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Michelucci e l’utopia concreta delle periferie

La reinterpretazione del patrimonio territoriale come chance per uscire dalla crisi. E in quest’ambito le periferie come risorse, non come gravame per le città. Questo è il tema fondamentale, trattato nell’ultimo numero di “La nuova città”, rivista fondata da Giovanni Michelucci nel 1945. Perché il grande progettista pistoiese, noto per opere iconiche come la Chiesa dell’Autostrada o la Stazione ferroviaria di Santa Maria Novella a Firenze, ha sempre nutrito grandissima attenzione per le parti più reiette delle città. Ne parliamo col direttore della Fondazione Michelucci, l’architetto Corrado Marcetti. «Quando nel 1982 costituì la fondazione, Michelucci stabilì che dovesse incentrarsi sui problemi cronici della città, sulle sue strutture sociali. E in tal senso ne ha diretto l’opera sino al dicembre del 1990, quando spirò due giorni prima di compiere il secolo di vita. Da allora abbiamo portato avanti questo suo
impegno».

In che modo?
«Il legato michelucciano ci porta a muoverci secondo il principio dell’“utopia concreta”. Non è un ossimoro, ma un impegno propositivo. Ci siamo concentrati sulle parti più difficili della città: i campi dei nomadi, l’accoglienza degli immigrati e le carceri, misurandoci su casi precisi. Un esempio significativo è l’intervento compiuto al Poderaccio, campo nomadi di Firenze per i quali verso la fine degli anni 90 siamo riusciti a sviluppare un nuovo piccolo villaggio: è stata la prima esperienza di questo genere in Italia. Altri interventi simili sono stati compiuiti nella zona del Guarlone a Firenze e a Coltano nel Pisano. Sono state realizzate case, piccoli quartieri che hanno contribuito a rompere il pregiudizio verso i rom e a predisporre situazioni che hanno portato a un cambio negli stili di vita delle persone e quindi anche nelle relazioni tra questi e la città. E abbiamo accompagnato singole famiglie rom a reperire alloggi in altri contesti urbani».

La casa come strumento di inserimento sociale…

«Mi diceva uno dei primi rom con cui abbiamo lavorato come la sua famiglia si fosse impegnata nel sistemare l’alloggio assegnatogli, che era stato lasciato in condizioni deplorevoli dai precedenti occupanti. I condomini li guardavano con diffidenza. Allora loro presero a lasciare la porta aperta e tutti potettero vedere come imbiancavano, riparavano, arredavano. Poi cominciarono a preparare il caffè e pian piano quelli che passavano erano attirati dall’aroma e inviati a entrare».

Avrete riscontrato anche casi di ostilità…

«Dove abbiamo promosso i nuovi insediamenti ci sono state molte resistenze. Firme raccolte a migliaia per impedirli. Ma poi, con la prossimità tra le persone, l’ostilità ha ceduto il passo al rapporto umano. I nuovi quartieri sono stati progettati per favorire gli incontri: vi sono molti spazi pubblici, grandi androni, giardini, piazze. Gli appartamenti sono necessariamente piccoli. È qualcosa di simile al concetto di cohousing, studiato per persone con poca capacità di spesa e dove, con buona volontà, le opere di mantenimento sono condotte dagli stessi abitanti».

Questi edifici sono di proprietà pubblica…
«Certamente. Penso che i Comuni dovrebbero sempre mantenere molti edifici destinati alle fasce sociali deboli. Naturalmente, man mano che nelle famglie aumenta la capacità di spesa allora passano ad abitare altre case e lasciano libere quelle in precedenza affidategli. Purtroppo il patrimonio abitativo pubblico italiano è tra i più piccoli in Europa e questo rende difficile il processo di evoluzione sociale. Qui da noi l’edilizia pubblica nata nel secondo dopoguerra col cosiddetto “piano Fanfani”, non si è evoluta nel tempo per rispondere agli arrivi di immigrati, di rom o alle nuove povertà. In Paesi come l’Olanda, la Francia o la Germania le case a carattere sociale sono molto più numerose, e di qualità migliore».

Che idea aveva Michelucci per le periferie?
«Le considerava occasioni per riprogettare la città: insieme con gli abitanti, in particolare con i giovani, con cui si costruisce il futuro. Un concetto oggi ripreso da Renzo Piano. I centri storici sono le parti compiute, sono “pieni”; nelle periferie si può “fare spazio”, diceva Michelucci. Non desiderava che fossero concepite secondo schemi simili a quelli dei centri storici, ma che si rispondessero alle necessità specifiche di chi ci vive. Al proposito, un progetto compiuto dalla Fondazione Michelucci coi ragazzi delle scuole superiori fiorentine e chiamato “Sguardo dei giovani sulla città che cambia” ha ricevuto un premio dell’Unesco. Michelucci aveva presente la necessità di recuperare i luoghi esistenti per dar loro una nuova storia. A patire dai capannoni abbandonati, dove spesso abitano da abusivi gli immigrati».

E vi siete occupati anche di carceri?

«Tra Firenze e Scandicci, periferica a entrambe le città, c’è la nuova casa circondariale. Con Michelucci vi si progettò il “giardino degli incontri”. Un luogo dal carattere urbano dove i carcerati possano vedersi coi parenti e in certe circostanze anche i cittadini possano conoscere la realtà carceraria».

La Fondazione svolge anche un ruolo di consulenza?

«Operiamo coi Comuni e coi progettisti da questi incaricati, svolgiamo studi, analisi, formuliamo proposte. Ci siamo trovati di fronte a ipotesi di centri di accoglienza per immigrati concepiti come foresterie, e abbiamo cercato di trovare una soluzione che avesse un carattere più comunitario e urbano. A Trento ci hanno chiamati per una consulenza per favorire l’inserimento di oltre cento famiglie da poco giunte nel borgo di Gardolo. Abbiamo coinvolto tutte le associazioni presenti sul territorio in una ricerca sulla qualità abitativa necessaria propria per quel luogo. Un altro importante studio è quello compiuto sul quartiere dell’Isolotto a Firenze, mirato ad aumentarne la qualità intesa secondo parametri socialmente rilevanti, non semplicemente economici. Ora stiamo partecipando a progetti europei incentrati sul tema dell’abitare per i nuovi immigrati».

La casa è strumento che aiuta a formare la cittadinanza?

«Sì, lo è. Costituisce parte importante dell’identità delle persone. Chi perde il tetto subisce una crisi profonda. Abbiamo constatato che la possibilità di avere una casa porta anche le persone che rischiano la totale emarginazione, a recuperare il rapporto con la società. Evita traumi profondi, promuove l’intesa».

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Regione Lazio, patto per le nuove case popolari in affitto

Firmato protocollo sull’housing sociale nelle aree più bisognose. Possibile anche la vendita.

Case in housing sociale, da realizzare a Roma e nei comuni a più alta tensione abitativa del Lazio, da affittare oppure da vendere, destinate a giovani coppie, sfrattati e a chi non può permettersi un mutuo. È l’obiettivo finale del protocollo di intesa del protocollo di intesa firmato questa mattina dal Governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, dall’assessore regionale alle Politiche abitative, Fabio Refrigeri, e dal direttore generale della Sgr di Cassa Depositi e Prestiti, Marco Sangiorgi.

NUOVA OCCASIONE – “Un’opportunità che prima non era stata colta – ha spiegato stamattina il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti – perchè la Regione non si era mossa verso Cdp – ha aggiunto – Diamo, quindi, la possibilità di accedere a questo fondo per costruire, attraverso le Ater, delle case, con un affitto di 5 euro al mq a Roma e 4 euro al mq nelle province”. Entro dicembre le Ater dovranno presentare i progetti e “trattandosi di terreni Ater, quindi tendenzialmente finalizzati all’abitare, questo dovrebbe accelerare i processi. Si apre una competizione tra le Aziende territoriali, oggi si parte. I risultati saranno molto positivi”.
L’accordo vuole individuare progetti di nuovi alloggi, in affitto o vendita a prezzi calmierati, idonei a essere finanziati con le risorse del Fondo Investimenti per l’abitare, gestito da Cdp Investimenti Sgr e dotato di una capacità residua di 500 milioni, da allocare entro il 31 dicembre 2015. Entro questo termine andranno presentati i progetti e il protocollo prevede la realizzazione di una serie di azioni quali il coinvolgimento delle Ater, il riuso di immobili pubblici, la realizzazione di residenze per particolari categorie sociali (per esempio studenti), la riqualificazione urbana e la gestione sociale degli alloggi.

NEL SOLCO DEL PIANO CASA – Il protocollo contribuisce anche a rendere operative le norme previste dal nuovo piano Casa perchè il Fondo Investimenti per l’Abitare può contribuire a finanziare la quota di alloggi in affitto a canone calmierato che il Piano impone agli operatori a fronte della possibilità loro concessa di cambiare destinazione d’uso a immobili, aree e premi di cubatura. I progetti dovranno avere un livello elevato di qualità edilizia e ambientale ed essere dotati di servizi e funzioni compatibili. Saranno privilegiati il recupero urbanistico ed edilizio di aree urbane e la valorizzazione di patrimoni immobiliari dismessi o in via di dismissione. Il binomio sostenibilità ambientale ed efficienza energetica rappresenterà la bussola degli interventi che, naturalmente, dovranno rispondere a tutti i requisiti di fattibilità amministrativa ed economico finanziaria.

PARLA LA CDP – “Lo scopo- ha detto il dg della Sgr di Cdp, Marco Sangiorgi- è fare abitazioni essenzialmente per l’affitto, un settore per il quale negli ultimi anni c’è una domanda straordinaria, per cui molti fondi si stanno trasformando da vendita a locazione. I prezzi di locazione sono molto bassi: parliamo di case di 70 metri quadrati a circa 300-350 euro al mese. Al momento abbiamo allocato circa 1,5 miliardi di fondi, su 217 interventi nel Paese, per 14 mila appartamenti e 6800 posti letto. Puntiamo sulla rigenerazione urbana, e abbiamo finanziato una iniziativa per individuare tecnologie costruttive a basso costo e ad alta efficienza”. Tuttavia a Roma “dove c’è più bisogno, per ora abbiamo fatto poco, ed è per questo che siamo molto attenti. Abbiamo preso due delibere, una con un fondo della Legacoop abitanti per 300 alloggi in vecchi piani di zona, e poi una iniziativa dal gruppo Toti, per un asset alla Magliana: usando il Piano casa regionale vogliamo fare un”operazione di riuso per 350 appartamenti. Due progetti da aggiungere a quelli previsti dal protocollo”.

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La sfida dell’architettura è salvare le periferie

Lezione alla Columbia University di New York: “Qualcosa si muove anche da noi, si va nella direzione giusta”.

«La missione dell’architettura in questo secolo è salvare le periferie. Se non ci riusciamo sarà un disastro, non solo urbanistico, ma anche sociale».

L’auditorium della facoltà di Architettura della Columbia University è pieno. Così pieno che gli organizzatori hanno dovuto aprire altre due sale per proiettare l’incontro con Renzo Piano, e farlo vedere a tutti gli studenti che hanno fatto la fila per ascoltarlo. Lui è venuto a parlare del progetto a cui sta lavorando per il nuovo dipartimento della Columbia dedicato allo studio del cervello, ma il mese prossimo inaugurerà prima la nuova sede di Intesa Sanpaolo a Torino, e poi quella del Whitney Museum a New York. La serata quindi si trasforma in fretta in una conversazione a tutto campo sulla sua carriera, e la sua visione, che parte però dalle radici.

«Ognuno – racconta Piano – viene da un luogo che lo ispira. Poi naturalmente quando lavori in una città devi diventarne parte, per sentirla e capirla, ma l’origine resta il punto di partenza. Io sono nato e cresciuto a Genova, una città mediterranea, e questo ha influenzato la mia vita. Metà della mia città è acqua. E’ un grande porto e tutto si muove: galleggiano le navi, le gru, hai la costante sensazione che ogni cosa sia sempre in movimento». Questo, forse, è uno degli elementi che lo ha spinto ad immaginare «edifici capaci di volare. Davvero, non scherzo. Un edificio secondo me non deve occupare lo spazio su cui sorge, ma restituirlo alla città che glielo ha dato». Per capire cosa intende, basta guardare ai progetti per la sede del New York Times e la Morgan Library a New York, lo Shard di Londra, e adesso anche il nuovo campus della Columbia: «La cosa che mi piace di più del palazzo del New York Times, ma anche della Morgan, è la possibilità di guardare dall’interno oltre l’edificio, oltre l’ingresso, nel traffico della strada. La trasparenza, così, diventa espressione della complessità e dell’appartenenza».

Perché gli edifici che Piano vuole costruire, anche la sede di una università, devono «fondersi con la città. Hanno una funzione da svolgere, naturalmente, ma devono anche essere aperti alla comunità in cui sorgono. Lo Shard, ad esempio, è stato costruito sopra un grande centro di trasporti pubblici, il London Bridge, proprio con l’idea di sviluppare la città in verticale senza aumentare il traffico. Ci sono ristoranti, alberghi, uffici, residenze, che si mescolano al tessuto urbano».

Questo lavoro di integrazione ora va fatto soprattutto nei sobborghi, e questo è il secondo elemento fondamentale di ispirazione che Piano ha preso da Genova: «Io sono cresciuto in periferia, e non vedevo l’ora di scapparne». I ragazzi ridono, ma lui insiste: «Non avete capito, era naturale. Non vuoi scappare perché non ti piace, ma per esplorare. Quando nasci in una città come Genova, e vedi sempre il mare davanti a te, devi essere cretino per non sentire la voglia di andare a vedere cosa c’è dall’altra parte. In una città di mare non puoi mai essere soddisfatto di quello che hai, senti sempre il desiderio di andare a conoscere il mondo».

Piano lo ha fatto, con enorme successo, eppure adesso torna alle sue radici personali per indicare la strada dell’architettura nel prossimo secolo: «Durante gli Anni Sessanta, Settanta, anche Ottanta, in Europa la missione era salvare i centri storici. Ci siamo riusciti, e l’abbiamo fatto bene. Ora, però, la missione di questo secolo deve essere salvare le periferie». Il motivo è chiaro, guardando per esempio alle banlieue di Parigi, che ormai sono diventate anche la culla del terrorismo islamico: «Parigi è una città che ha 6 milioni di abitanti, ma solo 600.000 vivono al centro. Questa segregazione va sanata, altrimenti sarà un disastro. Non solo urbanistico, ma soprattutto sociale».

Piano ha un’idea precisa su come procedere: «Dobbiamo smettere di costruire periferie. Ormai le nostre città sono piene di questi luoghi dove il centro non è più centro, e la campagna non è ancora campagna. Invece di continuare ad espanderli così, dobbiamo intensificare i nostri centri urbani, fecondando e fertilizzando le periferie. Ovunque ci sono grandi buchi neri da recuperare e trasformare, in modo che questi sobborghi diventino luoghi di civiltà, e non solo posti dove si va a dormire. Capisco che con i centri storci era più facile, perché sono fotogenici, ma anche i sobborghi hanno la loro bellezza. La bellezza dei desideri di milioni di esseri umani che li abitano, e dobbiamo aiutarli a realizzare». Anche in Italia, dove Piano è orgoglioso dei progetti di recupero delle periferie avviati a Catania, Roma e Torino: «Qualcosa si muove anche da noi, stiamo andando nella direzione giusta. E’ il momento di avere fiducia».

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Fauna e avifauna al Lago ex Snia

Lo scopo di questo opuscolo è quello di mostrare al lettore quali sono le specie di
fauna e avifauna che frequentano l’area del Parco
delle Energie (via Prenestina 175) e del Lago ex Snia, recentemente salvato dalla cementificazione. Il WWF Pigneto Prenestino, dai primi giorni di novembre 2014, ha iniziato una
minuziosa opera di monitoraggio dell’avifauna e della fauna che frequenta l’area del
lago e del parco, finalizzata a censire le specie presenti e ad evidenziare la necessità
di tutelare tale area, vera e propria oasi naturalistica all’interno di Roma, a pochissimi
chilometri dal centro storico e in una zona tra le più densamente abitate, trafficate e purtroppo inquinate della città. A supporto della richiesta di demanializzazione del lago e per la sua istituzione a

Monumento Naturale
”, presentata dal Forum Territoriale Permanente del Parco
delle Energie e sostenuta dal WWF Pigneto Prenestino, seguono alcune fotografie scattate dai nostri volontari nel corso dei monitoraggi e rilevamenti effettuati, che
mostrano l’unicità di un’area naturalistica come quella del lago e del parco limitrofo, che nonostante le enormi pressioni antropiche circostanti riesce ancora a “resistere” e
ad offrire ai cittadini una pregevole testimonianza di come la natura può ricrearsi dei
propri spazi anche all’interno del contesto urbano.
Le attività di monitoraggio dei volontari del WWF Pigneto Prenestino, sono iniziate nei primi giorni di novembre e continuano
tuttora. I rilevamenti per l’area del
lago vengono effettuati in due distinte zone, dal prato accessibile da via Portonaccio e

dal cosiddetto “punto panoramico”, che coincide con il perimetro della pineta del
Parco delle Energie che si affaccia sullo specc
hio d’acqua, e che si è rivelato come un
punto di osservazione fondamentale, in quanto offre una visuale molto ampia e completa e, grazie alla distanza e alla sopraelevazione rispetto al lago, non si reca alcun disturbo agli animali, che quindi si mostrano ai binocoli senza remore e timori.
I rilevamenti nell’area del prato vengono effettuati, insieme agli attivisti del Forum Territoriale Permanente del Parco delle Energie, una volta a settimana. All’interno di
questa area sono stati individuati due punti distinti che fungono da punti di osservazione, ossia il prato aperto antistante la sponda del lago e la zona del roveto,
in direzione delle strutture dell’ex fabbrica della Snia
-Viscosa. I rilevamenti dal punto panoramico del Parco delle Energie vengono invece effettuati con cadenza
quasi giornaliera. Le specie di avifauna avvistate vengono registrate all’interno di un
foglio excel appositamente predisposto, che consente di avere sempre a disposizione
lo “storico” delle osservazioni, da cui è possibile ricav
are statistiche ed informazioni varie. Le foto che seguono sono soltanto le più significative tra le tante che sono state scattate nel corso di questi primi mesi di osservazioni, e sono organizzate
in “Fauna” e “Avifauna”, con l’aggiunta di
poche altre relative a insetti e rettili. Buona lettura e buona visione delle foto, con la speranza che le stesse facciano
riflettere sull’importanza di proteggere queste creature che abbiamo accanto ogni
giorno (anche se facciamo fatica a notarle), sulla necessità di conservare integri i loro
habitat riducendo al minimo una pressione antropica che in un’area urbana centrale
come la nostra è persino più forte che altrove.

Fauna_e_avifauna_al_Lago_ex_Snia_e_al_Parco_delle_Energie-libre

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Valle dei casali: da approvazione piano di assetto opere importanti per il Municipio XI

L’approvazione del Piano di Assetto Territoriale della Valle dei Casali da parte del Consiglio Regionale del Lazio, segna una svolta dopo oltre un decennio di attesa, con un lavoro svolto di intesa con i comitati ambientalisti e con i Municipi XI e XII (nei quali ricade l’area) e di enorme importanza come lo fu quello approvato nel 2009 relativo alla Tenuta dei Massimi, sempre nel Municipio XI. – Lo dichiara Emanuela Mino, Presidente del Consiglio del Municipio Roma XI.

La Valle dei Casali è un area di 80 ettari dove zone urbanizzate e beni architettonici convivono con un l’importante e prezioso tesoro faunistico e floreale e a numerose aziende agricole, tutte realtà da tutelare che finalmente, in un sistema di regole chiare, potranno essere valorizzate e rilanciate.

Nel Municipio XI e nelle zone limitrofe potranno partire così una serie di opere: la trasformazione in giardini pubblici con piste ciclabili delle aree intorno a Via Newton; l’avvio dei progetti di recupero dei casali storici come Villa York e, sulla collina di Monte Cucco al Trullo, la Vaccheria e Villa Kock; la ristrutturazione dell’ex istituto Baccelli e grazie alla riconversione biologica delle attività agricole, anche la realizzazione di un polo agro-ambientale e turistico rurale.




Roma, la Politica è tornata e fa grande la città

«Vogliamo costruire una poli­tica per far incon­trare chi ha un pro­getto cul­tu­rale di fron­tiera e non ha gli spazi, con chi ha spazi ma non un pro­getto per far tor­nare a ren­dere eco­no­mi­ca­mente que­sti edi­fici, almeno un po’»Il manifesto, 12 marzo 2015
Roma è attra­ver­sata da con­flitti, una vera esplo­sione. Sem­bra che tutti i nodi siano giunti al pet­tine in una sola volta, e tutti adesso. Non ultimo il sistema di cor­ru­zione di Mafia Capi­tale. «Cam­biamo tutto», scri­veva Marino in cam­pa­gna elet­to­rale, sta avve­nendo; ma la sen­sa­zione è che non ci sia un governo ordi­nato del cam­bia­mento.
A Roma da lungo tempo man­cano poli­ti­che urbane di con­tra­sto al capi­ta­li­smo egoi­sta che ha impo­ve­rito il ceto medio. Anche per que­sto sono pro­li­fe­rate forme di resi­stenza e di autoaf­fer­ma­zione dei diritti in rispo­sta alle cre­scenti dise­gua­glianze. Ma si sono affer­mate, anche, col­lu­sioni tra istanze “di diritti” e scelte poli­ti­che basate su “scambi”. Non si può rim­pian­gere ciò che è stato, né i suoi frutti piut­to­sto amari e in molti casi indigesti.

Cul­tura come fonte di cam­bia­mento è quella di un’amministrazione che costrui­sce per­corsi tra­spa­renti per favo­rire gli usi tem­po­ra­nei di spazi dismessi. Lo abbiamo spe­ri­men­tato nel terzo Muni­ci­pio, per favo­rire la dif­fu­sione degli usi tem­po­ra­nei e, in pro­spet­tiva, rea­liz­zare l’agenzia comu­nale che age­voli l’affidamento a realtà cul­tu­rali che fer­men­tano den­tro lo spa­zio abi­tato. Sì, come avviene a Ber­lino ora avviene anche a Roma, pos­siamo aggior­nare le analisi.

Espe­rienze cul­tu­rali come cuore della rige­ne­ra­zione urbana. Sap­piamo di realtà cul­tu­rali in cerca di spazi a basso costo e di spazi vuoti in cerca di uti­liz­za­zioni, anche a basso ren­di­mento. Come nel caso dei 42 ex cinema chiusi, 28 da oltre dieci anni. Un periodo in cui, con lenta ero­sione, sono diven­tati negozi di casa­lin­ghi o sale bingo, senza un solo “tweet” di denun­cia. Vogliamo costruire un dispo­si­
tivo ammi­ni­stra­tivo, una poli­tica, per far incon­trare chi ha un pro­getto cul­tu­rale di fron­tiera e non ha gli spazi, con chi ha gli spazi ma non ha un pro­getto crea­tivo per far tor­nare a ren­dere eco­no­mi­ca­mente que­sti edi­fici, almeno un po’. Un po’ più di niente, e alcuni sono anche immo­bili di par­ti­co­lare valore sto­rico e archi­tet­to­nico. Far incon­trare que­ste due domande con il Muni­ci­pio, per san­cire il legame tra pro­po­sta e ter­ri­to­rio. Resti­tuire vita a luo­ghi morti, quelli sì “obi­tori cul­tu­rali” da decenni, che oggi l’amministrazione rimette al cen­tro. Altro che sacco di Roma o chiu­sura degli spazi sociali!

Città è polis ma è anche pole­mos, con­flitto. E la poli­tica si radica nella città per risol­verlo e farlo avan­zare oltre. Public poli­cies non è allo­care favori ma piut­to­sto favo­rire l’azione pri­vata e i pro­cessi di sim­bo­liz­za­zione della realtà. La poli­tica non trova solu­zioni a chi urla di più. La poli­tica pub­blica costrui­sce per­corsi di riscatto a van­tag­gio di tutti.

Ecco lo sforzo di cam­bia­mento che è in atto a Roma, ecco per­ché i con­flitti sono veri e pro­fondi. Anche que­sta è bel­lezza civile. La coa­li­zione che serve alla città, adesso, è quella che ci spinge ad essere ancora più rigo­rosi, uscendo da una ipo­cri­sia della media­zione e della collusione.

Una città nor­male ci aspetta già oggi, si sta già rea­liz­zando. Una città che fa del suo corpo già costruito il solo luogo della tra­sfor­ma­zione. Non un chicco di cemento in 20 mesi è stato auto­riz­zato o anche solo pen­sato fuori dal costruito o dal costrui­bile. Ma una città più densa e com­patta è anche una città che pone una sfida ai comi­tati: pas­sare dall’essere con­tro all’essere per la qua­lità degli inter­venti. Abbiamo rac­colto dai pri­vati e stiamo dise­gnando 160 inter­venti di tra­sfor­ma­zione nei tes­suti della città pro­dut­tiva, den­tro la città costruita. Scelte urba­ni­sti­che fatte solo a soste­gno di pro­getti di svi­luppo eco­no­mico e non mere quan­tità edificatorie.

Ses­santa incon­tri nei quin­dici muni­cipi, oltre 200 asso­cia­zioni e quasi 2000 per­sone hanno par­te­ci­pato alla costru­zione delle “Carte dei valori del muni­ci­pio”. Ascolto dal basso da cui è emersa la cen­tra­lità dello spa­zio di pros­si­mità e la neces­sità di risol­vere con­flitti e con­trad­di­zioni tra dise­gno della città ed esi­genze degli abi­tanti.

Una città nor­male e respon­sa­bile è in vista già oggi. Da costruire in pro­spet­tiva, rea­liz­zando in pieno la Muni­ci­pa­liz­za­zione e forse il con­tem­po­ra­neo supe­ra­mento di Roma Capi­tale e della Regione per far emer­gere la Roma Metro­poli; il ter­ri­to­rio abi­tato di Roma nel suo dive­nire (Roma2025). E, infine, una poli­tica cul­tu­rale che dia respiro agli enzimi nella Roma Grande For­mato, come sta facendo Gio­vanna Mari­nelli. Forse non è ancora per­ce­pi­bile una visione d’insieme, ci sono, però, per­corsi da accom­pa­gnare, anche in un rap­porto dia­let­tico, cer­ta­mente da non disco­no­scere. Un’opportunità anche per la sini­stra cri­tica, o no?

Tor­nerà la Poli­tica, una policy dif­fusa nella città, se saprà ricer­care il cam­bia­mento pro­fondo, altri­menti la città resterà vit­tima di finti con­flitti o di armo­nie appa­renti: nulla di vero e quindi nulla di buono.

Intanto, serve rea­liz­zare le cor­sie pre­fe­ren­ziali per gli auto­bus, erano nel pro­gramma di Marino: è ora di farle.

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Tor Sapienza: cassonetti in fiamme per gli sfratti Ater

I rifugiati non c’entrano.

La rabbia dei residenti stavolta non ha niente a che fare con i profughi del centro di accoglienza. “Pensano di prenderci in giro? Questo è solo un modo per togliere i riflettori dai problemi veri”

Cassonetti in fiamme nella notte, istituzioni sul posto al mattino, rifugiati allontanati dal centro di accoglienza, blindati dei Carabinieri, cittadini davanti al Lory Bar. A Tor Sapienza sembra di assistere al copione di Novembre, quando nel quartiere scoppiò la rivolta contro il centro di accoglienza di viale Morandi. Ma attenzione, perché l’apparenza inganna.

Se infatti in autunno i profughi hanno fatto almeno da capro espiatorio di una periferia malata che gridava aiuto, stavolta non c’entrano nulla. La rabbia covata, quella che ha spinto qualcuno a incendiare i secchioni, ha ben altra ragione: ottanta lettere di sfratto arrivate da Ater agli inquilini delle case popolari, decine e decine tra occupanti e morosi. Decine e decine di famiglie con bambini che rischiano di restare senza un tetto. E’ questo il motivo reale. E l’estraneità dei rifugiati rispetto al gesto di protesta è chiara a tutti, anche agli amministratori.

“Non c’è stata nessuna tensione tra cittadini e ospiti del centro” ha spiegato il vicesindaco Luigi Nieri, sul posto per un sopralluogo in mattinata con la dottoressa Rossella Matarazzo, delegata alla sicurezza del Campidoglio, e il presidente del V Municipio, Giammarco Palmieri. Nessuna tensione, niente di più vero. Ma la prima mossa dell’amministrazione è andata comunque in quella direzione.

I quaranta richiedenti asilo sono stati trasferiti a notte fonda, come ha subito comunicato alla stampa l’assessore alla Politiche Sociali, Francesca Danese, sul posto dopo il rogo. “Prenderò questi ragazzi e li porterò in un posto importante della città, non posso dire quale”. Nel più breve tempo possibile e rigorosamente scortati dalla polizia, onde evitare qualunque tipo di ritorsione. La decisione di allontanarli era stata già presa e comunicata al quartiere a Gennaio, ma la stretta sul trasferimento e le parole di commento dell’assessore non sono piaciute granché ai residenti.

“E’ una sconfitta per me e per tutta Roma, li trasferiamo subito e da questa sera avranno una casa più accogliente. Non meritano questa situazione nè loro nè i residenti. Spero che questa città sappia accogliere in maniera diversa”. Già, ma questa volta non sembra esserci ragione alcuna per tirare in ballo l’accoglienza. E comunque “l’emergenza immigrazione è l’ultimo dei problemi per questo quartiere”.

Lo dicono tutti, dal Comitato di Quartiere Morandi Cremona, interlocutore delle istituzioni da mesi che proprio questo pomeriggio verrà ascoltato in Campidoglio, ai semplici cittadini seduti sul muretto del bar, che ora temono il tranello mediatico. “Ci vogliono prendere in giro? Allontanare quelli del centro non è altro che un modo di spostare l’attenzione dal problema. Li hanno cacciati nella notte facendoci passare a noi come i cattivi che non li volevamo. Ma il problema non è questo, e lo sanno tutti”.

Roberta è tra quelli che hanno ricevuto il “decreto di rilascio di alloggio di edilizia residenziale pubblica”, perché “occupa senza titolo” da novembre 2013. Due figli piccoli, disoccupata, tira avanti con l’assegno di mantenimento che le gira il marito, non può permettersi un affitto, e al di là che sia in torto e sia la prima a riconoscerlo, si aspetta almeno un accordo con Ater che preveda forme di tutela, ma soprattutto si aspetta che gli amministratori non chiudano gli occhi. “Se quello di spostare i rifugiati è un modo per togliere i riflettori dal quartiere e fare finta che tutto si stia risolvendo hanno sbagliato”. Che insomma non passi il messaggio “ora che non ci sono più i rifugiati, è tutto a posto”. Perché così non è.

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I cittadini rom e le periferie romane

C’è un’anomalia tutta romana in una gestione tanto problematica della condizione abitativa dei Rom. Non è così altrove e non esistono serie motivazioni “originarie” o “culturali” perché si continui a fare danni sociali e a favorire l’arricchimento delle mafie, la discriminazione e la crescita di tensioni esplosive. Il superamento dei campi e della devastante logica emergenziale che li ha accompagnati per decenni è possibile. Richiede però determinazione e scelte politiche coraggiose. Tra gli interventi prioritari, c’è naturalmente la sottrazione a una gestione corrotta e criminale di fondi che vanno destinati ai quartieri perché attuino politiche di inclusione e convivialità attraverso soluzioni abitative destinate anche alle popolazioni rom. Va affermato uno spirito non discriminatorio che sviluppi una condizione di uguaglianza dei diritti e dei doveri. Qualcosa comincia finalmente a muoversi “dal basso” anche nelle periferie della capitale. Se ne parlerà in un ciclo di incontri che comincia il 13 marzo

L’abbiamo visto nelle recenti vicende di cronaca: la cosiddetta emergenza Rom é servita a inscenare campagne politiche allarmistiche e a finanziare imprese o finte cooperative che lucravano in modo spietato e indecente con lo stesso stile che avrebbero tenuto per lo spaccio di eroina. In alcuni casi, poi, i finanziamenti possono essere ricondotti alle mafie o a grossi e avidi interessi legali sul sociale. Né i Rom, né i cittadini hanno avuto la possibilitá di esprimersi sui modello segregante dei campi. I primi sono stati spostati da una parte all’altra come fossero pecore, i secondi hanno visto arrivare i campi senza essere né coinvolti né consultati finendo per subire tutte le conseguenze legate al degrado di queste sistemazioni.

Questo modello di gestione abitativa della popolazione rom, è un’anomalia tutta romana perché in altre zone d’Italia, e sopratutto d’Europa, esistono esperienze d’inclusione sociale di ben altro livello. Gli esempi europei sono molti, in Spagna – per citarne uno – i Rom hanno acesso alle case popolari. Senza andare tanto lontano, possiamo però guardare a cosa ha fatto la Regione Emilia Romagna, e in particolare la cittá di Bologna, per superare i “campi profughi”. come venivano chiamate un tempo quelle strutture, essendo state pensate e istituite per accogliere i profughi dalla guerra dei Balcani.

Insieme all’Università di Bologna, la Regione ha lanciato la proposta di un percorso di elaborazione per una nuova legge regionale su Rom e Sinti, in sintonia con la Strategia Nazionale d’Inclusione. L’obiettivo era iniziare a considerare i Rom dei cittadini italiani a tutti gli effetti, con pieni diritti e pieni doveri. Così, negli ultimi anni, a “Bologna, Ferrara, Modena, Piacenza e Reggio Emilia (…) sono stati sperimentati progetti di accompagnamento “fuori” dal campo, verso diverse forme dell’abitare: dalla microarea al terreno privato, all’appartamento (di edilizia pubblica e privata)”. Assunta la responsabilità di chiudere i campi e superare gli effetti devastanti di anni di politiche discriminatorie, sono stati gli enti locali a commissionare all’Università di Bologna studi dettagliati sulle popolazioni rom del territorio finalizzati a comprendere come innescare processi partecipativi e plurali di cambiamento. E’ cominciata, dunque, una raccolta dati sull’età, la provenienza, le competenze, i desideri di questi gruppi. L’analisi dei contesti sociali ha poi consentito la ricerca di soluzioni innovative per attuare politiche virtuose.

I progetti sull’abitare sperimentati in Emilia-Romagna sono diversi a seconda del contesto e della tipologia degli insediamenti della popolazione rom e sinti. “Tenendo distinte le esperienze di realizzazione delle microaree (Modena e Reggio Emilia) – cui abbiamo deciso di accostare l’acquisto di terreni privati da parte dei sinti – dai percorsi di inserimento delle famiglie in appartamento (si tratta per lo più di alloggi ERP) a Piacenza e Ferrara. Il progetto di Bologna – a differenza di quelli realizzati negli altri comuni – non riguarda la comunità dei sinti ma la popolazione dei rom e, in particolare, si riferisce alla chiusura dei campi allestiti per i profughi che all’inizio degli anni ’90 sono arrivati nel territorio bolognese”.

“In alcuni periodi degli anni ’90, nel campo di Modena sono state presenti più di 300 persone, tutte appartenenti alla comunità sinti (Puggioli, Santorso 2009, 215). Il racconto di un sinto che ci abitava ben evidenzia le condizioni di degrado, i disagi della convivenza forzata – qual è quella in un campo – e gli effetti di stigmatizzazione che derivano dall’essere identificati come “gli zingari che abitano nel campo”: «In un campo, anche con dei muretti, ci sarà sempre del degrado e della confusione. Pensate a come stavamo a Baccelliera, dove non si poteva dire niente al vicino se teneva la musica alta, e per qualsiasi cosa si finiva per litigare. Poi Baccelliera ha rotto la fiducia della città nei nostri confronti. Se qualcuno veniva a fare danni, la cosa ricadeva su tutti. I gagi del quartiere smettevano di sopportarci come se fossimo tutti uguali. Chi mi faceva credito o chi mi parlava con confidenza, smetteva: non ero più una persona ma “uno di loro”» (in Puggioli, Santorso, 2009 219)”. (Lugli & Crocitti: 2013).

La ricerca è estremamente interessante soprattutto perché gli amministratori, dopo molti anni di convivenza, decidono di valorizzare la memoria collettiva dei sinti che abitavano insieme alle popolazioni emiliane senza discriminazioni pesanti, e propongono di ritornare ad un sistema di parità in forma graduale, anche modificando i servizi sociali esistenti: “Tutelare il diritto alla casa dei cittadini sinti e proseguire nel percorso verso la loro autonomia richiede l’elaborazione di politiche integrate «in cui ci si assuma delle responsabilità» il tema dei nomadi «è sempre stato considerato un problema dei servizi sociali e non del sociale» (MO 1).

Anche al fine di superare logiche di assistenzialismo, i progetti non devono essere pensati come interventi “speciali” per le minoranze rom e sinti. E’ sufficiente che siano programmati secondo il principio di uguaglianza sostanziale e di equità”. Da quando il campo è stato chiuso, la figura degli “operatori dei nomadi” – le persone assunte dal Comune per svolgere attività di accompagnamento e sostegno alla transizione dal campo alle diverse formule abitative – non esiste più. Ci sono degli operatori comunali che svolgono compiti «a metà via tra l’amministratore di condominio e il portiere sociale» (MO 1); si tratta di azioni a supporto delle famiglie sinti in difficoltà non diverse da quelle previste per tutti i cittadini che si trovano in condizioni di disagio.

Questo non è stato semplice da accettare per alcune famiglie sinti che chiedevano perché gli operatori non facevano più l’iscrizione dei loro figli a scuola. E’ stato un cambiamento radicale, gli operatori spiegavano di essere disposti ad accompagnarli una volta per far vedere loro come funziona ma che poi, come normali cittadini, i Sinti dovevano imparare a farlo da soli. Nascono così figure di operatori di quartiere che mediano nelle relazioni quotidiane per far acquisire competenze alle persone ma non per sostituirsi ai Sinti nella relazione con il mondo esterno. Le seconde generazioni evidenziano il cambiamento: le persone sono completamente autonome e quasi tutte diplomate.

Il Piano integrato di Bologna per il superamento dei campi

Vogliamo focalizzare ora l’attenzione sul Piano Integrato di Bologna perché si parla di ambiti più simili a quelli delle periferie romane. Ne sono però anche lontani, vista l’accumulazione virtuosa di servizi sociali diffusi che in Emilia si verifica da anni. A Bologna, l’apertura dei campi è avvenuta in seguito a due flussi migratori che hanno determinato una situazione di “emergenza”: il primo è quello dei profughi in fuga dai Balcani degli anni ’90, il secondo è quello dei Rom rumeni dell’inizio del 2000, dopo l’ingresso della Romania nell’Unione Europea. Anche se i campi si sono poi trasformati nel modello amministrativo di gestione e controllo delle minoranze di cui si è già detto. Si consideri, infatti, che la chiusura dei campi è del 2008, quasi vent’anni dopo l’arrivo dei primi immigrati. In questo caso, i percorsi di uscita dal campo (…) sono complicati dallo status giuridico dei Rom: in quanto cittadini stranieri, per loro si pone il problema della condizione di regolarità sul territorio italiano connessa al rilascio dei documenti di soggiorno.

Nella prima metà degli anni ’90, il Comune realizza due “strutture pubbliche di prima accoglienza” per le popolazioni, rom e non rom, in fuga dalla guerra nei Balcani: il campo profughi di Pianazze (Sasso Marconi), aperto nel 1994 e quello di Trebbo (Castel Maggiore), aperto nel 1995. Nei dieci anni successivi, i campi si trasformeranno da soluzioni “emergenziali” a luoghi “permanenti”. All’inizio del 2000, inoltre, il Comune effettua lo sgombero di alcuni “insediamenti abusivi” di Rom, soprattutto rumeni e slavi, lungo le rive del fiume Reno, «in quanto luoghi ad alto rischio sanitario e di ghettizzazione e caratterizzati da forte conflittualità con la popolazione residente nel territorio» (Extrafondente 2011, 83). Le persone sgomberate vengono provvisoriamente alloggiate nel campo di Santa Caterina e, successivamente (nel 2006), trasferite nella Residenza Sociale Transitoria Gandhi di via del Piratino. La Residenza era un campo attrezzato con 16 container dove, prima dell’arrivo dei Rom, alloggiavano dei lavoratori pakistani. Nel 2005, l’ex clinica Villa Salus viene adibita a luogo di residenza temporanea per i Rom sgomberati dal Ferrhotel – che era stato occupato da un gruppo di rumeni. (Lugli & Crocitti: 2013).

Dopo l’approvazione della legge regionale n.5/2004 “Norme per l’integrazione sociale dei cittadini stranieri immigrati”, che si proponeva tra l’altro di «garantire ai cittadini stranieri immigrati pari opportunità di accesso all’abitazione…[e] rimuovere eventuali condizioni di marginalità» (art.1), l’amministrazione comunale di Bologna inizia, nel 2005, la progettazione di interventi che mirano alla chiusura dei quattro campi profughi e alla predisposizione di percorsi individuali di trasferimento delle famiglie in soluzioni abitative non emergenziali (Extrafondente in Lugli & Crocitti: 2013). Nel “Piano d’azione straordinario per il superamento delle strutture di accoglienza d’emergenza temporanea e per l’accompagnamento e la mediazione sociale a supporto dell’integrazione dei soggetti in uscita”, approvato dal Comune nel 2007, si fissano le linee guida per il superamento dei campi.

Le soluzioni adottate sono state molto diverse

L’assegnazione di alloggi di edilizia pubblica residenziale; il trasferimento in strutture pubbliche; la stipula di contratti di sublocazione da parte del comune o contratti di locazione sul mercato privato; il rimpatrio volontario assistito – attraverso il progetto ROI (Ritorno Operativo Imprenditoriale) o il trasferimento all’estero. (Anci, 2010). Tra i vantaggi di questa soluzione abitativa (a differenza, ad esempio, dell’assegnazione di alloggi ERP) vi sono l’aver evitato concentrazioni di famiglie rom in determinati quartieri e l’aver mantenuto basso il livello di conflittualità con il vicinato.

Di non secondaria importanza è anche il risparmio dell’amministrazione comunale. Infatti, «la spesa a sostegno delle 53 famiglie beneficiarie del Piano è pari al costo di gestione di una sola della quattro strutture Si sottolinea la particolarità dell’approccio adottato dal Comune di Bologna: non una soluzione “calata dall’alto” ma un accompagnamento delle famiglie «nella ricerca della loro futura abitazione in maniera autonoma, di modo che potessero prendere coscienza fin da subito dei costi, delle spese e delle zone in cui sarebbero andati a vivere» (Piantoni in Lugli & Crocitti: 2013)

Al trasferimento sono stati affiancati operatori che hanno realizzato in anticipo corsi di lingua per adulti e giovani; corsi di economia domestica (capire la relazione con i condomini, luce, gas, acqua, tasse, servizi); incontri per comprendere i servizi in zona, capire a cosa servono e come utilizzarli e per accompagnare i genitori nell’inserimento scolastico, rendendoli autonomi nel confronto della scuola. Un aspetto importante è stato quello di seguire il progetto con borse di lavoro e formazione, consapevoli che richiedere di pagare un affitto senza un mezzo di sostentamento sarebbe stato fallimentare.

Gli operatori che si sono occupati dell’accompagnamento dal campo alla casa indicano due dei principali elementi che hanno rallentato i processi d’inserimento: la mancanza di decisioni politiche dovute al commissariamento del Comune e la crisi economica (Extrafondente in Lugli & Crocitti: 2013). Ulteriori punti critici sono emersi nella realizzazione del progetto e possono valere come proposte per la programmazione di futuri interventi: «Occorre investire più energie sull’alfabetizzazione degli adulti e sull’educazione civica e domestica, perché in alcuni casi l’inserimento nel mondo del lavoro risulta arduo non per mancanza di volontà delle persone da inserire ma per non possedere gli strumenti, le competenze e le capacità indispensabili e minime; occorre, insieme, preparare il vicinato alla nuova convivenza affinché un vero dialogo sia possibile, nella convinzione che la conoscenza reciproca aiuti a smorzare i pregiudizi e i conseguenti conflitti» (Extrafondente in Lugli & Crocitti, 2013).

Il Comune di Bologna si è occupato dei Rom anche all’interno del progetto europeo “Roma-net”, avviato nel 2009 e concluso con l’elaborazione del “Piano di azione locale per l’inclusione sociale delle persone rom e sinti 2013-2014”. Con riferimento specifico al tema dell’abitare, a partire dal confronto tra la realtà italiana e quella di altri Paesi d’Europa (Spagna, Ungheria, Francia, Regno Unito, Repubblica Ceca, Slovacchia, all’interno di Roma-net si sono individuati alcuni punti chiave, quali la riduzione della segregazione fisica e sociale dei Rom, del sovraffollamento e delle degradate condizioni abitative, dello sfruttamento dei Rom da parte dei locatari privati, degli insediamenti “irregolari” e pericolosi per i Rom.

Di conseguenza, si sottolinea come le politiche locali debbano tendere a: favorire l’accesso a forme abitative adeguate, assicurare l’accesso ad una vasta gamma di abitazioni, aumentare la qualità degli alloggi sociali e dei servizi pubblici e garantire la sostenibilità dell’alloggio. Costituiscono obiettivi specifici del Piano: la «capacità del sistema locale di realizzare politiche per l’inclusione sociale dei gruppi rom e sinti» e in questa direzione si prevedono: la creazione di una “rete per l’inclusione sociale” composta dai «rappresentanti delle istituzioni e delle realtà più significative del Terzo e del Quarto settore»; la «costituzione di gruppi di lavoro tematici» dedicati all’abitare, alla formazione, al lavoro e all’Intercultura e l’antidiscriminazione; la «costituzione di un Osservatorio sulle politiche di inclusione sociale» che consenta di raccogliere, analizzare e diffondere «i dati necessari alla costruzione di politiche basate sulle evidenze e centrate su un approccio realistico»;
- l’aumento della partecipazione di rom e sinti nella costruzione delle politiche d’intervento e nei processi decisionali, e a tal fine si dispone lo sviluppo di: «azioni di formazione e supporto alle reti associative e gli altri strumenti di partecipazione attiva all’interno dei gruppi rom e sinti» e di «azioni di progettazione e valutazione partecipata da parte dei gruppi rom e sinti». (Lugli & Crocitti :2013)

Uno degli aspetti più interessanti di questo piano é che mira a utilizzare i fondi pubblici in modo intelligente, migliorando i servizi territoriali per i quartieri e ridando una condizione di paritá ai Rom con relativi diritti e doveri. Fare questo a Roma sarebbe rivoluzionario e riuscirebbe a disinnescare le logiche di lucro e profitto che le varie mafie hanno sui campi rom, tanto dall’interno come dall’esterno, e ridare allo Stato e ai vari sogetti della societá civile, la possibilitá di riprendere in mano una situazione che oggi é completamente fuori controllo.

Ma qualcosa si sta muovendo anche nella capitale: a dire basta a un  sistema di “autismo” nelle politiche sociali verso le popolazioni rom, sono ora cittadini, associazioni, centri di ricerca e universitá. Tutti iniziano a spronare l’amministarzione comunale per cambiare rotta.  Un esempio interessante è quello che propongono le associazioni e i cittadini della Rete Territoriale Roma Est, nata nel 2013 proprio per il superamento dei campi rom. La Rete dichiara subito che il suo impegno non può  limitarsi agli annunci sul “superamento dei campi” ma occorre predisiporre delle pratiche concrete,  mobilitandosi con le proprie risorse a livello territoriale.

Gli argomenti centrali,  su cui la rete ha lavorato in questi anni, cercando di coinvolgere  i municipi della zona est di Roma, sono stati: la valorizzazione delle risorse strutturali di un territorio ricco di terre da coltivare e di edifici abbandonati da recuperare;  spazi per la riconversione del lavoro nel ciclo della filera del riuso;  esperienze di associazionismo  di vicinato che sperimentano percorsi virtuosi di lavoro con comunitá rom in tutto il mondo, competenze e mestieri che le comunitá rom possono mettere a disposizione di una trasformazione urbana e sociale.

Di fronte alle ultime affermazioni dell’amministrazione comunale tendenti a ribadire la volontà di superare i campi rom,  la Rete ha deciso di organizzare un ciclo d’incontri che inizia il 13 marzo Vi parteciperà anche Francesca Danese, nuovo assessore alle politiche sociali e alla casa del Comune di Roma, che affronterá le 4 tematiche principali della Strategia Nazionale per l’ Integrazione dei Rom e Sinti: casa, lavoro, sanità, educazione.

La finalitá principale di questo ciclo di incontri è di creare un patto per l’unità d’azione, capace di far dialogare tra loro le associazioni, i comitati di quartiere, le parrocchie, le scuole, le famiglie rom e non rom che vivono in un territorio concreto, Tor Sapienza e Colli Aniene, in un rapporto dialettico con i Municipi. Le proposte per definire cosa si intende per “superamento dei campi rom”, dovranno essere rigorosamente identificate in termini di risorse (economiche, umane e organizzative) competenze assegnate, impegni temporali assunti con timing controllabili collegialmente e con l’individuazione di precise responsabilità

È in quest’ottica che sarà presentata una Mostra della Salviati University realizzata dalla University of Washington e l’ Universitá di Roma Tre, sui mestieri e le risorse che le famiglie rom dei campi di Via Salviati possiedono al giorno d’oggi. In anteprima sarà poi proiettato il film-documentario “Fuori Campo” del regista Sergio Panariello, che da Cosenza a Bolzano, passando per Firenze e Rovigo, segue le vite dei protagonisti (Sead Dobreva, Kjanija Asan, Leonardo Landi, Luigi Bevilacqua) svelandone a poco a poco la quotidianità e le ragioni che hanno permesso l’uscitadai campi.

*Parte di questo testo é stato tratto dal libro “Vincere il Confine. Tor Sapienza, nuove generazioni rom e nuove politiche urbane a Roma nella costruzione della cittá inclusiva e interculturale del futuro”a cura di Adriana Goni Mazzitelli, Aracne editrice 2015.

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Giorgia, che sognò gli occhi dei bambini

Giorgia è un’allegra macchina da guerra. Parla romano, pensa romano. Abita al Corviale dai tempi in cui «c’erano i prati, le pecore, e la gente diceva: dove sarebbe ’sto Corviale?». Giorgia ha fatto mille mestieri e realizzato un sogno. Il sogno riguarda gli occhi dei bambini e viene dopo molti incubi. Gli incubi li ha scansati con i loro mondi connessi.
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«Ho cominciato da segretaria di un famosissimo studio di avvocati della casta romana. Ne sono fuggita inorridita. Mi ritrovo cantante nei primi musical italiani. Lavoro accanto a Massimo Ranieri. Poi la fame, l’avvento di Maria De Filippi con i suoi talent show che inondano i palcoscenici di personaggetti. Mi rifugio in qualche scuola di recitazione dignitosa. Per sopravvivere faccio la bartender acrobatica, vivo la movida notturna, mi diverto e dopo un po’ mi annoio. Intanto mi diplomo sommelier. Vado a lavorare nel ristorante di mio padre in zona San Pietro, fi no a quando la situazione, per mille motivi, mi diventa stretta».
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In quello stretto Giorgia si attorciglia in una situazione sentimentale faticosa, nata tra la polvere dei teatri in perpetua oscillazione tra commedia e tragedia. «Resto consapevolmente incinta, mentre il padre fa quello un po’ meno consapevole. Per un paio di anni faccio la ragazza madre. Poi come nei film l’amore trionfa e adesso siamo famiglia, magari fuori dal comune, ma famiglia».
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A quel punto, il cambio. «Non sapendo come complicarmi la vita, decido di realizzare un mio vecchio sogno: aprire una libreria per bambini qui al Corviale, in mezzo ai casermoni e al verde. Chiedo un finanziamento regionale. Non so come, lo ottengo». La libreria si chiama La Meraviglia, contiene scaffali colorati, giocattoli, un ciliegio piantato nella terra e «un intero nuovo mondo che mi fiorisce intorno».
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Il mondo è quello delle mamme sole, dei figli unici, delle «letture animate» con amici attori, delle feste di compleanno, «dove mi diverto un mondo e invecchio per la fatica». Di un tempo condiviso. Di un porto franco dove attraccare. «Un posto tanto bello che mi è appena venuto in mente di trasformarlo anche nella sede di una associazione di madri, di donne singole, dove provare a inventarsi un pezzo di vita collettiva e magari anche un pezzo di quartiere».
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Dice che l’energia le viene dai bambini. Specialmente dal loro sguardo incantato: «Quegli occhi spalancati con cui sfogliano i libri come sfogliassero il mondo». Loro lo scoprono per giocarci dentro. Giorgia per rifarlo.

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7 testate europee si alleano “per consolidare l’opinione pubblica”

La via la Leading European Newspaper Alliance “per mettere in comune esperienze giornalistiche e promuovere giornalismo di qualità in Europa”. Soci fondatori Die Welt per la Germania, El Pais per la Spagna, la Repubblica per l’Italia, Le Figaro per la Francia, Le Soir per il Belgio, Tages-Anzeiger e Tribune de Genève per la Svizzera.

Alleanza a sette nella stampa del Vecchio Continente. Sette testate di sei Paesi hanno lanciato la Leading European Newspaper Alliance “per mettere in comune esperienze giornalistiche e promuovere giornalismo di qualità in Europa”. Soci fondatori sono Die Welt per la Germania, El Pais per la Spagna, la Repubblica per l’Italia, Le Figaro per la Francia, Le Soir per il Belgio, Tages-Anzeiger e Tribune de Genève per la Svizzera. Gli editori delle testate hanno nominato l’ex direttore di El Pais, Javier Moreno, direttore dell’associazione. Tra gli obiettivi di Lena “c’è quello di consolidare un’opinione pubblica europea grazie ai valori comuni dalla testate socie relativi all’importanza del giornalismo di qualità con l’obiettivo di creare una società aperta e democratica sostenendo un messaggio di progresso economico e di giustizia sociale“, spiega una nota del gruppo Espresso secondo il quale “l’alleanza vuole anche assicurare un vantaggio tecnologico, commerciale e editoriale ai propri soci e a tal fine selezionerà in questi campi i partner più adatti”.

Uno degli obiettivi principali dell’associazione, spiega ancora la nota dell’editrice della famiglia De Benedetti, è la creazione e lo scambio di contenuti editoriali. Ciascun giornale metterà a disposizione una selezione di articoli su una piattaforma comune dalla quale ciascun socio potrà attingere secondo i propri bisogni. In aggiunta, interviste, servizi, editoriali potranno essere commissionati per la pubblicazione simultanea su tutte le testate dell’associazione. L’alleanza si occuperà anche dello sviluppo comune del digitale. Un programma per scambio di personale consentirà inoltre a giornalisti e dipendenti di operare presso le altre testate dell’associazione. In aggiunta alla pubblicazione di articoli, interviste o servizi, Lena £contribuirà allo scambio di idee coinvolgendo esperti, persone di business e politici in eventi sui temi dello sviluppo dell’Europa”.

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