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Zero rifiuti

zero rifiutiDobbiamo assolutamente stare in questa partita. Ci sono le condizioni per portare a casa un risultato inaspettato perchè i rifiuti sono la miniera del futuro e possono dare lavoro reddito e opportunità per il riciclio e il riuso oltre per l’energia che è in grado di produrre.




Bologna: benvenuti in via Fondazza, la prima social street italiana. Scopri cos’è

solidarietaUn’idea tanto banale quanto geniale: perché non trasformare le amicizie su Facebook in amicizie vere? E perché non aiutarsi come si faceva un tempo? Ecco le risposte. Che diventano anche una soluzione anti crisi
Via Fondazza, a Bologna, è la prima social street italiana. Non ne hai mai sentito parlare? Ecco che cos’è e come funziona: ce lo spiega chi ci vive.
A COSTO ZERO – Dall’estraneità alla condivisione. Dal senso di solitudine al «buongiorno vicino» indirizzato al dirimpettaio. Dall’isolamento, alla consapevolezza di far parte di un gruppo che ha energia e potenzialità contagiose. Le finestre aperte di via Fondazza, la strada bolognese che è diventata la prima social street italiana, non si richiuderanno tanto facilmente. Grazie ad un’intuizione a costo zero, un gruppo su Facebook, Federico Bastiani ha trasformato la sua via, una strada della vecchia Bologna, in una palestra di buone pratiche, una community di buon vicinato, dal successo contagioso.
TUTTO NASCE DA FACEBOOK – «Mi ero accorto che, dopo tre anni, eccetto qualche negoziante, non conoscevo nessuno dei vicini», racconta Federico, 36 anni. «Ai primi di settembre, ho creato un gruppo su Facebook e ho affisso sotto i portici volantini con l’invito ad aderire. La risposta mi ha sorpreso: una valanga. Aspettavo venti adesioni, in tre settimane eravamo cento; adesso siamo 500. Volevo soprattutto trovare coetanei di mio figlio Matteo, 2 anni e mezzo. Ma i fondazziani mi hanno travolto».
IL PORTICO – Via Fondazza, una strada nel centro storico di Bologna, con l’immancabile portico, conta novantuno numeri civici: palazzi affiancati a case più semplici, molte botteghe di alimentari kebab e verdure, gestite da immigrati, che si intrecciano a qualche artigiano, il calzolaio Antonio, il tappezziere, i falegnami, una legatoria. In un ex convento ristrutturato, aule della facoltà di Scienze Politiche. Residenti di lungo corso, novantenni nati nella stessa casa nella quale vivono tuttora, come fece per tutta la vita, al 36, Giorgio Morandi, il pittore delle bottiglie e degli scorci dei giardini, studenti fuorisede o da Erasmus, giovani coppie.
IL BENVENUTO AI NUOVI ARRIVATI – In pochi giorni la bacheca del gruppo Residenti in via Fondazza è diventata un tripadvisor a km zero, una lavagna di benvenuto per i nuovi arrivati, con uno scambio vivacissimo di informazioni, richieste, suggerimenti. A 360 gradi. «Dalle domande sulla focacceria migliore, alla ricerca del veterinario che venisse a domicilio nel week end. Il passaggio dalle informazioni allo scambio di servizi è venuto da sé. Due studenti cercavano una lavanderia a gettone e Sabrina li ha invitati a usare la sua lavatrice in cantina. Laurell cercava una baby sitter e Veru ha proposto di assumerne una sola per tutti i bambini di età simile della strada. I negozianti hanno offerto prezzi scontati, il cinema ha invitato tutti i residenti a un’anteprima, il bistrot francese ha preparato un menù riservato ai residenti».
AMICIZIA REALE, NON VIRTUALE – Presto hanno deciso di conoscerci di persona, racconta ancora Bastiani: «L’idea di trasferire l’amicizia virtuale nella vita reale si è fatta largo rapidamente. Ci siamo dati appuntamento di domenica mattina, nella piazza più vicina, per guardarci in faccia». La scintilla era scattata. Dagli incontri in piazza sono nate belle abitudini, il caffè assieme la mattina, le feste di compleanno nel bar sotto casa, i tanti progetti per il futuro.
ANTISPRECO, ANTICRISI – La community dei fondazziani ha dimostrato subito una spiccata vocazione antispreco e anticrisi. «Le possibilità sono infinite», dice Bastiani. «Da una sorta di banca del tempo dove ci si scambiano le competenze, al gruppo di acquisto solidale, il gas della strada, facile da gestire. Oppure lezioni di pianoforte in cambio di un’ora di inglese, il materasso che dalla cantina di Michele si è spostato a casa di Paolo, l’ SoS per il computer infettato da un virus, e dopo 5 minuti trovi davanti alla porta, in ciabatte, il vicino di casa informatico smanettone. Federica doveva fare traslocare da sola, e ha trovato tre amici mai visti prima che l’hanno aiutata a spostare tutti gli scatoloni. A me serviva il seggiolino da auto per Mattia? Ho messo un annuncio e Saverio me l’ha prestato». Oppure per evitare sprechi alimentari: «Parto, e ho il frigorifero pieno di cibi che non posso congelare? Metto un post e invito i vicini a venire a prenderseli», spiega Laurell, moglie di Federico.
SOLUZIONE AI BISOGNI – La social street è nata così, per condividere bisogni e offrire soluzioni. «Abbiamo capito che siamo una forza. Un gruppo di persone come noi può fare un sacco di cose», dice Luigi Nardacchione, manager neopensionato, uno dei più attivi del gruppo, nominato sul campo, “vice” di Bastiani. «Risolvere problemi quotidiani di tutti, ma anche migliorare la qualità e la vivibilità della strada, tenerla pulita, aiutare le persone in difficoltà, come gli anziani che vivono soli, candidarsi per far visitare al pubblico la casa museo del pittore Morandi, che in questa via visse e lavorò, dotarsi della banda larga e metterla a disposizione di tutti. E organizzare momenti ludici, cene, una festa della strada».
UN NUOVO CLIMA – Tra le priorità della social street, la più pressante è trovare i modi per coinvolgere tutti quelli che non usano Facebook. Al primo incontro pubblico, organizzato per farsi conoscere e per presentare il sito, ha partecipato quasi un centinaio di persone. Molti venuti da altri quartieri a osservare quest’oggetto misterioso dalla identità incerta. Il sito, creato per rispondere alle decine di richieste che arrivano da tutta Italia, spiega la filosofia dell’iniziativa e contiene le indicazioni per creare altre social street. «Anche il sito è rigorosamente made in Fondazza, a costo zero, grazie a Filippo, che di mestiere progetta siti, e a Laura, la grafica che ha disegnato il logo, scelto, ovviamente, on line. «La cosa più importante, però, non è l’interesse suscitato, ma è il nuovo clima che abbiamo creato», dice Nardaccchione. «Dal virtuale siamo passati presto alla vita reale perché abbiamo avuto il desiderio genuino di conoscerci. Grazie alla spontaneità si è creato tra noi un senso immediato di fiducia reciproca».
COME UN PICCOLO PAESE – Nel successo della social street c’è qualcosa di molto legato al momento che viviamo, ragiona Federico. «In tanti mi hanno raccontato che in via Fondazza si è sempre vissuto così, come in un piccolo paese. Un posto dove tutti si conoscevano, si salutavano, collaboravano. Però quell’abitudine è andata sparendo, ed è scomparsa, da almeno venti anni. Se oggi la vecchia Fondazza rinasce come social street vuol dire che il bisogno di socializzare, compartecipare e condividere è ancora fortissimo, inalterato, anche ai tempi di Facebook». E su Facebook qualcuno gli fa eco: «Fino a poco tempo fa non amavo molto questa strada, anzi, la trovavo brutta. Ora la guardo con occhi nuovi. Comincia a piacermi».
Rita Cenni
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Jobs act avanti tutta: c’è tanto da rottamare

cupolaSe anche il miglior sindaco, assessore, presidente, minisindaco non risponde, non riceve, dà appuntamenti offensivi ai suoi elettori, a quelli che sa che l’hanno eletto, alle forze più rappresentative di un territorio, allora c’è qualcosa che non va nella nostra macchina.
Perché questo è solo la metafora di come anche il miglior amministratore non ha il tempo, l’energia, la volontà di ascoltare la voce viva della società.
Il nostro povero amministratore è infatti vittima del vero nemico del paese: la cupola amministrativa burocratica che si è impossessata della macchina.
Leggetevi la legge di stabilità se ne siete capaci, ammirate le giravolte sulla tassazione della casa o l’ultima chicca sui 150 euro agli insegnanti o ricordatevi dell’incredibile storia degli esodati.
Chi ha elaborato questi capolavori legislativi, amministrativi, burocratici? Chi ha creato questi inferni in terra in cui dovranno sopravvivere poveri amministratori e poverissimi amministrati?
C’è qualche segnale di speranza nelle prime bozze del jobs act in cui si lede per la prima volta il pizzo sulle imprese delle Camere di Commercio e soprattutto si abolisce la sospensiva nei procedimenti amministrativi.
Sospensiva: che brutta parola per il nobile principio di evitare un danno.
Ma perché se ammazzo qualcuno e vado perciò in galera io non ho un danno? Perché non posso chiedere la sospensiva per evitarmi questo danno evidente? Perché allora il paese deve essere bloccato da decenni dalle sospensive di privati che per non ricevere un danno bloccano per tempi immemorabili opere, appalti, lavori che significano scuole, strade, asili, ospedali?
Forza col jobs act che c’è tanto da rottamare.
Ma soprattutto non lo si faccia scrivere alla cupola che finora ha reso le nostre leggi, circolari, sentenze un guazzabuglio infernale in cui sono morte ogni certezza del diritto e ogni vivibilità civile.
T.C.
Ecco il Jobs Act di cui in molti in queste ore stanno parlando




LA RIVOLUZIONE DEL DIGITAL MANUFACTURING

digitalIntervista a Stefano Micelli, nuovo direttore della Fondazione Nordest. «Basta deprimersi, la manifattura può ancora fare la differenza»
«Il Nord Est non esiste più». Quando Stefano Micelli, professore di Economia e gestione delle imprese all’Università Ca’ Foscari di Venezia, mette in fila queste sei fatidiche parole, chi scrive ha un sobbalzo. Detta così, asciutta, dal neo direttore scientifico di una Fondazione che ha nel «Nord Est», la sua ragione sociale, la sentenza ha l’effetto di una secchiata gelida. Lui coglie lo smarrimento all’altro capo della cornetta e subito postilla: «Beninteso, il Nord Est continua a vivere come comunità, come modello sociale ed economico, come storia imprenditoriale, ma non esiste più come realtà che “è” solo in quanto relativa ad un “altrove”, Roma per lo più ma anche Milano. Il nostro orizzonte non può finire lì. Non siamo più il “Nord Est d’Italia”, siamo “parte del mondo” e la scacchiera globale è il luogo in cui siamo chiamati a giocare la sfida più grande di questo 2014. Solo così ci salveremo».
Professore, che Veneto ci siamo lasciati alle spalle nel 2013? «Un Veneto duramente azzoppato dalla crisi, che ha perso il 10% del suo Pil, il 25% della sua produzione industriale, di cui un 10% circa del tutto irrecuperabile perché riferito ad imprese irrimediabilmente chiuse, decine di migliaia di posti di lavoro. Ma non dobbiamo deprimerci oltre il necessario e più che all’Italia, che pure tra mille difficoltà quest’anno segnerà un record assoluto nell’export, dobbiamo guardare alla realtà internazionale che offre spunti assai più interessanti. Nei Paesi emergenti si cresce a tassi altissimi e per la prima volta la bilancia commerciale con i Paesi economicamente avanzati e tornata in positivo, si pensi alla Cina che “compra” sempre più italiano. Da lì si deve ripartire».

Come? La suggestione del «Terzo Veneto» fondato sul terziario è ancora realistica? «Qualità, valore aggiunto, sostenibilità sono già entrati nel nostro orizzonte culturale quotidiano ma va sciolto l’equivoco su cui si è sempre fondata l’idea del “Terzo Veneto”, quello per cui l’investimento sui servizi deve comportare necessariamente l’abbandono della manifattura. Non è così. C’è chi parla di una terza rivoluzione industriale, quella del digital manufacturing, che impone il superamento di alcuni steccati a cominciare da quello tra industria e servizi. A Venezia c’è un’azienda di stampanti 3D che è in grado di produrre nell’arco di una giornata gioielli su misura, a piacimento del cliente. Al mattino li disegnano, al pomeriggio producono gli stampi in plastica, a sera realizzano il pezzo nel distretto orafo di Vicenza. È manifattura questa? O è servizio? Le specializzazioni che hanno reso grande il Veneto, la sartorialità, il su misura, le serie limitate, il design di qualità, non vanno abbandonate ma innovate».

L’economia del fare si deve «saldare» a quella digitale? «Sì. Solo così riusciremo a coinvolgere i giovani e a creare posti di lavoro veri, reali, unendo l’occupazione alla ripresa».

Gli incubatori, pubblici e privati, non dovrebbero servire esattamente a questo? «Molti incubatori scontano il fatto di aver investito su start-up di derivazione accademico-scientifica che poco hanno a che fare con il “saper fare”, tentando di replicare qui esperienze che magari hanno funzionato altrove, ma con ben altri budget e masse critiche. E questo anche a causa delle difficoltà di alcuni ambienti della ricerca nel riconoscere il valore dell’artigianato. Un caso positivo è quello di H-Farm, che ha ritarato i suoi obiettivi e modernizzato i suoi investimenti con risultati positivi ad esempio nelle collaborazioni con Came o Bottega Veneta. Non aver creato prima questi ponti ci è costato carissimo».

In tal senso il celebre Politecnico veneto, da più parti invocato, potrebbe aiutare? «È il progetto più importante su cui investire per creare un capitale umano all’altezza delle sfide che ci attendono. Beninteso: il politecnico non sarebbe in antitesi rispetto all’attuale offerta formativa ma a completamento di quest’ultima e gli atenei veneti farebbero bene a prendere sul serio la svolta imposta da Confindustria, che su questo argomento, dopo che per anni ci si è concentrati su Fisco, infrastrutture e burocrazia, ha davvero cambiato passo con l’ultima presidenza».

Che rapporti vanno instaurati con gli investitori stranieri? «Il Veneto è già un’eccellenza internazionale e l’interesse di Louis Vuitton per le nostre imprese ne è un esempio. I capitali stranieri sono un’opportunità straordinaria per crescere sui mercati e internazionalizzare; ma non dobbiamo diventare terra di conquista. Non possiamo ridurci a fare i terzisti del lusso».

E i mercati stranieri come si conquistano dalla provincia vicentina o trevigiana? «Con una nuova narrazione. I nostri prodotti vanno raccontati a cinesi, indiani, africani ricreando quelle suggestioni che fecero la nostra fortuna con americani e tedeschi, anche grazie al cinema. L’agroalimentare, la moda, il design sono un’idea, prima che un prodotto, e i consumatori, soprattutto i più giovani, devono esserne coinvolti e travolti, non più attraverso il grande schermo ma attraverso la Rete. Pensiamo solo alle fashion blogger o all’uso di Instagram nel campo della moda…».

La politica che ruolo gioca in questa partita? «Siamo abituati ad una politica che per lo più redistribuisce la ricchezza, in base alle priorità concertate con le forze sociali. Un ruolo che nello scenario globale ha perso gran parte del suo significato, pensiamo solo alla web tax e alle difficoltà nel trattenere qui parte dei proventi realizzati dalle multinazionali del digitale. La politica deve dare una spinta propulsiva e promozionale al territorio, ma l’impresa farebbe bene a smetterla di guardare ad essa per concentrarsi maggiormente piuttosto su ciò che può far da sé, con movimenti trasversali ai partiti. Il progetto “Innovarea” di Alberto Baban o il sostegno finanziario pensato da Renzo Rosso per la sua filiera vanno esattamente in questa direzione. Il rinascimento manifatturiero non lo fa la politica».

E alla «sua» Fondazione Nord Est che ruolo riserva? «Vuole essere protagonista di questa nuova sfida. Dopo esserci dati da fare in questi anni per accreditare il modello Nord Est agli occhi dell’Italia, non possiamo più limitarci a fotografare e monitorare l’esistente. Dobbiamo elaborare proposte ed essere in grado di indicare una via d’uscita dalla crisi».

Marco Bonet
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Rapporto sulla Coesione Sociale anno 2013

collaIl Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, l’Inps e l’Istat presentano il quarto Rapporto sulla Coesione sociale. Anche quest’anno il rapporto è articolato in due volumi, il primo è una guida ai principali indicatori utili a rappresentare la situazione nel nostro Paese e la sua collocazione in ambito europeo. L’obiettivo è quello di fornire, in modo particolare ai policy maker, le indicazioni basilari per conoscere le situazioni economiche e sociali sulle quali intervenire per migliorare le condizioni di vita delle persone.

Il secondo si compone di una serie di tavole statistiche che offrono dati, generalmente aggiornati al 2012, articolati a diversi livelli territoriali per consentire comparazioni regionali e internazionali. A questo fine sono state utilizzate indagini statistiche ed archivi amministrativi nazionali (di fonte Inps, Ministero del lavoro e Istat) e fonti internazionali (Eurostat e Ocse).

Le informazioni sono organizzate in tre sezioni:

• Contesti, che riporta tre quadri informativi di scenario sui contesti socio-demografico, economico e del mercato del lavoro.

• Famiglia e coesione sociale, in cui si rappresentano alcuni fenomeni rilevanti – capitale umano, conciliazione tempo di lavoro e cura della famiglia, povertà.

• Spesa ed interventi per la coesione sociale, con dati sulla spesa sociale delle amministrazioni pubbliche, sulla protezione sociale, sulle politiche attive e passive del mercato del lavoro, sui servizi sociali degli Enti locali
Rapporto Coesione Sociale 2013 Volume I
Rapporto Coesione Sociale 2013 Volume II




I HAVE A DREAM

romaGennaio 2014, potrebbe essere il mese che inaugura un anno di svolta per le politiche culturali romane. Una rinnovata classe politica che riesce a riformare il sistema culturale capitolino, anche alla luce del deprimente, desolato e confuso panorama del dicembre appena trascorso.
Purtroppo gli ultimi sette mesi non hanno brillato per grosse riforme, ma neanche per azioni come segnali di discontinuità dalle politiche precedenti. Roma rimane la città dei grandi poteri e delle lobby che tracciano le linee guida della politica territoriale.
I debiti con artisti e teatri continuano ad accumularsi, complici bandi uguali negli anni, emessi senza copertura economica (vd cultura.lazio.it). Poli strategici come il museo d’arte contemporanea (Macro) aspettano da mesi un direttore. I teatri e i cinema chiudono, anche se in attivo. Il 17 dicembre, il CdA della Fondazione Roma Europa, in seguito ai tagli economici di novembre e all’incertezza per i finanziamenti pubblici locali per il 2014, conferma la decisione di cancellare la sua stagione 2014 del Teatro Palladium. Il 23 dicembre, ancora non c’ è un accordo sulle cariche ai vertici del Teatro di Roma. L ‘ assemblea dei lavoratori esprime preoccupazione, per la mancanza di responsabilità e di attenzione nei confronti di una struttura pubblica che garantisce ogni anno almeno 400 assunzioni tra personale artistico e tecnico. Il 31, un anno esatto di chiusura del Teatro India.
I have a dream è la scritta beffarda che mi ispira, mentre scrivo in un locale di San Lorenzo. Bianca sul fondo nero, nel basso della fantastica mappatura della Roma metropolitana. Stazioni in ogni quartiere e snodi di scambio con tram elettrici e frotte di autobus puntuali, che permettono di attraversare la città in poco tempo. Non voglio svegliarmi, preferisco continuare a sognare strade sicure perché illuminate da negozi, teatri, bar, aperti fino a sera tarda, popolate da turisti e residenti rapiti da una offerta culturale eccellente.
Immagino cittadini coinvolti nella pianificazione delle scelte, attraverso consulte permanenti che ne tutelino interessi e benessere, da una classe politica attenta. Sogno una piattaforma di interventi strutturali organici, per il futuro culturale di questa città, una grande metropoli che mette in risalto le sue risorse, supportando ed orientando alla produzione gli artisti e le compagnie.
Immagino un 2014 dove gli assessori alla cultura, alla formazione e al demanio lavorino insieme, per garantire la produzione artistica ed il rinnovamento degli spazi attraverso la produzione culturale. Immaginiamo un sistema accessibile, con semplici modalità per accedere ai fondi pubblici che favoriscano progettualità a lungo termine. Immagino un sistema di nomine che garantiscano il lavoro per competenze e non per conoscenze e raccomandazioni. Visualizzo poche aziende comunali con un bilancio adeguato ed amministrazioni competenti e corrette, distinte dal partito di maggioranza di turno.
Vorrei un centro culturale in ogni quartiere, soprattutto in periferia, possibilmente ricavato da uno dei numerosi spazi abbandonati. Fondi europei trovati da efficienti uffici comunali per la ristrutturazione ed un finanziamento pluriennale. L’ incremento della piccola impresa sociale e locale, cogestita tra pubblico e privato, dove i residenti ed i cittadini sono i primi a verificare e orientare le strategie di progettualità a lungo termine. Un senso di appartenenza ad un sistema culturale che possa aiutarci ad accompagnare gli studenti ad una crescita in senso civico, attraverso lo sviluppo delle capacità artistiche e la formazione a canoni culturali che si discostano sempre di più dal modello televisivo italiano.




Dai reggiseni alle stampanti 3D: “Così la produzione tornerà a casa

stampantiDai ferretti per reggiseni alle stampanti 3D che creano prototipi: l’azienda cambia pelle in modo imprevedibile e ingegnoso per costruirsi il futuro. È la storia della «Jdeal form» di Oleggio, società nata negli Anni ’50 con le stecche per i corsetti e ora arrivata a produrre sistemi utilizzati nel design spagnolo e nell’industria delle calzature sportive tedesche.
Una lunga storia

La principale attività della ditta, che ha 15 dipendenti e un fatturato al di sotto del milione di euro, è ancora incentrata sui componenti dell’abbigliamento intimo: ferretti, inserti push-up e anellini delle spalline dei reggiseni. Nel tempo è cambiata più volte cercando di cogliere al volo le richieste del mercato: «Negli Anni ’60 abbiamo lanciato linee di costumi da bagno, poi vent’anni dopo è tornato in auge il ferretto e noi abbiamo ricominciato a produrlo come facevamo prima – racconta Davide Ardizzoia, figlio del fondatore e uno dei titolari dell’azienda -. Negli Anni ’90 ci siamo concentrati sui componenti per corsetteria. Abbiamo dovuto sempre aggiornarci per combattere la concorrenza prima tunisina e marocchina, poi rumena e quindi cinese davanti a cui purtroppo abbiamo perso quote di mercato terrificanti».

La svolta epocale

Intanto però qualcosa è cambiato ancora nello stabilimento di via Monte Giudeo a Oleggio. Qualche anno fa la «Jdeal form» ha avuto necessità di un prototipo rapido per una macchina automatica che fa anellini: «Ci siamo rivolti a un service lombardo spendendo molto – racconta Ardizzoia -. La situazione si è ripetuta qualche tempo dopo per un ferretto: abbiamo aspettato così tanto che il cliente nel frattempo si è stufato e noi abbiamo buttato via dei soldi – racconta Ardizzoia -. Così abbiamo pensato di fare da soli e creare una stampantina a 3D per qualsiasi polimero termoplastificato».

Export nel mondo

Adesso questo sistema di produzione è stato richiesto dalla Germania per «pezzi» di calzature sportive, dalla Spagna per il design industriale e in Italia per impianti luce: «Siamo specializzati nelle piccole dimensioni ma a febbraio sarà pronta una stampante professionale con misure più grandi».

Per la «Jdeal form» l’innovazione ha un sapore speciale: «E’ una “vendetta” contro i colossi e la delocalizzazione che ha cancellato tante aziende italiane – sorride Ardizzoia -. Con questi sistemi la produzione tornerà vicino a casa perché non sarà più necessario comprare altrove, ad esempio, una scarpa: ce la stamperemo noi su misura».




Piano: “Con lo stipendio da senatore farò lavorare sei giovani”

periferieL’architetto ha messo un bando anonimo su Internet. Poi ha scelto architetti trentenni, “non raccomandati”
Questo è un racconto di Natale della politica. Ci voleva, in fondo a un altro anno di storiacce e scandali. Sembrava impossibile a molti e ancor di più ai sei architetti di trent’anni, tre donne e tre uomini, che da oggi e per un anno potranno lavorare a rendere più belle le periferie grazie allo stipendio da senatore a vita di Renzo Piano. Con tanti cari saluti agli eroi dell’antipolitica a Cinque Stelle che, dopo aver menato vanto di una riduzione dello stipendio del dieci per cento, avevano polemizzato a lungo contro la scelta di “buttare via soldi pubblici per dare un vitalizio ad altri senatori a vita”.

Li abbiamo incontrati ieri gli eletti, nello studio dell’architetto a Genova. Avevano le facce di bambini convocati nella fabbrica di cioccolato di Willy Wonka. Ecco l’elenco: Francesco Giuliano Corbia, 29 anni, di Alghero, laurea a Firenze e master a Barcellona in urbanistica; Eloisa Susanna, 32 anni, Cosenza, laureata alla Sapienza e collaborazione nello studio di Massimiliano Fuksas; Michele Bondanelli, 38 anni, Argenta (Ferrara), studi a Venezia e specializzato nel restauro di centri storici; Federica Ravazzi, 29 anni, Alessandria, esperta in progettazione di scuole; Francesco Lorenzi, 29 anni, romano, laureato alla Sapienza, con esperienze in Spagna, Argentina e Polonia; Roberta Pastore, 32 anni, di Salerno, laureata a Napoli e ora impegnata nel nuovo auditorium di Salerno.

Sei magnifici giovani italiani di talento, quasi tutti con la valigia pronta per tornare all’estero, dove hanno già studiato e lavorato. Finché non è arrivato questo strano bando anonimo su Internet “per un progetto sulle carceri”, senza la firma di Piano, per evitare troppa pubblicità. “Non mi aspettavo davvero di finire qui oggi”, dice Roberta, “era soltanto uno dei cento curriculum che mandi in automatico e in genere rimangono senza risposta”.

“O ancora peggio – aggiunge Francesco – che ottengono soltanto proposte indecenti di sfruttamento selvaggio per progetti orrendi. Quando una domenica sera ha telefonato lo studio Piano per fissare l’incontro ho pensato come tutti a uno scherzo”. Era invece l’occasione che ti cambia la vita e forse anche il futuro di un pezzo di Paese. Perché i lavori dei sei giovani (coordinati da tre tutor, l’ingegnere Maurizio Milan e gli architetti Mario Cucinella e Massimo Alvisi) diventeranno proposte di legge, materiale per interrogazioni parlamentari, magari progetti concreti per le disastrate periferie di Roma, Milano, Napoli, Torino, Genova.

L’idea era maturata in Renzo Piano un’ora dopo la telefonata del 30 agosto nella quale il presidente Napolitano gli annunciava la nomina. “Era l’occasione per completare un percorso”, dice Piano, “prima la nomina ad ambasciatore dell’Unesco per le periferie, poi la Fondazione, dove ogni anno accogliamo decine di giovani architetti da tutto il mondo. È anche un modo per dare un segnale di controtendenza a una generazione d’italiani ricchi di qualità, ma ormai rassegnati a non vedere riconosciuti i propri meriti. Ormai l’Italia è l’unico paese d’Europa dove i concorsi, quelli veri, non si fanno più. Qui nessuno ha avuto bisogno di conoscere nessuno, di farsi raccomandare, sono stati selezionati fra oltre seicento candidati e quasi tutti con curriculum notevolissimi “.

Il rapporto fra città e periferia è l’argomento della vita per Piano. “Fin dalla nascita, sono nato a Pegli, periferia occidentale di Genova. Da studente sessantottino a Milano andavo rigorosamente in periferia per fare politica e anche per divertirmi, ad ascoltare il jazz al Capolinea, in fondo ai Navigli. E in fondo anche oggi i miei progetti più importanti sono la riqualificazione di ghetti o periferie urbane, dall’università di New York ad Harlem, al nuovo palazzo di giustizia di Parigi nella banlieue “. Senza contare la concorrenza.

Nei centri storici italiani hanno lavorato Michelangelo, Bernini, Brunelleschi, Filarete e così via, piuttosto bene. “Appunto, quella bellezza non è merito nostro, ce l’hanno lasciata in eredità. E per fortuna abbiamo smesso di distruggerla negli anni Settanta. Il nostro compito è lasciare a chi viene belle periferie. Le cose da fare sono tante e meravigliose, se soltanto ci fosse la volontà politica. Si potrebbero ridurre in pochi anni i consumi energetici degli edifici del 70-80 per cento, consolidare le 60mila scuole a rischio sparse per l’Italia, rivoluzionare e rendere sostenibile il trasporto pubblico, fecondare le periferie con migliaia di luoghi d’incontro come piazze, mercati, ma anche auditorium, musei, palazzi pubblici. Non è possibile che l’unico luogo d’incontro delle periferie siano i centri commerciali. Sono tutti interventi che creerebbero lavoro, ricchezza, risparmio. E proietterebbero l’Italia all’avanguardia della green economy mondiale”.

È un libro dei sogni che da oggi sei giovani architetti italiani proveranno a tradurre in materiale concreto di lavoro per una nuova politica. L’anno prossimo il progetto si rinnoverà con altri sei e così ogni anno. Per questo e molto altro, lunga vita a Renzo Piano.
di CURZIO MALTESE
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