascoltato argomentare in quel modo. Ho visto quei mondi mescolati in epoche diverse. Quando gli anni Settanta avevano appena smesso di bruciare, e sembravamo un paese destinato a fare scuola, e persino ora che non contiamo più nulla da nessuna parte. Sono entrato in case come quelle. Esistono. Ed esistono corridoi che portano sempre là in fondo, a quelle chiavi che aprono giardini e palazzi inaccessibili, a persone che tolgono la camicia e scopri che portano il cilicio, a religiosità strane, sincretiche, eclettiche dentro volti, ruoli, pensieri, azioni e corpi che neanche immagineresti. Ho conosciuto uomini di fiducia e uomini sfiduciati. Ho visto gente capace di mandare al diavolo una carriera per il sesso e gente che con il sesso ha costruito un potere profondo, incancellabile, ma non roboante e volgare, peggio: invisibile. Ho visto candore nel potere e potere nel candore. Vecchiaia repellenti che odoravano di saggezza ma anche di pochezza e di vergogna. Ho ascoltato discorsi tutti uguali per anni, di gente che non sapeva cosa stesse dicendo ma soprattutto perché. E mentre queste complessità si legavano assieme una all’altra, generando una classe di potere nuova e sottile che nulla aveva a che fare con il censo, con la cultura e con le posizioni sociali e professionali, dall’altro lato si creava una nuova semplicità sempre più isolata, che andava a occupare caselle che non interessavano più a nessuno.

È quello che si vede nel film. Le attricette che valgono sempre più dei ruoli che vengono loro offerti, gli attori che assomigliano alle pubblicità di Dolce e Gabbana, gli scrittori che sembrano degli sceneggiatori che si sono persi il produttore, e i produttori che guardano alla crisi e investono in commerciabilità e semplicità. Le fiction morali, i fotoromanzi dei nostri giorni rivolti a shampiste e intellettuali, dove l’eroismo è semplice, la storia è lineare, dove vincono i buoni, e l’olezzo dei cattivi non arriva da nessuna parte. E attorno a questa roba c’è un mondo di uffici stampa, di parole, di feste, di eventi, di visibilità, ma soprattutto di oscenità nel senso della messa-in-scena che nessuno è stato capace di girare come Sorrentino.

A Paolo Sorrentino sono bastate un paio di feste per chiudere l’argomento. Altri ci avrebbero girato un film intero, e inutilmente. Lui invece torna di continuo a quelle fontanelle sul Gianicolo, quei luoghi di clausura che intravedi, e dove non entri, il sogno dell’hortus conclusus.

Non c’è la bellezza in questo film. Non ci sono attrici strepitose, modelle scelte con la lente di ingrandimento, prelevate direttamente dalle campagne dei sacerdoti di questa dissoluzione: gli stilisti, o se preferite, i sarti. La più bella è Ramona, Sabrina Ferilli, che ha 50 anni. E muore di una malattia che non si sa, che non può curare.

Ai critici ha dato fastidio che Sorrentino non abbia puntato il dito su ogni cosa, non abbia indicato il nemico culturale e politico, non abbia raccontato con il plot. I critici non hanno capito che nella Roma a strati lui sta un po’ più sotto di loro, verso i riti più antichi, verso il punto originario di tutto. E per loro i giusti tributi a quella che è l’influenza, la tradizione culturale non è altro che «fare il verso», come dicono loro. E invece non è un verso, è un proseguire in un discorso che inizia dal Rossellini de La presa del potere di Luigi XIV, continua con il Fellini romano, prosegue con Petri, sia con Todo Modo e sia con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Ai critici non interessa che in Toni Servillo c’è un superamento di Gian Maria Volontè. Nel senso che da Volontè prende il registro paradossale e grottesco, ma arriva là dove quei tempi ideologici non potevano consentire. Arriva a René Girard, arriva alla Roma nera, antipositivista, reazionaria. Arriva allo sberleffo della Commedia dell’Arte. Mette l’orologio della storia prima della nascita dei partiti di massa, della Psicologia delle folle di Gustav Le Bon. Guarda fino ai boschi sacri dei dintorni di Roma, fino a una religiosità pagana dove i miracoli e le apparizioni sono un chiacchierare sommesso, profondo, di una città che non si è mai dimenticata di aver stampato le opere magiche di Giordano Bruno, quelle di Girolamo Cardano, e aver dato asilo, in ogni caso, al meglio degli irrazionali, dei maghi, degli alchimisti, degli stregoni e naturalmente degli imbroglioni che l’Europa potesse vantare.

In quelle vecchiaie sdentate de La Grande Bellezza non c’è bellezza, come non c’è bellezza in quelle feste, in quei personaggi patetici e stanchi, in quella via Veneto deserta che abbiamo visto tutti. E tutti, passandoci di notte, quando non non arrivano echi di niente, se non sguardi ammiccanti di buttadentro che sperano tu sia un turista buono per locali da lap-dance, abbiamo ricordato intere sequenze della Dolce Vita come servissero a scaldarci da quel gelo.

Non è quello che si è perduto a preoccuparci, è quello che è rimasto comunque ad affascinarci. E Sorrentino a farcelo entrare nella testa, a lasciarcelo dentro, come dice Bertolucci, è di una bravura stupefacente. Non ho usato il verbo raccontare, e l’ho fatto di proposito. Un’altra caratteristica del critico binario, del produttore binario, del capo delle fiction binario, del regista binario è questa: hai una storia da raccontare? Se hai una buona storia… Questa storia a un certo deve avere una svolta… Sorrentino non racconta storie, ti inietta il penthotal. E poi sono fatti tuoi. Il film non ha svolte. Mentre lo vedevo mi chiedevo se non potesse essere montato in cento modi diversi, se ogni dettaglio non valesse in sé. Come se l’anima del film potesse resistere a tutto, soprattutto ai precetti idioti che si trasmettono con religiosa competenza alle nuove generazioni: il ritmo, la svolta, la messa a fuoco dei personaggio, le sottostorie che nei film ci devono essere. E via dicendo. Non mi stupirebbe se qualcuno mi dicesse che nessuno ha mai scritto questa sceneggiatura. E non mi stupirebbe se Sorrentino un giorno dichiarasse: ho fatto questo film per raccontare Roma, la morte, e il vuoto. Punto. Come Eco raccontò di aver scritto Il nome della rosa perché voleva «avvelenare un monaco».

Che poi un film così complesso, che non può essere visto una sola volta, sia piaciuto all’Academy (e non solo a loro) è la dimostrazione che siamo noi dei provinciali. Noi che ancora pensiamo, attraverso un’ideologia bolsa e trita che ancora resiste anni e anni dopo la fine delle ideologie, che «gli americani» sono dei semplicioni, banali, capaci di vedere l’Italia come una cartolina svampita. Quando è sempre stato l’opposto: un tempo come oggi. Ma si sa, le nostre cattedre di storia del cinema nelle università erano quasi sempre tenute da gente che non andava più a ovest di Miklós Jancsó, e chi sa di cosa parlo capisce quel che dico.

In questo film sul vuoto, sul divino che alle volte sembra andarsi a svilire in una bellezza scheggiata, consumata dal tempo, in questo lungo viaggio dentro una perdita di identità che sta nelle cose, e non potrebbe essere altrimenti, oltre questa rassegnazione alla pochezza, non resta niente. Non resta la vita com’era, il diario della vecchia fidanza di Jep, la povera bellezza di Ramona, la grottesca potenza di Dadina, l’ipocrisia di Stefania, e via dicendo. Niente resta perché niente doveva restare. Neppure il mafioso del piano di sopra riesce a resistere. Solo quello spettacolo, fuori da quel terrazzo, di quel Colosseo che non è affatto l’Anfiteatro Flavio come tutti credono. Ma un luogo spolpato dalla storia, privato dei marmi, crollato per i terremoti, dimenticato, abitato da famiglie nobiliari che ci costruirono dentro case poi demolite, restaurato alla meglio perché non crollasse. Un luogo che è antico, ma è anche ricucito come si è potuto, immaginario di un passato, monumento che non ha neppure la forza di sorreggersi da solo. E soprattutto luogo sinistro, di sacrificio e perdizione. Così muore la carne, titolava Samuel Butler un suo grande romanzo postumo, sul sesso, sulla tragressione, un testo contro la sua epoca, l’epoca vittoriana. E Così muore la critica in questo italianissimo vittorianesimo culturale in cui viviamo, dove lo scandalo è nelle idee, e non nella dissoluzione; dove ci si vergogna ad argomentare e a rompere le righe più che a praticare pubblicamente una fellatio.

Sorrentino ha girato un film che è un punto di partenza per tutti quelli che avranno coraggio e avranno voglia di ricominciare davvero. Ha segnato l’anno zero dei prossimi tempi. E non posso che ringraziarlo per tutto questo.

Roberto Cotroneo




Napoletani regalano libri e nascono le prime librerie del baratto: 50 in tutta la Campania. Ecco dove

libriOltre 25mila libri donati con generosità dai cittadini campani, hanno dato vita nella regione a un progetto culturale e sociale organizzato da Legambiente in Campania. Ad oggi sono già state realizzate 50 librerie, Le librerie del Cigno, presso gli stabilimenti balneari delle località costiere, una libreria di 150mq nella Galleria del Centro Commerciale Auchan Argine a Ponticelli nella periferia di Napoli e 5 librerie negli Ospedali del Monaldi, Santobono, Ospedale di Gragnano e Ospedale Cardarelli.

“Ringraziamo i tantissimi cittadini napoletani e campani che hanno permesso in un anno di realizzare questa campagna  per promuovere la lettura in tanti luoghi, in primis nei reparti ospedalieri. Donare una libreria al Cardarelli , il più grande ospedale del Sud Italia, è un tassello che si aggiunge alla piena realizzazione del nostro progetto che è quello di donare una libreria per ogni ospedale della Regione – spiegano gli attivisti di Legambiente –  Le librerie si autogestiscono,  prevedendo per i pazienti la possibilità di prendere gratuitamente un libro e donarne uno già letto attraverso familiari e visitatori.

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Creatività allo stato puro nel museo dell’altro e dell’altrove

Paolo Buggiani

Paolo Buggiani

L’Italia dell’arte oltre che essere il paese dei campanelli è anche il paese degli acronimi: Macro, Maxxi, Gam, Gnam, Man, Mart, Mambo (non avranno per caso fondato anche il Rambo?), esiste perfino il Mat (Museo dell’Alto Tavoliere), si nascondono e si confondono nell’acronimato del vorrei-ma-non-posso. Insomma fanno tragicamente (o farsescamente) il verso al Moma.

Ce n’è però uno che si distingue da tutti gli altri: si tratta del Maam, del Museo dell’Altro e dell’Atrove di Metropoliz (via Prenestina 913, Roma).

Un non-museo, un laboratorio, un anti mortorio, un’area liberata e decontaminata dalla spocchia tipica dei santuari dell’arte moderna e contemporanea tipo “Arsenico e vecchi Morlotti”.

Qui al Maam, in uno scenario post-industriale sub-urbano catastrofale post-tangenziale pre-raccordo anulare che sarebbe piaciuto (per dirla con Petrolini) a Mad Max, qui nello scenario tipico dell’occupazione abitativa alternativa, l’antropologo Giorgio De Finis ha deciso di fondare un museo sui generis, un museo povero, di risulta, un museo all’aria aperta, in cui le opere d’arte sono destinate all’uso quotidiano dei residenti resistenti. Gli spazi comunitari, i saloni per feste sociali e per riunioni, l’area giochi per bambini, il pub, (ma anche le singole abitazioni: Pinacoteca Domestica Diffusa) sono arredati con pezzi autentici di anti-arte e anti-design, sono decorati con assemblaggi di oggetti modificati e riciclati, con pannelli dipinti da pennelli illustri, con installazioni attrazioni, con creazioni ad hoc (site specific direbbero quelli del Macro).

In giro per i viali e i corridoi, ti imbatti in eccentrici relitti, nei graffiti, negli stencil. Fai un viaggio sulle montagne russe nell’alto e basso, dimentichi il lusso delle Biennali, ti immergi nel flusso della street art.

Metropoliz è una grande fabbrica in disuso (Ex Fiorucci), un’enclave dove i colori, le bombolette, i piccoli (o grandi) gioielli di creatività gratuita, convivono naturalmente e senza forzature, con un popolo, per definizione ed emarginazione, lontano anni luce dal dorato “sistema dell’arte”. E’ un mondo alieno in cui i manufatti spuntano come i funghi dopo il temporale. Si sa che malgrado la loro apparente fragilità i funghi hanno una potente vitalità, ai margini delle strade li vedi perforare il manto d’asfalto, li vedi sollevare il terreno più refrattario. Lo stesso dicasi per queste espressioni di una creatività che si presta alla collettività, al meticciato, alla connettività e non alla competitività. Una creatività che non si arresta di fronte a niente e a nessuno. Che se ne frega della propria deperibilità, anzi se ne fa un vanto.

Il Maam è un oggetto totale, un laboratorio mentale, un anti museo basato sull’economia del dono e sul fatto che l’arte non è e non deve essere appannaggio esclusivo di un sacerdozio laico che si arroga il diritto di custodirne i segreti e i riti.

Finora si sono uniti all’impresa tra gli altri: Cesare Pietroiusti, Gianni Asdrubali, Paolo Assenza (che ha realizzato la bandiera che sventola sull’area), Rub Kendy (a cui si deve la meridiana), Maddalena Mauri, Massimo Di Giovanni, Massimo Iezzi, Lucamaleonte, Diamond, Alice Pasquini, Massimo Attardi, Borondo, omino71, Opiemme, Gio Pistone, Cristiano Petrucci, Cristiana Pacchiarotti, Sten & Lex, Hogre etc etc. Da segnalare la delicata stanza floreale di Micaela Lattanzio, un’oasi di leggerezza e fragilità di rara intensità, nonché le fotografie della Pinacoteca Domestica Diffusa del Maam realizzate da Carlo Gianferro. Le undici opere che Franco Losvizzero produrrà durante una sorta di autoreclusione, nutrito e accudito dagli abitanti di Metropoliz.

De Finis, da buon antropologo e agitatore culturale, sa bene quanto l’arte sia per definizione prerogativa del genere umano in quanto tale e non solo di un’accolita di illuminati acculturati. Sa che l’uomo si distingue dalle altre specie proprio per la propria creatività. La sopravvivenza stessa è creatività. Metropoliz, che ospita il Maam, è sopravvivenza allo stato puro e quindi, per discendenza diretta, è anche creatività. Senza se e senza ma.

Ma c’è un “ma”. E’ il rischio che prima o poi vengano a sgombrare.

Vengano a disoccupare con le ruspe. Caccino tutti e buttino giù tutto, magari per farne un ipercentro commerciale.

E allora è un bene che l’arte serva a qualcosa di utile come fare da schermo di protezione, da corazza, da difesa preventiva di un’isola cittadina in cui la vita si mescola alla fantasia senza prosopopea.

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La sedia elettrica dell’assessore. Lettera aperta a Flavia Barca

"una scatola vuota"

Una lettera aperta sul passato prossimo, sul presente indicativo e sul futuro condizionale del Macro. Scritta dall’artista e critico Gian Maria Tosatti. E ci auguriamo che l’assessore al Comune di Roma, Flavia Barca, non tanto risponda, piuttosto si attivi.

A vederla sbagliare tutte le mosse vien da pensare che la coerenza non sia, per forza, un valore. Si parla dell’assessore Flavia Barca, ascesa al soglio culturale romano priva di quei meriti e di quelle medaglie conquistate sul campo che si pretenderebbero da chi ambisce a gestire il più vasto patrimonio culturale concentrato in una sola città del pianeta Terra. La responsabilità della nomina, invero, sarebbe del sindaco Marino che, non avendo visione, si è fatto indirizzare, alla vecchia maniera, dagli equilibri di maggioranza (salvo poi ritrovarseli contro). Tuttavia, farebbe piacere talvolta ascoltare un “domine non sum dignus” da parte di chi avrebbe più la ragionevolezza che l’umiltà di non assumersi compiti riguardo ai quali non tarderà a dimostrarsi inadeguato.
Sarebbe stato fin troppo duro se questo mio commento fosse giunto all’indomani della nomina, ma dopo circa nove mesi di paralisi dell’amministrazione su tutto ciò che attiene alle arti, ho la coscienza a posto nell’esprimere, senza sconti, la mia opinione di tecnico.
Il mio, in realtà, non vuol essere un attacco, ma un contributo. All’assessore Barca consiglio, infatti, di cuore, di fare quel che in questi mesi non ha avuto la sensibilità di fare, ossia di uscire dal proprio ufficio e andare a conoscere approfonditamente tutte le realtà culturali buone e cattive, virtuose o parassitarie che compongono la complessa cosmologia della cultura romana. Facendolo, forse, capirà qual è la strada per superare un immobilismo che in tempi di crisi è doppiamente colpevole sia sul piano economico che politico.
La ragione che oggi mi porta a scrivere nel merito di questo tema, dopo aver disertato il dibattito culturale della mia città per mesi, è stata la lettura di un’intervista, apparsa sulCorriere della Sera, proprio all’assessore Barca, in cui si parla di un ruolo importante di Enel nella futura gestione del Macro.
Se, infatti, una pecca c’è stata nella gestione del Macro in tutti questi anni, è stata proprio l’eccessiva interferenza di soggetti privati (gallerie o aziende), e dei loro interessi, nella programmazione del museo. Una interferenza che, in virtù di un contributo economico, finiva per essere libera da ogni vincolo scientifico nella scelta delle opere e dei progetti, arrivando a risultati grotteschi, come quello di scambiare un museo d’arte contemporanea per un lunapark. Finché non marcirà, il Big Bamboocontinuerà a gridare vendetta a quel cielo che sembra trafiggere ogni giorno con le sue canne al vento. Come anche i tappetoni elastici attualmente montati nel cortile, che avrebbero meglio figurato al Luneur che al Macro. E quando è andata meglio, invece che in una giostra, l’Enel ha trasformato il Macro in un giardino botanico, come fu per l’installazione delle farfalle di qualche anno fa. Inutile dire che se si volevano portare le farfalle al Macro, sarebbe bastato fare quel che fece Gagosian Roma con Damien Hirst, una piccola mostra che allora batté il museo 10 a 0.

Doug e Mike Starn, Big Bambú - MACRO Testaccio, Roma 2012

Doug e Mike Starn, Big Bambú – MACRO Testaccio, Roma 2012

In ogni modo, il problema è molto semplice ed è bene che lo si dichiari: a Enel, oltre all’arte contemporanea, verso cui ha mostrato in questi anni un lodevole interesse,  piacciono anche molto le giostre e i parchi divertimenti. Bene, direte voi, l’importante è che non si faccia confusione con le due cose. Se l’intento ludico piace, abbia l’amministrazione la bontà di dare all’ex Ente Nazionale per l’Energia Elettrica la gestione del vecchio lunapark dell’Eur, non del Macro.
Un museo d’arte contemporanea è un’altra cosa. È una infrastruttura strategica per la civiltà di un popolo, non un luogo di svago. Lo si lasci in povertà piuttosto che agghindarlo con ridicole baracconate. Lo si lasci nella povertà in cui l’arte non ha mai avuto difficoltà di fiorire, una povertà dignitosa che esalta l’intelligenza e la creatività.
Esempi non ne mancano proprio a Roma. Mi verrebbe da citare il Teatro Valle, che però, pur capace di una programmazione notevole, è reo di non aver ancora mai proposto un convincente piano di gestione economica che possa mettere a tacere le critiche strumentali, superando nei fatti e non solo nelle intenzioni la fase dell’occupazione. Ma ancor più calzante è l’esempio del MAAM, citato qualche giorno fa con le stesse intenzioni da Giuseppe Gallo in una lettera scritta a La Repubblica. Stiamo parlando di un museo creato senza un euro, solo con la passione e la serietà divGiorgio de Finis e con la collaborazione di tutta la scena artistica romana. Un museo senza soldi ma con molte idee e soprattutto con una grande consapevolezza di quale debba essere oggi il rapporto fra arte e società. La cultura come strumento reale di superamento dei conflitti che quotidianamente dilaniano il tessuto civile di una metropoli cresciuta male come Roma, è stata la bandiera di questa iniziativa finita addirittura sulNew York Times.
Di fatto il MAAM è già il museo d’arte contemporanea della città. Se non altro perché è l’unico museo che vive nella contemporaneità, divenendo elemento dialettico e altamente politico, che trasforma e migliora, che generà comunità e dialogo non solo tra chi l’arte già la apprezza o la fa, ma soprattutto tra coloro a cui l’arte può realmente aprire mondi. Ecco perché al MAAM nessuno dice mai di no, me compreso, anche se non ci sono soldi.
Se l’assessore (alla cultura, ribadisco) avesse, nella sua necessità di conoscenza e monitoraggio, seguito l’esempio di Pasolini e avesse girato “per la Tuscolana come un pazzo, per l’Appia come un cane senza padrone” in cerca delle energie già attive nella sua città, e se fosse passata magari anche per la Prenestina, dove si trova il MAAM, forse le sarebbe venuto in mente di portare quell’esperienza periferica (che però sta girando il mondo) nel cuore stesso delle istituzioni culturali, per cambiarle, per svecchiarle, per riattivarle. Ammetto di aver augurato alla mia città di avere Giorgio de Finis alla direzione del Macro. E penso che, se l’assessore avesse avuto un po’ di intelligenza politica, avrebbe capito che quella sarebbe stata una mossa capace di farle stringere un patto con la scena culturale romana, dando sostegno alle attività migliori di un tessuto culturale che comunque continua a evolversi con o senza la benevolenza delle istituzioni. Sarebbe stato certo un patto temporaneo, in attesa che il museo diventi una fondazione autonoma capace di darsi una governance e di trovare un direttore tramite un vero concorso internazionale. Il patto, invece, l’assessore pare abbia premura di stringerlo con Enel, facendogli trasformare il Macro in quello che rischia di diventare un museo aziendale. Una mossa coerente, come si diceva in apertura, con quanto fin qui si è avuto modo di vedere, ma una mossa radicalmente sbagliata.

Carsten Höller, Double Carousel with Zöllner Stripes - MACRO, Roma - courtesy Enel Contemporanea e l'artista

Carsten Höller, Double Carousel with Zöllner Stripes – MACRO, Roma – courtesy Enel Contemporanea e l’artista

Non si pensi a chi scrive come a qualcuno contrario alla presenza dei privati nella gestione delle risorse pubbliche. Ma si badi bene che è essenziale non rovesciare l’ordine dei valori se si vuol operare con profitto. Non è la presenza di sponsor a decidere la prosperità di un museo. È la qualità della proposta artistica a portare prestigio all’istituzione ed è a seguito di tale prestigio culturale che si generano rapporti solidi di fiducia con sponsor e donatori. Se c’è una progettualità di qualità, d’eccellenza e, diciamolo pure, d’avanguardia (che in un museo d’arte contemporanea non guasta), allora Enel – che è un’azienda fatta di teste pensanti – avrà tutto l’interesse a partecipare comunque, a dare il suo contributo in termini economici, avendone in cambio la necessaria visibilità. E così sarebbe anche per i collezionisti, che potrebbero impreziosire con prestiti e donazioni una collezione che attualmente non è degna nemmeno di un museo di provincia. Ma ragionare all’inverso, pensare prima agli sponsor e poi (di conseguenza!) ai progetti rivela una condotta ingenua, miope, che nessuna comunità culturale potrà mai appoggiare.
L’assessore può certamente fare il suo Macro a dispetto della città come ha fatto fin qui, trasformandolo in un museo senza arte e senza artisti. L’arte continuerà a farsi altrove. Non è mai stato un problema. Ma quando un amministratore viene “mollato” dalla sua comunità di riferimento, qualcuno vuol forse dirmi in virtù di cosa quella comunità dovrebbe continuare a pagargli lo stipendio? Glielo paghi Enel.

Gian Maria Tosatti

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Speciale agenda urbana europea, l’Europa riparte dalle città

ueAperta, inclusiva, partecipata: la nuova Agenda urbana europea che si inizia a delineare in questi mesi è il risultato di un cambio di paradigma che vede la Commissione europea impegnata a recuperare un dialogo stretto con quei contesti urbani che rappresentano la principale speranza di ripresa per l’economia Ue.

La due giorni di Cities – Cities of Tomorrow: Investing in Europe, la conferenza organizzata a Bruxelles dalla DG Politiche regionali e urbane della Commissione europea, ha fatto il punto sullo stato di salute delle città europee e sugli strumenti necessari per rilanciare una politica urbana europea che aggiorni approcci come quelli della Carta di Lipsia e della ville durable che hanno tenuto banco nell’ultimo decennio.

Perché un’agenda urbana europea?
Rafforzare la dimensione urbana europea rappresenta l’unico modo per affrontare efficacemente le sfide che le città si trovano ad affrontare soprattutto col perdurare della crisi economica che manifesta proprio sui contesti urbani i suoi effetti più significativi. A problemi come la scarsità di housing sociale, la mancanza di trasporti pubblici di qualità e la lentezza dei meccanismi di governance sono però proprio le città di tutta Europa a sperimentare dal basso soluzioni che ristabiliscono la cooperazione tra diversi livelli istituzionali e rimettono di nuovo le persone al centro delle politiche.

A tali costatazioni, scontate per gli osservatori più attenti del dibattito visto dal fronte urbano, è seguita una progressiva presa di coscienza del tema da parte delle istituzioni europee, dall’approvazione della risoluzione del Parlamento europeo nel 2011 che invitava la Commissione a migliorare il coinvolgimento dei livelli urbani fino al rafforzamento della cooperazione tra le presidenze di turno del Consiglio (Grecia in testa) sul tema della povertà urbana.

Con l’avvio del nuovo periodo di programmazione, che aumenta la dotazione finanziaria delle città assegnandogli una quota minima del 5% del Fesr, la necessità di un approccio trasversale dei vari dicasteri della Commissione europea ai temi urbani è diventata una necessità invocata da sempre più parti: Stati membri, amministrazioni locali e stakeholders chiedono alla Commissione europea di mettere in comune risorse e strategie per concentrare in maniera interdipendente politiche e azioni, esattamente come dovrebbero fare le città fra loro.

Un’Europa come network di grandi centri urbani più che come insieme di Stati è la visione condivisa da chi già fa rete nei confini europei, come Eurocities, e da chi guarda all’Europa urbana come ad un modello unico per il resto del mondo.

Tra questi ultimi, Jon Clos di UN Habitat e Raymond Barber (If mayors ruled the world) sono i sostenitori più accesi di un’Europa ambasciatrice dell’urbanità, capace di mettere la sua storia e il protagonismo decisionale dei suoi sindaci al centro di un confronto sul futuro dell’urbanizzazione mondiale.
Politiche integrate di qualità per attirare investimenti e, dall’altro versante, sostegno all’uscita dalla povertà delle periferie urbane sono i pilastri di un’azione declinata con strategie e approcci diversi da città di tutta Europa.

La definizione di un’Agenda urbana attraverso un confronto attivo tra quanto realizzato dai diversi contesti urbani servirà proprio a stabilire obiettivi specifici con target misurabili ma sarà anche al contempo un quadro di riferimento in cui inserire politiche e strumenti già esistenti o in divenire.

A colpire l’osservatore esterno è l’apertura di un dibattito che vede la Commissione europea ancora incerta su forme e sistemi di monitoraggio di tale Agenda ma decisa ad insistere sulle esperienze di maggiore successo degli ultimi anni (come il Programma Urbact) e a basare su tali modelli operativi (basati sulla partecipazione degli stakeholders e la condivisione delle scelte in vista di un piano d’azione) anche l’implementazione di strumenti finora non ancora decollati come il Reference Framework for Sustainable Cities.

Le città europee e l’Agenda urbana

Intervista al sindaco di Goteborg Anneli Hulthén

In che modo Goteborg sta affrontando le sfide dell’Agenda urbana europea?
Anneli-Hulten-440x314 goteborgL’intero budget dell’amministrazione di Goteborg è basato sulla sostenibilità sulle tre prospettive e cerchiamo di tradurre tali prospettive in tre obiettivi concreti: problemi sociali, questioni ambientali e sfide economici. Cerchiamo di affrontare tutte queste sfide assieme

Quali sono le sfide che state affrontando in termini di inclusione sociale?
Stiamo fronteggiando grandi sfide sul fronte dell’integrazione sociale in quanto a Goteborg il 20% della popolazione provengono da paesi diversi dalla Svezia. Ciò significa che abbiamo circa 120 diverse lingue e ciò mette fortemente sotto pressione il sistema educativo poiché è difficile fornire una buona istruzione a tutti quando abbiamo così tanti gruppi linguistici e differenze culturali. Addirittura a volte ci sono alunni che arrivano nel nostro paese a 12-13 anni e non sono abituati al sistema educativo svedese. Proviamo a vincere le sfide dell’integrazione al massimo attraverso l’insegnamento della lingua svedese o insegnando nella loro lingua specialmente matematica o inglese. Senza dubbio la sfida educativa è quella più importante per noi

Le città svedesi sono viste spesso a livello europeo come un modello di gestione positiva di servizi sociali: in che modo la crisi economica sta colpendo il livello di servizi sociali? State notando conseguenze particolari rispetto al passato?
L’economia dei comuni svedesi si è mantenuta abbastanza buona anche durante la crisi economica ma ciò non significa che abbiamo la possibilità di fare tutto ciò che vorremmo sul fronte delle questioni sociali. Il tasso di disoccupazione in Svezia e nelle sue città è particolarmente alto in Svezia, soprattutto fra i giovani: oltre il 25 per cento dei giovani non hanno un lavoro e questa è una cifra decisamente elevata. La forte disoccupazione mette una certa pressione sui comuni perché siamo quelli a cui tocca erogare un sostegno economico a coloro che non hanno lavoro. Quindi anche se l’economia ha tenuto bene, soprattutto in confronto a molte altre città europee, gestire il sistema di sicurezza sociale è una sfida continua.

In modo l’innovazione urbana può contribuire a restituire fiducia ai giovani nei confronti dello sviluppo economico futuro?
Penso che si debba dare fiducia ai giovani perché credo che molte persone, soprattutto fra i giovani della mia città, hanno perso speranza nel futuro. Dobbiamo cominciare a ridargli di nuovo questa fiducia. E’ possibile riuscirci ma c’è bisogno che la politica sia migliore di quanto lo sia oggi e di quanto lo sia stata prima. Anche se c’è la crisi, quello che abbiamo imparato è che bisogna guardare avanti

Cosa può fare l’Unione europea per questo?
L’Unione europea dovrebbe rivolgersi in maniera più diretta ai suoi cittadini e ai contesti locali. A volte abbiamo bisogno di rivolgerci ai livelli nazionali, altre volte invece di rivolgerci direttamente proprio al livello europeo. Devono conoscere le sfide e i problemi che stiamo vivendo nelle città e questo non viene sempre comunicato dagli Stati membri alle istituzioni Ue

Intervista al sindaco di Lisbona Antonio Costa

antonio costa9 lisbonaIn che modo Lisbona si è preparata sul fronte delle politiche urbane al nuovo periodo economico europeo appena iniziato?
Abbiamo iniziato ad aprile 2012 organizzando una piattaforma con tutti gli stakeholders urbani, a partire dall’università, dalle associazioni imprenditoriali e di cittadini, con l’obiettivo di definire come articolare i grandi obiettivi di una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva sul fronte locale con gli obiettivi di sviluppo europeo. Abbiamo identificato un nucleo di progetti che abbiamo sviluppato e che intendiamo proseguire nel nuovo periodo di programmazione economica 2014-2020.

La partecipazione dei cittadini è molto importante per quello che state facendo a livello di politiche urbane?
Sì, credo che questo nuovo ciclo esige un rafforzamento del partenariato e il modo più intelligente di articolare gli obiettivi è senza dubbio la mobilitazione di tutti: dell’università per l’innovazione, delle imprese per lo sviluppo di queste innovazioni generando crescita e lavoro e dell’amministrazione locale, il partner che può meglio sviluppare e applicare queste innovazioni nell’edilizia, nell’illuminazione pubblica, nella mobilità urbana, nell’inclusione delle fasce più svantaggiate.

Il vostro piano d’azione punta a migliorare la qualità della vita delle persone in tutti i quartieri della città: su cosa si sta concentrando l’amministrazione locale per realizzare questo obiettivo?
Ci siamo focalizzati su una parte della città perché se vogliamo fare tutto ciò che servirebbe in tutti i quartieri della città non arriveremo mai ad una realizzazione davvero concreta. Abbiamo selezionato, in funzione della nostra strategia di sviluppo della città, le aree principali di intervento. Si tratta soprattutto di zone nel centro storico, perché è la parte più importante per migliorare la competitività della città, ma ci stiamo concentrando anche sulle strategie di base per il coinvolgimento delle comunità nei quartieri della corona esterna della città per i quali è importante la mobilizzazione popolare e una nuova forma di sviluppo locale

Per quello che riguarda l’innovazione urbana e la smart city, che tipo di approccio state prediligendo?
La smart city dipende soprattutto da un concentrato di buone idee sulla città: la tecnologia non cambia da sola la città. E’ piuttosto uno strumento al servizio delle idee che abbiamo per migliorare la città

Queste risposte che state dando alla crisi, sul piano culturale e ambientale, possono essere dei modell utili anche per ‘Europa e per realizzare delle politiche diverse per le città?
Le politiche urbane offrono a tutti delle diverse soluzioni che possiamo conoscere e adattare alle nostre città. Quello che è importante è la diversità delle nostre politiche che diversifica gli strumenti che abbiamo per fare politica.

Intervista al sindaco di Gent Daniël Termont

gentse-burgemeester-Cosa si aspetta Gent dalla nuova agenda urbana europea?
Penso che se ne parli ancora troppo in generale ma è il momento di dare delle risposte concrete, vale a dire come è possibile realizzarla o quali sono i contatti da sviluppare tra Commissione europea e città. In Belgio il governo federale ha sempre costituito un tramite tra questi due livelli e molte città anche in altri paesi europei hanno testimoniato di aver riscontrato lo stesso problema nei loro contesti nazionali, con punti di vista diversi tra governi centrali e livelli urbani. E’ per questo che abbiamo proposto lo stabilimento di contatti diretti fra la Commissione europea e le grandi città europee, come anche con quelle più piccole che sono interessate, con l’obiettivo di realizzare accordi diretti tra Commissione e città per arrivare a risultati concreti e non limitarsi solo a discussioni teoriche.

Partecipazione civica, innovazione: quali sono gli elementi che vanno inseriti in questa Agenda urbana europea per condividere davvero delle esperienze positive?
Per Gand è molto importante lavorare con gli abitanti della città. Li chiamiamo in inglese smart citizens ed è il tema attorno a cui abbiamo organizzato l’assemblea generale di Eurocities a novembre scorso. C’erano circa 450 sindaci e amministratori locali provenienti da tutta Europa e a loro abbiamo proposto differenti esempi realizzati in città di collaborazione diretta con i residenti urbani, coinvolgendoli in quest’azione. Penso che lo stesso sistema di lavoro possa essere utilizzato anche nel rapporto con la Commissione europea, promuovendo un lavoro diretto con le città e favorendo un incontro costante con i commissari che non devono rimanere fermi a Bruxelles o a leggere i dossier nei propri uffici ma vengano ad incontrare le città e i cittadini per rendersi conto dei tanti progetti che vengono realizzati nei contesti urbani. In quel momento potranno avere degli indicatori concreti e delle cifre con le quali sarà possibile valutare l’azione urbana nell’ambito dell’Agenda europea.

Ciò si lega al discorso della qualità della vita, come i progetti Urbact sull’alimentazione sostenibile e la famosa iniziativa del giovedì vegetariano. Pensa che queste iniziative concrete che incidono sulla vita quotidiana dei cittadini, possano essere inserite in un quadro europeo che promuova la qualità della vita in maniera innovativa?
Certamente, ne sono convinto,. Ci sono molti esempi che possono migliorare la qualità della vita delle persone. Un solo esempio: Abbiamo un’Abbazia medievale ma non avevamo fondi per poterla tenere aperta in chiave turistica. Sono i residenti che abitano attorno all’Abbazia che mi hanno chiesto di prenderla in gestione e adesso hanno messo su un comitato di un centinaio di persone impegnato a tenere viva l’Abbazia, aprendola quotidianamente, organizzando concerti e attività socio-culturali. Sono convinto che possiamo migliorare la vita nella città grazie a tutti questi progetti ed è molto importante stabilire come scopo dell’azione pubblica il miglioramento della vita delle persone.

Non esiste Agenda urbana senza cittadini, insomma
Senza dubbio è impossibile che esista. E’ decisivo avere anche un piano politico per tutta la città. Le do un altro esempio. Come organizzare la partecipazione civica nella città: si può organizzare una riunione con duecento o trecento persone ma sono sempre gli stessi che prendono la parola mentre ci sono tanti altri che hanno buone idee ma non osano dirle. A Gent abbiamo diviso la città in 25 diversi quartieri e abbiamo lavorato in piccole zone, organizzando una serie di attività per favorire l’incontro tra le persone e fargli esprimere la loro opinione sul futuro della città. Anche questo è molto importante per migliorare il contesto urbano e per rafforzare quel sentimento di legame con la città, facendo sì che possano esprimere la propria opinione non solo ogni cinque anni quando ci sono le elezioni comunali.

 Simone d’Antonio  (da www.cittalia.it)

 
 

 

 

 




Farsi capire nella smart city

smart cityIl marketing dei servizi per la cittadinanza. Grazie al web, ai social network e alle tecnologie innovative, Urbano Creativo si propone come consulente di comunicazione, aiutando le imprese e la PA a gestire meglio i loro progetti

L’abbattimento di barriere e distanze legato alla diffusione della comunicazione ubiqua e istantanea del web ha davvero svuotato di senso l’antica professione del geografo? Emanuela Donetti non la pensa affatto così. Geografa, studiosa dell’impatto dell’urbanistica sui paesaggi delle città, la fondatrice di Urbano Creativo (www.urbanocreativo.it), non solo è convinta che ci sia sempre più bisogno di una lettura approfondita del mondo che ci circonda e dei luoghi in cui ci muoviamo, naturali o artificiali che siano. Ma anche sul piano della comunicazione ritiene che ci sono ancora tantissime cose da dire, soprattutto quando si tratta di prendere coscienza, come cittadini, delle decisioni, degli interventi, dei nuovi servizi realizzati soprattutto dalle pubbliche amministrazioni e dalle imprese rivolte alla collettività.

«La nostra esperienza nasce dopo una prima opportunità che si era venuta a creare nel 2006 attraverso il concorso Start Cup, bandito dalla Regione Lombardia» – racconta Emanuela Donetti. «Io ho studiato da geografa e avevo iniziato a lavorare come giornalista economica. La mia socia, Micaela Terzi, proveniva dal ramo comunicazione dello IED di Milano ed era diventata cronista. Insieme, ci siamo immaginate la città come possibile piattaforma per le nostre professioni, partendo dalla scoperta che nelle città esisteva un gap tra cittadinanza e amministrazioni pubbliche e che queste ultime spesso faticavano a fare in modo che un progetto, anche il più bello sulla carta, fosse capito e amato dagli abitanti». Come un bambino, un progetto cresce meglio se viene amato e compreso e questa è in un certo senso la missione di Urbano Creativo: gettare un ponte di comprensione tra realizzatori e fruitori, non solo nell’ambito dei progetti di natura urbanistica, dei pubblici servizi in primo luogo e in parte nelle relazioni tra consumatori e mercato. I servizi sono a vocazione pubblica e vengono erogati a clienti, organizzazioni pubbliche o private, che a loro volta si interfacciano con un certo numero di persone. Promotori immobiliari che si pongono il problema della sostenibilità energetica o ambientale delle aree edificate. Comuni alle prese con i piani di mobilità. Aziende di trasporto locali che devono riformulare la loro cartellonistica o la cartografia. Ospedali che promuovono sul territorio nuovi servizi e dotazioni. A tutti questi soggetti Urbano Creativo si affianca per dare inizialmente consulenza strategica, o consigliando i punti da inserire nei business plan; e intervenendo poi con soluzioni ad hoc, non limitandosi necessariamente agli aspetti comunicativi, ma implementando attività e servizi concreti. «Nel quadro di una collaborazione con un’azienda sanitaria locale – per esempio – possiamo organizzare un sistema di punti di raccolta e disseminazione delle informazioni, consentendo ai pazienti di rivolgersi direttamente alle sedi dei comuni, senza essere costretti a recarsi ogni volta in un ospedale, riducendo tempistiche e flussi».

Lo sguardo rivolto al futuro – Il lavoro di Emanuela e Micaela ha per definizione un occhio rivolto al futuro, al cambiamento, alla trasformazione. Cose che paradossalmente vengono a mancare, o sono percepite con sospetto, per colpa di una cattiva comunicazione. «Puoi progettare il parco più bello del mondo, ma se lo costruisci dove non serve, resterà deserto. Il punto è che sempre più spesso il cittadino si oppone a tutto quello che viene dalla politica, il sentimento “nimby”, “not in my back yard” è sempre più forte. Il fatto è che dicendo sempre di no, rischiamo di perdere le possibilità di vivere un cambiamento positivo, ci neghiamo anche le opportunità di avere un futuro migliore». Proprio per questa naturale apertura verso il nuovo, Urbano Creativo è una realtà immersa nelle nuove tecnologie. «L’esigenza del cliente PA è stabilire nuovi punti di contatto e stimolare un dialogo in grado di favorire il varo di un progetto, abbattendo in pratica le barriere tra amministratori e amministrati. E ci siamo presto rese conto che era indispensabile operare con tutti gli strumenti tecnologici possibili» – spiega Emanuela Donetti. «La tecnologia distrae, “gamifica”, gli spazi virtuali della rete diventano una seconda piazza, dove tutti possono alleggerirsi delle loro preoccupazioni». Insomma, una camera di compensazione ideale per discutere, imparare, esprimere e fugare i propri sospetti. La capacità di trovare una soluzione davvero “multimediale” alla gestione dell’antico rapporto tra cittadini e PA ha portato alla scoperta di un mondo di strumenti inaspettati, che secondo la co-fondatrice di Urbano Creativo hanno consentito alla giovane, ma ormai esperta società comasca di concepire diversi nuovi progetti.

Idea vincente – Anche se la partecipazione a quella prima Start Cup non si tradusse in una vittoria, il Politecnico di Milano rimase colpito dall’approccio interdisciplinare delle due comunicatrici e offrì loro di proseguire la loro esperienza all’interno dell’incubatore di impresa della stessa università tecnologica. «È stato un periodo bellissimo perché potevamo lavorare insieme ad altre start-up, integrandole nei nostri progetti ed estendendo le nostre competenze». Come naturale conseguenza del principio per cui la città è smart se lo sono i suoi abitanti, nel momento della sua fondazione Urbano Creativo, una decina di collaboratori in tutto, ha optato per una sede più periferica, inserita in un paesaggio molto più rilassante, in un contesto più raccolto. La sede del resto mette solo a disposizione un preciso spazio di riferimento, il lavoro si svolge in piena mobilità, in interconnessione con una clientela molto più estesa. Con il tempo e l’accumularsi delle esperienze, la piccola società ha avviato anche una propria strategia di comunicazione e formazione. Nasce così il portale informativo www.urbanocreativonews.it, un sito continuamente aggiornato, concepito come un vero e proprio osservatorio sulle smart city e i loro servizi, con una ricca sezione video piena di interviste e animazioni sui temi della sostenibilità, dell’ecocompatibilità e dell’economia della condivisione, la cosiddetta “sharing society”. Quest’anno dovrebbe partire un consorzio tra Urbano Creativo e tre altre imprese per l’offerta di servizi di assessment qualitativo dei servizi al cittadino, con l’idea di offrire agli amministratori locali strumenti di valutazione che aiutino a prendere decisioni più mirate. Tre anni fa, Urbano Creativo ha anche contribuito a dar vita a una società spin-off (Mobirev), che si occupa di soluzioni per la pianificazione e la bigliettistica dei viaggi multimodali. Il lavoro non manca per un’imprenditrice della comunicazione che crede molto nelle tecnologie abilitanti della società della partecipazione. Una società che ha ancora bisogno di molti ponti.

 Andrea Lawendel




“La grande bellezza” un Oscar meritato

imagesIn realtà come romani e come italiani non dovremmo andare troppo fieri dell’ultimo spietato e meritatamente premiato film di Sorrentino. La storia del film narra infatti della grande decadenza esistenziale che attraversa i protagonisti, ricchi e meno ricchi persi in vite vuote di senso e di destino.

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Il protagonista è Jep Gambardella scrittore, di un unico ma fortunatissimo libro, grazie al quale si è inserito in uno dei tanti giri della Roma bene. Giornalista 65enne Jep, interpretato magnificamente da Toni Servillo, si trova all’improvviso a fare i conti con la propria vita “La più sorprendente scoperta che ho fatto subito dopo aver compiuto sessantacinque anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare!”
Da 40 anni a Roma Jep ha ottenuto quello che voleva “”Non volevo essere semplicemente un mondano, volevo diventare il re dei mondani. Io non volevo solo partecipare alla feste, io volevo avere il potere di farle fallire!” ma siccome è evidentemente molto poco ora si trova di fronte allo specchio del tempo che passa e fugge via senza pietà.
Sono tre i personaggi che costringono Gambardella ad un pensiero diverso sulla propria vita: Ramona (Sabrina Ferilli), la figlia di un amico che lo affascina davvero, Romano (Carlo Verdone) che decide di andarsene al paese lasciando quel “tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore” e il marito di una sua vecchia e unica fiamma giovanile, la sua personale “grande bellezza” persa senza sapere il perchè.

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Sono quindi le perdite a trascinarlo nella ricerca di un nuovo possibile senso, decide infatti che scriverà un nuovo romanzo. Cosa scriverà non è dato sapere ma sicuramente il tema è quello della grande bellezza che incontriamo nella vita, ma che non sempre sappiamo riconoscere.

“La grande bellezza sembra essere un film geologico, come fosse l’affioramento improvviso di una stratificazione con i suoi tanti livelli sovrapposti e confusi; sembra essere un film archeologico, come fosse il ritrovamento di un’antica stanza romana con i suoi patrizi e le sue vestali. Sembra essere un film senile, come fosse la lettura postuma del diario di un vecchio dandy che ha vissuto nella Roma degli anni duemila. Sembra essere un film di fantasmi usciti dalla penna di uno scrittore fin troppo compiaciuto della sua arte e del suo mestiere. Infine, sembra essere la risposta erudita e d’autore al To Rome With Love, contraltare e vendetta alla cartolina di Woody Allen

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…Il Fellini della Dolce vita, cui si pensa immancabilmente, aveva una pietas profonda verso i suoi personaggi, e quella compassione permetteva allo spettatore di allora come di adesso, di agire una qualche proiezione emotiva. La grande bellezza di Sorrentino è invece abissale, freddissima, distanziata, un ologramma sullo sfondo. A favorire questo distanziamento c’è anche l’approccio volutamente anti-narrativo, già sperimentato in This Must Be the Place, ma qui ancora più evidente. Citando Celine e il suo Viaggio al termine della notte, Sorrentino sperimenta una narrazione errante, fatta di continue effrazioni, smottamenti, deliberati scivolamenti da un piano all’altro, da una situazione all’altra, lasciando tracce, abbozzi, improvvisi vagheggiamenti. Alla storia preferisce l’elzeviro, l’affondo veloce, la critica sferzante e sempre erudita. Al dialogo preferisce un monologo straordinariamente punteggiato (e nel film si monologa anche quando si dialoga)…”  da http://www.mymovies.it/film/2013/lagrandebellezza/ 

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E come sfondo a questi quadri onirici di cui si compone il film Roma, l’eterna grande bellezza. Dal panorama iniziale del Fontanone al Gianicolo, ai ponti del Tevere, agli sguardi dai terrazzi esclusivi delle feste, agli interni del guardiano delle chiavi mute statue silenti bianche.
Certo Roma e l’Italia non sono solo i frequentatori del film di Sorrentino, ma la loro pericolosa decadenza può essere ed è molto contagiosa, distanziarsene e basta può essere pericoloso.

Infine sul perchè abbia vinto l’oscar provano a spiegarcelo:

sia il Fatto quotidiano in modo un pò malizioso  “Gli americani, che dell’Italia conservano un’idea sempre un po’ stereotipata, hanno pensato (anche perché così gli è stato raccontato) che il film sia una specie di nuova Dolce vita. Dunque gli è piaciuto ancora di più. Nella pellicola ci sono poi degli elementi sicuramente vincenti, specie in terra straniera. Intanto l’estrosità e l’estetica delle ambientazioni e dei costumi, in cui la cura del regista e dei vari reparti danno il meglio, soprattutto agli occhi degli americani. Basti pensare all’invenzione delle giacche rosse e gialle indossate con nonchalance da Tony Servillo, una sfida temeraria allo stile compassato di Armani. Come pure la bellissima colonna sonora, un mix di sacro antico e di profano, che gli americani ci invidiano, non avendo loro né l’uno né l’altro. Infine il coraggio dello stile immaginifico di Sorrentino che per certi versi ricorda l’estro di Federico Fellini. Il maestro romagnolo è rimasto nel cuore degli americani e l’idea che ci sia un suo emulo non poteva non essere premiata.” Dal Fatto Quotidiano del 4 marzo 2014;

che il sito wired.it in modo invece più tecnico e forse veritiero “La Grande Bellezza… arrivava con un ottimo passaparola, lavorando bene in premiazioni alternative, trionfando in Europa (sebbene non a Cannes, il cui vincitore di quest’anno La vita di Adele era fuori dalla corsa agli Oscar perchè uscito troppo tardi in America) e soprattutto vincendo i Golden Globes (premi che vengono dati dalla stampa estera, dunque più incline ad aver visto film stranieri). La Grande Bellezza era quindi già “il film da vedere”, quello che i giurati erano più stimolati a guardare o che se non altro stava in cima alla loro lista di cose da vedere, la stessa lista alla fine della quale solitamente non arrivano. Se a questo si aggiunge che l’età media di un giurato dell’Academy è più vicina ai 60 che ai 30 è evidente che un film su Roma, foriero di suggestioni da cinema d’altri tempi, paragonabile (per la ristretta conoscenza che gli stranieri hanno del cinema italiano) aFellini e costellato di immagini straordinarie di un luogo mitologico della storia del cinema, aveva gioco facile a farsi vedere. Tutto questo non leva di certo i meriti di un film che è autenticamente straordinario, Oscar o non Oscar, ma è sempre meglio intendersi bene sulle motivazioni della vittoria che si celebra.”

Insomma un film bello, triste,  non facile eppur da vedere

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Un film di Paolo Sorrentino. Con Toni ServilloCarlo VerdoneSabrina FerilliCarlo BuccirossoIaia Forte.  Drammaticodurata 150 min. – Italia, Francia 2013. – Medusa

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“Finisce sempre così. Con la morte. Prima, però, c’è stata la vita, nascosta sotto il bla bla bla bla bla. È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore. Il silenzio e il sentimento. L’emozione e la paura. Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo. Bla. Bla. Bla. Bla. Altrove, c’è l’altrove. Io non mi occupo dell’altrove. Dunque, che questo romanzo abbia inizio. In fondo, è solo un trucco. Sì, è solo un trucco.”

 

 

 

 




Roma: a piedi alla scoperta della storia di Testaccio

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Il 2 marzo 2014 è domenica. La sveglia “presto” la domenica mattina è valida solo per gite ed escursioni come in questo caso, altrimenti non nego che adoro rimanermene tra le coperte. Oggi mi aspetta una bella passeggiata alla scoperta della storia di Testaccio, storico quartiere popolare di Roma Capitale.

Ad accompagnarci in questo giro ci sarà Irene, testaccina doc e sociologa esperta di fenomeni di rigenerazione urbana e gentrification. Andare alla scoperta di un quartiere la cui storia è estremamente contemporanea accompagnati da una persona così esperta come lei è davvero un piacere. Non per niente le abbiamo chiesto di mettere in palio per il gioco della community di Gente in viaggio una sua passeggiata in questi luoghi. Ci sembra il modo migliore per scoprire delle aree urbane così affascinanti.

Unica pecca della passeggiata è la pioggia battente che talvolta impedisce al gruppetto di soffermarsi ad approfondire dei particolari dando sfogo alla curiosità di tutti i presenti.

Quella di testaccio è la storia di un sogno interrotto“. Esordisce così Irene all’inizio del percorso che parte dall’ingresso del museo MACRO Testaccio. Questo ai tempi dell’unità d’Italia doveva diventare il quartiere industriale della capitale. Una campagna, all’interno delle mura aureliane, che poteva accogliere tutto il disagio della trasformazione industriale della città e i suoi operai.

E’ per questo che la narrazione della storia di Testaccio parte proprio dal MACRO, un museo installato all’interno del vecchio mattatoio. Una struttura immensa che generò un’indotto enorme quando venne costruito e attivato negli ultimi decenni del 1800.

Neanche partiamo che dobbiamo fermarci a ricordare una vecchia locanda dove i lavoratori del mattatoio si consumavano a scommesse. Ben più romantica è invece la storia della “cabina dei ragionieri”. Ovvero quella piccola struttura circolare all’interno del campo boario ormai devastata dal degrado. Lì dentro i ragionieri del mattatoio decidevano i prezzi delle merci. Nel pomeriggio e la sera diventava ritrovo dei giovani del quartiere che bevevano vino e si innamoravano.

Molto particolare è la storia del Monte Testaccio. A detta della nostra accompagnatrice è possibile visitare la collina – che è anche un incredibile documento a cielo aperto per la storia del commercio dell’antica Roma – pochissimi giorni l’anno. Il Monte dei Cocci è formata dai pezzi delle anfore di terracotta attraverso le quali venivano trasportati olio e vino provenienti dall’Etiopia e dall’Andalusia. Ogni anno da settembre a novembre team di archeologi spagnoli studiano questi resti.

La passeggiata storica prosegue uscendo dal rione testaccio, passando per gli archi delle mura aureliane in direzione di via del porto fluviale. Peccato non poter visitare il Cimitero Monumentale Acattolico dove sono sepolti alcuni dei più grandi scrittori e artisti europei protestanti che morirono a Roma, ma anche personalità del calibro di Gramsci.

In via del porto fluviale entriamo nell’edificio occupato da numerosi nuclei familiari la cui enorme facciata è interamente dipinta dallo street artist Blu. La struttura anche al suo interno conserva il suo fascino. Infatti è proprio da qui che inizia il percorso di archeologia industriale del quartiere. Ed è qui, nei paraggi, che l’ex sindaco di Roma Ernesto Nathan (1907-1913) ha lasciato alcuni dei più importanti “prodotti” della sua amministrazione: la Centrale elettrica Montemartini (adesso adibita a museo, ma ancora attivabile in caso di emergenze democratiche visto che le sue turbine hanno il compito di illuminare Palazzo Madama e Montecitorio), i Mercati e i Magazzini generali. Nathan viene ricordato soprattutto perché fu il sindaco che indisse il referendum che portò i romani a imporre la municipalizzazione i servizi essenziali e alla diffusione dei mercati rionali che fino ad allora erano abusivi. Viene un po’ di tristezza pensare a come siano ridotti adesso e di come, in alcuni casi, il degrado causato dalle ultime amministrazioni comunali sia così ben evidente anche in una passeggiata piacevole come questa. Mi riferisco, per esempio al ponte della Scienza o al Teatro India. Due strutture realizzate e abbandonate all’ombra del Gazometro diventato famoso per le notti bianche veltroniane.

La passeggiata continua sul lungotevere Gassman nel “retro” del quartiere Marconi fino ad arrivare al famoso“Ponte di Ferro” che congiunge l’area di Testaccio-Ostiense con Marconi appunto. Nascostissima in un angolino è possibile vedere una lapide che ricorda l’omicidio di dieci donne testaccine durante il fascismo. In questa zona ai tempi insistevano numerosi mulini e granai e il pane era razionato per il popolo. A volte gruppi di donne di Testaccio saccheggiavano questi granai per poter soddisfare la propria fame e quella dei propri figli. La lapide ricorda l’omicidio di dieci di loro tradite da un uomo che che lavorava in uno di questi granai e che doveva essere loro complice ma che invece si vendette la soffiata ai tedeschi.

Brutti ricordi della storia di Testaccio e di tutta Roma ma assolutamente affascinanti se osservati dal punto di vista della caparbietà della popolazione del primo vero quartiere operaio della città.

Alessio Genteinviaggio  link all’articolo