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L’epopea contadina che ricostruì l’Italia

Ricorre oggi il 65° anniversario della strage di Melissa in cui furono recise tre giovani vite: Francesco Nigro, di 29 anni, Giovanni Zito, di 15 anni, e Angelina Mauro, di 23 anni. Altre 15 persone furono ferite.

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Nell’ottobre del 1949 i contadini calabresi marciarono sui latifondi per chiedere con forza il rispetto dei provvedimenti emanati nel dopoguerra dal ministro dell’Agricoltura Fausto Gullo e la concessione di parte delle terre lasciate incolte dalla maggioranza dei proprietari terrieri.

Spettacolari colonne umane lunghe chilometri e chilometri escono dai paesi e sfilano alla volta dei feudi. I contadini vestiti a festa con gli abiti di velluto nero avanzano a dorso d’asino o di mulo, i braccianti a piedi con le zappe e i bidenti, le donne coperte da lunghi scialli neri o fazzoletti rossi coi piccoli in braccio, i barili dell’acqua in testa, le fiasche del vino a tracollo, le canestre piene di cibarie, pane rosso e nero, salsicce, pecorini, noci, uova, castagne secche, fichi infornati, meloni d’inverno; poi le fanfare, le bandiere rosse, gli aratri e in testa i bambini che schiamazzano.

Una ritualità zeppa di significati simbolici, che è il derivato di una cultura arcaica ancora viva.

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Irritati per questa ondata di occupazioni alcuni parlamentari calabresi della Democrazia Cristiana chiesero un intervento della polizia al ministro dell’Interno Mario Scelba. I reparti della Celere si recarono quindi in Calabria e uno di loro si stabilì a Melissa (oggi provincia di Crotone) presso la proprietà del possidente del luogo, barone Berlingeri, del quale i contadini avevano occupato il fondo detto Fragalà.

Questo fondo era stato assegnato dalla legislazione napoleonica del 1811 per metà al Comune, ma la famiglia Berlingeri, nel tempo, lo aveva occupato abusivamente per intero. La mattina del 29 ottobre 1949 la polizia entrò nella tenuta e cercò di scacciare i contadini occupanti con la forza. Vista la resistenza dei manifestanti la polizia aprì il fuoco.

L’episodio è ricordato da Lucio Dalla in una strofa del brano Passato, presente, quarta traccia dell’album Il giorno aveva cinque teste, che recita:

Il passato di tanti anni fa
alla fine del quarantanove
è il massacro del feudo Fragala’
sulle terre del Barone Breviglieri.
Tre braccianti stroncati
col fuoco di moschetto
in difesa della proprietà.
Sono fatti di ieri.

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Nel dicembre successivo, un analogo episodio accadrà a Montescaglioso, in provincia di Matera. La polizia inviata da Scelba colpirà a morte un altro giovane bracciante, Giuseppe Novello. Sarà Rocco Scotellaro a immortalare il fatto tragico in versi di inconfondibile pathos e bellezza:

Tutte queste foglie ch’erano verdi: si fa sentire il vento delle foglie che si perdono
fondando i solchi a nuovo nella terra macinata.
Ogni solco ha un nome, vi è una foglia perenne
che rimonta sui rami di notte a primavera
a fare il giorno nuovo.
È caduto Novello sulla strada all’alba,
a quel punto si domina la campagna,
a quell’ora si è padroni del tempo che viene,
il mondo è vicino da Chicago a qui
sulla montagna scagliosa che pare una prua,
una vecchia prua emersa
che ha lungamente sfaldato le onde.
Cammina il paese tra le nubi, cammina
Sulla strada dove un uomo si è piantato al timone,
dall’alba quando rimonta sui rami
la foglia perenne in primavera.

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Era accaduto più volte nell’Italia liberale che contadini in lotta per poter coltivare un pezzo di terra restassero vittime dell’azione repressiva dello Stato. Ma adesso si registra una novità: è l’intera opinione pubblica a rimanere scossa da tali episodi di gratuita violenza ai danni di una categoria considerata marginale nel contesto sociale.

È per questo motivo che il governo dell’epoca s’affretta a varare, nel corso del 1950, una serie di provvedimenti per attuare la riforma agraria in alcune aree del Paese, dove è maggiormente presente il latifondo.

Quel sangue non è, dunque, versato invano. Se oggi l’agricoltura è quella che è e il tessuto economico e sociale del Paese si è potuto ammodernare lo si deve al sacrificio dei contadini che nell’immediato dopoguerra conquistarono spezzoni di intervento pubblico con cui si poté avviare lo sviluppo del Paese.
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L’epopea delle lotte per la casa

A Roma le lotte per la casa iniziarono nell’immediato dopoguerra. A guidarle erano due personalità di spicco della Resistenza romana. Il primo era Nino Franchellucci, comunista della prima ora e per questo recluso nelle carceri fasciste, capo della formazione partigiana Garibaldi impegnata tra Tor Pignattara e Villaggio Breda. L’altro era Nicolò Licata, medico socialista, anche lui di Tor Pignattara, che nella lotta di Liberazione aveva organizzato una fitta rete di collegamento tra il Sanatorio Ramazzini e l’Ospedale Forlanini. A loro si aggiungeranno in seguito altri dirigenti di valore: Virgilio Melandri, Aldo Tozzetti e Senio Gerindi.

Nel 1948 a Roma c’erano 122 borgate: 35 legali, costruite nel ventennio fascista; 87 abusive. Il censimento del 1951 rilevò 27.961 strutture abitative invivibili, tra baracche, grotte, scantinati, magazzini, soffitte, ma in cui “vivevano” 105 mila persone. Uomini in fuga, uomini che dovevano fare ogni giorno l’invenzione artistica per sopravvivere, che dovevano scommettere tutto quello che avevano, tutta la loro vita di quel momento su una vita futura che forse non sarebbe mai arrivata. I baraccati vivevano in prigione e fuggivano nel sogno. A sognare l’ordine, la stabilità, la sicurezza.

In molte borgate non esistevano né acqua potabile né strade rotabili. Per soddisfare queste esigenze essenziali Franchellucci e Licata promossero le Consulte popolari. Inizialmente il loro programma si articolava in due punti essenziali: fontanelle pubbliche dappertutto e strade in grado di collegare le borgate al centro della città mediante i mezzi pubblici.

Dal 1° al 3 febbraio 1948 si svolse il primo congresso delle Consulte per trovare soluzioni a favore della parte più povera della popolazione. E nacque così il Centro cittadino delle Consulte popolari con sede in via Merulana. Contemporaneamente fu costituita anche l’Associazione romana degli inquilini e senza tetto che forniva consulenza e assistenza su problemi di sfratto e di affitto, ma anche per la reiscrizione nelle liste elettorali e la cancellazione di piccoli reati. L’Associazione presentò al Comune 18.328 richieste di residenza che venivano regolarmente respinte  ma ogni volta reiterate.

Al centro dell’iniziativa delle Consulte era posto il risanamento delle borgate.  L’inchiesta parlamentare del 1951-52 sulla miseria così le descrive:

Queste borgate sono le maggiori piaghe sociali di Roma, piaghe nascoste, di cui lo straniero, specie il turista frettoloso, non sospetta neppure l’esistenza, ma di cui anche l’italiano sa in genere pochissimo, a meno che il caso non lo abbia costretto ad occuparsene. Solo un fattaccio di cronaca, più straordinario degli altri, fa intravvedere ai lettori l’inquietante realtà di queste borgate fuori mano, anche per una non piccola parte degli stessi romani.

Quell’inchiesta rivelò chi erano, da dove provenivano, come dovevano essere considerati coloro che vivevano ai margini della città. E servì a smascherare l’azione subdola del questore di Roma, Carmelo Marzano, che pensava di alleviare i problemi sociali della Capitale ricorrendo all’applicazione delle leggi fasciste sulle migrazioni interne e contro l’urbanesimo. Queste norme impedivano ad un disoccupato di risiedere in un comune diverso da quello d’origine. Ma non era riuscito a farle rispettare nemmeno il fascismo tanto forte era la pressione della gente a trasferirsi dai centri minori alle città. E i motivi erano solitamente due: la ricerca di un lavoro e il miglioramento delle condizioni di vita.

Bisognerà attendere una legge del 1961 per abolire quella legislazione liberticida. E fu possibile grazie alle Consulte popolari di Roma che promossero nel 1958 una grande assemblea la quale dette vita all’Associazione per la libertà di residenza. Fu eletto presidente Senio Gerindi. Erano 300 mila i non residenti su di una popolazione di due milioni di abitanti. Queste persone clandestine abitavano in baracche o case costruite con le proprie mani senza licenza edilizia. Una massa enorme a cui era impedito iscriversi all’anagrafe e all’ufficio di collocamento, benché la libertà di soggiorno fosse sancita dall’art. 16 della Costituzione.  Ed era, pertanto, costretta ad accettare le peggiori e più pericolose condizioni di lavoro. Quando quella lotta si concluse positivamente, si modificarono profondamente i rapporti sociali nella città.

Tra il 1950 e il 1975 vennero a vivere a Roma un milione e 500 mila persone. E in una città priva di case, servizi e posti di lavoro, questa immigrazione causò un aumento smisurato di baracche e borghetti. Gli immigrati più poveri provenienti dall’estremo Sud e dalle Isole costruivano le case per le famiglie più ricche, mentre per loro esisteva solo una baracca. Quelli provenienti dal Lazio, dall’Umbria, dalle Marche e dall’Abruzzo, disponendo di qualche soldo perché avevano venduto un pezzo di terra, compravano un lotto abusivo nell’Agro romano e si costruivano una casa circondata da un orto.

La periferia romana non ha mai avuto nulla in comune con la banlieue parigina o con la cintura di Milano o di Torino. Roma attrae un forte afflusso di immigrati, quasi sempre disperatamente poveri, ma non riesce a dar loro posti di lavoro stabili, ossia legati a un ciclo produttivo funzionale. Di qui la burocratizzazione ipertrofica, la terziarizzazione fasulla, la modernizzazione spuria. A parte l’edilizia, che ha caratteristiche particolari di attività post-agricola e paraindustriale, la sola vera  industria romana è quella  della sistemazione improduttiva.

Quando i giornalisti Ruggero Zangrandi e Mario Benedetti pubblicarono nel 1958 su Paese Sera un’inchiesta sulla casa, le Consulte chiesero al giornale di farsi tramite di un’iniziativa che si proponeva di organizzare tutti coloro che, disponendo di una certa somma iniziale, potessero dar vita a imprese di costruzione per divenire proprietari di un alloggio decoroso. Si auspicava un censimento dei possibili aderenti. Paese Sera stampò ad ogni puntata dell’inchiesta un tagliando da spedire al giornale coi dati anagrafici degli aderenti e con l’indicazione della somma di cui essi disponevano. Al giornale giunsero migliaia di adesioni e il censimento indicò in centinaia di milioni le somme dichiarate. Nella prima assemblea degli aderenti, nella sede del quotidiano, si formò il comitato promotore e, dopo un mese, nel salone del Palazzo Brancaccio fu costituita l’Associazione Italiana Casa (AIC). Il suo  consiglio d’amministrazione, presieduto da Virgilio Melandri, deliberò di acquistare un terreno in via della Pisana sul quale vennero edificati 14 edifici consegnati ai soci nel 1962.

Intorno al problema della casa  iniziativa pubblica, investimenti privati, speculazione si confrontarono con le attese dei cittadini: disponibilità di alloggi, fitti contenuti e, soprattutto, l’aspirazione alla proprietà formale o di fatto della casa. Nel tempo, questi obiettivi furono sostanzialmente raggiunti grazie a una serie di interventi normativi, all’azione diretta di enti pubblici e alla messa in opera di un complesso intreccio politico e clientelare  che attraverso cooperative, mobilitazione dal basso, abusi e condoni edilizi diede luogo a un consolidato sistema di grandi e piccoli privilegi, di diffuse e articolate parzialità: mantenendo sempre precario e mai equamente risolto l’equilibrio fra aspirazioni e diritti.

Per molti anni 200 mila immigrati sono vissuti nelle baracche costruite nei 72 borghetti e 800 mila persone hanno edificato una casa nei lotti venduti da lottizzatori abusivi. Bisognerà attendere il 1981, quando fu abbattuto il borghetto Prenestino, il più vecchio e il più grande, per considerare conclusa l’ epopea delle lotte contro le baraccopoli e per uscire dalla quieta disperazione del ghetto.

Oggi la periferia romana si è trasformata e accanto ai nuovi immigrati comunitari e stranieri si sono diffuse le nuove povertà, quelle dei ceti medi che cercano disperatamente di salvare le apparenze. I nuovi ricchi sono paradossalmente gli appartenenti alle famiglie operaie o di estrazione popolare. Possono lavorare occasionalmente nell’economia sommersa; per questa via, integrano i guadagni regolari. Per le famiglie medie, giorno dopo giorno, la posizione sociale è erosa dalla crescente impossibilità di far fronte a consumi ritenuti essenziali per un decente, rispettabile tenore di vita.

La via d’uscita non può che essere una diagnosi severa dello stato di povertà e dei suoi modi evolutivi e l’avvio di un processo di autoliberazione dei poveri, vecchi e nuovi, autoctoni e immigrati, che parta da una presa di coscienza di sé stessi come cittadini. Il multiculturalismo non va praticato solo nelle attività culturali, artistiche e ricreative, ma soprattutto nei percorsi partecipativi “dal basso” per promuovere sviluppo locale.
E’ vero, ci sono barriere culturali e linguistiche che lo impediscono. Ma per fronteggiarle non bastano gli slogan. Dovremmo aprire un confronto tra le diverse componenti più innovative e portatrici di capacità imprenditoriali. Ci sono giovani bengalesi, indiani, cinesi che intraprendono e contribuiscono a creare sviluppo in Italia, utilizzando le nuove tecnologie, Così come molti giovani italiani fanno altrettanto all’estero. A queste energie fresche e piene di entusiasmo dobbiamo rivolgerci per disegnare, insieme a loro, nuovi scenari di integrazione e di pluralismo multiculturale. E’ questa la strada che si intende imboccare nelle esperienze concrete di Corviale, Tor Pignattara e altre realtà di Roma in movimento.
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Appaesarci in un mondo mobile e in fuga

Agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, fu molto in voga una canzone, che ebbe grande successo al Festival di Sanremo, interpretata dal gruppo I ricchi e poveri e dal cantante ispano-americano Josè Feliciano. Il testo del brano, Che sarà (Migliacci-Fontana),  ben racconta la durezza della vita lontano da casa e il senso di doloroso abbandono provato dal protagonista nel lasciare il proprio paese e la sua comunità di vita:

“Paese mio che stai sulla collina, disteso come un vecchio addormentato. La noia, l’abbandono sono la tua malattia, Paese mio, ti lascio vado via”

E ancora:

“Gli amici miei son quasi tutti via e gli altri partiranno dopo me, peccato perché stavo bene in loro compagnia, ma tutto passa, tutto se ne va. Che sarà, che sarà, che sarà”

Intorno ad altre atmosfere, quelle disegnate da Cesare Pavese ne La luna e i falò, si svolge invece il ricamo di Mario Pogliotti, amplificato dalla straordinaria interpretazione di Giovanna Marini, che, in Ricordo di Pavese, fa esordire il brano musicale con queste parole:

“Un paese vuol dire non essere soli, avere gli amici del vino, un caffè…”.

Ma leggiamo direttamente una pagina de La luna e i falò:

“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.”

E’ importante notare che, nei due testi, emergono più che i luoghi fisici che caratterizzano l’habitat paese – la chiesa, la piazza, il campanile – i luoghi dello spirito – gli amici, la lontananza, la nostalgia – che si collegano a immagini profonde della vita.

Oggi siamo nella fase della post-metropoli. E le città-territorio in cui viviamo sono fatte di spazi indefiniti in cui gli eventi accadono sulla base di logiche che non corrispondono più a un disegno unitario d’insieme.

Tutto questo ha creato uno spaesamento sia nei piccoli comuni interni che nelle aree urbane. Uno sradicamento che è innanzitutto dentro di noi. Per appaesarci di nuovo, in un mondo mobile e in fuga, è necessario dare un nuovo senso all’abitare, all’essere nei luoghi, fotografandoli per quelli che sono. Malinconia, nostalgia, memoria, non guardano al passato ma ad un futuro da costruire, anche riconsiderando scarti, frammenti, schegge, saperi di altri universi, immaginando altri percorsi.

Non servono slogan, ma nuovi sguardi e nuovi stili di vita. Cogliere le trasformazioni, i mutamenti, le novità, le incurie, le bellezze, i margini, le devastazioni. Bisogna essere disponibili alla sorpresa e allo stupore, allo spavento e all’incanto. Rimettersi in cammino, guardare e vedere, osservare, condividere, accogliere.

 

I ricchi e poveri




Istituire a Tor Pignattara la Casa della società civile

«Alla Marranella lì all’incrocio dell’Acqua Bullicante e la Casilina c’era più via vai di macchine e di gente che in via Veneto…» Così Pasolini descrive il centro di Tor Pignattara in Ragazzi di vita.

Ebbene, proprio in questa piazza, dove via dell’Acqua Bullicante fa angolo con via della Marranella, fu costruito nel 1950 un palazzo di otto piani. I primi due furono acquistati dall’ USIS (United States Information Service) per collocarvi una delle innumerevoli biblioteche che l’organizzazione americana aveva sparse in venti Paesi. Una biblioteca a scopo didattico per dare la possibilità a tutti di prendere in prestito ogni tipo di materiale utile a conoscere la vita americana e le novità in campo industriale. Nella struttura si svolgeva un’intensa attività culturale: mostre fotografiche, conferenze, presentazioni di libri. E i giovani studenti e i cittadini di ogni età la frequentavano con grande interesse.

Ma nelle prime ore di lunedì 19 settembre 1966 una bomba ad orologeria esplose nell’atrio della biblioteca. I locali subirono danni gravissimi. E schegge dell’ordigno colpirono un’auto parcheggiata di fronte, le vetrine dei negozi e le abitazioni dei palazzi vicini. Per fortuna non ci furono vittime. E non si seppe mai chi fosse l’autore del gesto dissennato.

Gli abitanti più anziani di Tor Pignattara ricordano l’episodio come una ferita non più risanata. Un atto insensato e oltraggioso nei confronti del quartiere e una perdita irreparabile. Infatti, dopo l’attentato, l’Usis vendette i locali e la biblioteca non fu più istituita. Col tempo quel luogo di cultura è stato rimpiazzato da una banca.

Ora, a piazza della Marranella, il Municipio V ha concesso ai cittadini la sala dove fino a qualche anno fa si riuniva il consiglio municipale. Si potranno svolgere laboratori e riunire gruppi di studio al fine di elaborare proposte su diversi problemi, da quelli più gravi, come la presenza delle mafie sul territorio, alla necessità impellente di diffondere cultura e conoscenza nel quartiere, integrare gli immigrati con gli italiani, gestire in modo partecipato i beni comuni e progettare lo sviluppo locale.

Sarebbe utile che il Comune di Roma affidasse in modo permanente i locali di piazza della Marranella ad un soggetto partenariale aperto a tutti i comitati, associazioni e singoli cittadini per farne la Casa della Società Civile di Tor Pignattara.

In questo modo, dopo quarantotto anni, la ferita che la comunità locale subì con l’attentato alla biblioteca potrà finalmente essere sanata. E la cultura diffusa potrà riprendere a svolgere la sua funzione generatrice di coesione sociale e sviluppo umano.

 

 

Piazza della Marranella

Piazza della Marranella

 

 




Le comunità-territorio del futuro

Opportunità e rischi della democrazia identitaria

Si parla di identità in rapporto agli istituti della democrazia quando un gruppo di persone si percepisce come specifico in relazione ad una componente che non è il risultato immediato di una scelta individuale. E tale specificità identitaria viene riconosciuta da altri individui.

In altre parole, la mia specificità identitaria non nasce immediatamente per atto della mia volontà. Emerge perché sono nato in una determinata famiglia, vivo in un certo paese, in cui si parla una data lingua e si adotta una specifica religione.  E sono identificato dagli altri mediante alcuni tratti peculiari. Ho sempre la possibilità di fare una scelta diversa. Ma intanto, nell’immediato, quella specificità mi caratterizza e costituisce un legame di appartenenza. L’identità unisce e, al tempo stesso, distingue.

L’identità non è mai qualcosa di statico ma il portato di un processo culturale sempre in evoluzione ed è in virtù di questa intrinseca dinamicità che costituisce un valore, un arricchimento per l’insieme della società. La fioritura di culture identitarie – come reazione spontanea alla globalizzazione – è dunque un’opportunità da saper cogliere. Ma quando si pretende di far valere l’identità nella scena politica contro gli altri che non appartengono al gruppo, la democrazia può correre seri rischi. Non è la prima volta che accade. Anche le ideologie che sono state protagoniste della guerra fredda creavano non solo manicheismo dottrinario ma anche simboli e appartenenze identitarie. Chi nasceva in una famiglia comunista o democristiana doveva compiere una scelta sofferta per distaccarsi da un’identità percepita dal proprio gruppo e riconosciuta all’esterno come appartenenza. E tale condizione creava opportunità perché alimentava legami comunitari e solidarietà, ma anche rischi perché fomentava conflitti irriducibili.

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L’identità religiosa

Le ideologie onnicomprensive del Novecento sono sparite e vanno sorgendo nuove identità. Rinascono in forme nuove anche quelle antiche, come le religioni. Credere in un Dio è certamente un fattore che unisce e distingue. Ma cosa succede quando l’identità in una fede vuole avere voce in capitolo nelle scelte politiche e nella sfera pubblica per sopraffare altre identità? C’è il rischio  che tale pretesa ponga in serio pericolo lo stato di diritto. Lo stato moderno è infatti nato escludendo le religioni dalla sfera del potere politico: liberando le religioni dal potere, ha liberato il potere dall’intolleranza e dalla violenza per ragioni di fede.

Con l’adozione delle carte dei diritti, e quindi con il riconoscimento del limite del potere della maggioranza, le democrazie moderne hanno reso la libertà religiosa un principio fondamentale che libera la persona da ogni autorità esterna alla propria coscienza di individui responsabili e perciò liberi. La tolleranza non attiene più alla sfera pubblica. I diritti individuali rendono la tolleranza una questione di comportamento individuale, non più una politica degli stati. Difendere i diritti di tutti supera la discrezionalità degli stati di tollerare questa o quella fede.

Oggi le gerarchie religiose reclamano una presenza speciale dell’identità religiosa nella vita politica. Esse contestano il principio della separazione di giudizio, oltre che di potere, tra le sfere di vita civile e religiosa. Sotto il pontificato di Giovanni Paolo II la Chiesa cattolica ha rivitalizzato la dottrina della legge naturale – che per un lungo periodo era stata messa in soffitta – con l’intento di contrastare l’idea liberale che i diritti individuali, primo fra tutti quello della libera scelta in questioni morali, debbano essere difesi in via di principio. La filosofia della legge naturale, impressa da Dio nel cuore degli uomini e interpretata dalla Chiesa che ne sarebbe il custode supremo sulla terra, si propone esplicitamente  come alternativa alla filosofia che, a partire dalla Dichiarazione dei diritti del 1789, si è imposta come la sfida più radicale al potere della trascendenza religiosa nella vita civile e politica.

Intendiamoci. Che le chiese esprimano la loro opinione sulle questioni che attengano alle decisioni politiche è cosa legittima e auspicabile. I cristiani – proprio perché il loro “Dio è un’idea politica”, come ricorda il teologo Johann Baptist Metz – possiedono una determinata visione del mondo e dell’essere umano e hanno delle convinzioni che non andrebbero relegate nell’intimo e nel privato, ma che, in una società pluralista come la nostra, converrebbe a tutti renderle presenti  e ascoltabili nello spazio pubblico, sociale e politico.

Tuttavia, vivere intensamente la differenza cristiana nell’agone politico e sociale non deve significare necessariamente organizzarsi in minoranze attive, ritenendole più capaci di assicurare identità e visibilità nell’ambito di strategie difensive e di concorrenza. Come suggerisce Enzo Bianchi, si può essere efficaci anche solamente vivendo la testimonianza di fede in compagnia degli uomini, innestando “una dinamica che scuote l’indifferenza alla fede cristiana e alle sue esigenze propria anche a molti sedicenti cattolici”.

Naturalmente il ragionamento del Priore di Bose vale per tutte le religioni.  La commistione tra potere politico e potere religioso non solo è rischiosa per le istituzioni democratiche: fomenta il fondamentalismo e il fanatismo anche all’interno delle stesse comunità religiose. Per contribuire a salvaguardare la democrazia, le chiese devono evitare di organizzare gruppi politici e sociali di ispirazione religiosa ed essere tolleranti e dialoganti con altre culture.

 

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Un nuovo multiculturalismo

Altra cosa è tener conto delle differenze e adottare politiche specifiche che riconoscano identità religiose, etniche, linguistiche, convinzioni culturali di specifici gruppi, questioni di verità o di vita buona, credenze di una parte di cittadini a cui altri non aderiscono e che attengono al rapporto uomo/ambiente o uomo/animale.

Negli ultimi tempi il concetto di multiculturalismo si è ampliato. Un diritto culturale è per esempio una norma che consente ai negozianti di religione musulmana di svolgere la loro attività commerciale in accordo con le loro pratiche religiose. Un altro diritto culturale è la facoltà concessa ai gruppi che aderiscono a determinate credenze religiose o filosofiche di adottare il metodo dell’agricoltura biodinamica nell’ambito di specifiche regole che, comunque, devono tutelare i diritti dei consumatori. Si tratta di soluzioni di prudenza poiché, se il diritto individuale è fondamentale, e deve restarlo, gli accomodamenti avvengono su questioni che non sono essenziali per lo stato di diritto.

È possibile avere un’ampia politica di diritti culturali, ma la decisione sulla sua ampiezza deve essere presa dalle istituzioni, non dal gruppo culturale che la sostiene, tenendo ferma la difesa dei diritti individuali, i quali non sono sempre in armonia con le difesa del gruppo che rivendica politiche culturali rispettose della propria identità.

Mentre i diritti civili non sono negoziabili, le politiche culturali lo sono, e per questo possono sempre essere revocate. Le norme che autorizzano o vietano la coltivazione di Ogm (Organismi geneticamente modificati) rientrano nelle politiche culturali che non dovrebbero ledere i diritti individuali (cosa che invece purtroppo accade!) e andrebbero considerate revocabili nel caso in cui si formino maggioranze politiche diverse. Il multiculturalismo deve favorire il rispetto del pluralismo ma non deve portare mai all’affossamento dello stato di diritto e al ripristino dello stato corporativo.

Concordo con Nadia Urbinati quando afferma che diventa un pericolo per la democrazia il sorgere di gruppi che rivendicano una propria specificità contro la generalità dei cittadini e contro altri gruppi, chiedendo che la politica segua l’identità e che la legge si modelli sull’identità più rappresentativa o maggioritaria su di un territorio. Ciò avviene quando i gruppi si auto-rappresentano non tanto o non solo come diversi, ma come meritevoli di un potere o di una considerazione superiori a quelli di altri gruppi.

Le istituzioni pubbliche sono di tutti e, quindi, non devono assolutamente far proprie convinzioni etiche e religiose o che attengano a specifiche visioni culturali, modelli produttivi e di consumo che sono di qualcuno e che divergono con quelle di qualcun altro. Se ne deve tener conto in via prudenziale, ma salvaguardando sempre i diritti individuali di coloro che non aderiscono a quelle credenze.

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Una nuova laicità

È questa la laicità pubblica del XXI secolo da realizzare con istituzioni pubbliche che devono rimanere neutrali per non degenerare in istituzioni non democratiche. Dovrebbe essere preoccupazione di tutti coloro a cui sta a cuore l’eguale libertà democratica di cittadinanza difendere le istituzioni dal morbo che conduce alla perdita della laicità, imparzialità, neutralità pubblica. Democrazia e laicità, simul stabunt, simul cadent. Non bisogna avere remore nel criticare deliberazioni e scelte istituzionali che, riflettendo gli interessi  di gruppi politici che mirano a soddisfare domande di eticità di frazioni di popolazione, ledono l’eguale rispetto dovuto a chiunque, in quanto cittadino o cittadina di pari dignità nella polis.

È inevitabile che la globalizzazione renda più intense le domande sociali di identità rivolte al sistema politico democratico e incentivi la presentazione conflittuale, nell’arena istituzionale, di domande di eticità. E che un’autorità politica che perde colpi rispetto a poteri sociali come la finanza, l’economia e la comunicazione, si rivalga soddisfacendo la domanda di eticità.

D’altra parte, anche il persistere della crisi economica e sociale crea un nesso molto forte tra questioni di identità e questioni di giustizia distributiva o di equità sociale. Ma queste ultime non sono separabili dalle altre, in quanto nascono intimamente unite alle prime. E tuttavia, né la globalizzazione né la crisi economica né il malessere sociale che ne consegue possono farci smarrire che la democrazia sia un valore irrinunciabile che non può essere mediato con altri.

Sappiamo che non c’è valore che non sia esposto al rischio della sua perdita e dissipazione. E oggi le derive populistiche, gerarchiche e plebiscitarie dei regimi democratici sono alimentate anche dalle continue risposte che le autorità pubbliche danno alle domande di eticità.

Va tutelato il diritto di assicurare ai gruppi specifici di esprimere i propri punti di vista sulle politiche pubbliche.  Perché solo l’esercizio di questo diritto permette il dibattito pubblico, non istituzionale, delle diverse opzioni ai fini della condivisione e contaminazione e, dunque, dell’interculturalità. Ma questo diritto va sempre accompagnato dall’eguale rispetto dovuto a chiunque non malgrado, bensì in virtù delle differenze e delle distinte concezioni di valore, etico, religioso e culturale.

In una società che fa perno sulla Costituzione e sugli eguali diritti, nessuna identità è di per sé più potente di un’altra. D’altra parte i totalitarismi sono identitari perché mirano a creare società non di diritto ma di sostanziale identità.

C’è un nesso molto stretto tra democrazie identitarie e degenerazioni xenofobe e razziste. Lo stiamo vedendo purtroppo nelle periferie delle nostre metropoli, dove si formano spontaneamente quartieri multietnici. Le due cose non sono necessariamente concatenate come causa ed effetto. Ma i rischi sono altissimi perché nella cultura europea c’è una resistenza molto forte al pluralismo e un’acquiescenza molto estesa al centralismo e all’omologazione.

In alcuni quartieri di Roma, come Torpignattara e Pigneto, stanno proliferando nuove forme di mafia per iniziativa di organizzazioni criminali, dedite al traffico di droga e al riciclaggio di denaro sporco, che strumentalizzano l’identità e il disagio sociale indotto dalla difficoltà di interazione tra le diverse etnie che convivono senza efficaci politiche di integrazione. Per affrontare questa nuova situazione è necessario affermare una cultura della legalità e fare in modo che le culture identitarie dialoghino, interagiscano senza mai proporsi al di sopra della cultura dell’eguaglianza e della dignità della persona. Non ci può essere un’eguaglianza all’interno di un gruppo diversa dall’eguaglianza praticata in un altro gruppo perché una simile concezione comporta negare l’eguaglianza come principio di relazione tra diversi. E queste considerazioni valgono per tutti i gruppi, sia quelli autoctoni che per quelli di immigrati.

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Identità e universalità dei diritti per un nuovo comunitarismo

I contesti e i gruppi specifici sono un’opportunità per rivitalizzare e arricchire nuove forme di società civile che correggano l’individualismo. E tuttavia bisogna tendere a costruire legami sociali che promuovano comunità-territorio aperte a tutti e che decidano con la regola di una testa un voto. È in tal modo che si può andare oltre la solidarietà e si può affermare la fraternità civile.

Le comunità-territorio contemporanee devono saper cogliere le opportunità della globalizzazione e non chiudersi in sé stesse. Bisognerebbe accompagnarle ad acquisire la capacità di auto-rappresentarsi e di costruire la propria immagine. Ma tale capacità presuppone una chiara percezione di sé, per fare in modo che gli scambi culturali ed economici con altre comunità-territorio del mondo globale siano reciprocamente arricchenti e improntati ad una relazionalità collaborativa.

Di qui l’importanza di studiare e conoscere scientificamente i contesti in cui fioriscono le vite delle persone e dei gruppi mediante approcci interdisciplinari e un’attività permanente di ricerca-azione finalizzata a promuovere percorsi partecipativi progettuali per lo sviluppo locale. Le storie di vita, le memorie delle persone e dei beni strumentali, architettonici, archeologici e paesaggistico-ambientali sono elementi indispensabili per fare in modo che gli individui e i gruppi si approprino delle loro radici e di un’identità consapevole e capace di aprirsi ad altre identità.

I contesti vanno vissuti da persone che comprendano i processi e i meccanismi con cui questi si producono. Le comunità-territorio contemporanee devono servire prioritariamente a siffatto scopo. Solo con un forte senso di sé e stabilendo regole democratiche condivise per il proprio funzionamento nei percorsi partecipativi dal basso, le comunità-territorio possono svolgere una funzione propulsiva, alimentando valori da immettere nelle istituzioni e nel mercato.  Per farlo devono essere comunità che non pongono in alternativa l’appartenenza identitaria e l’universalismo dei diritti. L’individualismo si corregge con un nuovo comunitarismo che non mette in discussione i diritti individuali. Altrimenti, coniugandosi in modo distorto con le culture identitarie, l’individualismo porta inevitabilmente alla violenza e alla sopraffazione.

 




Attivisti di destra cavalcano il malcontento a Torpignattara

La riunione di ieri sera nel cortile della Parrocchia di San Barnaba a Torpignattara ha messo in luce la manovra politica della destra romana volta a strumentalizzare il malcontento della gente per le condizioni di estremo disagio in cui è costretta a vivere. Ma raccontiamo i fatti.

Un gruppo di cittadini – tra cui alcuni commercianti – strumentalizzati da esponenti della destra romana, hanno inteso distaccarsi dall’iniziativa del comitato di quartiere di Torpignattara per adottare metodi di lotta ritenuti più efficaci nel portare avanti la vertenza di territorio. In realtà, la riunione è stata condotta, in spregio a qualsiasi norma democratica e di civiltà, per ottenere il consenso su un documento dai chiari contenuti xenofobi.

La lettera aperta – già consegnata al Sindaco a nome degli ignari cittadini e letta ad essi solo a posteriori –  evita accuratamente di dire che il traffico di cocaina, la prostituzione, l’usura, il riciclaggio di denaro sporco, il proliferare delle sale scommesse, l’istallazione di slot machine in molti esercizi pubblici, il racket delle frutterie che aprono e chiudono continuamente, l’affitto “a materasso” degli appartamenti, il furto continuato di ogni spazio di socialità a Torpignattara non sono altro che l’esito di azioni di criminalità organizzata italiana di stampo mafioso. E l’occultamento di questa verità serve ad addossare la responsabilità del degrado alla presenza degli immigrati.

La responsabilità del degrado a Torpignattara è innanzitutto del Governo e poi del Comune e del Municipio, che non svolgono un’azione adeguata di contrasto alla grande criminalità organizzata di tipo mafioso, accrescendo la presenza delle forze dell’ordine e favorendo la cultura della legalità tra i cittadini per poter resistere, contestualmente all’iniziativa dello Stato, con un forte impegno civico nelle comunità locali.

E’ evidente che quando in una comunità si permette alle cosche mafiose di prosperare nel crimine e negli affari illeciti in perfetta tranquillità, tutti i gangli della società si infettano e dalla grande illegalità si passa alla piccola irregolarità, dai grandi episodi di violenza, alla piccola e diffusa violenza quotidiana. E in questo processo sono coinvolti sia italiani che immigrati. Ma l’origine sta nella presenza della mafia e nell’incapacità dello Stato di comprenderne i nuovi caratteri e di contrastarla.

Nel solco del malessere che questa grave situazione determina, si è ora inserita la manovra di alcuni capipopolo di destra ( personaggi che ricordano i capi dei “forconi” che guidavano le proteste dei camionisti e degli agricoltori e i blocchi delle autostrade coi tir) che si presentano come ingenui apolitici, ma poi alimentano pulsioni xenofobe e cavalcano il malcontento a fini di parte. Non a caso l’obiettivo della riunione di ieri sera era quello di farsi legittimare come rappresentanti dei cittadini di Torpignattara negli incontri che avevano già ottenuto illecitamente con le istituzioni. Ma, in realtà, nessuno li aveva mai eletti per svolgere questa funzione. Hanno dovuto penosamente confessare di essere stati indicati come tali dal presidente del V Municipio per riequilibrare “politicamente” la delegazione che sta incontrando la delegata del Sindaco alla sicurezza. Insomma, sarebbe una comica esilarante se non si trattasse di una vicenda estremamente seria: alcuni nominati dal potere pretendono di rappresentare la protesta nei confronti di quello stesso potere che origina il degrado e la criminalità.

Occorre demistificare questa impostura con una informazione capillare e dando ai cittadini gli strumenti conoscitivi della realtà che si è venuta a creare a Torpignattara e in altri quartieri di Roma per costituirsi in comunità consapevoli. La mancanza di iniziative per favorire l’integrazione degli immigrati è sicuramente un aspetto che aggrava ancor più la situazione di disagio nel quartiere. Tra queste iniziative è urgente programmare un’azione per diffondere la cultura della legalità tra tutti i residenti, autoctoni e immigrati. E’ per questo necessario coinvolgere nei dibattiti e nella mobilitazione anche le comunità degli immigrati per responsabilizzarle in questo processo di autoapprendimento collettivo della democrazia diretta, della capacità di rappresentare le proprie istanze nel confronto con le istituzioni, della cultura della legalità diffusa.torpignattara




Torpignattara. Ci vuole una regola per poter discutere e decidere

Tra stasera e mercoledì 17 settembre nel quartiere di Torpignattara si svolgeranno tre distinte assemblee per affrontare i problemi che creano disagio e malessere tra i cittadini. E’ probabile che i promotori non abbiano trovato un’intesa per organizzarne una sola. Tutte e tre vengono definite dai promotori “assemblea dei cittadini”. Ma per essere tali dovrebbero svolgersi con modalità condivise da tutti i partecipanti.

 

Mobilitazione del quartiere

Mobilitazione del quartiere

Pertanto, questa sera parteciperò alla prima di queste Assemblee pubbliche e proporrò all’inizio della riunione l’approvazione del seguente regolamento in modo tale che tutti i partecipanti abbiano consapevolezza dei diritti e dei doveri durante lo svolgimento dei lavori. Per alimentare la fiducia tra le persone che intendono confrontarsi e decidere insieme iniziative comuni bisogna partire dalla condivisione delle regole in base alle quali si discute e si decide. E queste regole devono essere formalmente deliberate e difese da tutti.

Regolamento per lo svolgimento dell’Assemblea dei cittadini

Art. 1
Costituzione dell’Assemblea

I cittadini residenti nel quartiere di Torpignattara che intendono partecipare all’Assemblea sono tenuti a registrarsi all’ingresso del luogo in cui questa si svolge, indicando i propri dati anagrafici, prima che la stessa abbia inizio.
Potranno chiedere la parola ed esercitare il diritto di voto esclusivamente i cittadini registrati.

Art. 2
Presidente dell’Assemblea

Chiunque si sia registrato può candidarsi a presiedere l’Assemblea. Verrà eletto Presidente dell’Assemblea il cittadino che riporterà più voti.

Art. 3
Predisposizione dell’ordine del giorno

Chiunque si sia registrato può proporre argomenti da trattare o può avanzare proposte di deliberazioni.

Art. 4
Svolgimento della discussione

Il Presidente mette ai voti l’ordine del giorno dell’Assemblea, l’ordine dei lavori e il tempo di durata degli interventi. Qualora fosse necessario per consentire a tutti di esprimere le proprie opinioni, il Presidente propone all’Assemblea di aggiornarsi a una data successiva.
Il Presidente concede la parola a coloro che si prenotano seguendo l’ordine cronologico di presentazione delle richieste. Non sono ammessi interventi non attinenti all’ordine del giorno e non è consentito interferire mentre gli altri espongono le loro opinioni.

Art. 5
Votazioni

Al termine del dibattito di ciascun punto all’ordine del giorno, il Presidente mette ai voti la relativa proposta di deliberazione che sarà approvata a maggioranza assoluta dei presenti al momento del voto. Qualora la proposta non dovesse ottenere il consenso della maggioranza assoluta dei cittadini presenti, si procederà alla seconda votazione in cui sarà sufficiente la maggioranza relativa per l’approvazione.
Le proposte possono essere riformulate o ritirate dai proponenti prima del voto.
Il voto è sempre palese.
Al termine della trattazione di ciascun punto all’ordine del giorno, il Presidente proclama l’esito delle votazione.

Art. 6
Scioglimento dell’Assemblea e verbalizzazione dell’esito dei lavori

Esauriti i punti all’ordine del giorno, il Presidente scioglie l’Assemblea e redige il verbale dei lavori dell’Assemblea, in cui deve essere riportato l’esito delle votazioni per ciascuna delle proposte di deliberazioni.
Entro ventiquattro ore dallo scioglimento dell’Assemblea, il verbale dovrà essere affisso in luoghi aperti al pubblico e diffuso attraverso i social network.




Torpignattara, laboratorio della nuova cupola romana

Una delle cause principali del degrado in cui viviamo a Roma è l’intreccio tra economie criminali e fenomeni di corruzione che, negli ultimi tempi, ha trasformato la nostra città in un vero e proprio laboratorio di una nuova tipologia di mafia con forti risvolti xenofobi e populistici. Traffico di cocaina e di diamanti, riciclaggio di denaro sporco in attività finanziarie e immobiliari, usura, apertura di sale scommesse in ogni angolo di strada sono i puzzle di un’organizzazione reticolare e ramificata nei nostri quartieri. Ne ha parlato in modo persuasivo Lirio Abbate in un recente articolo apparso su “L’Espresso”.

Torpignattara è uno dei territori prescelti da questa nuova cupola per gestire le attività criminali. È, infatti, un quartiere multietnico dove si vive un disagio profondo, ulteriormente accresciuto dalle pesanti ripercussioni causate dalla crisi economica e dalla mancanza di politiche adeguate per integrare le comunità di immigrati nel tessuto sociale. Il modo burocratico e superficiale con cui, in questi giorni, l’Amministrazione comunale ha risposto alla mobilitazione dei cittadini è segno inequivocabile di sciatteria e sottovalutazione dei pubblici poteri.

Mobilitazione del quartiere

Mobilitazione del quartiere

I registi del nuovo intreccio di business e crimine hanno deciso di strumentalizzare il diffuso e snervante malessere dei cittadini mediante una presenza politica che serve ad alimentare ideologie xenofobe capaci di amalgamare i diversi interessi. Lo smarrimento di riferimenti etici e valoriali e la mancanza di anticorpi civili e culturali fanno sì che soprattutto i giovani si lascino conquistare dal fascino perverso del modello apparentemente vincente del crimine e dell’illegalità e cerchino di idealizzarlo, coltivando pulsioni razziste e una malintesa tutela delle proprie radici.  I segnali sono evidenti dando uno sguardo ai social network e ai giornali periodici di quartiere.

È questo il salto di qualità che si è compiuto, la nuova modalità non più oppressiva ma populistica che sostituisce la pratica odiosa del pizzo precedentemente imposta a imprenditori e commercianti. Una modalità che si presenta in nuove forme protettive volte a creare consenso diffuso intorno alle attività economiche criminali.

Per fronteggiare questa nuova situazione la risposta più adeguata è quella innanzitutto di chiamare il fenomeno con il suo vero nome: sistema criminale di stampo mafioso. Non dobbiamo avere paura a farlo perché gli indizi ci sono tutti. Avremmo bisogno di svolgere una ricerca-azione socio-psico-antropologica  – nelle stesse dimensioni di quella che fece Franco Ferrarotti negli anni Sessanta proprio nelle periferie romane – per venire a conoscenza di tutte le tipologie del fenomeno e delle connessioni nazionali e internazionali.

L’altra risposta indispensabile è quella di  promuovere la ricostituzione di legami comunitari con la consapevolezza, però, che la nuova cupola sta operando sullo stesso terreno. Ma è proprio lì che bisogna vincere la partita, affermando la cultura della democrazia e prendendo coscienza del ruolo fondamentale che giocano parole come “libertà”, “dignità”, ”legalità”, “fraternità”, “solidarietà”, “trasparenza”, “sviluppo”.

Non siamo più abituati ad agire su questo terreno perché ci vogliono doti che abbiamo smarrito: rispetto reciproco, capacità d’ascolto, disponibilità alla mediazione. I modelli del confronto e del dibattito pubblico sono quelli della comunicazione politica, dei social network e dei talk-show televisivi. Ma con quei modelli non si ricostituiscono comunità reali capaci di appropriarsi degli spazi vitali. Vi è dunque bisogno di rieducarci alla democrazia diretta mediante percorsi di autoapprendimento collettivo, sbagliando e riprovando continuamente. Perché non ci sarà mai un traguardo definitivo.

Nei prossimi giorni a Torpignattara sono convocate più assemblee in luoghi diversi per affrontare i problemi del quartiere. Bisogna partecipare ma anche pretendere che ci siano regole democraticamente condivise che permettano a tutti di esprimere la propria opinione e di pesare effettivamente nelle decisioni. È un esercizio a cui non dovremmo sottrarci per non lasciare il campo libero a chi vuole ridurre i nostri spazi non solo di democrazia ma di vita.




Il suono dei tulipani

Ci sono diversi modi con i quali raccontare il cambiamento sociale. Comune-info ha scelto una periferia, un gruppo di bizzarri giardinieri e una indisciplinata streetband. Il racconto di cosa hanno combinato è in questo reportage.

Corviale, Roma. È domenica 7 ottobre e sono da poco passate le tre del pomeriggio. Un’auto rallenta in via Poggio del Verde, la strada che circonda il Serpentone di palazzi più noto di Roma. Dal finestrino una voce timidamente chiede dov’è il giardino dei tulipani. Il passaparola on line e i volantini attaccati ai pali della luce nel quartiere hanno dunque funzionato. Del resto oggi non è un giorno qualsiasi, ma l’International Tulip Guerrilla Gardening Day.

I tulipani sono semplici da piantare e non vogliono troppe cure, hanno fatto sapere i Giardinieri sovversivi, il gruppo di guerrilla gardening promotore della giornata di festa. Per questo potranno crescere spontaneamente e fiorire la prossima primavera. L’appuntamento è sotto il ponte pedonale a metà del Serpentone, «con bulbi di tulipani e palette». C’è anche la Titubanda. Si sente e si vede.

Il cielo è grigio come i palazzoni di questa periferia. Ma un lampo di musica e fiori sta per colorare improvvisamente il quartiere. Cominciano quelli della Titubanda: hanno quasi quindici anni alle spalle di presenza vagante e autogestita nelle strade di Roma, fuori da ogni logica di profitto. In fondo oggi si sentono a loro agio e alla loro passione festaiola è difficile resistere. Lo dimostra la passeggiata nel serpentone fino alle scalinate di un anfiteatro che qui hanno visto utilizzare solo un’estate, per qualche giorno, alcuni anni fa. La maggior parte dei citofoni dei palazzi sono rotti oppure senza nome. La vita dei los de abajo è la storia dei senza nome. Per far sapere della festa, non potendo citofonare, meglio un po’ di musica. Qualcuno si affaccia dal balcone attirato dalle note di questa stravagante fanfara, una mamma con la figlia in braccio comincia a muoversi lentamente dietro la finestra al ritmo della musica, alcuni bambini strillano e salutano dietro i panni stesi.

La signora Maria dice di aver letto il volantino. Una cosa del genere, lei che vive a Corviale da diciannove anni con due figli, non l’aveva mai vista. «I ragazzi sono sempre in casa, qui non c’è mai nulla da fare». Aldo invece ha un’eta indefinibile e passa molto tempo in strada. Dice di aver suonato con i Pink Floyd e con i Genesis, ma che ora si esibisce solo in un centro commerciale. Adora la musica. È cresciuto a Corviale e vive da solo con la madre anziana, il cui unico pensiero oggi è chi si prenderà cura di Aldo e della sua disabilità tra qualche anno. Ma oggi per fortuna c’è una strana festa a cui pensare e Aldo è proprio contento di seguire giardinieri e musicanti.

Marco invece ha undici anni, un pallone tra i piedi e una maglietta giallorossa troppo stretta per il suo pancione. Oggi è piuttosto contento per tre buone ragioni: si è potuto svegliare tardi, non ha mai visto una banda suonare a Corviale, la sua Roma ha vinto due a zero. Quando la passeggiata della Titubanda si conclude arrivano le zappe, i rastrelli e le palette. I vasi con i tulipani e altri fiori da seminare sono state regalati da alcuni vivai e dai cittadini di NoPup, con i quali Giardinieri sovversivi hanno promosso il giorno prima un’iniziativa in viale Leonardo Da Vinci (contro il Piano urbano parcheggi approvato dal Comune). Un’economia del dono che fa molto bene alla città e poco al suo Pil. Intanto, diversi infilano i guanti, si comincia. Tra loro c’è anche Elvira che ha dodici anni e non ha mai avuto tra le mani una zappa. L’afferra, sorride e un po’ impacciata guarda la nonna mentre inizia a scavare.

Giardinieri sovversivi è composto da uno zoccolo duro di circa venti persone. Lo scorso anno, in occasione della giornata nazionale di guerrilla gardening promossa insieme a Badili badola di Torino, Roma ha visto altre persone munirsi di rastrelli, come alcuni gruppi di studenti di architettura e altri già impegnati con gli orti urbani. Emulazione e contagio sono i modi con i quali in tutto il mondo si moltiplicano esperienze di questo tipo. L’obiettivo non è solo recuperare spazi di verde ma, prima di tutto, ricomporre legami sociali, pensare e sperimentare una città diversa.

A Roma i primi appuntamenti sono nati due anni fa, l’ultima domenica del mese. Era la Critical gardening. Il desiderio di formarsi un po’ con i saperi della botanica ha convinto i giardinieri a programmare meno azioni ma più curate, creative e in periferia: a Tor Bella Monaca, ad esempio, con i ragazzi del Cubo libro, e a Tor Pignattara, sotto l’acquedotto Alessandrino. Oppure al Pigneto, dove quelli del Forte Fanfulla hanno portato avanti nel tempo quanto cominciato da Giardinieri sovversivi, prendendosi cura di alcune aiuole, mentre i promotori di Fermento di terra hanno avviato un orto urbano. Come dire, la crepa aperta con rastrelli e bulbi ha generato in poco tempo un circuito virtuoso di relazioni sociali e di cura del territorio.

«A Corviale abbiamo scelto di seminare in un pezzo di prato accanto al parchetto giochi – dice Vanessa – Per i bambini e i loro nonni sarà più facile difendere e curare questo piccolo giardino. E lasceremo qualche cartello per raccontare chi e perché ha piantato questi fiori». Sulle panchine del parchetto, cioè due altalene e uno scivolo, sono seduti alcuni anziani. Anna ascolta la Titubanda e commenta: «Mai vista una cosa del genere. Neanche la parrocchia fa più qualcosa. Perfino la processione ora ha smesso di passare sotto i palazzi». Una ragazza intanto legge Apocalypse Baby di Virginie Despentes, noir on the road tutto al femminile ambientato tra le adolescenti e lo squallore di alcuni sobborghi della periferia parigina.

«Chi non ha una zappa a disposizione può sempre ballare oppure bere un bicchiere di vino rosso», dice una ragazza della Titubanda durante una sosta. «Una volta zappando abbiamo trovato un cellulare», racconta Mario, maglietta nera con il pugno verde disegnato sopra la scritta Giardinieri sovversivi. Isabella invece scatta qualche foto. Alcuni cani sdraiati, tra cui Petra, giardiniera sovversiva a quattro zampe, sembrano apprezzare la musica e la compagnia.

Sulla piccola staccionata di protezione del giardino, un paio di scritte colorate avvertono: «Tulipani», «I fiori non si rubano». A carponi, rovistando nella terra, i giardinieri, diversi per età e sensibilità culturali, si lasciano alle spalle il ritmo convulso della quotidianità moderna, il grigio delle periferie. Hanno trovato il tempo per conversare tra loro. Scrive Richard Reynolds, considerato uno dei promotori del movimento internazionale della guerrilla gardening: «Scavare l’uno accanto all’altro, mettere una pianta in un vaso, discutere la posizione dei fiori, condividere la scarsità delle cazzuole, sono compiti ordinari di giardinaggio che diventano occasioni di conversazione. E ragioni per ricomporre legami con le persone e con i luoghi in cui viviamo…». Giardini e relazioni diverse crescono lentamente insieme, lontano dalle logiche di mercato, perfino in periferia. Germogli di una città diversa.

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