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Guida Erasmus 2015

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La Commissione Europea ha pubblicato la Guida 2015 del programma Erasmus+ e l’Invito per la presentazione delle proposte. La Guida al momento è disponibile solo in inglese, la versione tradotta in tutte le lingue dell’UE è prevista per la fine di Ottobre.
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Istituire a Tor Pignattara la Casa della società civile

«Alla Marranella lì all’incrocio dell’Acqua Bullicante e la Casilina c’era più via vai di macchine e di gente che in via Veneto…» Così Pasolini descrive il centro di Tor Pignattara in Ragazzi di vita.

Ebbene, proprio in questa piazza, dove via dell’Acqua Bullicante fa angolo con via della Marranella, fu costruito nel 1950 un palazzo di otto piani. I primi due furono acquistati dall’ USIS (United States Information Service) per collocarvi una delle innumerevoli biblioteche che l’organizzazione americana aveva sparse in venti Paesi. Una biblioteca a scopo didattico per dare la possibilità a tutti di prendere in prestito ogni tipo di materiale utile a conoscere la vita americana e le novità in campo industriale. Nella struttura si svolgeva un’intensa attività culturale: mostre fotografiche, conferenze, presentazioni di libri. E i giovani studenti e i cittadini di ogni età la frequentavano con grande interesse.

Ma nelle prime ore di lunedì 19 settembre 1966 una bomba ad orologeria esplose nell’atrio della biblioteca. I locali subirono danni gravissimi. E schegge dell’ordigno colpirono un’auto parcheggiata di fronte, le vetrine dei negozi e le abitazioni dei palazzi vicini. Per fortuna non ci furono vittime. E non si seppe mai chi fosse l’autore del gesto dissennato.

Gli abitanti più anziani di Tor Pignattara ricordano l’episodio come una ferita non più risanata. Un atto insensato e oltraggioso nei confronti del quartiere e una perdita irreparabile. Infatti, dopo l’attentato, l’Usis vendette i locali e la biblioteca non fu più istituita. Col tempo quel luogo di cultura è stato rimpiazzato da una banca.

Ora, a piazza della Marranella, il Municipio V ha concesso ai cittadini la sala dove fino a qualche anno fa si riuniva il consiglio municipale. Si potranno svolgere laboratori e riunire gruppi di studio al fine di elaborare proposte su diversi problemi, da quelli più gravi, come la presenza delle mafie sul territorio, alla necessità impellente di diffondere cultura e conoscenza nel quartiere, integrare gli immigrati con gli italiani, gestire in modo partecipato i beni comuni e progettare lo sviluppo locale.

Sarebbe utile che il Comune di Roma affidasse in modo permanente i locali di piazza della Marranella ad un soggetto partenariale aperto a tutti i comitati, associazioni e singoli cittadini per farne la Casa della Società Civile di Tor Pignattara.

In questo modo, dopo quarantotto anni, la ferita che la comunità locale subì con l’attentato alla biblioteca potrà finalmente essere sanata. E la cultura diffusa potrà riprendere a svolgere la sua funzione generatrice di coesione sociale e sviluppo umano.

 

 

Piazza della Marranella

Piazza della Marranella

 

 




Le comunità-territorio del futuro

Opportunità e rischi della democrazia identitaria

Si parla di identità in rapporto agli istituti della democrazia quando un gruppo di persone si percepisce come specifico in relazione ad una componente che non è il risultato immediato di una scelta individuale. E tale specificità identitaria viene riconosciuta da altri individui.

In altre parole, la mia specificità identitaria non nasce immediatamente per atto della mia volontà. Emerge perché sono nato in una determinata famiglia, vivo in un certo paese, in cui si parla una data lingua e si adotta una specifica religione.  E sono identificato dagli altri mediante alcuni tratti peculiari. Ho sempre la possibilità di fare una scelta diversa. Ma intanto, nell’immediato, quella specificità mi caratterizza e costituisce un legame di appartenenza. L’identità unisce e, al tempo stesso, distingue.

L’identità non è mai qualcosa di statico ma il portato di un processo culturale sempre in evoluzione ed è in virtù di questa intrinseca dinamicità che costituisce un valore, un arricchimento per l’insieme della società. La fioritura di culture identitarie – come reazione spontanea alla globalizzazione – è dunque un’opportunità da saper cogliere. Ma quando si pretende di far valere l’identità nella scena politica contro gli altri che non appartengono al gruppo, la democrazia può correre seri rischi. Non è la prima volta che accade. Anche le ideologie che sono state protagoniste della guerra fredda creavano non solo manicheismo dottrinario ma anche simboli e appartenenze identitarie. Chi nasceva in una famiglia comunista o democristiana doveva compiere una scelta sofferta per distaccarsi da un’identità percepita dal proprio gruppo e riconosciuta all’esterno come appartenenza. E tale condizione creava opportunità perché alimentava legami comunitari e solidarietà, ma anche rischi perché fomentava conflitti irriducibili.

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L’identità religiosa

Le ideologie onnicomprensive del Novecento sono sparite e vanno sorgendo nuove identità. Rinascono in forme nuove anche quelle antiche, come le religioni. Credere in un Dio è certamente un fattore che unisce e distingue. Ma cosa succede quando l’identità in una fede vuole avere voce in capitolo nelle scelte politiche e nella sfera pubblica per sopraffare altre identità? C’è il rischio  che tale pretesa ponga in serio pericolo lo stato di diritto. Lo stato moderno è infatti nato escludendo le religioni dalla sfera del potere politico: liberando le religioni dal potere, ha liberato il potere dall’intolleranza e dalla violenza per ragioni di fede.

Con l’adozione delle carte dei diritti, e quindi con il riconoscimento del limite del potere della maggioranza, le democrazie moderne hanno reso la libertà religiosa un principio fondamentale che libera la persona da ogni autorità esterna alla propria coscienza di individui responsabili e perciò liberi. La tolleranza non attiene più alla sfera pubblica. I diritti individuali rendono la tolleranza una questione di comportamento individuale, non più una politica degli stati. Difendere i diritti di tutti supera la discrezionalità degli stati di tollerare questa o quella fede.

Oggi le gerarchie religiose reclamano una presenza speciale dell’identità religiosa nella vita politica. Esse contestano il principio della separazione di giudizio, oltre che di potere, tra le sfere di vita civile e religiosa. Sotto il pontificato di Giovanni Paolo II la Chiesa cattolica ha rivitalizzato la dottrina della legge naturale – che per un lungo periodo era stata messa in soffitta – con l’intento di contrastare l’idea liberale che i diritti individuali, primo fra tutti quello della libera scelta in questioni morali, debbano essere difesi in via di principio. La filosofia della legge naturale, impressa da Dio nel cuore degli uomini e interpretata dalla Chiesa che ne sarebbe il custode supremo sulla terra, si propone esplicitamente  come alternativa alla filosofia che, a partire dalla Dichiarazione dei diritti del 1789, si è imposta come la sfida più radicale al potere della trascendenza religiosa nella vita civile e politica.

Intendiamoci. Che le chiese esprimano la loro opinione sulle questioni che attengano alle decisioni politiche è cosa legittima e auspicabile. I cristiani – proprio perché il loro “Dio è un’idea politica”, come ricorda il teologo Johann Baptist Metz – possiedono una determinata visione del mondo e dell’essere umano e hanno delle convinzioni che non andrebbero relegate nell’intimo e nel privato, ma che, in una società pluralista come la nostra, converrebbe a tutti renderle presenti  e ascoltabili nello spazio pubblico, sociale e politico.

Tuttavia, vivere intensamente la differenza cristiana nell’agone politico e sociale non deve significare necessariamente organizzarsi in minoranze attive, ritenendole più capaci di assicurare identità e visibilità nell’ambito di strategie difensive e di concorrenza. Come suggerisce Enzo Bianchi, si può essere efficaci anche solamente vivendo la testimonianza di fede in compagnia degli uomini, innestando “una dinamica che scuote l’indifferenza alla fede cristiana e alle sue esigenze propria anche a molti sedicenti cattolici”.

Naturalmente il ragionamento del Priore di Bose vale per tutte le religioni.  La commistione tra potere politico e potere religioso non solo è rischiosa per le istituzioni democratiche: fomenta il fondamentalismo e il fanatismo anche all’interno delle stesse comunità religiose. Per contribuire a salvaguardare la democrazia, le chiese devono evitare di organizzare gruppi politici e sociali di ispirazione religiosa ed essere tolleranti e dialoganti con altre culture.

 

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Un nuovo multiculturalismo

Altra cosa è tener conto delle differenze e adottare politiche specifiche che riconoscano identità religiose, etniche, linguistiche, convinzioni culturali di specifici gruppi, questioni di verità o di vita buona, credenze di una parte di cittadini a cui altri non aderiscono e che attengono al rapporto uomo/ambiente o uomo/animale.

Negli ultimi tempi il concetto di multiculturalismo si è ampliato. Un diritto culturale è per esempio una norma che consente ai negozianti di religione musulmana di svolgere la loro attività commerciale in accordo con le loro pratiche religiose. Un altro diritto culturale è la facoltà concessa ai gruppi che aderiscono a determinate credenze religiose o filosofiche di adottare il metodo dell’agricoltura biodinamica nell’ambito di specifiche regole che, comunque, devono tutelare i diritti dei consumatori. Si tratta di soluzioni di prudenza poiché, se il diritto individuale è fondamentale, e deve restarlo, gli accomodamenti avvengono su questioni che non sono essenziali per lo stato di diritto.

È possibile avere un’ampia politica di diritti culturali, ma la decisione sulla sua ampiezza deve essere presa dalle istituzioni, non dal gruppo culturale che la sostiene, tenendo ferma la difesa dei diritti individuali, i quali non sono sempre in armonia con le difesa del gruppo che rivendica politiche culturali rispettose della propria identità.

Mentre i diritti civili non sono negoziabili, le politiche culturali lo sono, e per questo possono sempre essere revocate. Le norme che autorizzano o vietano la coltivazione di Ogm (Organismi geneticamente modificati) rientrano nelle politiche culturali che non dovrebbero ledere i diritti individuali (cosa che invece purtroppo accade!) e andrebbero considerate revocabili nel caso in cui si formino maggioranze politiche diverse. Il multiculturalismo deve favorire il rispetto del pluralismo ma non deve portare mai all’affossamento dello stato di diritto e al ripristino dello stato corporativo.

Concordo con Nadia Urbinati quando afferma che diventa un pericolo per la democrazia il sorgere di gruppi che rivendicano una propria specificità contro la generalità dei cittadini e contro altri gruppi, chiedendo che la politica segua l’identità e che la legge si modelli sull’identità più rappresentativa o maggioritaria su di un territorio. Ciò avviene quando i gruppi si auto-rappresentano non tanto o non solo come diversi, ma come meritevoli di un potere o di una considerazione superiori a quelli di altri gruppi.

Le istituzioni pubbliche sono di tutti e, quindi, non devono assolutamente far proprie convinzioni etiche e religiose o che attengano a specifiche visioni culturali, modelli produttivi e di consumo che sono di qualcuno e che divergono con quelle di qualcun altro. Se ne deve tener conto in via prudenziale, ma salvaguardando sempre i diritti individuali di coloro che non aderiscono a quelle credenze.

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Una nuova laicità

È questa la laicità pubblica del XXI secolo da realizzare con istituzioni pubbliche che devono rimanere neutrali per non degenerare in istituzioni non democratiche. Dovrebbe essere preoccupazione di tutti coloro a cui sta a cuore l’eguale libertà democratica di cittadinanza difendere le istituzioni dal morbo che conduce alla perdita della laicità, imparzialità, neutralità pubblica. Democrazia e laicità, simul stabunt, simul cadent. Non bisogna avere remore nel criticare deliberazioni e scelte istituzionali che, riflettendo gli interessi  di gruppi politici che mirano a soddisfare domande di eticità di frazioni di popolazione, ledono l’eguale rispetto dovuto a chiunque, in quanto cittadino o cittadina di pari dignità nella polis.

È inevitabile che la globalizzazione renda più intense le domande sociali di identità rivolte al sistema politico democratico e incentivi la presentazione conflittuale, nell’arena istituzionale, di domande di eticità. E che un’autorità politica che perde colpi rispetto a poteri sociali come la finanza, l’economia e la comunicazione, si rivalga soddisfacendo la domanda di eticità.

D’altra parte, anche il persistere della crisi economica e sociale crea un nesso molto forte tra questioni di identità e questioni di giustizia distributiva o di equità sociale. Ma queste ultime non sono separabili dalle altre, in quanto nascono intimamente unite alle prime. E tuttavia, né la globalizzazione né la crisi economica né il malessere sociale che ne consegue possono farci smarrire che la democrazia sia un valore irrinunciabile che non può essere mediato con altri.

Sappiamo che non c’è valore che non sia esposto al rischio della sua perdita e dissipazione. E oggi le derive populistiche, gerarchiche e plebiscitarie dei regimi democratici sono alimentate anche dalle continue risposte che le autorità pubbliche danno alle domande di eticità.

Va tutelato il diritto di assicurare ai gruppi specifici di esprimere i propri punti di vista sulle politiche pubbliche.  Perché solo l’esercizio di questo diritto permette il dibattito pubblico, non istituzionale, delle diverse opzioni ai fini della condivisione e contaminazione e, dunque, dell’interculturalità. Ma questo diritto va sempre accompagnato dall’eguale rispetto dovuto a chiunque non malgrado, bensì in virtù delle differenze e delle distinte concezioni di valore, etico, religioso e culturale.

In una società che fa perno sulla Costituzione e sugli eguali diritti, nessuna identità è di per sé più potente di un’altra. D’altra parte i totalitarismi sono identitari perché mirano a creare società non di diritto ma di sostanziale identità.

C’è un nesso molto stretto tra democrazie identitarie e degenerazioni xenofobe e razziste. Lo stiamo vedendo purtroppo nelle periferie delle nostre metropoli, dove si formano spontaneamente quartieri multietnici. Le due cose non sono necessariamente concatenate come causa ed effetto. Ma i rischi sono altissimi perché nella cultura europea c’è una resistenza molto forte al pluralismo e un’acquiescenza molto estesa al centralismo e all’omologazione.

In alcuni quartieri di Roma, come Torpignattara e Pigneto, stanno proliferando nuove forme di mafia per iniziativa di organizzazioni criminali, dedite al traffico di droga e al riciclaggio di denaro sporco, che strumentalizzano l’identità e il disagio sociale indotto dalla difficoltà di interazione tra le diverse etnie che convivono senza efficaci politiche di integrazione. Per affrontare questa nuova situazione è necessario affermare una cultura della legalità e fare in modo che le culture identitarie dialoghino, interagiscano senza mai proporsi al di sopra della cultura dell’eguaglianza e della dignità della persona. Non ci può essere un’eguaglianza all’interno di un gruppo diversa dall’eguaglianza praticata in un altro gruppo perché una simile concezione comporta negare l’eguaglianza come principio di relazione tra diversi. E queste considerazioni valgono per tutti i gruppi, sia quelli autoctoni che per quelli di immigrati.

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Identità e universalità dei diritti per un nuovo comunitarismo

I contesti e i gruppi specifici sono un’opportunità per rivitalizzare e arricchire nuove forme di società civile che correggano l’individualismo. E tuttavia bisogna tendere a costruire legami sociali che promuovano comunità-territorio aperte a tutti e che decidano con la regola di una testa un voto. È in tal modo che si può andare oltre la solidarietà e si può affermare la fraternità civile.

Le comunità-territorio contemporanee devono saper cogliere le opportunità della globalizzazione e non chiudersi in sé stesse. Bisognerebbe accompagnarle ad acquisire la capacità di auto-rappresentarsi e di costruire la propria immagine. Ma tale capacità presuppone una chiara percezione di sé, per fare in modo che gli scambi culturali ed economici con altre comunità-territorio del mondo globale siano reciprocamente arricchenti e improntati ad una relazionalità collaborativa.

Di qui l’importanza di studiare e conoscere scientificamente i contesti in cui fioriscono le vite delle persone e dei gruppi mediante approcci interdisciplinari e un’attività permanente di ricerca-azione finalizzata a promuovere percorsi partecipativi progettuali per lo sviluppo locale. Le storie di vita, le memorie delle persone e dei beni strumentali, architettonici, archeologici e paesaggistico-ambientali sono elementi indispensabili per fare in modo che gli individui e i gruppi si approprino delle loro radici e di un’identità consapevole e capace di aprirsi ad altre identità.

I contesti vanno vissuti da persone che comprendano i processi e i meccanismi con cui questi si producono. Le comunità-territorio contemporanee devono servire prioritariamente a siffatto scopo. Solo con un forte senso di sé e stabilendo regole democratiche condivise per il proprio funzionamento nei percorsi partecipativi dal basso, le comunità-territorio possono svolgere una funzione propulsiva, alimentando valori da immettere nelle istituzioni e nel mercato.  Per farlo devono essere comunità che non pongono in alternativa l’appartenenza identitaria e l’universalismo dei diritti. L’individualismo si corregge con un nuovo comunitarismo che non mette in discussione i diritti individuali. Altrimenti, coniugandosi in modo distorto con le culture identitarie, l’individualismo porta inevitabilmente alla violenza e alla sopraffazione.

 




Apre “L’Alveare”, il coworking con uno spazio baby dedicato ai neo genitori

scambioApre a Centocelle, in via Fontechiari 35, “L’Alveare”, un ambiente di circa 200 mq per il lavoro in condivisione che mira a migliorare la qualità della vita di neo-mamme e neo-papà, fornendo loro un servizio che permetta di continuare a lavorare subito dopo la nascita dei figli grazie alla presenza attigua all’ambiente di lavoro di un’area specifica, adeguata alla cura di bambine e bambini piccoli.

Inoltre, proprio per rispondere all’esigenza di un luogo di scambio di competenze e incubazione di idee, lo spazio messo a disposizione da Roma Capitale è aperto a tutti i lavoratori e lavoratrici che condividano lo spirito del coworking, anche senza figli o con figli grandi.

 

Nel dettaglio: l’area comprende uno spazio baby di oltre 50 metri quadrati dotato di servizi autonomi ed idoneo ad accogliere – a partire dai 3/4 mesi di età – dodici bambini contemporaneamente, uno spazio coworking con 20 postazioni, 2 uffici (4/8 postazioni), una sala riunioni, una china, uno spazio allattamento, servizi, giardino.

 

Le tariffe del coworking sono orientate all’accessibilità: partono da circa 2,80 euro l’ora e prevedono un’agevolazione per chi usufruisce di più servizi contemporaneamente e per un tempo prolungato. Le aziende avranno la possibilità di convenzionarsi con il coworking per il telelavoro e per il periodo di rientro dalla maternità delle lavoratrici dipendenti (soluzione pensata per tutte le aziende sprovviste di nido).

Lo spazio sarà poi sfruttato per l’organizzazione di corsi di formazione professionale, di orientamento al lavoro, di progettazione europea e di lingue, in collaborazione con enti formatori, cooperative sociali, istituti di lingue per stimolare la creazione di sinergie e l’adozione di buone pratiche di cooperazione fra le diverse professionalità.

 

All’interno de “L’Alveare” è prevista infine la condivisione di attrezzatura da ufficio (pc, stampanti, proiettori, programmi, ecc.) e l’avvio di servizi quali spesa a domicilio, gruppi di acquisto, disbrigo pratiche.

 

“L’Alveare” è il frutto del progetto realizzato dall’associazione “Città delle Mamme” in collaborazione con l’assessorato allo Sviluppo delle Periferie, Infrastrutture e Manutenzione urbana di Roma Capitale. Questa particolare idea di coworking, che gode anche del patrocinio dell’assessorato alla Scuola, Giovani e Pari Opportunità di Roma Capitale e del V Municipio, ha suscitato l’interesse dell’Amministrazione dopo la partecipazione di “Città delle Mamme” al bando “Call for social Ideas”, promosso da Italia Camp e UniCredit.

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Avviso Pubblico per proposte di manifestazioni culturali nell’Autunno 2014 e la Primavera 2015

romaIl Dipartimento Cultura di Roma Capitale ha pubblicato il Bando per il reperimento di proposte di manifestazioni culturali, da realizzarsi nei Municipi della città di Roma ed incluse in entrambi i seguenti periodi di programmazione, distinti e separati: novembre /dicembre 2014 e febbraio /aprile 2015. Le manifestazioni – di spettacolo dal vivo e/o cinematografiche e/o artistiche – potranno avere carattere anche interdisciplinare, ma dovranno sempre essere riconducibili ad un unitario e coerente progetto culturale.

 

“L’obiettivo – commenta Giovanna Marinelli, assessore alla Cultura di Roma Capitale – è quello di dare ossigeno alle attività culturali nella città coinvolgendo più pienamente i Municipi. E’questa una strada che intendiamo proseguire guardando sempre di più al territorio perché la cultura non sia privilegio di alcuni. L’ho ripetuto anche intervenendo alla presentazione oggi della stagione della Casa dei Teatri e della Drammaturgia Contemporanea: l’obiettivo è quello di fare comunità, di rafforzare la coesione, di formare un pubblico sempre più grande di fruitori”.

 

Le tematiche proposte non dovranno riguardare le festività natalizie, di fine anno e il carnevale 2015. Per ogni Municipio sarà realizzato un solo progetto, articolato nei due periodi, per un intervento economico massimo di 28.000,00 euro.

 

La domanda di partecipazione al Bando, con la documentazione allegata, potrà essere inviata anche in via telematica, esclusivamente tramite la casella di posta elettronica certificata (PEC) all’indirizzo protocollo.cultura@pec.comune.roma.it

 

Qui il testo dell’Avviso pubblico, che scade il 3 ottobre 2014.


Info: www.comune.roma.it/cultura  – www.culturaroma.it  oppure ai seguenti numeri telefonici 06 6710 3168/2744/4583 – 066795920.




Per realizzare i tuoi sogni hai bisogno di giocare in squadra? Adesso puoi!

 Questo articolo parla di nuovi portentosi sistemi per connettere le nostre esistenze e approfittare della rivoluzione della comunicazione. L’aumento della complessità ci induce a collaborare.
E parla anche di come organizzare un gruppo di amici appassionati, formare una macchina sociale e utilizzarla per abbellire il mondo.

Sono molto contento.
Quando 34 anni fa iniziammo a costruire Alcatraz non avevamo in mente solo un posto dove mangiare bene, dormire comodi e stare in mezzo al verde (che non è poco).
E non avevamo solo intenzione di organizzare corsi ed eventi e produrre spettacoli e libri.
Avevamo idee e progetti grandiosi ma ci rendevamo conto che non c’era spazio per il nostro modo di vedere il mondo: tutto era in mano a cricche di affari e potere: la tv, la distribuzione libraria, i teatri.
Per stare in piedi e produrre cultura alternativa non bastavano le idee. Avevamo bisogno di un nostro sistema di autofinanziamento, mettere insieme attività collaterali che portassero i soldi indispensabili per realizzare le idee.
L’attività di ospitalità e corsi di Alcatraz aveva bisogno di pubblicità che otteneva finanziando iniziative culturali. La realizzazione dei libri portava i soldi per mantenere attivo un gruppo di ricerca, scrittura e grafica.
Poi arrivò internet, lo svilupparsi di una grande comunity digitale oltre che fisica ad Alcatraz, Cacao, il quotidiano delle buone notizie, i siti web, un sistema di vendita di libri, le magliette, e servizi per gruppi di acquisto, permettevano l’esistenza di una rete commerciale via web che a sua volta finanziava la comunicazione. A questo sistema si è poi connesso il gruppo di lavoro sulle ecotecnologie, la cooperativa di autocostruzione dell’Ecovillaggio Solare…
Ma fino a un certo punto tutto questo era un sistema che viveva isolato al suo interno. Un piccolissimo gruppo di samurai dell’economia alternativa connesso con una banda di creativi situazionisti agricoli.
Poi negli ultimi mesi, progressivamente, questo gruppo strettamente interconnesso è entrato in uno strano stato di agitazione. Tutta una serie di percorsi personali, molto diversi, hanno trovato improvvisa convergenza, linee che si incrociano, si sovrappongono, corrono parallele.
E ci siamo così accorti che stava scattando un fenomeno sinergico. È un peccato che a scuola non parlino dei fenomeni sinergici. Se le persone fossero a conoscenza di questa possibilità, magari vivrebbero un’altra vita.

 Io ho avuto la fortuna di essere testimone di un fenomeno analogo, tanti anni fa: un gruppo di persone che diventano una squadra nel senso più pieno del termine, un sistema, un meccanismo collettivo, sociale. Fu quando i miei genitori costruirono il primo palcoscenico smontabile, con tanto di piano sopraelevato e torrette per luci e amplificatori, e andarono a recitare fuori dagli spazi istituzionali per raggiungere chi non sarebbe mai entrato in un teatro. Oggi fare uno spettacolo in un palasport è una banalità: telefoni a un service e ti arrivano a montare tutto senza problemi. Ma 45 anni fa non esisteva niente del genere. Così mi trovai tra mio padre, un fabbro e un falegname intorno a un tavolo e vidi crescere il progetto… Io ero un ragazzino ma sentivo di essere testimone di una grande impresa… Quando non andavo a scuola seguivo i miei nei loro debutti. Arrivavamo nei posti più sperduti, in una bocciofila, in una balera, in un fabbrica occupata, con due camion, e aiutati da una ventina di volontari montavamo tutta la scenografia avvitando centinaia di bulloni a farfalla. Poi dopo lo spettacolo si faceva più alla svelta perché restavano ad aiutarci molti spettatori e si faceva il passamano con le centinaia di riquadri, tavole, trasversali e zampe, i costumi, le maschere, i fondali. Mi piaceva molto vedere la file delle persone che si passavano i pezzi; dal palcoscenico ai camion gli oggetti viaggiavano veloci, era lavoro ma era anche una specie di danza.
E c’era la sensazione che quando le persone si mettono assieme per uno scopo comune riescono a ottenere risultati incredibili…
E non si trattava solo di organizzare un balletto passamano.
In pochi mesi si creò dal nulla una rete di gruppi che trovarono gli spazi, fecero la pubblicità, vendettero i biglietti, organizzarono sei mesi di spettacoli per tre compagnie teatrali che giravano contemporaneamente.
Poi arrivò il riflusso e raramente si riuscì a mettere in piedi iniziative così complesse.
Ci riuscimmo ad esempio quando organizzammo la trasmissione di Ubu Bas va alla guerra, spettacolo che cercava di opporsi alla disastrosa invasione dell’Iraq (come volevasi dimostrare). Uno spettacolo che fu trasmesso da 22 televisioni locali, due reti satellitari e Virgilio sul web; grazie all’appoggio di decine di migliaia di abbonati a Cacao e di molte associazioni pacifiste riuscimmo ad arrivare a più di due milioni di spettatori. 150 mila solo sul web (e allora avevano accesso a internet 5 milioni di italiani). Ma queste grandi mobilitazioni politiche, basate sul meraviglioso volontariato hanno un limite, tendono a perdere intensità col tempo.
Per questo abbiamo lavorato per consolidare un sistema basato sulla professionalità e capace di retribuire il lavoro. La domanda è: cosa succede quando si raduna una massa critica di professionisti passionalmente coinvolti in un progetto che è contemporaneamente lavorativo e ideale?
Stiamo iniziando a vederlo ed è un momento eccezionale.
Se hai voglia di sapere cosa sta succedendo trovi su Facebook la cronaca fotografica degli incontri e delle attività.
Negli ultimi due mesi sono passati ad Alcatraz più di 200 tra musicisti, attori, mostri digitali, pittori, scrittori, terapisti ed ecotecnologi.
Sono state incise canzoni, girati videoclip e documentari, realizzati spettacoli e flash mob, applicazioni per smartphone, quadri, mostre e libri.
Onestamente non ci si può credere…
Qual è la chiave di questi avvenimenti?
Dove sta il trucco? Beh, innanzi tutto c’abbiamo lavorato negli ultimi 35 anni… e poi abbiamo scoperto che nessuna delle forme organizzative del lavoro di squadra proposte dal pensiero dominante (autoritario) combacia con il nostro spirito e il nostro modo di lavorare. Le strutture piramidali sono giganteschi sistemi per sprecare energie, se elimini la struttura verticistica moltiplichi per 4 la capacità di azione del gruppo e diminuisci il tasso di errore.
In pratica, stiamo sviluppando una modalità di lavoro che è direttamente figlia del mondo degli attori e dei cantanti.
Gli artisti girovaghi visti da fuori possono sembrare una congrega vanesia ma vige invece una disciplina ferrea. Nessuno può permettersi di non presentarsi in teatro due ore prima dello spettacolo, nessuno può evitare di recitare se è ancora vivo, a prescindere dal tasso di febbre, coliche, o altro. E se il giorno che ti muore tua madre hai uno spettacolo vai e reciti perché il rispetto per il pubblico che è uscito di casa per venirti a vedere sta in cima alla tua scala di valori…
Quando sei davanti al pubblico devi dare il massimo del massimo, se non ci riesci sei fuori dai giochi.
E in teatro ti devi fidare della gente con cui lavori e loro si devono fidare di te, e non parlo in modo teorico e sentimentale: quando una scena prevede che tu ti butti dal trampolino devi essere sicuro che sotto gli altri attori ti prendano. Sennò ti fai molto male.
Infine, ognuno è responsabile del suo pezzo di lavoro, sia un microfono da sistemare che un monologo da reggere. Mai in nessun caso puoi dare la colpa a un altro. Se sei tu il responsabile devi garantire che tutto funzioni a prescindere dalle condizioni atmosferiche, invasioni aliene e simili.

Oggi questo stile di lavoro lo stiamo applicando a un sistema che mette in connessione un ampio ventaglio di professioni.
E non abbiamo semplicemente assommato settori di iniziativa diversi per averne di più.
Quello che ci muove è la necessità di far fronte a un mondo nel quale la comunicazione evolve alla velocità della luce.
Creare una macchina sociale, lavorativa e ideale non è solo idealmente bello è anche l’unica evoluzione capace di permetterci di affrontare la sfida del cambiamento e della complessità. Oggi si comprano pochissimi libri, c’è il digitale, le tv non pagano più quasi niente, a volte devi ringraziare perché ti trasmettono qualche cosa senza farti pagare. Sul web puoi fare 100mila utenti al mese e incassare 200 euro di pubblicità (al mese!)… Non esistono ancora sistemi che ti riconoscano una percentuale sui guadagni che i grandi contenitori percepiscono grazie ai contenuti che tu hai messo in rete. E d’altra parte il mercato digitale è ancora ai primi passi. È difficile trovare ingaggi per gli spettacoli, i teatri sono in crisi…
Una situazione complessa alla quale possiamo adattarci solo mettendo insieme risorse diverse, creando alleanze di nuovo tipo, ad esempio tra chi fa spettacolo e comunicazione e chi ha bisogno di far conoscere tecnologie innovative. Tanto più si riesce a rispondere a bisogni diversi tanto più si allarga la cooperazione, tanto più aumentano le possibilità. Nel suo complesso questo sistema si è assemblato spontaneamente e lo guardo come una creatura che ha preso vita da sé. Nei suoi primi passi sta caratterizzandosi per la capacità di connettere domanda e offerta nei settori più disparati, dalla formazione, ai gruppi d’acquisto di olio, case, auto ed energia elettrica, dagli spettacoli alle consulenze, alle certificazioni… E mi fermo qui perché la lista è troppo lunga.
Ad esempio: come fanno i musicisti adesso che non si vendono quasi più cd e simili? C’è stato un crollo del mercato con percentuali del 90%! Per trovare una soluzione devi collettivizzare il problema, mettere insieme più gruppi per ottenere una forza contrattuale maggiore, e devi mobilitare persone in diversi settori per affrontare il problema in tutti i suoi aspetti.
Puoi associare un disco a un album a fumetti, puoi arrivare ai concerti con un supermercato ambulante, puoi organizzarti tu la ristorazione, puoi diventare veicolo di comunicazione, puoi offrire corsi di musica, crociere concerto, costruire progetti per finanziamenti europei… Ma tutte queste cose ti vengono meglio se crei una rete di relazioni personali di qualità che contempla collaborazione per denaro, per passione e per baratto e che è costituita da esperti nei diversi settori.
Una band di musicisti da sola non ce la può fare…
Ed è difficile che riesca a realizzare grosse produzioni.
Ad esempio, girare con una compagnia di 30 elementi è oggi impensabile così come affrontare produzioni che prevedo decine di migliaia di euro per costumi e scenografie. Il testo di mio padre “Storia di Qu”, con Michele Bottini, regia di Massimo Navone, è andato in scena a Milano grazie all’alleanza tra una serie di scuole di teatro, musica, scenografia, maschere, costumi eccetera… 26 tra attori, acrobati e musicisti in scena e una quarantina di persone dietro le quinte. Quando si sono schierati tutti sul proscenio facevano impressione: un’orda!
Ecco, sono queste le cose che ci stanno succedendo intorno con sempre maggior frequenza e alle quali abbiamo modo di contribuire per quel che possiamo, con grande soddisfazione… (abbiamo scoperto che siamo bravi a creare connessioni, siamo dei valenti sensali…)
E chiarisco, ribadisco, non sto parlando di una qualche forma di organizzazione strutturata. L’aspetto essenziale è che, al di là degli accordi sui singoli lavori da fare assieme, non c’è nessuna forma di connessione strutturata o normata. Non ci sono assemblee, votazioni, maggioranze e centralismo democratico. Abbiamo la stessa forma istituzionale di un gruppo di amici in vacanza. Cioè, nessun vincolo formale. La rete è semplicemente un tessuto di relazioni di conoscenza e amicizia. Se ti telefono e mi dici che viene a giocare la partita alle 5 e poi non vieni ovviamente sei un infame. Ma per il resto la libertà e l’indipendenza sono la regola d’oro dell’amicizia. E così lavoriamo insieme, come una squadra sportiva. E una volta la palla la calcia in rete quello e una volta quell’altro. E tutti siamo ben contenti di fare la comparsa nel video di un altro. E tutti siamo ben contenti se in un’intervista possiamo parlare bene di un amico.
A ben guardare sto dicendo banalità ritrite sull’amicizia e la collaborazione. Ma val la pena di dirle visto che questa normalità per ora la trovi solo qua e là… Piccole isole… E proprio non si capisce perché le persone che la pensano come noi, che hanno scelto un altro stile di vita, che in Italia si stima siano circa cinque milioni, riescano a collaborare così poco insieme: non esiste una borsa del biologico, un sistema di rete tra i siti etici, un sistema di gruppi di acquisto su tutti i prodotti che compriamo, un sistema di fondi di investimento su progetti ecotecnologi e culturali, un’agenzia alternativa che aiuti a presentare domande di finanziamento a enti pubblici e privati, un sistema collettivo di contrattazione con gli spazi culturali, i server, i servizi web, la vendita di pubblicità… E mi fermo qui perché sennò facciamo sera…
Adesso sta sbocciando questa nuova esperienza. Ovviamente abbiamo di fronte rischi e difficoltà, stiamo muovendo i primi passi. E molto dipenderà dal sostegno che riceveremo. Il nostro punto debole è ancora la comunicazione. Una signora che guida il taxi a Milano, una della mia età che non aveva solo i capelli rossi, mi ha detto: dovreste pubblicizzarla Alcatraz, io ho scoperto che esisteva solo sei mesi fa… Dopo trent’anni che ce l’hai messa tutta per far sapere che esiste Alcatraz non lo è venuto a sapere neanche una che potrebbe essere mia sorella, che vede le cose come le vedo io… e ascolta Radio Popolare tutto il giorno…
Questo è lo stato dell’arte… Nelle prossime settimane, se il cielo non ci cade sulla testa, inizieremo a mandarti dei regali, a farti delle proposte compromettenti, a chiederti se vuoi iniziare tu a portare le tue proposte dentro questo circuito.
Potresti iniziare a fare piani d’azione faraonici.
Noi progressisti in Italia siamo cinque milioni. Se ne mettiamo in rete mille e abbassiamo del 2% il tasso di sfiducia filosofico-cosmico, facciamo scintillare la notte (in questo momento 550 siti web hanno aderito allo scambio banner di stradaalternativa.it. Ma è solo l’inizio.)

PS
Questa cosa potremmo chiamarla La Compagnia dei Servizi Globali.
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Capire il mondo dove va, anche per il futuro di Corviale

seta“La chiave è la rete” (*) sintetizza efficacemente Giampaolo Visetti nello spiegare il successo in borsa di Alibaba, un brand che fattura più di Amazon ed eBay messe insieme.

D’altronde distribuisce online 800 milioni di prodotti a partire dallo zoccolo duro di 630 milioni di cinesi in rete.

Ma per capire il futuro occorre andare oltre il fuoco d’artificio di questi grandi numeri: bisogna capire che “l’Asia da fabbrica del mondo è mutata in distributore del pianeta” (*).

Com’è potuto accadere questa mutazione genetica di un gigante che ha mezzo miliardo di utenti di smartphone solo in Cina?

E’ come se fosse stata aperta una nuovissima via della seta di fibbre ottiche per “piantare affari in ogni angolo del mondo” stabilendo “il contatto tra origine e destinazione di un prodotto o di un pensiero” (*) perchè su questa nuovissima via della seta non transitano solo 800 milioni di prodotti, ma anche  e soprattutto informazioni e idee, insomma conoscenza (tanto per sostanziare in concreto la definizione della nostra come “società della conoscenza”).

Ma l’aspetto più interessante, anche e soprattutto per il futuro di Corviale, è che attraverso questa nuovissima via della seta “anche i villaggi isolati – grazie al web – si reinventano epicentri produttivi del 21° secolo”  (*).

E’ questo dunque il futuro di Corviale per uscire dal suo guscio di periferia per proiettarsi nel mondo del 21° secolo.

E’ questo un futuro possibile per i 134 comuni italiani con meno di 150 abitanti con il conseguente degrado idrografico e boschivo.

(*) Gianpaolo Visetti Cina.com da La Repubblica del 25/9/14




Rifiuti, recuperare materia dalla frazione secca residua

rifiutidi Giuseppe Miccoli da ecodallecitta.it

E’ possibile recuperare materia dalla frazione secca residua a valle della raccolta differenziata porta a porta. Quali tecnologie? Ne abbiamo parlato con Gianluca Intini, professore del Politecnico di Bari ha introdotto il tema “Remat: raccogliere la differenziata a valle del ciclo” al focus tematico della regione Puglia dal titolo ‘Monitoraggio della qualità della Raccolta differenziata in Puglia’

 

Professore Intini, è’ possibile recuperare materia dalla frazione secca residua a valle della raccolta differenziata porta a porta. Quali tecnologie secondo Lei sono le più appropiate?
Oggi ho presentato qui per il Politecnico di Bari i risultati di una sperimentazione condotta nell’ambito della redazione del Piano regionale della gestione dei rifiuti urbani, la quale sostanzialmente ha analizzato la frazione secca residua della raccolta differenziata, in diversi comuni della regione Puglia e ne ha fatta un’analisi merceologica, al fine di verificare ancora la presenza potenziale di imballaggi da avviare a successivo recupero. È emerso sostanzialmente che, anche nei comuni dove la raccolta differenziata aveva dei valori elevati, ad esempio nella provincia di Brindisi, nell’ex consorzio Brindisi2, ancora esiste, in particolar modo per la plastica e per la carta, una discreta frazione, un 10%, che ancora potrebbe essere recuperato. Perciò si è posto il problema tecnologico di come poter recuperare questo 10%, ed è stato proposto, nell’ambito del piano regionale, l’introduzione di questi che noi abbiamo chiamato “remat”, cioè “recupero materia”, vale a dire l’introduzione di un separatore balistico che sostanzialmente differenzia le frazioni 2d dalle frazioni 3d, cioè le frazioni piane da quelle che hanno un volume, e poi ognuna di queste frazioni, attraverso i separatori ottici, possono essere utilizzate per recuperare quello che effettivamente oggi ha un mercato, e quindi attraverso il Conai o il libero mercato possono essere vendute per trarne un vantaggio. Questo comporterebbe un duplice vantaggio. Uno: si risparmierebbe sui costi di conferimenti di quella frazione al recupero energetico (oggi in Puglia si paga circa un cento euro a tonnellata); due: avvieremmo al recupero di materia e non al recupero energetico ancora una frazione di raccolta differenziata, quindi aumenteremmo il tasso di raccolta differenziata. Quindi c’è un vantaggio sia ambientale che economico.

Stiamo parlando di raccolta differenziata a valle della raccolta porta a porta, in cui si riesce ulteriormente a separare e a recuperare materia. È corretto?
Esatto, oggi esistono impianti di questo tipo, non stiamo parlando di fantascienza, in Europa, in particolar modo in spagna ,in Germania, ne ho visto uno in Canada, a Cipro, e c’è anche l’esempio di Granada e anche a Roma. A Roma c’è un impianto che in realtà lavora l’industriale e non i rifiuti urbani e so che recentemente credo sia stato inaugurato un impianto a Bologna. Quindi a mio parere può essere una soluzione. Certo, questi impianti lavorano molto bene sul multi materiale, in generale, però se noi facciamo una raccolta differenziata spinta dove abbiamo tolto l’organico, che porta dei problemi nella fase di selezione, secondo me può essere un sistema che può essere adattabile. Quindi vediamo se qualche gestore implementerà questo sistema e vedremo i risultati.

In cosa consiste il recupero di questa materia, esiste già un mercato?
Si, esiste un mercato, nel senso che chiaramente si preferirebbe recuperare la bottiglia in pet, ma la bottiglia in pet ha già un mercato, quindi una volta che noi le selezioniamo anche quell’1% presente in impianti di questo tipo, che poi tra l’altro sono automatici, non hanno bisogno di grossa forza lavoro, in realtà è un 1% che tu puoi avviare con un costo di mercato notevole, pensiamo al cartone, all’alluminio, all’acciaio, cioè ci sono materiali che effettivamente tu paghi, è chiaro che non mi metterò a separare un materiale che ha un basso valore aggiunto,perché diventa poi molto complessa la linea, quindi ovviamente qui si tratta di andare a integrare impianti esistenti cercando di togliere il separabile,io le chiamo le frazioni buone, che comunque rappresentano una piccola percentuale all’interno del rifiuto indifferenziato, che ancora sconta un tasso di raccolta differenziata non ancora elevato.