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Ecobaratto, cibo a km 0 in cambio di rifiuti

Il “modello” di Piazza Armerina.
All’Ecostazione si lasciano rifiuti da riciclare e si guadagnano punti per cibo e altri genere di prima necessità – tutti prodotti a filiera corta – da destinare anche a fini solidali. Inaugurata lo scorso 6 giugno ha raccolto già 40 tonnellate di materiale. E altri comuni studiano il progetto.
Nell’Ecostazione si lasciano rifiuti da riciclare e si guadagnano punti per cibo e altri genere di prima necessità, tutti prodotti a filiera corta. E’ il “modello” adottato da Piazza Armerina (En), città d’arte nel cuore dell’isola, famosa per la Villa Romana del Casale e i suoi preziosi mosaici, patrimonio dell’Unesco. Il progetto “Piazza verso rifiuti zero”, promosso da Legambiente e sostenuto dalla Fondazione con il Sud, ha come partner l’amministrazione comunale, che già gestisce il servizio di raccolta porta a porta. L’ecostazione – che è parte di un quadro più ampio di azioni formative e informative – è stata inaugurata lo scorso 6 giugno e ha raccolto già 40 tonnellate di rifiuti da riciclare. E’ inserita nel sistema cittadino di raccolta della differenziata, che garantisce il ritiro dei materiali lasciati dai cittadini.
bottiglie di plastica, rifiuti

Funziona così: nel centro di raccolta si possono conferire materiali riciclabili di ogni tipo, dalla carta al vetro, dall’acciaio alla plastica. Il materiale viene pesato e viene assegnato un punteggio a seconda del tipo, che viene poi convertito in punti. I soggetti iscritti al servizio possono barattare i punti in pasta, marmellate, pesce, sottoli, miele e altri generi alimentari e non. Tutti prodotti a chilometro zero, da ritirare presso le aziende. In questo modo, altre a dare nuova vita ai rifiuti, si sostiene anche l’economia di piccola scala, i produttori del territorio. I punti sono caricati su una tessera, personale o a nome di associazioni e cooperative; i cittadini quindi possono scegliere anche di devolvere i propri punti per finalità sociali.

“Il progetto dell’ecostazione – sottolinea la presidente di Legambiente di Piazza Armerina, Paola Di Vita – è la più visibile delle iniziative previste da progetto, perché si tratta di un luogo fisico”. Il comune ha concesso locali all’associazione, in comodato gratuito per il tempo del progetto, e Legambiente li ha arredati con materiale di recupero, realizzando gli impianti all’insegna del risparmio energetico. Un investimento sulla struttura oltre il finanziamento che copre solo il 70% dei costi, spiega Di Vita.

Il programma è partito lo scorso gennaio e ha una sua pagina facebook, attraverso cui l’associazione mette in rete informazioni, spiega come differenziare e si confronta con gli utenti. Prevede iniziative altre, sempre all’insegna del rispetto della natura, come educazione ambientale, concorsi nelle scuole, seminari sugli stili di vita ecosostenibili. Tra queste “Scart’ in piazza” durante il quale giovani artisti creano opere d’arte a partire dai rifiuti. “Ci contattano molti amici dai comuni vicini per avere informazioni sull’ecostazione – si legge sulla pagina Facebook – la cosa ci inorgoglisce un po’. Uno degli obiettivi del progetto è infatti la diffusione delle buone pratiche”.
Insomma l’ecobaratto convince e funziona. “Siamo stati contattati da altri comuni che stanno studiando il modello. – spiega Di Vita – Abbiamo avuto molti dubbi se far partire il progetto, perché il comune era riuscito ad avviare la raccolta porta a porta e ci siamo detti che senso ha? Ma la risposta è alta”. Così a soli pochi mesi dall’apertura i volontari si impegnano a garantire il servizio 6 giorni su 6, tre volontari a tempo pieno. Sono circa 100 i soci e non tutti sono interessati ai punti, quanto alla possibilità di avere un luogo e informazioni per smaltire correttamente i rifiuti. Anche così cresce la sensibilità nei confronti dell’ambiente.

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La prima vertical farm acquaponica autosufficiente italiana

L’impianto di produzione acquaponico consente di coltivare 400 piante e allevare 10 kg di pesce contemporaneamente.
Attualmente, uno dei settori di ricerca di maggior interesse è quello agroalimentare, a causa delle nuove sfide imposte dalla rapida crescita della popolazione mondiale e dai cambiamenti climatici. Come possiamo nutrire un pianeta che, secondo stime ONU, tra poco meno di cinquanta anni raggiungerà i nove miliardi di persone senza gravare ulteriormente sugli ecosistemi già sovrasfruttati? Come riusciremo a trasportare migliaia di tonnellate di cibo nelle future città, che secondo le stime ufficiali, entro il 2030 accoglieranno il 60% della popolazione mondiale?
E’ per dare una risposta a queste e ad altre domande che a livello internazionale stanno nascendo numerosi studi e ricerche in ambito agroalimentare e urbano. In questo contesto, dunque, si sviluppa il concetto di agricoltura urbana, cioè quell’insieme di pratiche e tecniche che consentono di coltivare, lavorare e distribuire il cibo all’interno di contesti urbani e peri urbani. L’agricoltura urbana nasce, o meglio rinasce, per garantire una maggiore sicurezza alimentare e una miglior qualità di ciò che mangiamo a fronte di una riduzione dell’inquinamento, delle emissioni nocive e del consumo di risorse. Numerose sono le soluzioni proposte in questo ambito, ma una più delle altre sta letteralmente affascinando ricercatori, progettisti e imprenditori di tutto il mondo e, con ogni probabilità, caratterizzerà l’evoluzione degli skyline delle future città: la vertical farm. Si tratta di un edificio-serra a sviluppo prevalentemente verticale che, accogliendo l’intera filiera agroalimentare, consente di produrre, trasformare, vendere e consumare cibo fresco e di alta qualità, sia animale che vegetale. Tutto questo grazie a tecniche di coltivazione soil-less (fuori-suolo) a ciclo chiuso che non prevedono l’uso di terreno. Edifici di questo tipo, immaginati fin dai primi anni del ‘900 e ridefiniti compiutamente alla fine degli anni ‘90, in particolare dal professor Dickson Despommier della Columbia University, consentono numerosi vantaggi: produzione continua durante tutto l’arco dell’anno, assenza di rischi dovuti alle avverse condizioni meteorologiche, bassi livelli di rifiuti, assenza di pesticidi e fertilizzanti utilizzati nella produzione agricola, riduzione del consumo di risorse (in particolare suolo ed acqua), riduzione delle miglia alimentari e nuove opportunità di lavoro.
E’ proprio all’interno di questo ambito che si inserisce la ricerca che da quattro anni lo scrivente sta sviluppando, grazie ad una borsa di Studio della Regione Umbria e al sostegno del prof. Verducci della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Perugia. Il lavoro è rivolto ad analizzare a 360 gradi il tema delle vertical farm: dalle questioni architettonico-ingegneristiche a quelle agricole, da quelle economiche a quelle urbane per arrivare a quelle sociali. Inoltre, si è voluto indagare il rapporto che un edificio di questo tipo potrebbe avere con un contesto urbano di medie dimensioni come quello di una tipica città italiana. Il lavoro è stato suddiviso in due fasi teoriche ed una terza applicativa: nella prima si è voluto comprendere “l’oggetto vertical farm”, andando ad analizzare tutti gli aspetti tecnici di cui si deve tenere conto durante la sua realizzazione; nella seconda, invece, si è calata la vertical farm all’interno di un caso reale, elaborando un progetto di recupero di un’area in disuso della prima periferia della città di Perugia; nella terza, invece, è stato realizzato un prototipo di vertical farm autosufficiente. E’ proprio quest’ultima fase che riveste un ruolo fondamentale, in quanto consente di sperimentare sul campo quanto indagato nelle prime due.
Il prototipo, che si trova a Torrita di Siena, è costituito da una torre circolare (per la precisione un iperboloide) alta circa 5 m, realizzata in legno e acciaio, che occupa una superficie di poco meno di 4 mq e sulla cui sommità si trova un generatore eolico ad asse verticale, che provvede a parte del fabbisogno della farm. Al suo interno è collocato l’impianto di coltivazione acquaponico, cioè un sistema che consente di unire i vantaggi dell’acquacoltura di ricircolo a quelli dell’idroponica. Con questa tecnica le piante assorbono gli elementi nutritivi direttamente dall’acqua in uscita dalle vasche di allevamento, le quali sono cariche di nutrienti derivati dalla decomposizione batterica delle feci dei pesci che avviene nel biofiltro. Come nei processi di fitodepurazione, le piante depurano l’acqua che a sua volta può essere reimmessa all’interno delle vasche realizzando così un sistema a ciclo chiuso, che consente di ridurre il fabbisogno idrico di oltre il 90% rispetto all’agricoltura tradizionale.
Il prototipo consente di coltivare 400 piante e allevare 10 kg di pesce contemporaneamente e, una volta a regime, consentirà di coltivare fino a 4000 piante/anno (dipende dalla specie coltivata) e dai 10 ai 20kg di pesce all’anno. La farm tende a fare di più con meno, a ridurre l’impatto ambientale (il 90% dei materiali è riciclabile) e creare un sistema a ciclo chiuso che minimizzi la produzione di rifiuti e l’utilizzo di risorse. A tale scopo la farm è dotata di un impianto ibrido fotovoltaico-eolico ad accumulo che le consente di funzionare in quasi completa autonomia, mentre al suo interno è presente un sistema di monitoraggio e gestione, basato sulla tecnologia arduino, che permette di monitorare i valori dell’impianto e di controllarne le varie parti attraverso uno smartphone. Altre caratteristiche della struttura sono la scalabilità e la facilità (e rapidità) di montaggio, caratteristiche che la rendono facilmente adattabile alle diverse situazioni in cui può essere installata.
Il prototipo è un “laboratorio in divenire”, imperfetto per definizione, ma che consentirà di raccogliere numerosi dati ed informazioni sulla costruzione, la gestione, la produttività e la sostenibilità ambientale di una vertical farm, tanto da farci comprendere meglio i processi costruttivi e gestionali ed i vari scenari di sostenibilità economica che guideranno le prossime realizzazioni. Infatti, l’intenzione è quella di poter sviluppare altre strutture simili che consentano di ridurre le miglia alimentari e magari di creare una smart grid agroalimentare. Infatti, se queste strutture lavorassero in sinergia con i campi e le aziende agricole locali riuscirebbero, facilmente ed in poco tempo, a rendere le comunità in cui si inseriscono autosufficienti e sempre più capaci di resiste ai cambiamenti (climatici e non). Cosi facendo si potrebbe, allo stesso tempo, coltivare le tradizioni agricole locali e ad innovare creando conoscenza, posti di lavoro ed incrementando il senso di appartenenza ad una comunità.

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Vuoti a rendere nei supermercati in cambio di sconti e bonus

Ridare una nuova vita alle bottiglie vuote di vetro, plastica e ai contenitori di alluminio – incrementando così la raccolta differenziata – e avere in cambio un ritorno economico immediato, sotto forma di bonus o sconti.
Il sistema si chiama «vuoto a rendere», già realtà in alcuni territori (soprattutto all’estero) e che presto potrebbe essere attuato anche a Roma. Lo prevede una delibera che verrà presentata a settembre ed è firmata dal consigliere capitolino, Dario Nanni, che ha già avviato i primi confronti con le catene di distribuzione (in alcuni casi hanno già dato la loro disponibilità).
In pratica funzionerà così: una volta effettuato l’acquisto, il cliente restituirà il vuoto (che può essere una bottiglia o un contenitore di vetro, plastica e alluminio) allo stesso supermercato in cui è stato comprato il prodotto. Al momento della restituzione, al cittadino verrà corrisposto un bonus che avrà pieno valore economico oppure uno sconto o punti per le promozioni da riutilizzare nello stesso rivenditore in cui si è acquistato il prodotto, anche in un’ottica di fidelizzazione del cliente. I titolari delle catene di distribuzione che vogliono aderire al progetto stipuleranno con Roma Capitale una convenzione, impegnandosi ad attivare virtuosamente la filiera di recupero e riutilizzo dei vuoti in di vetro, plastica, alluminio, acciaio.
GLI ACCORDI
La convenzione fisserà il valore economico del bonus che sarà corrisposto ai consumatori al momento del reso. Vantaggi previsti non solo per i clienti, ma anche per gli stessi esercenti, che potranno usufruire di una riduzione della tariffa rifiuti. «Il quantum delle agevolazioni – si legge nella bozza di delibera – sarà determinato nell’ambito della convenzione e sarà comunque proporzionato alla quantità di rifiuti riutilizzati e riciclati». I diversi supermercati ed esercizi che aderiranno alla convenzione dovranno trasportare il materiale raccolto e pronto per il trattamento nei consorzi di riciclaggio. L’amministrazione, a sua volta, stilerà un regolamento che disciplini l’attuazione del sistema su tutto il territorio. Previsto nel provvedimento anche una campagna di sensibilizzazione nelle scuole.
I NUMERI
«Con l’adozione di questo sistema ci sarà un risparmio stimato attorno al 50% dei costi che oggi come amministrazione sosteniamo per differenziare questi prodotti», spiega Nanni. che sottolinea anche l’obiettivo sotteso al provvedimento: «Contribuire all’aumento della raccolta differenziata nella nostra città, offrendo altre opportunità ai cittadini». Oggi la raccolta differenziata nella Capitale si attesta attorno al 38-40%. Nel dettaglio, nella delibera si evidenzia che «a Roma si producono circa un milione e 750mila di tonnellate di rifiuti, dei quali 665mila tonnellate viene differenziato». «La strada per arrivare a livelli d’eccellenza è un insieme di buone pratiche, a partire dalla drastica riduzione degli imballaggi, passando per un abbattimento degli sprechi, sino al riutilizzo totale di tutto ciò che viene differenziato. La delibera che presenterò va in questa direzione», conclude Nanni. Il provvedimento, per avere il via libera, dovrà essere discusso e votato dall’Aula Giulio Cesare. Passaggio che è mancato nel 2012, quando venne presentato un provvedimento simile.

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Indovina chi viene a cena con VizEat

Aggiungi un posto a tavola, che c’è un host in più. Sono già mille e 700 gli iscritti alla piattaforma VizEat, che permette di organizzare eventi gastronomici a casa propria

Uno degli aspetti più affascinanti del viaggio è indubbiamente quello gastronomico: assaggiare i piatti tipici, scoprire le ricette della tradizione locale e trovare punti di incontro tra culture diverse, magari chiacchierando con una famiglia del posto, davanti a una bella cena casalinga.

Gli abitanti di un luogo sono l’anima della propria città e i custodi dei suoi segreti: conoscere le persone significa partecipare alla storia di un luogo e della sua cucina. Ed ecco che condividere un piatto assume un significato diverso, che non si limita alla pubblicazione della foto delle specialità assaggiate in vacanza: ora i social network salvaguardano il patrimonio della cultura gastronomica, dando alle persone la possibilità di conoscersi sedendo allo stesso tavolo. Aprendo una finestra sullo schermo del pc, si aprono le porte di casa in 55 paesi di tutto il mondo.

È il progetto di VizEat, piattaforma nata nel 2014 e in continua crescita, che sottolinea come a spingere una persona a viaggiare sia in primo luogo la curiosità e la voglia di sperimentare. Per assecondare e facilitare l’attitudine del viaggiatore a scoprire la realtà locale, VizEat ha radunato migliaia di utenti, da Parigi a Hong Kong, passando per Roma e Milano: una comunità di mille e 700 cittadini virtuali che abitano il mondo del mangiare senza frontiere. Solo in Italia ci sono già 400 host, distribuiti in alcune delle località più suggestive del Paese: Milano, Roma, Venezia e Napoli.
Creare un profilo su VizEat è semplice e gratuito: una volta iscritti, si propone un menu indicando il prezzo e la data dell’evento, che può essere una cena, un pranzo, un aperitivo o un brunch. L’ospite paga sul sito, e il giorno seguente VizEat invia la cifra al padrone di casa tramite carta di credito. Sul sito è possibile verificare l’identità di tutti i padroni di casa, a conferma del loro impegno e della loro serietà, e per evitare spiacevoli inconvenienti tutti gli utenti sono tutelati da un’assicurazione che copre i danni fino a 100 mila euro.
VizEat colleziona storie di luoghi e persone, contribuendo a diffondere un nuovo modo di viaggiare che può essere riassunto in una semplice frase: in tutto il mondo seduti intorno a una tavola.
www.vizeat.com

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Intervista a Croppi nuovo consigliere di Musica per Roma

– Umberto Croppi la sua nomina nel Consiglio di Amministrazione di Musica per Roma è da considerarsi nella continuità o come indizio di discontinuità?

Non sopravalutiamo il ruolo che potrò svolgere: sono membro di un Cda di 15 persone, tutte autorevolissime, molte delle quali già presenti nel precedente consesso; poi il ruolo centrale è svolto dall’amministratore, che è straniero ed è stato scelto attraverso una call internazionale, è a lui che spetta il compito di sottoporre al Cda un piano per il futuro.

– La nostra città ha sicuramente delle punte di eccellenze culturali come il Maxxi e appunto Musica per Roma, ma si ha come l’impressione per chi ci vive di non avere una visione complessiva della città né tantomeno della capitale di un Paese. Lei, anche da già assessore della cultura, che opinione ha in proposito?

In effetti c’è un problema di mancanza di coordinamento e di sinergia, che deriva da vari fattori, primo fra tutti il fatto che molte istituzioni dipendono da enti diversi (per i due casi citati il Maxxi è dello Stato, l’Auditorium del comune), manca un soggetto che metta a regime le diverse competenze e che le supporti con un piano di comunicazione generale.
È un processo che io avevo provato ad avviare durante il mio breve mandato.

– Continuiamo in questo discorso della frammentazione culturale della città che, come Giornale delle Periferie, c’interessa particolarmente: Lei qualche tempo fa dichiarò che il luogo artisticamente più interessante di Roma era il MAAM; ci spiega questa sua affermazione e come pensa che questa sua convinzione possa riverberare nel suo impegno in Musica per Roma?

Si, confermo e specifico: nel campo dell’arte contemporanea, l’esperimento spontaneo del Maam di Tor Sapienza rappresenta l’unica realtà vitale in città. L’arte è contemporanea in quanto si fa nel momento in cui viviamo e servono luoghi in cui l’azione artistica si svolge, gli autori si confrontano, co-operano. In più non può esserci vera arte se non raccoglie e stimola energie collettive: il particolarissimo umano contesto del “museo” spontaneo è essenziale alla sua esistenza.

– A Corviale ricordiamo tutti con piacere il grande successo del concerto dell’Opera nella sala del Consiglio Municipale, pensa che iniziative analoghe possano essere prese anche da Musica per Roma?

Certo, la Fondazione ha già svolto azioni di coinvolgimento di settori marginali della società sia dislocando le proprie iniziative sia accogliendo nelle proprie sale persone che vivono ai margini, penso per esempio alle iniziative realizzate insieme alla Caritas.

– Quale pensa possa essere l’influenza della cultura sulle politiche sociali?

Dai due esempi appena fatti appare chiaro come la penso. Non può esistere una cultura slegata dai processi sociali, diventerebbe un esercizio sterile, vuoto di significato. Quindi sia promuovere l’arte, la creatività, la conoscenza e realizzare interventi di crescita sociale sono attività che vanno pensate contestualmente.

– Si parla molto in questi tempi di sharing economy anche a proposito delle espressioni artistiche (pensiamo solo al modello spotify‏ di diffusione dei brani musicali); che impatto pensa possa avere questo cambiamento di paradigma con la politica culturale di Musica per Roma e, più in generale, degli enti pubblici culturali?

Il tema è attualissimo ma anche particolarmente complesso, non si può rispondere in poche parole e non credo che una istituzione come questa possa indicare soluzioni oltre la promozione di una riflessione e l’avere presente questa novità nella propria programmazione. Ci sono in ballo troppi vincoli (culturali e normativi), interessi, diversi soggetti e livelli di responsabilità per potersi immaginare una soluzione univoca. Certo è che bisogna capire che siamo di fronte ad una rivoluzione uguale e contraria a quella che, a partire dalla stampa a caratteri mobili e la possibilità di riprodurre all’infinito un opera dell’ingegno, creò la cultura giuridica della esclusività del diritto e della sua protezione.

– Come Giornale delle Periferie siamo intenzionati ad avere un dialogo costante con Lei e i suoi progetti culturali, possiamo rendere strutturale questo dialogo con una cadenza mensile d’interventi sul nostro Giornale?

Volentieri, potrà essere l’occasione per fare via via il punto entrando nello specifico dei diversi settori di attività dell’Auditorium, coinvolgendo anche altri soggetti coinvolti nella sua vita e, magari, anche una occasione di sviluppare nuove suggestioni ch possano arricchire gli orizzonti di deve programmarne l’attività.
Come dicevo, l’amministratore delegato viene dalla Spagna, dovremo aiutarlo tutti a conoscere e comprendere le articolazioni di questa città, soprattutto quelle fisicamente meno vicine ai centri decisionali.




Dalla frutta sprecata nei mercati nascono borse in “pelle” e oggetti di design

“Questa borsa è fatta con 23 pesche e 18 prugne”. L’idea di 6 studenti di design di Rotterdam: utilizzando le tecniche dei cuochi per creare decorazioni con la frutta e la verdura hanno creato un nuovo materiale, la “fruitleather” ovvero “pelle di frutta”.
“Questa borsa è fatta con 23 pesche e 18 prugne”. È quanto si legge sull’etichetta del prototipo di borsa realizzata in “Fruitleather Rotterdam” (letteralmente “Pelle di frutta Rotterdam”), il materiale creato da un collettivo di studenti di design della Willem de Kooning Academie di Rotterdam recuperando gli scarti di frutta e verdura. In un solo giorno in uno dei mercati ortofrutticoli all’aperto della città vengono buttati via più di 3.500 chili di frutta e verdura ammaccata, marcia e quindi non più vendibile. Gli ortolani la considerano ‘rifiuto’ e quindi la gettano nei bidoni della spazzatura. “Ma il cibo non è spazzatura, bisogna solo trovargli un nuovo scopo”, dicono Hugo, Koen, Milou, Aron, Bart e Maaike che hanno usato le loro competenze per cercare una soluzione al problema dello spreco di cibo. “E l’abbiamo trovata in un manuale di cucina”, ammettono.
Non buttare, crea. È questo il principio a cui si sono ispirati i giovani designer, impegnati su temi sociali, per realizzare la “fruitleather”. Come hanno fatto? Hanno copiato la tecnica con cui i cuochi creano con la frutta e la verdura le decorazioni per i loro piatti. Una di queste prevede di schiacciare, cuocere e far seccare la frutta per creare fogli commestibili da utilizzare come guarnizione. Producendo questi ‘fogli’ su larga scala, i 6 designer hanno inventato un materiale che può essere usato per creare oggetti, come la borsa. L’obiettivo è “creare consapevolezza sul problema dello spreco di cibo – scrive il collettivo sul sito del progetto – e far capire che esiste una soluzione”. Ora i ragazzi puntano a lavorare insieme alle aziende per migliorare il materiale così da poter ampliare la gamma di prodotti realizzabili.

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Illuminiamo le periferie con la Cultura

In questa calda estate a Roma in modo del tutto spontaneo delle associazioni come Artenova, diretta da Gino Ariuso, hanno organizzato I VIAGGI DELL’ARTE, un’offerta di teatro, musica e più in generale di spettacolo dal vivo, composita e policentrica per una fruizione efficace nel territorio dei Municipi XI e XIV della Capitale. Altre due associazione TAMTAM e Spinaceto Cultura, hanno organizzato a Spinaceto nel territorio del IX Municipio degli incontri culturali sul Film d’autore di Alfred Hichocok.

Esperienze diverse non coordinate che hanno visto un pubblico periferico attento e partecipato. Segnaliamo la disponibilità di Giorgio Albertazzi che alla Magliana e alla Torresina Municipi XI e XIV partecipa invertendo il percorso culturale. Un maestro dell’Arte Giorgio Albertazzi va in periferia ad incontrare le persone con un messaggio di cultura.

Inoltre portare la musica classica con l’ esibizione di due maestri “ Duo Mephisto” con pianoforte a Coda con musiche ritenute erroneamente difficili al pubblico più vasto e popolare altra dimostrazione di domanda di cultura.

Altra esperienza, fatta all’estrema periferia di Roma, Spinaceto Municipio IX, la proiezione di due film muti “ Il giardino del piacere” e il “Pensionante” del maestro del cinema Alfred Hitchcock con una partecipazione molto numerosa rispetto ai film più classici sonori del maestro come “La finestra sul Cortile” e Psyco”.

Esperienze diverse, non coordinate sui territori dei Municipi IX, XI, XIV, alcune con il contributo dell’Estate Romana, altre in modo spontaneo e sperimentale. Il territorio metropolitano di Roma è 14 volte quello della città di Milano, ma queste esperienze ci raccontano centralità diverse della città Eterna, con un desiderio di cultura che se organizzato può portare sviluppo, occupazione e riqualificazione del territorio.

Corviale, Trullo – Montecucco, Magliana, Spinaceto, Torresina, luoghi che per molti non ne conoscono l’esistenza, e/o diventano noti per episodi di criminalità, ma con una domanda di cultura da parte delle persone che vi abitano. Un esperienza, portata in modo sperimentale e senza organizzazione, ha dimostrato che con la “cultura si mangia” intellettualmente e materialmente.

Illuminare le periferie con la cultura, è un modo semplice ed efficace che può avere molte declinazioni, usando anche la tecnologia digitale, con strumenti messi a disposizione dei vari servizi pubblici per la qualificazione dei territori e per l’integrazione sociale tra le diverse culture.

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Piero Venturini, lo chief umbro con l’orto sinergico

Cominciamo con il luogo: Toscolano, frazione di Avigliano Umbro in provincia di Terni borgo di pietra sulla strada per Todi: qui Piero Venturini, chief del ristorante La Posta ad Avigliano, ci accoglie nella casa in pietra che si è autocostruita difronte al borgo di Toscolano nei pressi dei ruderi di Toscolano vecchio. barattoli
Qui Piero ci racconta del suo orto sinergico creato secondo i principi dell’interpretazione di Elisa Halzeping della Rivoluzione del filo di paglia del maestro giapponese Fukuoka.
L’orto consiste in una serie di rettangoli creati con tronchi d’albero e divisi da sentieri di pietra. sentiero
Il lavoro principale è, oltre la lavorazione del suolo, la creazione dei bancali. bancale
“Queste sono le pietre – comincia il racconto Piero – che ho tirato fuori da una terra piena di pietre su cui da secoli i tenaci umbri cercano di ricavarci da vivere. Le ho tirate fuori, una per una, con il solo aiuto di mio padre Bruno, con questi attrezzi. attrezzi Con le più grandi abbiamo alzato i muretti, muro con le più piccole abbiamo coperto i sentieri.”
Il primo passo per creare l’orto sinergico è coprire il terreno di paglia. cassa Poi Piero ci fa vedere come si scalza la paglia, apre si pianta il seme e si ricopre il tutto di nuovo con la paglia. richiude
“A questo punto non si fa più niente?”
“Esattamente: da questo momento in poi è la natura – anzi il microcosmo naturale del bancale/orto – che lavora, bisogna solo innaffiare e serve poca acqua.”
“Quindi è un sistema adatto anche a terreni desertici?”
“Certamente, io ad esempio uso un sistema di irrigazione a goccia.tubo L’importante è lasciare sul posto qualsiasi foglia, ramo, frutto che si tolga alle piante: tutto dev’essere lasciato sul terreno e contribuisce al sistema microcosmo che si è creato. Non va mai estirpata nessuna erbaccia o pianta coltivata ma ogni colta va tagliata al colletto lasciando il resto che non serve sul bancale.”
“Quindi non bisogna potare, dissodare, vangare, concimare, diserbare, insomma tutte le attività della normale agricoltura non vanno eseguite.”
“Esattamente, è un orto che si autoregola.Bisogna solo ogni tanto rinnovare la pacciamatura usando qualsiasi vegetale disponibile ad esempio, foglie morte, sfalci d’erba, paglia, ecc.”
“E i risultati?”
“Eccoli i pomodori dell’orto sinergico pomodori
“Ti faccio un’ultima foto nel tuo magico orto piero e poi ti raggiungiamo alla Posta a mangiarli”
“Vi aspetto, diventeranno condimento delle mie focacce a lievitazione naturale e sughi per i miei rigatoni.”
“E che ci farai bere sopra?”
“Rossi e bianchi delle migliori etichette umbre in maggior parte biologici”
Naturalmente ci siamo andati e la differenza si sente: l’orto sinergico è buono anche da mangiare.




Leggendo insieme sulla sharing sull’Espresso

“La reputazione online diventa la vera carta d’identità di ciascuno”, “l’esclusività di un servizio in cui il pubblico controlla e programma è irrimediabilmente finita, perché in piccolo riproduce un modello, l’economia di piano, che la storia ha, alla grande, seppellito” tra questi due assiomi s’installa la sharing economy.
Terra dell’utopia o illusione del lusso e del superfluo alla portata di tutti?
Perché occorre trovare una risposta?
Non sono il lusso e l’utopia le due facce della stessa medaglia depurata dalle stanche rappresentazioni delle vecchie e stantie identità ideologiche?
Se, come dice Habermas, “è la percezione che determina la realtà” cosa importa che l’abito firmato che indosso nella limousine extralarge che mi trasporta al party a casa dell’artista di grido sia tutta roba noleggiata o (più politicamente correct) condivisa?
L’importante è che “uomini e donne producono e consumano tra di loro a un costo marginale vicino allo zero, dove non conta il prodotto interno lordo, ma dove aumenta il benessere economico, la qualità della vita, la democratizzazione del sistema economico in generale perché gli sforzi saranno concentrati, e così la nuova occupazione, per rendere accessibili a tutti le piattaforme della sharing economy, l’automazione, le grandi reti del traffico digitale e delle energie alternative”
E allora la questione politica (se proprio è necessario che ci sia una questione politica) è che “bisogna dare più potere agli utenti rispetto alle piattaforme…per esempio facendo in modo che un utente possa facilmente passare da una piattaforma a un’altra portando con sé le sue recensioni e giudizi. In questo modo gli utenti non si sentirebbero più bloccati su Uber o su Airbnb. Ma la proposta…implica un cambio radicale: significa che i dati generati dall’utente non sarebbero più proprietà della piattaforma, ma dell’utente stesso”
Ma forse non basta questo, forse il prossimo passo è abbandonare il modello per cui “una piattaforma online…fa i soldi tenendosi una commissione” per il modello social in cui le piattaforme guadagnano solo (e non è affatto poco) con la pubblicità e col profiling.
E se questo significherà che “il mondo dell’istruzione ormai è uscito dalle aule, il monopolio delle università è finito” allora vuol dire davvero che “la biblioteca di Alessandria digitale è già una realtà” e con essa la capacità del sapere di fare “community…uno strumento di marketing diverso dalla pubblicità…perché…il sostegno della folla conta più degli aspetti economici” perché “le rivoluzioni non accadono quando la società adotta nuove tecnologie, avvengono quando la società adotta nuovi comportamenti” (*)

(*) le citazioni sono da La vita condivisa in Espresso 20/8/15




Sport, per il 40% dei giovani romani è un lusso

Indagine su 400 ragazzi, medici e familiari. Chi ha più facile accesso alle discipline sportive ha alle spalle una famiglia con un reddito che va dai 25 mila ai 50 mila euro l’anno. Il 13% di chi fa sport è straniero. “Discriminazione sociale” .
In occasione del periodo estivo sono molte le famiglie che non possono permettersi una vacanza. Nasce così la necessità di trovare, specialmente per le coppie che lavorano, un’attività da far svolgere ai propri figli. Non tutti però possono permettersi di accedere allo sport se non con grandi sacrifici economici. A Roma per il 40% dei giovani l’offerta sportiva risulta troppo costosa. Tra i fattori determinati per chi invece accede alla pratica sportiva risultano: un alto reddito famigliare (32,8%) e la vicinanza degli impianti (84%). I giovani che possono avere un più facile accesso alle discipline sportive a Roma sono quelli con alle spalle una famiglia con un reddito che va dai 25 mila ai 50 mila euro all’anno. E’ questo il dato emerso dal progetto “Impariamo a stare bene. Screening sugli stili di vita e capacità motorie nella scuola” realizzato dall’Us Acli Roma, Asdrc La Biglia e l’Università degli studi di Roma di Tor Vergata su un campione di 400 ragazzi delle scuole medie inferiori dell’Istituto Comprensivo Salvatore Pincherle grazie a due cicli di test fisici Eurofit (European Test of Physical Fitness) e al sostegno di un team di 10 valutatori. L’indagine è anche il frutto dei dati raccolti con la somministrazione di questionari su tale argomento a 51 medici dell’Unione Nazionale Pediatri, 13 dell’Asl Roma/C, 38 di altre Asl della provincia di Roma e a 148 genitori dei ragazzi coinvolti.

Secondo l’indagine rimane in ogni modo elevato il numero di giovani studenti che praticano sport nella Capitale (80%) di questi l’87% sono italiani e 13% di stranieri. Il 56% sono maschi, mentre il 42% ha 12 anni, il 27,5% ne ha 13, il 26,3% quattordici. Gli sport piu’ praticati sono: il calcio (18,3%), il nuoto (11,7%) e la pallavolo (10,8%). Seguiti da danza (5,4%), tennis (5%), pattinaggio (3,8%), Rugby (21,1%), ginnastica artistica (1,7%) equitazione (1,3%), kickbox (1,3%), palestra (0,8%), scherma (0,8%), viet wodao (0,4%), ginnastica ritmica (0,4%), karate (0,4%) beach volley (0,4%).

“Dall’indagine – dichiara Andrea Basadonne, presidente Asdrc La Biglia – è emerso chiaramente come l’elevato costo dell’attività sportiva condizioni le famiglie. Sempre più genitori, infatti, rinunciano a far praticare sport ai propri figli per problemi economici. Per quelli che riescono a praticarlo, invece, vanno in secondo piano nella scelta la qualità degli impianti e del servizio offerto. Ciò crea un discriminazione sociale nella nostra città. Proprio per questo abbiamo voluto fare un’indagine per approfondire meglio questo fenomeno.”. “Nel corso degli anni- dichiara Luca Serangeli, presidente Us Acli Roma- lavorando con i ragazzi delle periferie romane ci siamo resi conto come lo sport e’ a tutti gli effetti uno strumento formativo e d’inclusione sociale. A volte basta un pallone per evitare che i ragazzi passino il loro tempo tutto il giorno davanti ai videogames o nel peggiore dei casi si avvicinino alle droghe e all’alcol. Per questo cerchiamo attraverso il nostro lavoro quotidiano di offrire la pratica sportiva anche a chi non può permettersela. E’ fondamentale però che istituzioni, mondo dell’associazionismo e le famiglie dialoghino e collaborino per rendere lo sport veramente accessibile a tutti nella nostra città”, conclude l’Us Acli Roma. (DIRE)

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