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Social Housing, progetto Ance per valorizzare gli immobili delle banche

Conferire gli asset immobiliari delle banche a un fondo partecipato da Cdp con l’obiettivo di destinarli all’edilizia sociale

Sottrarre alla crisi gli asset immobiliari delle banche, completarli e valorizzarli per destinarli al social housing.
Il progetto, elaborato dall’Associazione nazionale dei costruttori edili (Ance), mira anche a dare una soluzione al problema delle sofferenze bancarie (il cui valore è pari a circa 170 miliardi) che in Italia sono garantite da asset immobiliari nel 40% dei casi.

CONFERIMENTO DEGLI ASSET IMMOBILIARI A UN FONDO PARTECIPATO DA CDP. Il progetto, ora al vaglio dell’Esecutivo, dell’Abi, Anci, Cassa depositi e prestiti (Cdp) e Alleanza delle cooperative, prevede il conferimento di tali asset immobiliari a un fondo partecipato da Cdp con l’obiettivo di destinarli al social housing.
In particolare, spiega una fonte riportata da Il Sole 24 Ore, è prevista la creazione di un fondo specifico per ogni banca aderente al programma. Ogni istituto bancario potrebbe coinvolgere la Cassa depositi e prestiti per individuare gli asset potenzialmente apportabili al fondo e valutarli. Successivamente la Cdp formulerebbe un’offerta all’istituto di credito e all’impresa costruttrice, oppure alla curatela nel caso di procedure giudiziarie. Una volta apportati gli immobili al fondo, l’impresa e la banca parteciperebbero con il 15-20% delle risorse necessarie, ragionevolmente sotto forma di equity.
VANTAGGI PER LE BANCHE E PER LE IMPRESE DI COSTRUZIONI. In questo modo le banche liberano dalle sofferenze i loro bilanci e le imprese edili hanno lavoro una volta apportati gli immobili da completare e valorizzare, per destinarli all’housing sociale.

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Da “mondo nuovo” a terra dei fuochi, la lenta agonia di Ponte di Nona

periferieNato come quartiere modello, oggi vive le contraddizioni di una periferia degradata stretta fra le luci del vicino maxistore e il buio del campo rom di Salone

Ponte di Nona è oggi una delle zone in cui è più forte e organizzata la protesta dei cittadini contro il degrado crescente, l’illegalità, la sporcizia, i disservizi, la paura. Eppure questo quartiere non è una borgata cresciuta a casaccio, una casa sopra all’altra, senza ordine né pianificazione: nelle intenzioni in questa piana doveva svilupparsi un quartiere modello, autosufficiente, vivibilissimo.

Si è partiti pressoché da zero poco dopo la svolta del millennio, in un campo aperto alle migliori possibilità. Qui sono venute a vivere persone che preferivano stare lontano dal caos della città; giovani coppie che cercavano tranquillità e prezzi un po’ più bassi; molti meridionali, soprattutto calabresi, che hanno deciso di studiare e lavorare a Roma, e che a Ponte di Nona hanno sperato di trovare una giusta via di mezzo tra il dentro e il fuori, tra Roma e la campagna.
Proprio accanto al quartiere sorge uno dei più grandi centri commerciali della città, Roma Est, dove si può comprare di tutto, passare le domeniche guardando le vetrine e mangiando il gelato, e poi andare al cinema e in pizzeria. C’era un’illusione di autosufficienza, in teoria qui non doveva mancare nulla. Se si passeggia per il quartiere, salta subito agli occhi la quantità di banche: a Torre Spaccata, tanto per dire, non ce n’è nemmeno una; a Torre Maura un paio, qui una decina. Le banche non aprono dove c’è miseria, aprono là dove anche in tempi di crisi qualche soldo comunque gira.

Insomma, chi ha scelto di abitare a Ponte di Nona aveva delle aspettative, immaginava una vita piacevole e organizzata. E invece a proprio qui sta esplodendo una rabbia che probabilmente è figlia della delusione e di un potente senso di retrocessione sociale. Doveva essere il Mondo Nuovo ed è una mezza schifezza, e questa scoperta ovviamente fa saltare i nervi. “Dovevano aprire tre asili nido”, mi racconta il sacrestano di Santa Teresa di Calcutta, la piccolissima chiesa del quartiere – ma pochi giorni fa è stata piazzata la prima pietra della nuova chiesa, che sarà grande e architettonicamente interessante. “Sono pronti da un sacco di tempo, già si stanno deteriorando, eppure chissà perché li tengono chiusi”. Non va meglio per le scuole superiori: la scuola Ciriello di via Oscar Romero e l’istituto comprensivo di via Gastinelli sono stati chiusi perché mandrie di topi vi scorrazzavano felicemente. Non è bastata nemmeno una prima derattizzazione per risolvere il problema. E le discariche abusive si allargano incontrastate: a via della Cerqueta e sotto il viadotto dell’A24 è un trionfo di rottami e scarti e immondizia d’ogni tipo, tutto abbandonato allegramente, cupamente.

Franco Pirina, revisore contabile, un tempo abitava a Prati, poi si è trasferito da queste parti perché qui i conti gli tornavano meglio: aria pulita, spese contenute, un senso di rinascita individuale e collettiva. Ora Pirina è il leader del Caop, “Coordinamento azioni operative Ponte di Nona”, associazione in prima linea nella denuncia di tutte le magagne del quartiere. “Non è vero che noi organizziamo le ronde, è una brutta parola che non spiega affatto ciò che facciamo: noi teniamo semplicemente gli occhi aperti, giriamo di continuo, controlliamo ogni forma di illegalità e subito la comunichiamo alle forze dell’ordine, alle quali va tutta la nostra solidarietà”, racconta Pirina. “Noi esprimiamo il nostro senso civico, ci impegniamo affinché tutto funzioni meglio”, ripete, e sono belle parole, ma sulla pagina Facebook del Caop si trovano anche alcuni agghiaccianti inviti a farsi giustizia da soli, a far “riposare eternamente” ladri e malfattori, a farla pagare cara a chi sgarra. Il senso civico si storce e a volte inclina verso la resa dei conti.

Il nemico numero uno naturalmente è l’immenso e immondo campo nomadi di via di Salone, a quanto pare il più grande d’Europa. Qui vive in condizioni atroci una grandissima comunità di zingari: le casette prefabbricate sono distrutte, in mezzo al campo scorrono liquami maleodoranti, i bambini giocano nell’immondizia e non vanno a scuola. “Non c’è niente da fare – dice Franco Pirina – loro vogliono continuare a vivere così. Ammettono tranquillamente di stare bene così, nello schifo e nella libertà di fare quello che gli pare. E dal campo ogni giorno partono spedizioni di ladruncoli e di bambini che rovesciano i cassonetti cercando chissà cosa, nel campo si organizza la prostituzione, e ogni settimana da qui si alzano altissime colonne di fumo nero che intossicano tutto il quartiere, perché gli zingari bruciano qualsiasi cosa, copertoni, plastiche, robaccia. Insomma, noi di Ponte di Nona sentiamo il bisogno di difenderci da questa minaccia e da questo degrado”.

A quanto pare è un atteggiamento diffuso in varie zone (ma non in tutte, sia chiaro) della periferia romana: più la crisi morde, più cresce la sensazione di essere abbandonati dallo Stato, di essere in balìa delle forze del male, e così scatta il bisogno di autodifesa e a volte anche di contrattacco violento. Ci sono le banche a Ponte di Nona, è vero, ma aumentano anche i “Compro Oro”, le agenzie per le scommesse sportive e quelle per vendersi la casa, le piccole pizzerie al taglio dove svoltare il pranzo con due soldi. Il futuro spaventa, e ormai anche il presente spaventa, tutto spaventa chi vive sul bordo, tra le luci di un centro commerciale e il buio di un campo nomadi.

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Contro mafiacapitale per riprenderci la città

mafiacapitale

Giovedì 18 Dicembre, nell’aula Amaldi della Facoltà di Fisica de la Sapienza, si è tenuta l’assemblea pubblica “Mafia Capitale e il racket degli ultimi” promossa dalle associazioni Rete della Conoscenza, Libera-Roma , Associazione daSud e Carte in Regola che hanno chiamato a raccolta associazioni, comitati territoriali, movimenti e singoli cittadini affinché si apra una stagione di antimafia autentica che passi attraverso i diritti e la dignità delle persone, soprattutto degli ultimi e degli esclusi.

L’inchiesta “ Mafia Capitale “ ci consegna la fotografia di organizzazione mafiosabasata sul controllo degli appalti pubblici e delle aziende municipalizzate, la cui caratteristica fondamentale è costituita dalle sue relazioni con la politica e con pubblica amministrazione della città di Roma. Rapporto che alterna sistematicamente l’uso della minaccia e della violenza con l’ uso della corruzione.Terzo settore e servizi pubblici essenziali sono questi,infatti in particolare, i due campi d’ azione di Mafia Capitale.

E’ il business sulla pelle degli ultimi. Infatti a pagare i danni di questo sistema mafioso siamo stati, noi, gli abitanti di questa Città; vittime di questo ‘mondo di mezzo’ che ha speculato sulla pelle dei più deboli. Vi è, infatti, un filo che unisce i disservizi delle più grandi aziende municipalizzate della Capitale, il degrado delle periferie e il dramma dei Campi Rom e dei centri di accoglienza.

Reagire alla normalizzazione di questo fenomeno, alla semplificazione e sottovalutazione della politica e della stampa, dire in maniera chiara e forte che nella Capitale esiste un sistema mafioso invasivo, potente che influenza la vita politica e democratica è il primo punto di partenza. Bisogna, infatti, partire dal dare il giusto nome alle cose e, a riguardo, bisogna dire che l’ inchiesta ‘Mondo di Mezzo’ non ci parla di singoli casi di corruzione che hanno colpito alcune mele marce, ma ci consegna la descrizione di una nuova mafia tutta romana. Una mafia che si è alimentata con il silenzio delle classi dirigenti diffuse, con la complicità di tanti, con il vuoto spesso lasciato dalle istituzioni e dalla politica. Un vuoto che ha creato assenza di diritti e marginalità sociale.

E’ necessaria, quindi, una risposta sociale da parte di tutti gli abitanti della Capitale per dire che la Mafia uccide il territorio, accentua le diseguaglianze, saccheggia le risorse pubbliche.

L’assemblea di giovedì scorso all’Università La Sapienza è stato il momento di inizio di un “patto” per una “ Roma senza Mafie”. Tante le organizzazioni, movimenti e comitati di quartiere che hanno partecipato e portato il proprio contributo molte altre le realtà ancora da coinvolgere.

Crediamo sia giunto il momento di ricomporre quel tessuto sociale che questo sistema mafioso ha contribuito a disgregare. Per fare questo è necessario attivarsi, attivare percorsi reali sui territori: quartiere per quartiere, scuola per scuola, in ogni luogo di lavoro, dal centro alle periferie. Un percorso che, come emerso dai diversi interventi durante l’assemblea, non sia solo appannaggio di associazioni e organizzazioni ma nel quale dobbiamo assumere tutti la responsabilità di ricreare luoghi di partecipazione attiva nei quali rivendicare diritti e welfare, proporre pratiche quotidiane di antimafia che abbiano come comune denominatore la giustizia sociale, verso una giornata di mobilitazione cittadina per sabato 7 Febbraio. Una giornata di mobilitazione che non sia momento culmine di questo percorso ma una tappa di passaggio per riprendere parola sulla nostra città, per “riprenderci la città”.




“Così demoliremo via dei Fori imperiali”

Dopo il parere del tavolo degli esperti l’assessore Caudo pronto a abbattere la strada del Ventennio

Qual è il piano del Campidoglio, assessore Caudo?
“Nel disegno urbano, i Fori devono diventare un’area aperta, proprio come afferma l’ex soprintendente La Regina, da vivere prima ancora come cittadini che come turisti. Si deve consentire di realizzare singoli interventi ma dentro un quadro unitario e, infine, si deve stabilire una modalità di coordinamento tra tutti i soggetti interessati, in primis lo Stato e Roma Capitale”.

Ma il Campidoglio è per lo smantellamento della via e la riunificazione degli antichi Fori?
“Certamente. La commissione di esperti ha rimesso in discussione il vincolo monumentale su via dei Fori Imperiali, anche se sulla rimozione della strada mantiene una posizione contraddittoria e restituisce posizioni diverse. Per noi la rimozione dello stradone tra piazza Venezia e largo Corrado Ricci per liberare e dare continuità ai Fori Imperiali non può e non deve più continuare ad essere un tabù. Chiunque, dopo aver visto la bellissima ricostruzione virtuale del Foro di Augusto di Piero Angela, ha maturato la convinzione che non può esserci un nastro di asfalto sopra i Fori. Ed è quanto prevedeva già il Progetto di Leonardo Benevolo e di Francesco Scoppola nel 1988, bisogna ripartire da lì”.

Dunque la via è questa?
“La Commissione scrive che l’area archeologica “va resa più frequentabile e più vissuta dai cittadini, anche solo per la lettura di un giornale o di un libro, per una chiacchierata o per una semplice passeggiata o per il normale attraversamento, accompagnando i bambini a scuola o con le buste della spesa, valorizzando i tracciati esistenti”. E io sottoscrivo in pieno questa tesi, come quella per cui bisogna “evitare ogni forma di separatezza tra la città moderna di Roma, con i suoi bisogni e i suoi problemi, e quella antica””.

Ora serve un progetto definitivo.
“I prossimi mesi, come chiede il sindaco Marino, ci vedranno impegnati a mettere a frutto questo lavoro e ad aggiornare il piano urbanistico complessivo del Progetto Fori, lo faremo e lo discuteremo con il ministero Beni culturali. Bisogna avere il coraggio di un progetto unitario di grande respiro. Sul Colosseo e sulla proposta di ricostruire l’arena non ho elementi per potermi esprimere, mi fido di quanto ha detto La Regina e mi richiamo alla sua prudenza nel valutare le modalità con cui si possono portare avanti interventi in complessi monumentali così delicati. Oltre, ovviamente, all’opportunità di farli”.

Veniamo allo smantellamento di via dei Fori.
“Bisogna rimuovere via dei Fori imperiali fino a largo Corrado Ricci. Un progetto che sono convinto riuscirà a dare ancora corpo alle diverse stratificazioni che l’area ha avuto, compresa quella degli anni ’30, ma che sceglie di ricostituire l’integrità degli spazi dei Fori, assicurando la continuità fra Mercati Traianei, Foro di Traiano, Foro di Augusto, Foro di Nerva, fino al Foro della Pace voluto da Vespasiano. Un progetto che accetta la sfida dell’innovazione e della sperimentazione per disegnare i percorsi, anche a quote archeologiche, tra piazza Venezia e largo Corrado Ricci”.

E poi?
“Bisogna ripristinare le trasversali tra l’area archeologica e la città moderna che gli è cresciuta sopra e intorno. Ad esempio quella che, da piazza Monti, alla Suburra, attraverso via Baccina arriva al Foro di Augusto, lo attraversa e passando dietro il Campidoglio e dopo aver intersecato la via Sacra procede verso il Velabro, il tempio di Vesta e quindi il Tevere e si prolunga fin verso il basamento dell’Aventino con la risalita fino al giardino degli Aranci, per altro da poco ultimata. Una passeggiata unica al mondo, una esperienza urbana senza pari che restituirebbe un senso di cittadinanza a chiunque l’attraversi”.

Come si trasformerà piazza del Colosseo?
“Con la sistemazione di uno spazio pedonale che restituisca il rapporto con le preesistenze archeologiche ridando dignità ad esempio alla Meta sudans dalla quale si misuravano tutte le distanze ai tempi dell’antica Roma. Una sistemazione che superi l’attuale aiuola che “arreda” la piazza, che risolva l’uscita dalla stazione metro Colosseo e indirizzi i flussi pedonali verso l’inizio della via Sacra e, oltre l’arco di Costantino, verso l’ingresso al Palatino”.

E via dei Cerchi?
“Sarà pedonalizzata e si aprirà un accesso al Palatino. Palazzo Rivaldi sarà temporaneamente centro servizi e spazio espositivo in attesa della realizzazione della stazione della Metro C che potrà ospitarne uno più funzionale. Mentre a piazza Venezia, venuto meno il collegamento stradale con via dei Fori Imperiali, si può superare l’attuale sistemazione a rotatoria, che la fa sembrare uno spartitraffico. Ora, dopo i lavori della commissione, possiamo dare corpo al Progetto Fori come previsto dal Prg del 2008 e dare vita all’area archeologica più importante del mondo che sarà il cuore vivo e pulsante di una città millennaria ora estesa su un territorio metropolitano di cui sarà possibile comprendere e apprezzare la modernità e declinarla al futuro”.

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Rifiuti, “sono 33mila le tonnellate di scarti alimentari prodotte durante le festività”

soldi-150x150A rendere noti i numeri dei rifiuti alimentari è Althesys, la società di consulenza ambientale che ha pubblicato il rapporto sui rifiuti e sul riciclo. Marangoni: “La raccolta differenziata è una delle grandi fide del futuro in termini ambientali e economici”

I grandi pranzi e le cene di famiglia hanno un valore aggiunto quantificabile. Il giorno di Natale infatti le tavole imbandite degli italiani hanno prodotto circa 33mila tonnellate di rifiuti. Riciclare nel modo corretto questi scarti agroalimentari ha un valore: ben 3 milioni di euro, circa 10 volte la spesa annua del Comune di Roma per l’acquisto di medicinali e materiale sanitario destinato agli anziani (fonte www.soldipubblici.gov.it). Il bilancio arriva da Was, il think tank sui rifiuti e sul riciclo di Althesys che ha presentato il report di settore.

La raccolta differenziata, spiega l’Amministratore delegato di Althesys Alessandro Marangoni, “rappresenta una delle grandi sfide del futuro, non solo in termini ambientali ma anche sotto il profilo economico”. Basti pensare che tutto il comparto italiano della gestione dei rifiuti e del riciclo fattura oltre 20 miliardi di euro, quanto le energie rinnovabili, più di molti settori manifatturieri tradizionali, come ad esempio il tessile o il vinicolo.

Riciclare nel modo corretto i rifiuti della tavola fa guadagnare tutti noi, parallelamente sprecare cibo ha un costo: in Italia il 3% del consumo di energia è legato agli scarti alimentari, con la stessa energia si potrebbe scaldare e dar luce a oltre un milione e mezzo di italiani.

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Nati ai bordi di periferia

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Paesaggi scialbi, nuovi orizzonti di cemento, spazi. Fisici ma anche mentali. Capacità di trovare nuovi modi per superare, saltare, aggirare gli ostacoli che si trovano quotidianamente davanti, di aprire nuovi percorsi nell’ambiente circostante, di attribuire significati alternativi e senso ai luoghi marginali in cui si vive, di ricercare la bellezza dove manca: è l’immagine perfetta dello spirito di adattamento di una intera generazione nata e cresciuta ai confini delle metropoli, fatti di palazzi moderni, pochi servizi e scarsa manutenzione degli spazi pubblici. Dove mancano possibilità, speranza e futuro.

Descritti ne L’atlante dell’infanzia (a rischio) – Gli orizzonti del possibile, il dossier di Save the Children che fa un viaggio attraverso le città, le strade, i quartieri, le stanze e altri luoghi di vita dell’infanzia, partendo dal presupposto che le città, a seconda della loro conformazione, possono rappresentare o una minaccia per la loro salute oppure una straordinaria occasione di sviluppo. E cioè: la qualità delle abitazioni, la progettazione dei quartieri, la densità e l’allocazione del suolo, l’accesso agli spazi verdi e alle infrastrutture, le aree ricreative, le piste ciclabili, la pulizia dell’aria, l’inquinamento acustico e l’esposizione a sostanze inquinanti influiscono sul benessere dei minori.

Negli ultimi decenni, è cresciuta l’età in cui è permesso stare fuori casa da soli, è diminuita la varietà e la qualità complessiva dei luoghi pubblici nei quali ai bambini è concesso muoversi e sembra aumentare l’insofferenza degli adulti nei confronti dei giochi dei piccoli i quali pagano la scarsità degli spazi ludici con l’assenza di “occasioni di gioco libero, auto-governato e non gestito da adulti e da essi finalizzato”.

Deficitarie di parchi e giardini, piste ciclabili e aree pedonali, più presenti al Nord che al Centro-sud, le città offrono la strada come unico spazio possibile, sebbene, da un lato favorisca, appunto, la mobilità del bambino, dall’altro ne configura il suo filo spinato con effetti preoccupanti sulla salute. Il divieto di giocare in strada, infatti, ne limita l’autonomia, la possibilità di trovare nuovi amici, di sperimentare l’avventura e di attivare processi di crescita.

Così, la contrazione degli spazi dedicati mantiene in auge le classiche attività praticate nei vicoli, tipo nascondino, acchiapparella, mosca cieca, campana, il gioco dell’elastico, biglie, pallavolo. Gli ascensori delle palazzine delle periferie, i carrelli dei centri commerciali adiacenti sono stati introdotti nel repertorio delle cose con cui giocare per riscattare il nulla che li circonda. E le attività sulla strada sono sempre più destrutturate, non basate sul risultato ma aperte alla creatività e al valore del lavoro di gruppo. In questi contesti, però, gli operatori osservano la “precoce perdita della dimensione infantile e della sua necessaria spensieratezza” e la “contrazione dei tempi dell’adolescenza”.

Crescere in contesti di marginalità urbana e disuguaglianza spaziale vuol dire partire da una oggettiva condizione di svantaggio: riduce gli spazi dei bambini di incontro con il mondo, le possibilità di apprendimento, le occasioni di nutrimento culturale e sociale. E in seguito al graduale processo di allontanamento dagli spazi pubblici e dalla strada, le case sono diventate, per la prima volta nella storia, il più importante habitat dell’infanzia, oltreché un potente indicatore di salute.

Settecento mila bambini vivono in appartamenti poco luminosi, un milione e trecentomila in abitazioni con problemi di sovraffollamento (per Eurostat, quando più di due bambini sotto i dodici anni o due adolescenti di sesso diverso, si trovano a dover condividere un’unica stanza), due milione e duecentomila in case umide, con tracce di muffa sulle pareti e sotto soffitti che sgocciolano. Le conseguenze, oltre che fisiche, sui minori che vivono negli alloggi situati nelle aree marginali delle città sono psichici: pochi arredi, ripetitivi e carenti per forma e varietà di colore, che dovrebbero avere un senso, invece, “sottraggono loro opportunità di manipolare e organizzare le proprietà visive dell’ambiente e di strutturare percettivamente e discriminare le sfumature di quel dato ambiente”.

Tanto più che lo spazio dove si cresce non è mai neutro, può, appunto, avere un ruolo di sviluppo oppure essere un potente fattore regressivo. Anche perché i bambini attribuiscono un’importanza strategica ai luoghi in quanto spazi di rapporto con gli adulti e con le proprie possibilità più intime, diventando lo spazio sociale necessario in cui affermare la propria identità. “C’è qualcosa che permea la polis, le famiglie e la scuola insieme: tutti sembrano incapaci di trovare modi di una presenza adulta non ingerente, discreta, che lasci a sé senza abbandonare”, ha detto Mario Rossi Doria, maestro di strada, che di politiche educative e insegnamento in quartieri difficili ne ha un certa infarinatura.

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“Natale salvacibo”, le cene con gli avanzi in programma a Torino

imagesEco dalle Città vi segnala alcuni appuntamenti con le associazioni e gruppi del capoluogo piemontese che festeggeranno mettendo in pratica buone azioni per evitare sprechi alimentari

Natale è ormai alle porte e molti si accingono a preparare grandi pranzi e cenoni per le principali giornate di festa. Come ogni anno, nelle cucine di case, bar e ristoranti, avanzerà sicuramente molto cibo ed è importante sapere che c’è chi si organizza e si attiva perché non vada sprecato. Torino, ad esempio, non si fa trovare impreparata. Eco dalle Città vi segnala alcuni appuntamenti con le associazioni e gruppi cittadini che festeggeranno mettendo in pratica buone azioni per evitare sprechi alimentari.

Partiamo con la cena “Non sprecare il tuo Natale” che l’associazione Culturale Radio Banda Larga organizza a La Vetreria, in corso Regina Margherita 27, il giorno di Natale. A partire dalle 20.30, infatti, chiunque può partecipare ad una serata all’insegna della condivisione di pietanze e cibi avanzati dal pranzo e che sarebbe utile e eticamente corretto non sprecare gettandolo nella spazzutura. “L’idea si rifà all’esperienza di quest’estate, quando con le Sentinelle dei Rifiuti è stato organizzato un banchetto al Bunker con il cibo recuperato dai volontari – spiega Lorenzo Ricca dell’associazione Radio Banda Larga”.
Si tratta di una serata all’insegna dello scambio e, allo stesso tempo, di raccolta fondi per sostenere l’Associazione culturale. “Si viaggia tra le cucine di tutti i presenti, si assaggiano tradizioni differenti e ci si scambia ricette”. Così l’evento anti-spreco a La Vetreria suggerisce un’alternativa sostenibile su come trascorrere la giornata all’insegna della condivisione.

E si rimane in tema di condivisione con la cena organizzata per il giorno successivo, il 26 dicembre, presso l’Associazione Il tuo Parco. Tra cibo avanzati dai grandi pranzi e cene e tombolata con regali che si desidera donare ad altri, l’associazione propone dunque un momento di incontro con i cittadini che abbiano voglia di sperimentare in concreto azioni contro lo spreco alimentare del periodo natalizio. L’appuntamento è al Tuo Parco in viale Michelotti 166, angolo via san Sebastiano Po (l’entrata è su questa via) alle ore 19.00.

Sarà proprio qui che entrerà in azione uno dei gruppi torinesi che alla condivisione di cibo scartati deve la sua nascita. Il gruppo Foodsharing che ormai da quest’estate è attivo con iniziative di recupero da ristoranti, contadini e semplici cittadini, con il fine di trasformare il cibo non solo in nuove pietanze ma anche in un momento di incontro tra persone accomunate dalla stessa sensibilità al tema del donare all’altro il cibo recuperato.

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Stadio della Roma. Ottima notizia per la città, meno per il Municipio XI‏

L’Assemblea capitolina ha dato il via libera definitivo alla delibera sulla dichiarazione di pubblico interesse dello Stadio della Roma concretizzando un percorso durato oltre sei mesi, importante per la città e per i tifosi, che attrae investimenti privati importanti che si tradurranno in un impiantistica all’avanguardia, in una serie di opere pubbliche strategiche per la città e nella rigenerazione di un’area degradata; per il Municipio XI il bicchiere è mezzo pieno in quanto non vengono recepite tutte le richieste fatte, in particolare il prolungamento della Metro B, oltre il Tevere sino alla fermata Muratella della FL1– Lo dichiara Emanuela Mino, Presidente del Consiglio del Municipio XI.

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Il prolungamento della Metro B avrebbe collegato il nostro Municipio alla linea metropolitana e posto le basi, in un’ottica di programmazione più ampia, per un collegamento con Corviale; per la città, avrebbe garantito l’accesso su ferro all’area di Tor di Valle non solo dal centro (com’è attualmente previsto) ma anche dalla periferia, dall’aeroporto di Fiumicino e dal Polo fieristico, con notevoli ricadute economiche e in termini di mobilità sostenibile.
Quello che invece viene recepito, a seguito delle richieste del Municipio XI, è la realizzazione del ponte pedonale che collegherà la Stazione FL1 Magliana con il Parco fluviale previsto nell’area di Tor Di Valle e l’ampliamento del sottovia ferroviario di via L. Dasti (Ospedale S. Giovanni Battista) e la viabilità circostante, anche questa opera da tempo attesa che speriamo possa essere finalmente realizzata, e lo svincolo di connessione con la Roma Fiumicino che avrà anch’esso ricadute nel nostro territorio.

 E’ di 319,4 milioni il valoro complessivo dell’investimento per lo Stadio della Roma, di cui 195 milioni in opere pubbliche: 93,7 milioni per la viabilità tra la Roma-Fiumicino e la via Ostiense/via del Mare, unite sino al GRA con un investimento di 38,6 milioni; altri 50 milioni per il prolungamento della Metro B da Magliana a Tor di Valle e 5 milioni per la mitigazione del rischio idrogeologico; 15 milioni per la realizzazione del nuovo Parco sul Tevere e per tutta l’area che sarà video sorvegliata ed illuminata per garantirne la sicurezza; infine la realizzazione in periferia di sei strutture sportive. Ora la palla, è veramente il caso di dire, passa al Consiglio Regionale del Lazio, che entro sei mesi dovrà dare il proprio parere. Al di là di tutto, questo rimane un successo del Sindaco che riesce a portare a Roma investimenti stranieri che, oltre a dotare la città di importanti opere pubbliche ed infrastrutture costituiranno anche uno dei volani per l’economia locale grazie agli oltre 3000 posti di lavoro che si creeranno con i cantieri, con l’indotto e con l’attività in esercizio dell’impianto.

 




Contro le mafie: legalità, legalitarismo e disobbedienza civile

L’azione di contrasto alle mafie ha bisogno congiuntamente di legalità, legalitarismo e disobbedienza civile. Ognuna di queste parole rappresenta concetti diversi e distinti ma, tenute insieme, possono contribuire a un vero e proprio programma di iniziative concrete per liberarci dalle mafie.

La legalità è uno dei principi che caratterizzano lo Stato di diritto ed esprime l’idea che ogni attività dei pubblici poteri debba trovare fondamento in una legge. Le norme possono disciplinare una certa discrezionalità entro cui la pubblica amministrazione si può muovere. Ma se si oltrepassano gli spazi di discrezionalità consentiti dalla legge si cade nell’arbitrio. E l’arbitrio, il favoritismo, il clientelismo  creano malgoverno e non governo, sottraggono risorse pubbliche ad un loro utilizzo efficiente, comprimono i diritti civili e sociali dei cittadini e favoriscono la corruzione e il malaffare,  in cui si annidano e prosperano le mafie. Battersi per la legalità è, dunque, esigere che i pubblici poteri agiscano nel rispetto della legge e non già in modo arbitrario. E, nello stesso tempo, promuovere ogni forma di collaborazione tra istituzioni e cittadini per denunciare qualsiasi atto illegale e favorire così il rispetto della legge.

Il legalitarismo è, invece, una concezione etico-politica generalmente professata da partiti e movimenti politici  che, prefiggendosi radicali e profonde riforme di carattere economico e sociale, cercano di realizzarle attraverso un confronto democratico nelle istituzioni e nella società anziché ricorrendo a metodi e mezzi violenti. Essere legalitari significa, dunque, raggiungere i propri fini politici di giustizia sociale con gli strumenti della democrazia e non imponendoli con la violenza.

Infine, il concetto di disobbedienza civile o di obiezione di coscienza risponde alla domanda: è giusto disobbedire alle leggi ingiuste? Un contributo originale volto ad approfondire questo tema è stato fornito da don Lorenzo Milani nella famosa Lettera ai giudici. Nel 1965 il priore di Barbiana scrive la Risposta ai cappellani militari che avevano sottoscritto un ordine del giorno in cui «considera(va)no un insulto alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta obiezione di coscienza che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà».  Avendo difeso gli obiettori, don Milani viene denunciato da un gruppo di ex combattenti per apologia di reato. Durante il processo, egli scrive la Lettera ai giudici in cui affronta il tema dal punto di vista laico e civile che qui ci interessa.

Don Milani parte dal principio che le leggi vanno amate perché il loro rispetto da parte di tutti è alla base degli ordinamenti democratici e della convivenza civile. Ma aggiunge di non poter dire ai suoi allievi «che l’unico modo d’amare la legge è d’obbedirla». Perché? «Posso solo dir loro – continua – che essi dovranno tenere in tale onore le leggi da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate».

Fin qui non c’è ancora il tema della disobbedienza civile. C’è l’incitamento a battersi per cambiare le leggi quando sono ingiuste, cioè quando permettono ai forti di vessare i deboli. E la lotta per cambiarle non fa venir meno la tensione morale per osservarle. Ma il testo continua così: «La leva ufficiale per cambiare le leggi è il voto. Ma la leva vera è influire con la parola e con l’esempio sugli altri votanti. E quando è l’ora non c’è scuola più grande che pagare di persona un’obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza  che è cattiva e accettare la pena che essa prevede».

La disobbedienza civile è, dunque, per don Milani un atto educativo («…non c’è scuola più grande…»), un atto di testimonianza, un modo per pagare di persona (davvero e non per finta!) la pena prevista per aver violato una legge ingiusta. «Chi paga di persona – precisa il sacerdote – testimonia che vuole la legge migliore, cioè che ama la legge più degli altri».

Come si può chiaramente notare, nella concezione di don Milani riguardo alla disobbedienza civile non c’è alcunché di anarchico ma «un amore costruttivo per la legge» (sono parole sue). Si potrebbe dire che nel suo pensiero il concetto di legalità è declinato fino alle estreme conseguenze: battersi per migliorare le leggi fino a renderle giuste mediante atti concreti che comportino anche il sacrificio di pagare di persona per la violazione di norme ingiuste. Per l’educatore di Barbiana è in questo modo che si formano cittadini consapevoli e responsabili e classi dirigenti capaci di mettere l’interesse generale innanzi ad ogni tornaconto personale o di gruppo.

Cosa può significare tutto questo nella lotta alle mafie?

Promuovere la legalità, cioè battersi perché i pubblici poteri osservino le leggi. Le mafie si diffondono quando la discrezionalità delle pubbliche amministrazioni esorbita dalle norme legali e diventa arbitrio. E nell’arbitrio pullulano la corruzione e il malaffare. Diventa, quindi, necessaria una mobilitazione per scovare ogni forma di illegalità, sopruso, prepotenza, favoritismo, clientelismo che si consuma nelle istituzioni a danno dei cittadini e combattere tali comportamenti a viso aperto e con tutti i mezzi legali e non violenti, dalla denuncia all’azione penale. La mobilitazione per la legalità è, al contempo, conflittuale e collaborativa. Ed è legalitaria perché si svolge nelle regole democratiche senza alcun uso della violenza.

Battersi per cambiare le leggi quando negano i diritti dei più deboli fino al punto di disobbedire alle norme che la propria coscienza reputa ingiuste, ma accettando di buon grado la pena prevista per chi le viola. Guai a venire a patti coi pubblici poteri per ottenere l’impunità mediante un atto d’arbitrio o un favore di chi è tenuto a far osservare le leggi che si violano. La lotta per la giustizia sociale scadrebbe in collusione con chi, nella pubblica amministrazione, invece di applicare le leggi agisce in modo arbitrario e clientelare. La testimonianza è efficace, cioè muove altri ad agire per il cambiamento, se la mobilitazione sociale non provoca soprusi o favoritismi da parte dei pubblici poteri e se non assume il significato di scardinare l’ordinamento ma di migliorarlo mediante un’azione legalitaria, ossia non violenta, e che porta a pagare di persona l’obiezione di coscienza.

Si toglie acqua di coltura al proliferare delle mafie se maturano la consapevolezza e la responsabilità degli individui e dei gruppi, se crescono i diritti sociali e civili delle persone, se aumentano le occasioni di lavoro mettendo a frutto risorse pubbliche e private, se migliorano la qualità e l’efficienza delle istituzioni pubbliche. È questo il senso della legalità che dovremmo sempre più accogliere nel nostro modo di essere e di pensare per contrastare le mafie.
19marcia-legalita-acerra-16-marzo-2010




Mafia capitale e il racket degli ultimi

Roma, alle ore 17, presso la Città universitaria de “La Sapienza”  assemblea pubblica “Mafia capitale e il racket degli ultimi –  per un Patto per Roma verso una grande mobilitazione cittadina contro i clan”

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