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Rammendo delle periferie al centro del convegno di Fondazione Italcementi

“Rammendo e rigenerazione urbana per il nuovo Rinascimento” è il titolo del convegno promosso dalla Fondazione Italcementi in programma il prossimo 24 gennaio alla Fiera di Bergamo.

“Siamo un Paese straordinario e bellissimo, ma allo stesso tempo molto fragile. È fragile il paesaggio e sono fragili le città, in particolare le periferie. Ma sono proprio le periferie la città del futuro, quella dove si concentra l’energia umana e quella che lasceremo in eredità ai nostri figli. C’è bisogno di una gigantesca opera di rammendo e ci vogliono delle idee”.

(Renzo Piano)

È da queste considerazioni – e da un manifesto dell’architetto e Senatore Renzo Piano (leggi qui), che sarà presentato in anteprima in occasione del Convegno – che prende avvio l’appuntamento annuale della Fondazione Italcementi, chiamando alcuni dei protagonisti dell’impegno di analisi, progettazione e attuazione di politiche e iniziative volte a rigenerare le città e valorizzare le periferie urbane, a discutere e stimolare quella visione necessaria a innescare il nuovo Rinascimento, capace di ridefinire il tessuto delle città e di includere quelle classi sociali che attualmente vivono in modo conflittuale il processo di urbanizzazione.

Partendo dal contributo video di Renzo Piano, architetto e senatore a vita, approfondiranno il tema: Mario Cucinella, Architetto, Silvano Petrosino, Filosofo e Professore Università Cattolica, Emanuela Casti, Professore Ordinario di Geografia Università di Bergamo, Geminello Alvi, scrittore ed economista, Francesco Daveri, Economista ed editorialista del Corriere della Sera, Aldo Mazzocco, Amministratore Delegato di Beni Stabili, Giorgio Gori, Sindaco di Bergamo, Michele Molè, fondatore e direttore creativo Nemesi & Partners, progettista di Padiglione Italia, nell’ambito di un dibattito coordinato da Walter Mariotti, giornalista.

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La rabbia dell’Italia senza casa

Riaccesa dalla crisi e dal mancato rinnovo del blocco degli sfratti da parte del governo, la tensione cresce soprattutto nelle città. Colpa anche della grande contraddizione tra le tante famiglie che si trovano prive di un tetto e le decine di migliaia di appartamenti pubblici non ancora assegnati ai quali si aggiungono quelli privati rimasti vuoti o invenduti. Da qui la ripresa delle occupazioni e delle proteste

Edifici sfitti e occupazioni, il paradosso italianodi LUISA GRION

ROMA – Un paese di case in proprietà, ma anche di sfratti e occupazioni abusive. L’80 per cento degli italiani è padrone delle quattro mura in cui abita, ma per chi un tetto non ce l’ha trovarne uno può diventare un incubo. La crisi economica ha visto esplodere l’emergenza abitativa, aggravata dalla mancanza decennale di una politica dell’abitare. L’ultimo corposo intervento pubblico è stato quello avviato nel dopoguerra e arrivato fino agli anni Sessanta: le cosiddette “case Fanfani”, costruite per dare una abitazione alle famiglie a basso reddito. Poi dagli anni del boom dell’edilizia privata e dei piani regolatori spregiudicati si è arrivati a quelli, attuali, dell’invenduto. Da una parte sono crollate le compravendite, dall’altra la perdita di redditi ha fatto lievitare il tasso di morosità degli inquilini.
Niente blocco. Oggi un pezzo del Paese è a rischio: per la prima volta dopo oltre trent’anni la legge di Stabilità varata a fine dicembre non ha rinnovato il blocco degli sfratti per finita locazione. Un diritto riconosciuto ai nuclei familiari con determinati limiti di reddito (27mila euro lordi l’anno) e con a carico persone malate, minori o anziani. L’ultima proroga è scaduta a fine anno, fra l’esultanza di Confedilizia – l’associazione dei proprietari che chiede al governo di non scaricare sui privati il problema abitativo – e la disperazione dei sindacati degli inquilini, secondo i quali ci sono fra le 30 e le 50mila famiglie a rischio. Non esistono cifre ufficiali invece per l’altro tragico effetto dell’emergenza abitativa: quella degli immobili violati e occupati. Fenomeno che riguarda soprattutto le case popolari (stime parziali parlano di 15mila illeciti solo fra Roma e Milano), dove si entra abusivamente approfittando di una momentanea assenza del legittino inquilino o per le quali si punta ad una sanatoria (o al comodato, come avvenuto a Parma tra mille polemiche), contando sulle lentezze dei bandi comunali che ne determineranno le assegnazioni e la vendita.

I dati sugli sfratti. Sugli sfratti il Codacons tiene i conti aggiornati: “Nel 2013 sono stati 31.399, con un incremento del 7,7 per cento rispetto all’anno precedente. Negli ultimi 5 anni il totale ha raggiunto quota 332.169, di cui 288.934 per morosità. E nel 2014 il ritmo è proseguito a circa 150 sfratti al giorno”. La mancata proroga rischia devastanti effetti sociali, annunciano le associazioni degli inquilini e i comuni sono d’accordo. Ma il governo assicura di non voler tornare indietro. Palazzo Chigi snocciola gli investimenti stanziati nell’ultimo anno sul settore e messi in fila in quel Piano Casa operativo, sulla carta, dal maggio scorso, ma di fatto lì rimasto in buona parte. Si tratta di 200 milioni per un fondo di sostegno alla locazione e 266 per la morosità incolpevole destinati a chi, per via della crisi, si trova in difficoltà economiche temporanee. Più 400 milioni volti alle ristrutturazione delle case popolari. Il viceministro alle Infrastrutture Riccardo Nencini parla di “19 provvedimenti per un totale di 2,3 miliardi” e assicura che ciò permetterà ai Comuni di cavarsela senza ricorrere al blocco.

Sfratti richiesti (*) Sfratti eseguiti (**)
Totale Variaz.% Totale Variaz.%
2007 109.446 8,55 22.468 0,85
2008 139.193 27,18 25.108 11,75
2009 116.573 -16,25 27.584 9,86
2010 111.260 -4,56 29.889 8,36
2011 123.914 11,37 28.641 -4,18
2012 126.852 2,37 29.154 1,79
2013 129.577 2,15 31.399 7,70
(*) Domande presentate all’Ufficiale Giudiziario
(**) Con l’intervento dell’Ufficiale Giudiziario

fonte: Ministero Interni

Pubblico e privato poca chiarezza. Il fatto è che, sempre ammesso che i soldi entrino in tempo nelle loro casse, ed emergenza sfratti a parte, il problema abitativo resta tutto da risolvere: sia nel settore privato, dove le case restano vuote e gli affitti languono, che nel settore pubblico, dove i meccanismi di assegnazione sono poco chiari. Per Guido Piran, segretario generale del Sicet, sindacato degli inquilini, l’emergenza attuale si risolve solo rilanciando l’edilizia pubblica e ristrutturando in primis il patrimionio esistente. “Ma l’edilizia pubblica, come la sanità, costa”. La gravità attuale, assicura, “nasce dal fatto che gli affitti privati sono troppo alti e la locazione concordata non esiste più. Puntare sul taglio delle tasse a carico del locatore, la famosa cedolare secca, è stato un errore. Quella misura non ha funzionato, non ha prodotto una riduzione degli affitti”. Quanto all’edilizia pubblica, per Piran è essenziale “ridefinire la norma di alloggio sociale: oggi è equivoca. Serve una legge quadro sull’edilizia pubblica che chiarisca chi ha diritto ad usufruirne e in base a quali criteri: ora ogni Regione va per proprio conto, decide da sola anche i limiti di reddito e le iniquità sono evidenti”. E soprattutto servono più risorse: “Vanno coinvolti i privati, va studiata una politica fiscale d’appoggio, ma le cifre di cui parla il governo arrivano tardi e coprono più anni. In Europa si fa molto di più, il solo Regno Unito spende 2 miliardi di sterline l’anno”.

A Roma a caccia di morosi con un softwaredi MARIO REGGIO

ROMA – Più di 71mila appartamenti. Oltre 220mila abitanti, più dei 200mila residenti a Trieste. Quarantasettemila gestiti dall’Ater, l’ex Istituto autonomo case popolari, 23mila direttamente dal Campidoglio che ha anche il compito di esaminare le domande di assegnazione di una casa popolare ed autorizzarne l’assegnazione. Una lista d’attesa che ha raggiunto quota 30mila. Ma non basta. Tremila e 500 famiglie sono parcheggiate nei residence, con grande soddisfazione economica per i proprietari privati. Intanto, sui residence, sta indagando la Procura di Roma perché sugli appalti aveva messo le mani l’allegra compagnia di Buzzi e compagni.
E all’assessorato alle Politiche abitative del Comune di Roma, dopo le dimissioni di Daniele Ozzimo, indagato nell’inchiesta Mafia Capitale, non c’è alcuna voglia di parlare. Ma qualcosa riesce a filtrare lo stesso: “Il governo non ha ripresentato il decreto di blocco degli sfratti – dice un dirigente che chiede di restare anonimo – ma la questione riguarda solo i contratti scaduti per fine locazione, ergo sono esclusi quelli di morosità e non sono ovviamente coinvolti gli enti che gestiscono le case popolari. Per Roma parliamo di alcune migliaia di famiglie che si aggiungeranno a quelle già in lista attesa. Al momento il Comune di Roma non è in grado di gestire questa situazione drammatica. Un esempio concreto: su 10 casi segnalati dagli assistenti sociali, che riguardano soprattutto i “nuovi poveri”, solo uno viene risolto. Senza contare le famiglie che vivono nei residence, una scelta che dovrebbe essere provvisoria e che invece è diventata endemica con costi di milioni di euro per Roma Capitale”.
Come uscire dall’emergenza. “L’emergenza abitativa è una condizione strutturale dal dopoguerra – rispone Daniel Modigliani, commissario straordinario dell’Ater – ma sono contrario al suo uso strumentale, mantenere l’emergenza fa comodo sia alla politica che agli utenti. Manca e servirebbe una ricognizione puntuale dei numeri e delle emergenze, per programmare una concreta politica abitativa. Faccio un esempio. La domanda di alloggi è cambiata: servono tipologie di immobili più piccole rispetto al passato, mentre sono cambiati i nuclei familiari che sono aumentati ed hanno meno componenti”.
E con l’emergenza non si ferma il mercato clandestino. Nel 2013 ottocento persone sono state denunciate per occupazione abusiva di alloggio. E ogni anno centinaia di case passano di mano in maniera abusiva, subaffittate o vendute. Negli anni passati andava di moda il passaparola, oggi con internet è cambiato tutto. È cresciuto e si è consolidato un racket che entra in azione quando una famiglia si assenta per qualche settimana. Basta un click e la casa viene venduta dopo aver sostituito la serratura. Sono lontani i tempi di Cristiana Petriacci, alias “la padrona di Testaccio”, finita poi in carcere con l’accusa di estorsione e truffa per aver gestito la compravendita di immobili dell’Ater. La signora si avvaleva di un esperto del settore, più noto come “Er tapparella”, in grado di entrare negli appartamenti vuoti passando dalla finestra o dal balcone.
I numeri dell’Ater. Un po’ di storia. L’Istituto Case Popolari nasce nel 1903, sindaco di Roma il principe Prospero Colonna. Nel 1928 diventa Istituto Autonomo Case Popolari. Nel 2002 si trasforma nell’azienda territoriale edilizia residenziale pubblica del comune di Roma. La proprietà è della regione Lazio. Il suo patrimonio è valutato attorno a 10 miliardi di euro e comprende: 47.674 alloggi, 3.126 locali, 27.905 cantine, 147 terreni e 159 cartelloni. I dipendenti sono 482. Nel 2013 ha incassato 23 milioni di euro dagli affitti, mentre il 24,2 per cento degli inquilini risulta moroso. Mancano all’appello 7 milioni e 386 mila euro. Malgrado tutto, i conti dell’Ater non vanno poi così male. Dopo anni di perenne deficit, nel 2013 il conto economico ha registrato un avanzo di oltre 7 milioni di euro. “Abbiamo scoperto che i bilanci degli ultimi anni non erano mai stati approvati – afferma Claudio Rosi, direttore generale dall’ottobre del 2013 – dopo un lungo periodo di sonno profondo, l’Ater comincia a marciare”. E snocciola una serie di progetti.

L’azienda ha presentato alla Regione Lazio un programma quadriennale per la costruzione di 651 nuovi alloggi con un costo complessivo di 84 milioni di euro. E sulla manutenzione ci sono 18 gare d’appalto per 40 milioni di euro. Ma l’asso nella manica dell’Ater è la nuova piattaforma informatica per la gestione del patrimonio immobiliare che è collegata con la Guardia di Finanza. Il programma è stato “girato” a Roma Capitale, l’azienda casa della Provincia di Torino, di Trieste e Bologna. “Grazie alla piattaforma informatica – conclude Rosi – stiamo recuperando la morosità e siamo arrivati a incassare, assieme ai proventi che derivano dagli affitti e dai servizi, circa 130 milioni di euro”. E dopo anni di vacche magre sono in arrivo dalla Regione Lazio 19 milioni di euro per la manutenzione di Corviale, il serpentone sulla via Portuense.

Tor Sapienza e San Basilio. L’anello stradale che circonda Tor Sapienza si chiama via Giorgio Morandi. All’intero, il grande quadrilatero delle case popolari. Nei 504 appartamenti abitano quasi duemila persone. Poi ci sono gli abusivi, cioè gli occupanti. Lungo il cortile interno un serpente ad un piano di quelli che avrebbero dovuto essere i negozi. Ci hanno provato, ma poi Auchan e Carrefour, che sorgono a poca distanza, hanno massacrato qualsiasi attività. Ergo, i locali sono stati occupati da famiglie al limite della povertà ed immigrati e rom. Impossibile entrare in questo girone infernale. A parte il buio la risposta è sempre la stessa: “Niente domande, andate via…..”. Altro caso esemplare è quello di San Basilio. Qui la storia è diversa dalle altre. Primi anni 70. Il governo Fanfani decide di varare un robusto piano di edilizia popolare. E proprio a San Basilio sorgono come funghi i quadrilateri delle case popolari. Partono le occupazioni. Nel settembre del ’74 la questura decide lo sgombero di 150 famiglie. Un gigantesco spiegamento di poliziotti inizia le operazioni. Il quartiere scende in piazza. La polizia si ritira. L’8 settembre torna in forze. Fabrizio Ceruso, 18 anni, perde la vita colpito da un proiettile di pistola. Da tutta la città arrivano migliaia di manifestanti, la polizia ingaggia una battaglia senza esclusione di colpi, ma San Basilio non cede. Oggi è tutta un’altra storia. A San Basilio vivono 3 mila e 400 famiglie nelle case popolari più le 700 che hanno occupato gli alloggi ma hanno beneficiato della sanatoria. Oggi il verde è aumentato, campeggiano quattro murales uno dei quali dedicato a San Basilio e a Fabrizio Ceruso. Per il resto si tira avanti. “Gli spacciatori ci sono anche ai Parioli…. ognuno di noi ha i suoi problemi, come tutti…”

Alloggi occupati sul totale degli alloggi gestiti (percentuale)
2001 2003 2004 2006 2008 2011
Nord 1.4 0.4 0.9 1.5 1.8 1.3
Centro 5.1 6.0 5.1 5.5 8.3 9.7
Sud 11.0 10.0 9.9 7.4 8.6 10.4
Italia 5.5 4.9 5.0 4.4 5.5 5.9
fonte: Ufficio studi e statistica Federcasa

L’esistenza stravolta di chi subisce lo sfrattodi MARIA ELENA SCANDALIATO

MILANO – “Bisogna viverlo, per capire”. È questa la premessa che fa ogni famiglia sfrattata, prima di iniziare a raccontare la sua esperienza. Perché essere sbattuti fuori casa è anzitutto un trauma. Soprattutto per i bambini, le cui certezze – scuola, amici, quartiere  – vengono polverizzate in pochi istanti da uno sconosciuto ufficiale giudiziario.
Siamo andati nel residence sociale “Aldo dice 26×1”, a Sesto San Giovanni; un enorme stabile dell’Alitalia occupato da diversi comitati per la casa, dove trovano alloggio quasi cento inquilini, di cui una trentina bambini. Si tratta di famiglie in emergenza abitativa, che hanno subito uno sfratto e che magari sono da anni nelle liste dell’Aler, in attesa di ricevere una casa popolare. Le loro storie si assomigliano molto: iniziano tutte con un affitto di sei-settecento euro al mese e un lavoro a basso reddito che all’improvviso viene meno. A quel punto diventa impossibile continuare a pagare e i debiti si accumulano per mesi. Fino all’arrivo dello sfratto, che tutti pensano di procrastinare, ma che alla fine bussa puntuale alla porta di casa, costringendo gli inquilini a prendere quel che possono e a lasciare l’alloggio immediatamente.  

Nel 2014 Milano ha registrato oltre 13mila richieste di sfratto esecutivo: 4mila per finita locazione, il resto per morosità. A pagarne le spese sono soprattutto i bambini, i cui bisogni vengono pressoché ignorati. Ahmed è stato sfrattato a marzo e si è rivolto subito al Comune di Milano in cerca di una soluzione d’emergenza. Non tanto per sé e sua moglie, quanto per i suoi figli di nove e undici anni che il giorno dopo dovevano andare a scuola: “Mi hanno detto di arrangiarmi. Sono riuscito a pagare un albergo per una settimana, e poi sono andato alla Caritas. Alla fine un consigliere di zona mi ha suggerito di venire qui, in questo residence. È un posto occupato, ma almeno i miei figli hanno un tetto sulla testa”.
Senza Caritas e comitati i figli di Ahmed, come quelli di molte altre famiglie, sarebbero rimasti in mezzo alla strada. Non solo a marzo, ma anche nel freddo invernale. “Alle famiglie con minori vengono offerte quasi sempre delle soluzioni alternative – afferma Pierfrancesco Majorino, assessore alle Politiche Sociali del comune di Milano – sono pochissimi i casi di persone che dormono in macchina”. In effetti, una donna cui è stata proposta una soluzione alternativa l’abbiamo incontrata: si chiama Francesca e ha tre figli di sette, quattordici e sedici anni. Quando è stata sfrattata il Comune ha offerto a lei e alla sua bambina più piccola un posto in una comunità protetta, dove sono ospitate madri con minori vittime di violenza. Purtroppo, però, questa comunità si trova in un paesino della provincia di Asti, decisamente lontano da Milano. I due figli più grandi, che il comune avrebbe destinato a una struttura per adolescenti chissà dove, alla fine sono andati a stare con la nonna, a Monza. La famiglia, quindi, è divisa da più di un anno e lo resterà finché a Francesca non sarà assegnato un alloggio Aler. “È un’esperienza dura, perché gli altri bambini della comunità hanno dei problemi molto seri e mia figlia non c’entra niente con loro”, racconta Francesca. “Mangiamo solo pollo e riso, tutti i giorni. E in quel paesino non posso certo cercare lavoro. Per guadagnare qualche soldo e dare a mia figlia del cibo diverso faccio dei lavoretti per le educatrici della comunità. Stiro i loro abiti, lavo la loro auto… Cose così, per avere qualche soldo in tasca”.

Anno Provvedimenti di sfratto emessi
Necessità locatore Finita locazione Morosità / Altra causa Totale Variaz.%
2007 674 9.236 33.959 43.869 -3,64
2008 539 10.549 41.203 52.291 19,20
2009 700 9.208 51.576 61.484 17,58
2010 900 8.495 56.269 65.664 6,80
2011 832 7.471 55.543 63.846 -2,77
2012 1.174 6.640 62.501 70.315 10,13
2013 2.659 5.424 65.302 73.385 4,37
fonte: Ministero Interni

Senza contare la distanza dagli altri figli. “Se penso che il Comune di Milano spende 4500 euro al mese per tenerci lì, mi viene da piangere. Se avessero dato a me quei soldi, avrei risolto tutti i miei problemi”. E qui scopriamo i “numeri” di questo sistema emergenziale, poco efficiente ma costosissimo. Il Comune di Milano, nel 2012, ha inserito in comunità 404 minori accompagnati dalle madri, e 844 minori soli; per farlo, ha speso ben 30 milioni e 661mila euro. Cifra che nel 2013 è salita a 32 milioni. Somme da capogiro, con le quali si sarebbe potuto fare ben altro, soprattutto per le famiglie sfrattate. Un budget che, d’altronde, lo stesso Majorino intende ridimensionare: “Abbiamo avviato il progetto della residenzialità sociale temporanea, con cui daremo a mille persone, ogni anno, uno sfogo abitativo di emergenza”. Il progetto dovrebbe partire nel 2015. Ad oggi, però, il Comune continua a spendere tra i 70 e i 90 euro al giorno solo per collocare in comunità un minore sfrattato. Cifra che raddoppia in presenza della madre.

Il flop dei centri d’emergenza di Milanodi MARIA ELENA SCANDALIATO

MILANO – L’emergenza abitativa, però, non riguarda solo gli sfrattati, ma anche i Rom sgomberati dai campi e gli occupanti colti in flagranza di reato. Lo scorso novembre, infatti, Comune e Prefettura hanno siglato un patto contro le occupazioni abusive da cui è nata una task force di pronto intervento. Tutto parte dalle segnalazioni dei cittadini, che possono chiamare il 112 per denunciare ogni tentativo di occupazione. Ricevuta la segnalazione, vengono allertate le forze dell’ordine, l’operatore sociale e l’ispettore di Aler o di MM, che sono i due enti gestori delle case popolari. Una volta sul posto, bloccati gli occupanti “in flagranza”, l’operatore sociale valuta la loro condizione: se ci sono minori o c’è una situazione di fragilità, viene offerta accoglienza presso uno dei centri di emergenza sociale del Comune. In realtà, come ammesso dagli stessi operatori sociali, sono pochissimi gli occupanti che accettano questa soluzione; la stragrande maggioranza, alla fine, si arrangia da parenti e amici, o in altro modo, perdendo ogni possibilità di avere un alloggio popolare (chi occupa, infatti, viene cancellato dalle liste per cinque anni).

I centri di emergenza sociale a Milano sono due e godono di una pessima fama: uno si trova in via Barzaghi, l’altro in via Lombroso. Si tratta di strutture della Protezione Civile adattate, con grande difficoltà, a ospitare delle famiglie che possono restare al massimo 40 giorni (prorogabili in condizioni particolari), ricevendo una branda per ogni membro di più di tre anni, l’uso di cucine comuni e l’uso di bagni comuni.

La struttura di via Barzaghi, che abbiamo visitato, può ospitare un centinaio di persone dislocate in quattro camerate. Uomini, donne e bambini dormono negli stessi ambienti, separati da “capannine” costruite dagli ospiti incastrando manici di scopa e tende da doccia, per garantire almeno un minimo di privacy. La gestione del centro è affidata alla Fondazione Progetto Arca, che nel 2013 ha stipulato una convenzione con il Comune di Milano. Nonostante la struttura si mostri già in pessime condizioni, la situazione potrebbe essere peggiore di quanto sembri. “È un luogo terribile, dov’è impossibile lavorare”, racconta uno degli operatori del centro, che ci ha contattati dopo la nostra visita.
Stando alla testimonianza in via Barzaghi gli educatori si trovano costretti a gestire non solo le decine di ospiti presenti, ma anche la portineria (il portone è rotto), i macchinari (dalle lavatrici ai forni delle cucine) e l’ingresso dei mezzi della Protezione civile, parcheggiati nel cortile della struttura. Senza contare la presenza di infiltrazioni di acqua e i servizi igienici di difficile utilizzo: “Il bagno degli uomini sarebbe privo di acqua calda, mentre le turche (non ci sono water) sono inutilizzabili per i bambini più piccoli”.
Ecco perché nessuno accetta l’alternativa dei centri di emergenza, dove si dovrebbero costruire dei percorsi di “autonomia abitativa”. Gli unici a essersi adattati sono i Rom, che pure abituati a condizioni di vita pessime non meritano certo di abitare in un luogo simile. Un luogo subìto soprattutto dai bambini, che non vengono neppure accettati nelle scuole di prossimità. Racconta ancora l’operatore che ci ha chiesto di rimanere anonimo: “Li rifiutano perché gli altri genitori non li vogliono. L’anno scorso a dicembre sono arrivati dei piccoli che sono riuscita a iscrivere a scuola solo a marzo. A novembre è arrivata una famiglia con 5 figli. Nonostante le mille telefonate e le lettere ai dirigenti scolastici, ancora non hanno un posto in nessun istituto. E pensare che ci sarebbe l’obbligo scolastico”.

Tra affitto e proprietà, il progetto Abita Giovani di EDOARDO BIANCHI

MILANO – Nella Milano delle occupazioni e delle polemiche per le politiche di Aler, la società Aler che gestisce il patrimonio immobiliare pubblico in Lombardia, c’è anche un’esperienza positiva di cui si parla poco. Grazie ad un’idea del membro della Fondazione Cariplo, don Gino Rigoldi, da oltre due anni è nato un progetto denominato Abita Giovani che ha il fine di allocare ragazzi Under 35 in abitazioni popolari ristrutturate, di proprietà Aler. Lo scopo, è quello di rendere nuovamente abitabili residenze sfitte e in decadimento, ricreando un concetto di: vivere il quartiere sociale, intessendo una stretta connessione tra le persone che ne fanno parte.

Deguene, ingegnere civile e mamma di due bambini, racconta con entusiasmo la sua esperienza in questo progetto. Ci descrive l’iniziativa del gruppo su Facebook che le ha dato l’opportunità di ottimizzare le spese per l’appartamento. Grazie al gruppo social, ha avuto modo di chiedere suggerimenti a chi facesse già parte del programma e quindi con più esperienza in merito. La pagina web rappresenta un modo per avvicinare le persone attraverso interazioni telematiche che rendano partecipi tutti coloro che hanno aderito al progetto Abita Giovani.

Alice ci racconta come l’iniziativa funzioni e che oggi giorno, secondo la ventottenne studente di veterinaria, è uno dei programmi più interessanti per i giovani in cerca di un’appartamento. Si sofferma inoltre sui costi relativamente bassi d’affitto e come a quel prezzo sia difficile trovare un’offerta migliore nel panorama milanese. Dario, impiegato in una banca, ci spiega come l’acquisto di una casa oggi sia estremamente difficoltoso per un giovane con un reddito di fascia media, anche con possibilità di accesso a mutui agevolati. Nello specifico, sostiene che senza aiuti da parte del nucleo familiare l’investimento in immobili sia possibile solo grazie al sostegno di realtà quali quella di Abita Giovani.

Caterina, insegnante in un sobborgo di San Siro, nonostante abbia trovato attraverso questo programma una soluzione abitativa, si sofferma sulla svendita del patrimonio pubblico immobiliare in Lombardia. A tal proposito, si chiede come mai non vengano più costruiti alloggi popolari e perché quelli esistenti vengano dismessi. Ritiene inoltre i criteri di selezione dell’Housing Sociale buoni per le persone di ceto medio, ma non idonei per le famiglie meno abbienti.

I programmi per agevolare l’acquisto immobiliare sono in costante aumento a seguito del positivo esito dei programmi come Abita Giovani e di altri progetti che stanno prendendo piede a Milano. Oggi le persone in possesso di un lavoro a tempo indeterminato e con meno di 35 anni possono permettersi attraverso un contratto d’affitto con futura vendita una casa di proprietà. Resta da capire se l’organizzazione sia volta a far ripartire una città immobilizzata che presto ospiterà una manifestazione di livello mondiale come l’Expo, o se sia l’ennesimo bacino che verrà sfruttato per interessi e ritorni economici.

A Napoli fallisce uno sgombero su duedi TIZIANA COZZI

NAPOLI – Sono 2.300 gli sfratti che avrebbero diritto alla sospensiva tra Napoli e provincia. E sono ben 4 mila le occupazioni abusive in corso tra Napoli (con 1.500 alloggi di proprietà comunale) e provincia (con 2.200 alloggi dell’Istituto autonomo case popolari). Il problema casa nel capoluogo campano va avanti da sempre, ma la crisi degli ultimi anni e il conseguente impoverimento delle famiglie ha trasformato un fenomeno in un’emergenza continua. Anche il patrimonio storico napoletano paga il prezzo all’illegalità. Ci sono circa 800 posizioni irregolari nei palazzi storici. E sugli sgomberi il bilancio è cosa da poco: 60-70 all’anno nella città di Napoli sono quelli andati a buon fine su 130 tentativi finiti nel nulla. Un numero veramente esiguo rispetto al numero reale degli immobili occupati. Anche a Napoli, come a Milano, ci si può ritrovare con la casa occupata dopo un lungo periodo di assenza. Ad un’anziana signora del rione Rossetti di Fuorigrotta, quartiere periferico della città, ci sono voluti 2 anni per rientrare nella sua casa occupata da una famiglia con bambini. Ogni volta lo sgombero era impossibile per motivi di salute di uno dei componenti o perché l’occupante era incinta. La dinamica degli abusivi di rado è violenta. Chi occupa subentra illegalmente a chi va via e spesso dietro c’è un traffico di denaro. Nemmeno la camorra può dirsi estranea al fenomeno: in più di un’occasione si è adombrata la regia dei clan.
I grandi numeri, anche se inferiori a Milano, riguardano anche gli sfratti che hanno diritto alla sospensiva. Ma se nella città del Duomo si è provveduto in altri modi all’assegnazione di nuovi alloggi, all’ombra del Vesuvio il provvedimento ora negato dal governo resta l’unica speranza. “A Napoli c’è esigenza della sospensiva – spiega Gaetano Oliva, Cgil Casa Napoli – perché non c’è nient’altro che abbia messo in moto nuove assegnazioni. L’ultimo bando è del 2010 e in 4 anni hanno esaminato solo 8 mila pratiche, non si riesce nemmeno a pubblicare la graduatoria provvisoria”. L’ultima risale a 20 anni fa e su 20 mila aventi diritto, in 15 anni è stata data sistemazione a 1.500 famiglie. “Questo vuol dire che un’intera generazione è tagliata fuori – sottolinea Oliva – non avrà diritto a un bel niente. La nostra preoccupazione è che torneranno gli ufficiali giudiziari a bussare alle case, come accadde nel 2010, con il governo Berlusconi, quando in un mese si contavano a Napoli 6-7 esecuzioni di sfratto. Si buttava fuori gente che non sapeva dove andare. Il ministro Lupi risponda sui fatti e intervenga concretamente sulla nostra emergenza”.
Anche le agevolazioni per morosità incolpevole non hanno sortito grandi effetti. Su un fondo di 1 milione e 400 mila euro assegnato alla Campania, a Napoli sono ben poche le domande arrivate al Comune, per questo l’avviso pubblico è stato  prorogato fino al 15 febbraio. Eppure si contano circa 2.400 morosi incolpevoli tra Napoli e provincia.
Nel 2013 sono 3.320 gli sfratti emessi di cui 1.505 a Napoli e 1.815 in provincia. L’80 per cento sono sgomberi per morosità, si tratta appunto di inquilini che non ce la fanno più a pagare, un fenomeno sempre più frequente in provincia. La crisi corrode le possibilità economiche anche dei proprietari. Accade sempre più spesso che chi possiede un solo immobile non abbia la forza economica per fare causa al suo inquilino moroso. Non tutti gli sfratti emessi nel 2014 sono stati eseguiti proprio perché il proprietario non poteva rivolgersi ad un avvocato per aprire la procedura. Così gli inquilini morosi continuano a restare in casa. Sono stati 2.684 gli sfratti esecutivi per morosità (1.382 in provincia e 1.302 in città). Quasi seimila (5.849) invece le richieste di esecuzione di sfratto, cioè quelle in cui la procedura è stata avviata e si attende solo l’arrivo degli ufficiali giudiziari.

Edifici in comodato, polemiche a Parmadi MARIA CHIARA PERRI

PARMA – La lista d’attesa per l’assegnazione di un alloggio popolare è lunga e difficile da scalare, con patrimonio di edilizia residenziale pubblica vecchio di decenni o bloccato in cantieri in costruzione. In piena emergenza abitativa: nel 2013, tra Parma e provincia, sono stati emessi dal tribunale 726 provvedimenti di sfratto, di cui 363 in città. Sono state 489 le richieste di esecuzione per morosità di affitto e spese condominiali. Più di una al giorno. D’altro canto, abbondano gli immobili privati lasciati sfitti per la crisi del mercato immobiliare. Ed ecco che anche a Parma negli ultimi anni si sono moltiplicate le occupazioni. Edifici vuoti in pieno centro storico si sono riempiti di famiglie straniere con bambini, in situazioni di estrema indigenza, supportate dai movimenti autonomi che da anni si battono per il diritto alla casa.

Proprio nelle ultime settimane la giunta 5 Stelle ha deciso di risolvere il problema di due occupazioni, in un ex cinema e in uno stabile privato, scendendo a patti con gli occupanti e con i loro sostenitori. Come? Concedendo alle famiglie uno spazio pubblico in comodato d’uso. Una soluzione che ha scatenato una marea di polemiche.

L’assessore ai Servizi sociali Laura Rossi difende la scelta, spiegando che si tratta di una soluzione temporanea d’emergenza, per fare uscire dall’illegalità famiglie disperate che solo così potranno essere prese in carico dai servizi sociali. Dall’altra, l’opposizione politica parla di “premio all’illegalità”. Una scorciatoia concessa a chi commette reati rispetto ai tanti che rispettano la legge. Il dito è puntato non tanto contro l’accoglienza ai senzatetto, ma contro la decisione di concedere parte dello stabile anche alle attività di un centro sociale pur di mettere fine all’occupazione, mentre tante altre associazioni aspettano in fila il benché minimo contributo.

Ragioni contrapposte su un problema delicato, destinato a ripresentarsi presto: altri due condomini in centro sono occupati da 13 famiglie con otto bambini, tra cui due gemelline neonate. I tecnici si sono già presentati per staccare il gas.

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INVITO > Percorso della memoria in Municipio

PERCORSO DELLA MEMORIA, INCONTRO CON PIERO TERRACINA

Il 27 gennaio prossimo ricorrerà il 70° anniversario del giorno in cui le truppe alleate aprirono i cancelli di Auschwitz, mostrando al mondo l’orrore dell’Olocausto. Non possiamo permettere che la barbarie e la disumanità di quanto accaduto cada nella dimenticanza, dobbiamo fare in modo che si continui a parlare ed a ricordare quelle terribili atrocità, soprattutto con il passare degli anni e la progressiva scomparsa dei testimoni diretti di quella tragedia. Per questo, anche quest’anno, abbiamo organizzato un incontro, che si terrà venerdì 16 gennaio alle 10 al Teatro India (locandina allegata), tra gli studenti delle nostre scuole e Piero Terracina, sopravvissuto ad Auschwitz dove era stato deportato dopo il rastrellamento del Ghetto di Roma. “La memoria non è il ricordo. Il ricordo si esaurisce con la persona che lo conserva. La memoria, invece, è un filo rosso che unisce il passato con il futuro. La memoria proietta il passato nel futuro, per mantenerlo vivo” ha detto Terracina ai ragazzi presenti lo scorso anno. Con l’incontro del 16 gennaio vogliamo contribuire a rendere forte e saldo quel filo rosso.

Percorso-della-memoria-locandina




Fondi per le politiche sociali nella legge di stabilità

Pubblicata la Legge n. 190 del 23 dicembre 2014 (legge di stabilità per il 2015).
Lo stanziamento del fondo nazionale per le politiche sociali viene incrementato di 300 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2015. Analogamente viene incrementato lo stanziamento del fondo per le non autosufficienze‚ anche per sostenere interventi in favore delle persone affette da sclerosi laterale amiotrofica (SLA)‚ con 400 milioni di euro per l’anno 2015 e di 250 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2016.
A decorrere dal 1º gennaio 2015 vengono trasferite alcune risorse in un fondo per l’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati.
Previsto anche uno stanziamento di 250 milioni di euro dedicato al mantenimento della social card. Viene inoltre istituito un fondo con una dotazione di 112 milioni di euro per il 2015‚ da destinare a interventi in favore della famiglia‚ includendo lo sviluppo dei servizi socio–educativi per la prima infanzia.
Il fondo per le politiche della famiglia viene incrementato di 5 milioni di euro dal 2015 al fine di sostenere le adozioni internazionali.
Una quota delle risorse destinate al finanziamento del Servizio sanitario nazionale (50 milioni di euro)‚ a decorrere dal 2015 sarà destinata alla prevenzione e alla cura delle patologie connesse alla dipendenza da gioco d’azzardo. Si prevede la sperimentazione di modalità di controllo dei soggetti a rischio‚ mediante l’adozione di software che durante il gioco comunichino al giocatore messaggi di allerta. L’Osservatorio appositamente istituito per queste problematiche‚ trasferito al Ministero della Salute‚ sarà rideterminato nella sua composizione (con successivo decreto)‚ assicurando la presenza di esperti anche delle associazioni operanti nel settore.
Per quanto concerne gli aiuti umanitari e le organizzazioni impegnate in tale attività‚ viene stabilito che i beni‚ destinati ad essere trasportati o spediti fuori dell’Unione Europea in attuazione di finalità umanitarie‚ saranno acquistabili senza applicazione dell’IVA (un successivo decreto definirà le modalità di applicazione di questa nuova norma agevolativa).
Il 5 per mille viene confermato e reso stabile‚ sia per il 2015 che per gli anni successivi. Al fine di assicurare trasparenza ed efficacia nell’utilizzazione di tali risorse‚ con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri saranno definite le modalità di redazione e pubblicazione del rendiconto da parte dell’ente beneficiario. Previste sanzioni in caso di violazioni. Per la liquidazione della quota del 5 per mille del 2015 viene autorizzata la spesa di 500 milioni di euro.
Per la riforma del terzo settore‚ dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale viene autorizzata la spesa di 50 milioni di euro per l’anno 2015‚ di 140 milioni di euro per l’anno 2016 e di 190 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2017.
Viene‚ infine‚ stabilito un innalzamento del limite massimo nella detraibilità delle donazioni in denaro effettuate a favore delle ONLUS. Dal 2015 infatti sarà possibile la detrazione del 26% (per le persone fisiche) e del 2% (per le imprese) fino ad un limite massimo annuo di 30.000 euro‚ anziché i precedenti 2.065 euro. Viene infatti modificato il Testo Unico delle Imposte sui Redditi sia per quanto riguarda le disposizioni sulle detrazioni IRPEF‚ per le persone fisiche‚ che le detrazioni sull’IRES‚ relativamente a persone giuridiche e imprese. È confermato che‚ ai fini della detraibilità‚ il versamento dell’erogazione va effettuato tramite banca‚ ufficio postale o altri sistemi di versamento tracciabili (carte di debito‚ di credito‚ prepagate‚ assegno: non è applicabile‚ quindi‚ per le erogazioni in denaro contante).

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Jihad di periferia

periferieCe l’hanno raccontato in lungo e in largo, come la biografia degli autori degli attentati di Parigi sia inscindibile dall’ambiente della banlieu. E del resto da qualche anno, con notevole puntualità e regolarità, che siano i saccheggi dei negozi perbene a Londra, o le manifestazioni surreali tra le villette e i fast food di Ferguson, o qualche comportamento oltre i limiti della demenza dalle nostre parti italiane, non si manca mai di collegare un certo tipo di spazi ad alcuni problemi. Il collegamento però deve essere preso molto alla lontana, non perché non esista, e non sia per certi versi diretto, ma perché ha bisogno di una serie fin troppo lunga di precisazioni e contestualizzazioni. Infatti se solo ci pensiamo un istante, la nostra testa quando evoca quelle arterie commerciali britanniche, ai parcheggi del suburbio americano, a certe nostre distese di prati spelacchiati tra palazzi razionalisti, ricostruisce spazi diversissimi, chiamandoli nello stesso modo. E dicendoci in modo piuttosto chiaro, che se hanno qualcosa indubbiamente in comune, non si tratta delle forme fisiche.

Hanno tutte la capacità di produrre quel genere di disagio che spesso sfocia, seguendo un canale o l’altro, nelle psicopatologie violente e senza sbocco non autoreferenziale. Che siano i saccheggi e gli incendi di negozi per rubacchiare stupidaggini da consumi infantili, o urlanti confuse spesso autolesionistiche manifestazioni contro tutto e contro tutti, o addirittura di innescare l’altrettanto confusa conflittualità estrema che poi sfocia nella criminalità organizzata o nelle varie forme di terrorismo, a seconda del caso che fa incontrare i disagiati con questo o quel maître à penser. Questo plasmare cervellini particolarmente fragili è un carattere delle periferie che, evidentemente non proporzionale alla distanza tra gli edifici, agli standard a parcheggio o verde, allo stato di manutenzione delle tubature, o degli spazi comuni. Ovvero tutti quegli aspetti che, attraverso processi partecipativi o meno, con assemblee nelle scuole, urla di casalinghe, riunioni pensose al centro civico, affrontano i vari cosiddetti piani per le periferie, puntualmente focalizzati nel risolvere tutto ciò che evidentemente, almeno così da solo, non produce affatto disagio.

Del resto basta a volte spostarsi di qualche centinaio di metri, nel medesimo quartiere, per scoprire che il disagio pare svaporato per miracolo, pur restando immersi nei medesimi spazi fisici, tipi di edifici, strade, verde. A volte esiste qualche indizio abbastanza chiaro almeno a indicare un percorso di riflessione: come le case in proprietà anziché in affitto, ad esempio, che secondo molto pensiero conservatore sono sinonimo di identità e stabilità, delle famiglie e degli individui. Oppure l’epoca di costruzione e tipo di occupazione dei fabbricati, o presenza o meno di attività economiche. In qualche pianterreno. Altre volte neppure un indizio labile del genere, salvo la constatazione che in un posto c’è il disagio, nell’altro no, e che di sicuro gli spazi fisici sono identici. Ma una cosa è certa: quegli spazi, da soli, non cambiano nulla. E chissà che quest’ultima traumatizzante esperienza, di pochissimi balordi psicopatici terroristi, che si sono maturati tutto il loro disadattamento nel brodo di coltura del periferia, non convinca qualcuno di importante. Non lo convinca sul serio a piantarla per sempre, ogni qual volta succede qualche manifestazione di disagio nelle periferie, ad uscirsene con la solita pensata: chiamiamo un bravo architetto!

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Urbanizziamoci il cervello

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La maggioranza delle persone prima o poi nella vita ha pensato di avere un figlio, e la maggioranza di queste persone poi l’ha anche avuto, e pure altri. Tutti, salvo qualche raro essere sfigato dalla mente contorta, per questo loro bambino hanno immaginato il più roseo e splendente futuro, ricco, comodo, stimolante, pieno di prospettive. Adesso facciamo rewind e poi subito restart. Letto in modo appena lievemente diverso, quanto sopra suona: la maggioranza delle persone promuove attivamente e consapevolmente la crescita di popolazione, e il suo insediamento in luoghi adeguatamente attrezzati per quanto riguarda l’abitazione, il lavoro, i servizi. Tutta la faccenda è detta urbanizzazione del pianeta, da alcuni anni riguarda oltre il 50% dell’umanità, e ai ritmi attuali sull’arco di un paio di generazioni scarse arriveremo all’80%. Fine dei dati inoppugnabili. Poi ci sono le opinioni, e lì iniziano i guai.

Perché ci sono tanti tipi di cose diverse con la caratteristica di contesto urbano, così diverse che tanta gente ti sbotta: “io in città? Mai, piuttosto la morte”. Mentre sta già da un paio di generazioni felicemente e guazzante dentro a un’area metropolitana statistica, giusto con veduta su un campo di mais davanti al vialetto del garage a confondere le idee. Città sono ovviamente e inoppugnabilmente certe altissime densità edilizie soprattutto asiatiche, coi vistosi grattacieli, o i volumi terziari curtain wall disabitati di notte delle downtown americane e europee. Città sono le baraccopoli sterminate che spesso cingono proprio l’emergenza brillante degli stessi grattacieli. Città, infine, è anche lo sprawl suburbano o esurbano a bassissima densità, con popolazione sparsa ma totalmente priva di rapporti diretti o indiretti con le campagne, spesso per nulla coltivate, dentro cui si trova, anche qui con una curiosa sfalsatura temporale. Perché la casetta magari conquistata coi risparmi di una vita, nel quartierino denominato Salici Piangenti (perché ci stavano i salici una volta, poi appunto sepolti sotto il quartiere) la si può godere solo per dormirci, o riposarsi nei fine settimana. Il resto del tempo si passa altrove, in un altro pezzo della stessa grande città, dove sono gli uffici, o il centro commerciale, o il complesso scolastico integrato.

Il famoso 50% o meno di umanità ancora residente nelle campagne, quella effettiva quota di popolazione rurale, non ha nulla da spartire con l’elegante signora che va “in villa” sgommando nervosa dal parcheggio dell’ufficio la sera. Si tratta in stragrande maggioranza di poveracci al limite della fame, ammucchiati in villaggi privi di servizi essenziali, dalla corrente elettrica all’acqua potabile, che vivono una vita grama e appena possibile si incamminano verso le mille luci della più vicina città, sperando di migliorare la propria situazione. Insomma, come si dice, siamo tutti sulla stessa barca, e la cosa migliore da farsi è riconoscerlo senza troppe storie, ed evitare di ribaltarla con movimenti bruschi. Diconsi movimenti bruschi, ad esempio, gli impatti ambientali determinati dalle nostre attività individuali e collettive, spostarsi, consumare, lavorare, studiare, tutto può avere impronte ecologiche variabili a seconda di come lo si fa. Una cosa è certa: la cosiddetta civiltà dei consumi, così com’è cresciuta almeno per tutta la seconda perte del ‘900, non è un modello riproducibile ed estendibile nel futuro a tutti coloro che sinora ne sono stati esclusi.

L’innovazione urbana è lo spirito che ha animato tantissime ricerche tematiche interdisciplinari, soprattutto rivolte agli strumenti conoscitivi e applicativi che di solito ci vengono propinati dalla stampa sotto l’etichetta smart city, ma che a monte richiedono personalissime innovazioni di cervello, che sommate e ricomposte si fanno poi sociali, politiche, di comportamento e stile di vita, traducendosi in vere trasformazioni ed evoluzioni. Riflettiamo un istante su un fenomeno abbastanza recente e che sta cambiando rapidamente le nostre città: il car-sharing. Fenomeno complesso, che si può leggere per esempio anche a partire da una forte spinta culturale alla condivisione, per cui l’auto un tempo segno di posizione sociale, sorta di prolungamento della famiglia, della casa, dell’individuo, perde tutte queste caratteristiche per trasformarsi in altro. Cambia il modo di produrla e concepirla, potenzialmente il suo rapporto con le fonti energetiche, cambia l’interazione con gli spazi urbani (strade, parcheggi, abitazioni, posti di lavoro, rete commerciale) e si condizionano sul medio periodo anche produzione e manutenzione di questi spazi. Cambia infine anche il rapporto con le tecnologie esterne e le altre modalità di spostamento: se l’auto privata non interagiva o interagiva poco con la pubblica amministrazione, le reti immateriali, il sistema pedonale, ciclabile, dei mezzi pubblici, il car sharing invece si integra perfettamente.

E questo esempio, piccolo e molto a portata di mano, si può estendere e sovrapporre poi a tanti altri aspetti, ad esempio l’intreccio (il grande ed esiziale intreccio) fra ambiente, energia, alimentazione, urbanizzazione, cambiamento climatico. In cui ad esempio risulta importante chiarire davvero quale modello insediativo vogliamo perseguire: il cosiddetto chilometro zero rappresenta solo un fenomeno alla moda, buono per alimentare qualche segmento di mercato? Oppure le riflessioni sull’autonomia alimentare, le infrastrutture verdi, l’agricoltura urbana, la convivenza di elementi naturali e artificiali, hanno davvero un respiro strategico? Infine: stiamo ragionando solo da una prospettiva di paesi ricchi, in grado di costruirsi futuri desiderabili e apparentemente ragionevoli, solo basandosi sul presupposto di un asservimento di fatto di altre aree del pianeta, su cui scaricare ogni diseconomia? Anche queste questioni sociali, sia ampie che di più immediata comprensione come l’organizzazione delle famiglie (e ad esempio delle abitazioni) alla fine rinviano a un mutamento di paradigma personale, soggettivo, volontario, ma tale da riuscire poi a ricomporre un panorama davvero ampio, e a volte sorprendente nella sua capacità di intrecciare temi apparentemente distanti.

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Non solo sfratti

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I sindaci delle grandi città invocano il blocco di 50 mila sfratti esecutivi in metropoli con appartamenti vuoti. Il caso Roma. L’abusivismo edilizio diffuso e legalizzato senza una idea di città a misura di persona. Analisi per una via di uscita nell’intervista a Carlo Cellamare. Prima della prossima rivolta

Passate le feste, le grandi città si ritrovano con l’emergenza sfratti da affrontare visto che il governo Renzi ha scelto di non procedere all’ennesimo blocco ma l’emergenza abitativa in metropoli piene di case disabitate resta una grave anomalia da analizzare in maniera adeguata per trovare una soluzione. Ne abbiamo iniziato a parlare il 2 gennaio con l’urbanista Carlo Cellamare, docente alla facoltà di ingegneria presso l’università La Sapienza di Roma, con una panoramica delle periferie estese che, tolto il centro storico e alcuni quartieri privilegiati, sono, di fatto, la città di Roma oggi. Un problema incancrenito che è destinato ad emergere solo davanti alle improvvise reazioni rabbiose come quella scatenatasi a Tor Sapienza nel novembre del 2014, poco prima dell’affiorare, con le inchieste della magistratura, del sistema criminale diffuso nella Capitale. Torniamo al dialogo aperto con il professor Cellamare.

Il caos quotidiano delle periferie non sembra frutto del caso. Quale modello di sviluppo si è affermato, di fatto, a Roma?

«Siamo davanti ad uno sviluppo insediativo storicamente caratterizzato dalla speculazione edilizia e che non ha guardato in faccia a niente e a nessuno, né ai territori né alle persone che vi vivono. Si tratta di una espansione che non ha attrezzato le nuove aree insediate dei livelli adeguati di servizi e di urbanità, e quindi di qualità della vita. Per questo, molta parte della città si è dovuta autorganizzare per sopperire alle carenze delle politiche pubbliche. Valga da esempio, emblematico di questo sviluppo sconsiderato, l’enorme fenomeno dell’abusivismo edilizio, tra i più imponenti d’Italia, assolutamente incredibile se si considera Roma come la capitale di uno dei Paesi occidentali più ricchi al mondo; un fenomeno in calo ma mai cessato».

Si può quantificare questo abusivismo?

«Ben il 37 per cento del tessuto urbano residenziale è di origine abusiva e ben il 40 per cento della popolazione vive in aree nate come abusive! Aree “di origine abusiva” e “nate come abusive” perché i tre condoni edilizi le hanno rese ora tutte le legali (o in via di legalizzazione). Si tratta di aree legalizzate, ma che sono ben lontane da standard accettabili di urbanità; e che forse non li raggiungeranno mai perché – per come sono nate – è proprio difficile trovare il modo di inserire i servizi, le aree verdi, gli spazi pubblici, le aree commerciali, anche solo i parcheggi e i marciapiedi. Senza contare i costi esorbitanti di un loro recupero che non sono proprio disponibili alle casse pubbliche. Anche solo pensare all’organizzazione di un servizio di trasporto pubblico, in aree a così bassa densità, appare allo stesso tempo totalmente inefficiente e totalmente in perdita. Il risultato è una città col consumo di suolo tra i più alti d’Italia, ma anche – cosa ancor più grave – col consumo di suolo pro-capite tra i più alti d’Italia».

Cosa dire riguardi alle ultime amministrazioni cittadine?

«Gli anni veltroniani, come noto, e come denunciammo, da urbanisti e non solo, discutendo il cosiddetto “modello Roma”, piuttosto che recuperare le periferie, hanno acuito i problemi. Il tentativo di realizzare grandi opere attraverso la svendita di pezzi della città è stato avviato in quegli anni ed è stato fallimentare. L’amministrazione Alemanno si è poi inserita in quella strada aperta, e ha fatto precipitare la situazione, soltanto arginata in alcuni limitati casi dalle molte mobilitazioni locali. Abbiamo assistito (in linea peraltro con il mainstream mondiale di questa fase del neoliberismo avanzato) alla totale mercificazione della città, di cui è difficile recuperare le macerie che ne sono derivate e che ha approfondito il solco tra le diverse parti della città e la distanza tra le aree disagiate ed il resto della capitale».

Quali conseguenze da questa frattura della città?

«La politica delle centralità non ha riqualificato le periferie e ha favorito un orientamento alla commercializzazione. Anche dal punto di vista produttivo e del lavoro è un continuo orientamento su economie “avventizie” e non strutturali, che depredano risorse e non attivano processi socio-economici strutturali che abbiano una solida prospettiva. Analogamente il centro è diventato un distretto del turismo e del commercio dove la residenzialità è ridotta sempre più ai margini».

Con quali conseguenze per la popolazione?

«Quello che è cambiato in questi ultimi anni è proprio l’ulteriore spostamento della popolazione sia a livello territoriale (oltre Roma – ndr -vedi prima parte dell’intervista), ma anche dentro il comune di Roma. Più del 20 per cento della popolazione romana vive oggi fuori del Grande Raccordo Anulare, che inanella ormai le centralità e le polarità di riferimento a Roma. E mentre la popolazione dentro il GRA si assesta o diminuisce, aumenta quella oltre il GRA di oltre il 23 per cento negli ultimi dieci anni.

Ma quello che cambia maggiormente è il progressivo vuoto non solo politico, ma anche istituzionale che caratterizza le periferie e le aree del maggior disagio. È venuta meno la mediazione politica, ma anche la presenza istituzionale proprio nei luoghi più difficili, che non hanno più un interlocutore e si devono “barcamenare” dentro le sacche di disagio, generando quello stato di rabbia che si scarica sui capri espiatori degli immigrati o dei rom e su cui soffiano colpevolmente gli interessi politici di parte.

L’assenza delle istituzioni in queste realtà pone un serio problema strutturale, un problema di cittadinanza. L’interrogativo è, cioè, se gli abitanti di queste aree e di queste periferie possono ancora considerarsi cittadini».

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Lettera ai miei amici di facebook

facebookErodoto “Le storie”: Ciro: “Fino ad ora, non ho mai temuto uomini che hanno al centro della loro città un luogo stabilito nel quale si radunano per ingannarsi a vicenda con giuramenti.”
Ricordare questa differenza primigenia tra l’occidente e l’oriente ci ridà la dimensione della partita in corso e ce la ridà plasticamente nel momento in cui in quel “centro della loro città” oggi, a Parigi, “si radunano” per non “ingannarsi” ma per affermare la nostra differenza, la nostra civiltà, la nostra Repubblica europea, occidentale, libera, eguale, fraterna.
E che tutto ciò sia sostanza quotidiana mi fa venire in mente quante volte ho litigato nel “centro della…città” virtuale, l’agorà di facebook, con i miei amici dando un senso alla nostra libertà di litigare di avere idee diverse e di non diventare per questo nemici.




Periferie, se la politica delega le archistar

periferie

«Il “progetto di rammendo” di Renzo Piano, pur originale e privo di sensazionalismi, non basta a risolvere la questione sociale. Dimenticate da tutti, perfino da urbanisti e sociologi, le diseguaglianze sono il vero motore delle rivolte». Il manifesto, 6 gennaio 2015

Ces­sato l’allarme, la “que­stione peri­fe­rie” torna nel cono d’ombra dei media come fosse stata un feno­meno iso­lato e pas­seg­gero, un capric­cio di una parte della città delusa e abban­do­nata. Ora c’è il “pro­getto di ram­mendo” affi­dato a Renzo Piano e al suo gruppo di lavoro G124, e così la poli­tica passa volen­tieri la mano (meglio sarebbe dire la palla) all’architettura e all’urbanistica, rinun­ciando al suo ruolo guida.

È invece utile non sot­to­va­lu­tare quanto è suc­cesso nelle nostre peri­fe­rie (e quello che potrebbe ancora acca­dere) ricor­dando le parole di una lunga inter­vi­sta a Fou­cault («spa­zio, sapere e potere») a chi gli chie­deva quale fosse il ruolo dell’urbanistica e dell’architettura nella società moderna: «All’inizio del XVII secolo si smette di con­ce­pire la città come un luogo pri­vi­le­giato, come un’eccezione all’interno di un ter­ri­to­rio costi­tuito da campi, fore­ste e strade. D’ora in poi le città, con i pro­blemi che sol­le­vano e le con­fi­gu­ra­zioni par­ti­co­lari che assu­mono, ser­vono da modelli per una razio­na­lità di governo che verrà appli­cata all’insieme del territorio».

E del resto lo stesso Renzo Piano con­ferma come «il grande pro­getto del nostro Paese sia quello delle peri­fe­rie: la città del futuro, la città che sarà, quella che lasce­remo in ere­dità ai nostri figli. Sono ric­che di uma­nità, qui si trova l’energia e qui abi­tano i gio­vani cari­chi di spe­ranze e voglia di cam­biare».

Tut­ta­via incal­zato dai suoi allievi che gli chie­dono se certi pro­getti archi­tet­to­nici pos­sono rap­pre­sen­tare delle forze di libe­ra­zione o, al con­tra­rio, delle forze di resi­stenza, Fou­cault risponde: «La libertà è una pra­tica. Dun­que può sem­pre esi­stere in effetti un certo numero di pro­getti che ten­dono a modi­fi­care deter­mi­nate costri­zioni, ad ammor­bi­dirle, o anche ad infran­gerle, ma nes­suno di tali pro­getti, sem­pli­ce­mente per pro­pria natura, può garan­tire che la gente sarà auto­ma­ti­ca­mente più libera».

Il con­tri­buto di Renzo Piano al pro­blema delle peri­fe­rie, sia pure mosso da buoni pro­po­siti, ha il punto debole (non impu­ta­bile a lui) nell’affrontare la que­stione solo nella dire­zione dell’architettura e dell’urbanistica: «Si deve inten­si­fi­care la città, costruire sul costruito, sanare le ferite aperte. Di certo non biso­gna costruire nuove peri­fe­rie oltre a quelle esi­stenti: devono diven­tare città ma senza espan­dersi a mac­chia d’olio, vanno ricu­cite e fer­ti­liz­zate con strut­ture pubbliche.È neces­sa­rio met­tere un limite a que­sto tipo di cre­scita, non pos­siamo più per­met­terci altre peri­fe­rie remote, anche per ragioni eco­no­mi­che». Su que­sta que­stione, nel pro­ce­dere dell’intervista, Fou­cault si esprime con molta deter­mi­na­zione: «Penso che l’architettura (e l’urbanistica, ndr) possa pro­durre, e pro­duca, degli effetti posi­tivi quando le inten­zioni libe­ra­to­rie dell’architetto coin­ci­dono con la pra­tica reale delle per­sone nell’esercizio delle loro libertà».

Ora biso­gna rico­no­scere che Renzo Piano è uno dei più bravi archi­tetti ita­liani per cul­tura, serietà e pro­fes­sio­na­lità, ma ha ragione Ema­nuele Picardo ad affer­mare su que­sto stesso gior­nale (il mani­fe­sto del 30/12/2014) che: «Affron­tare la peri­fe­ria solo con lo sguardo dell’architetto è un pec­cato ori­gi­nale che ne impe­di­sce una let­tura com­plessa e arti­co­lata».

E qui è neces­sa­rio resti­tuire di nuovo la parola a Fou­cault: «L’esercizio della libertà non è del tutto insen­si­bile alla distri­bu­zione degli spazi, ma esso può fun­zio­nare sol­tanto dove si dà una certa con­ver­genza; se vi è diver­genza o distor­sione l’effetto pro­dotto è imme­dia­ta­mente con­tra­rio a quello ricer­cato». Que­sto è quello che è acca­duto al pro­getto rutel­liano delle «cento piazze». Alcune di esse, come a San Basi­lio hanno avuto un certo suc­cesso; altre, come al Quar­tic­ciolo, stanno per essere sman­tel­late per­ché gli abi­tanti le sen­tono estra­nee e vogliono ritor­nare alla piazza che c’era negli anni ’50.

Dun­que un pro­getto architettonico-urbanistico o viene con­ce­pito e rea­liz­zato diret­ta­mente (e auto­ri­ta­ria­mente) dal Prin­cipe, oppure, in epoca moderna, non può che sca­tu­rire (sia pure con l’autonomia neces­sa­ria) all’interno di una cor­nice poli­tica che detta una pro­pria visione della società, una poli­tica intesa come media­zione di inte­ressi in gioco, inter­pre­ta­zione dei biso­gni, espli­citi o meno, degli abi­tanti che quei luo­ghi li abi­tano e li attra­ver­sano quo­ti­dia­na­mente. Se la poli­tica delega in toto la solu­zione dei pro­blemi sociali all’architettura e all’urbanistica, il pro­getto che ne con­se­gue risulta monco, affi­dato al libero arbi­trio (ed estro) del suo Pro­get­ti­sta che viene gra­vato di un com­pito impro­prio e improbo, ovvero quello di risol­vere que­stioni sociali che non gli com­pe­tono diret­ta­mente, il che facil­mente dege­nera in opere auto­ce­le­bra­tive che a Roma, per fare un esem­pio, si chia­mano la “Nuvola” o lo “Sta­dio del nuoto” (e rimane solo da spe­rare che tra di esse non com­paia infine anche il nuovo sta­dio della Roma a Tor di Valle).

È vero che il “pro­getto di ram­mendo” di Piano ha una sen­si­bi­lità diversa e si rivolge ai quar­tieri peri­fe­rici senza cer­care effetti sor­pren­denti né sen­sa­zio­na­li­smi e uti­liz­zando poche risorse (poco più dello sti­pen­dio di sena­tore a vita messo a dispo­si­zione da Piano), ma è la cor­nice poli­tica che manca, ciò che a suo tempo dava senso alle geniali ini­zia­tive di Nico­lini nello sce­na­rio poli­tico impo­stato da Petro­selli. Per­ché a fronte di tante dema­go­gie popu­li­ste biso­gna pur affer­mare e difen­dere l’autonomia delle scelte pro­get­tuali — archi­tet­to­ni­che o urba­ni­sti­che — che mai deb­bono essere pie­gate al volere dei poteri domi­nanti quale che siano, come avve­niva già nel Rinascimento.

Una delle prin­ci­pali con­di­zioni che distin­gue le attuali peri­fe­rie da quelle degli anni ’50 e ’60 è la cre­scita pro­gres­siva delle disu­gua­glianze sociali. Anche nelle prime peri­fe­rie urbane, la causa del degrado nasceva dalle con­di­zioni di povertà ma, all’epoca, c’era l’attesa e la quasi cer­tezza che lo svi­luppo e il benes­sere prima o poi, avrebbe rag­giunto tutti gli strati sociali. Que­ste con­di­zioni di povertà sono diven­tate ora strut­tu­rali, cro­ni­che, fisi­che, esi­sten­ziali, tra­sfor­mate in con­di­zioni di mise­ria, senza che si abbia più la per­ce­zione che esse pos­sano miglio­rare, in un qua­dro sociale imbar­ba­rito dove pre­vale il morbo indi­vi­dua­li­sta del «spe­riamo che io me la cavo».

E al tempo stesso la que­stione sociale al cen­tro di tante e famose opere let­te­ra­rie dell’800 e della prima metà del ’900, da Zola a Stein­beck, da Bal­zac ad Hugo, come affer­mava qual­che giorno fa Alberto Asor Rosa su La Repub­blica, «non vive più nelle coscienze delle per­sone. La per­ce­zione e la con­danna delle disu­gua­glianze sociali è stata respinta ai mar­gini, non inte­ressa». La stessa sorte capita agli urba­ni­sti, ai socio­logi, agli antro­po­logi per i quali la que­stione delle disu­gua­glianze in quanto sud­di­vi­sione della società tra chi pos­siede molto e chi non pos­siede niente, si con­suma e si dis­solve nella ricerca di impro­po­ni­bili solu­zioni specialistiche.
Per­fino i gio­vani ricer­ca­tori la aggi­rano: anche loro inda­gano casi par­ti­co­lari, seg­men­ta­zioni sociali, quasi che que­sti fos­sero iso­la­bili dal con­te­sto sociale più gene­rale. Ci si occupa di rifu­giati, pro­fu­ghi, Rom, bar­boni, occu­panti di case, sto­rie iso­late di vicende per­so­nali. È come se que­sta società si fosse fatta distratta, avesse rimosso il tema del con­flitto sociale e non tenesse più in conto di quello che Sti­glitz chiama il prezzo della disu­gua­glianza, il vero motore delle rivolte. Se il mondo diventa sem­pre più duale e la peri­fe­ria rap­pre­senta quel 99% di chi non pos­siede niente che asse­dia le comu­nità blin­date di quel l’1% che pos­siede tutto, la solu­zione può essere solo quella di cam­biare dire­zione, e politica

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2015: tocca alle periferie

periferie

Forse è fin troppo facile pronosticare un 2015 dove saranno le periferie a “dettare l’agenda” delle politiche e degli interventi in campo economico, sociale e culturale. Si possono scomodare importanti archistar come Renzo Piano – che ha dato seguito al suo fortunato articolo di qualche tempo fa dando vita a un progetto dedicato al “rammendo delle periferie” – e come Carlo Ratti che in un recente intervento sul Corriere della Sera preconizza una “primavera urbana” dove i contesti periferici ribolliranno non solo di proteste ma di progettualità crowdsourced. Se poi scomodiamo addirittura Papa Francesco che indica la periferia come metafora esistenziale e come concreto ambito di missione, il gioco è (o sembra) fatto.

Si sta creando un nuovo paradigma per una miriade di progettualità che fanno leva sul lavoro comunitario (sottovalutato) e sulle nuove tecnologie relazionali (sopravvalutate). La disponibilità di una cornice comune è cruciale per alimentare le politiche e per accelerare i processi, come dimostra anche il libro di Giovanni Campagnoli dedicato ai modelli di business per startup sociali e culturali che rigenerano edifici e spazi situati spesso in contesti periferici grazie a iniziative di interesse collettivo. E’ forse questo il più potente antidoto alla rappresentazione della periferia come luogo semplicemente degradato riconoscendolo invece come motore di cambiamento.

Se il processo è chiaro nella sua direzione, sono ben più complesse le implicazioni che derivano da quello che con un ossimoro si potrebbe definire “centralismo periferico”. Non è solo una questione urbanistica e di asset materiali. Il lavoro sulle periferie riguarda anche le organizzazioni e le persone. Per le prime la sfida è sostenere processi di mutamento interno a partire da progettualità marginali (periferiche appunto) in grado di generare cambiamento per infusione di pratiche piuttosto che impegnarsi in “duelli epici” con core business che il cambiamento tendono, nel peggiore dei casi, a rincularlo. Per le persone serve invece una specie di “brain training” per il pensiero laterale, quello che alimenta la creatività e l’innovazione, sia a livello individuale che, soprattutto di gruppo. Sono infatti i gruppi di lavoro che possono riconoscere e alimentare ciò che sta ai margini, tra le “varie ed eventuali”, trasformandoli in innovazioni di sistema.

Tutte cose complicate. Ma almeno per qualche ora possiamo ancora dedicarci ai buoni propositi…

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