1

I frigoriferi della solidarietà

Dopo il caso della Spagna, anche in Brasile arrivano i frigoriferi della solidarietà. La nuova iniziativa è nata nella località di Goiás. L’idea di per sé è semplice ma molto efficace.

Lungo le strade si installano dei frigoriferi dove chiunque può lasciare del cibo che altrimenti vorrebbe buttare. Tutti possono partecipare, dai comuni cittadini ai ristoranti. L’iniziativa nasce sia per ridurre gli sprechi alimentari che per aiutare le persone in difficoltà economiche.

Il primo frigorifero della solidarietà di questo progetto è stato installato su un marciapiede da Fernando Barcelos, uomo d’affari brasiliano. Voleva fare qualcosa per aiutare i bisognosi e ha preso spunto dai frigoriferi della solidarietà già installati in altri Paesi, come la Spagna, l’Olanda e l’Arabia Saudita.

Gettiamo nella spazzatura ogni anno un terzo del cibo che acquistiamo. Proprio il cibo avanzato potrebbe diventare una risorsa per nutrire chi non può permettersi di fare la spesa. Il frigo della solidarietà non rimane mai vuoto e tutte le persone che abitano in quel quartiere cercano di dare il proprio contributo.

link all’articolo




Il documentario che viaggia con il baratto

Unlearning è il documentario di una famiglia Genovese (mamma, papà e bimba di 6 anni) che ha lasciato per sei mesi la città (casa e lavoro) alla ricerca di una vita più a misura d’uomo.
Un viaggio per scoprire un’Italia di uomini, donne e bambini che, all’omologazione, hanno risposto facendo della propria esistenza un inno alla diversità per aprirsi al cambiamento.

Usando il baratto e la sharing economy, hanno spesso, in tre, 600 euro in sei mesi.
E lo raccontano in un appassionante documentario di 74′
Prodotto dal basso (gli utenti hanno comprato il documentario in anteprima su internet per coprire le spese tecniche di realizzazione) e in crowdsourcing (durante la lavorazione sono state organizzate proiezioni dove gli spettatori hanno partecipato alla realizzazione del “taglio finale”) Unlearning è finalmente pronto e sarà proiettato in oltre 50 città italiane, un calendario che si va a estendere di giorno in giorno: infatti il documentario non si può comprare.
L’unico modo di vederlo è invitare gli autori presso il proprio cinema / associazione / teatro (ma anche piazza, salotto, cantina!) per barattare con loro la visione di Unlearning ed un un incontro di presentazione con una cena e una notte di ospitalità (seguendo la formula del couchsurfing).

Un esperimento per distribuire un film usando i metodi più antichi (il baratto e l’ospitalità) con le moderne tecnologie (i social media).

Per saperne di più, scoprire il progetto e le date

Unlearning è un invito gentile alla disobbedienza, una proposta per tutte le famiglie stanche della propria vita ripetitiva che da sempre si chiedono se un’altra vita è possibile.

link al sito




L’ albergo delle piante

Creare il primo vivaio pubblico e comune di Roma. Recuperare uno spazio urbano controverso come la piazza del mercato di Corviale. Farlo dal basso, con la partecipazione degli abitanti del quartiere ed affidarlo alle cure degli ospiti degli utenti del Centro Diurno Mazzacurati, quelli del Cism Asl Roma D, quelli del Centro di aggregazione giovanile Luogo comune di Arci solidarietà, oltre che di ogni persona che vorrà prendere parte al progetto. Una serie di elementi che insieme vanno a creare “L’albergo delle piante”. L’idea è semplice e avrà inizio venerdì pomeriggio, dopo due anni di gestazione, quando gli abitanti del quartiere, chiamati a raccolta dall’artista di origini lucane Mimmo Rubino ed Angelo Sabatiello, porteranno le proprie piante per disporle sugli spalti abbandonati che circondano la piazza. Una pianta un vaso, per fare del luogo un giardino pubblico e restituirlo alla quotidianità dei residenti. La chiamata è aperta a tutti.

“L’unica regola è che le piante siano in un vaso, in modo da poter essere disposte da <> il centro dell’anfiteatro”, è il messaggio dell’ideatore Mimmo Rubino, conosciuto negli ambienti artistici underground come Rub Kandy, ma soprattutto “il progetto si svolge senza bando e senza budget, l’opera è aperta e chiunque può partecipare, un seme alle condizioni giuste si sviluppa e noi ci auguriamo che sia così per questo giardino”. L’obiettivo è di fare degli spazi inutilizzati della piazza un luogo verde, in cui gli ospiti del centro di salute mentale e del centro diurno possano trascorrere piacevolmente il tempo, come tutti i residenti, potendo leggere, ascoltare musica, giocare, senza però stravolgere la conformazione del luogo.

Siamo nell’epoca dove parole come recupero o trasformazione degli spazi urbani sono ormai un mantra, ma spesso viene trascurata la componente principale di questo tipo di progetti, ossia il coinvolgimento delle persone che ne dovrebbero beneficiare. Per questo motivo la raccolta delle piante che costituiranno “l’albergo” è già iniziata da alcuni giorni e vengono costantemente distribuiti volantini nei palazzi della zona per informare più persone possibili. Venerdì, dalle quattro, si darà il là ad un progetto che andrà avanti fino a quando ci sarà la partecipazione del quartiere.

link all’articolo




Il gemello

piacca
Corviale cena cineforum 1° edizione 2015
30 ottobre ore 19.00 Piacca – Arvalia




Il barbiere di Siviglia

INVITO ALL’OPERA. Il barbiere di Siviglia di G. Rossini

Renato Nicolini – lunedì 26 ottobre , ore 20:00
Serata inaugurale X^ edizione 2005 – 2015 la proiezione sarà preceduta dalla preziosa introduzione del professor Massimo Laurenza.
Quest’anno “ Invito all’Opera” compie 10 anni e la biblioteca Nicolini insieme al curatore Prof. Massimo Laurenza vuole dedicare la rassegna a Roman Vlad, compositore, musicologo e pianista scomparso nel 2013.

link al sito




Dall’11 al 15 novembre torna “Visioni Fuori Raccordo”

Una quattro giorni al cinema Farnese dedicata a documentari incentrati su periferie e marginalità, intese in senso tanto geografico quanto esistenziale.

Tossicodipendenza, emigrazione, marginalità sociale: sono questi i temi dei dodici documentari selezionati, offrendo una visione approfondita e ampia dell’Italia di oggi, dei bisogni dei suoi abitanti, delle sue contraddizioni e profonde spaccature sociali.

«La selezione di quest’anno – dichiara Giacomo Ravesi, Coordinatore Artistico del Festival – attesta l’esplosione del concetto di periferia in innumerevoli rappresentazioni urbane, esistenziali e concettuali, che lontane dal decretarne la sparizione ne testimoniano la perenne rivoluzione. In questo scenario di crisi e rinnovamento il documentarismo italiano contemporaneo inquadra una società in trasformazione che rinegozia le proprie tradizioni ricercando una nuova identità individuale e collettiva. Sperimentando linguaggi ed esplorando paesaggi violentati e corpi ignorati, i documentari scelti propongono la sfida antropologica e storica, estetica e politica di guardare alla contemporaneità con uno sguardo infranto e rigenerato».

La giuria del “Visioni Fuori Raccordo Film Festival” sarà composta dal commissioning editor del programma DOC3 Fabio Mancini, dalla regista e vincitrice della passata edizione del festival Valentina Pedicini e dalla direttrice della fotografia Sabrina Varani. Spetterà a loro assegnerare il premio Migliore Opera e le eventuali menzioni speciali.

Tra i titoli di quest’anno ci sono “Dal ritorno”, di Giovanni Cioni, “Uomini Proibiti”, di Angelita Fiore, “Samara Diary”, di Ramchandra Pace, “Roma Termini” di Bartolomeo Pampaloni, “Habitat – Note personali”, di Emiliano Dante, “Doris e Hong”, di Leonardo Cinieri Lombroso, “La malattia del desiderio”, di Claudia Brignone, “The Perfect Circle”, di Claudia Tosi. Ognuno dei documentari selezionati ci mette a confronto con realtà sociali ed esistenziali tanto urgenti quanto troppo spesso ignorate, che si tratti della convivenza tra etnie, delle evoluzioni socio culturali di una città, o della sofferenza fisica e psichica di malati o tossicodipendenti.

Il Festival si aprirà presso il cinema Farnese, per poi spostarsi presso il Cineclub Detour.

link all’articolo




Racconto le periferie prima del botto

“Viva la sposa” è nato tra la gente e i palazzi, nei bar. Perchè la realtà sta al telegiornale come il calcio all’album delle figurine.
Nicola è sempre seduto a un bar. Dice che vuole smettere di bere, ma non smette mai. E stando al bar incontra tante persone. Ascolta le loro storie. C’è un piccolo delinquente che tenta di truffare la assicurazioni buttandosi sotto ai motorini. C’è una prostituta che ha paura dei cani, e ha un figlio da lasciare a qualcuno mentre lavora. C’è la ragazza che dice di partire per la Spagna, ma non parte mai. Su tutto questo, per la strada o in tv, passa una sposa americana che sta girando l’Italia in abito bianco. Una visione consolatoria e di speranza, forse. Storie comuni, storie di periferia. Ascanio Celestini ha scritto “Viva la sposa” ascoltando le storie nei bar del Quadraro, di Ciampino, di Morena. Partendo dal basso. E girando nel quartiere dove sono nate, al Quadraro, quartiere romano con una sua “grande bellezza”, lontanissima dai palazzi barocchi del centro, eppure piena di storia. E di storie. Abbiamo parlato con Ascanio Celestini di questo. E di alcuni dei grandi temi che ha trattato nelle sue opere. “Viva la sposa” è nelle sale dal 22 ottobre.

Quanto è importante che un film come questo nasca sul territorio, nei bar del Quadraro, di Morena, di Ciampino? Che storie si trovano in questi luoghi?
«Forse sono le storie che troviamo in tante altre periferie. Luoghi che non per forza si trovano fuori dai centri storici, ma forse soltanto fuori dal centro del mirino dell’informazione, della narrazione globale alla quale siamo abituati ad assistere. Della periferia se ne parla solo quando esplode. Io vorrei raccontare quello che succede prima del botto».

E quanto è stato importante girare nei luoghi dove sono nate le storie, lontani dalla “grande bellezza” di Roma, eppure a loro modo bellissimi, carichi di vita? Come hanno partecipato gli abitanti?
«Gli abitanti erano incuriositi. Sono abituati al cinema. Alcuni di loro ci hanno lavorato come generici, qualcuno ha avuto ruoli di responsabilità. Gli stabilimenti di Cinecittà si trovano a poche centinaia di metri. Ma erano incuriositi lo stesso. Ma quando hanno capito che non giravamo tra quei palazzi per raccontare una storia qualunque, che ci eravamo venuti proprio per il valore che il colore di quei muri, la geometria di quelle prospettive sapevano raccontare era come se si sentissero dire che a Roma non c’è solo San Pietro, ma anche il bellissimo condominio di Selinunte numero 49.
Per quanto riguarda la bellezza io non credo che la grandiosità delle chiese barocche o del Colosseo renda grandiosi anche quelli che ci abitano davanti. E a me interessa raccontare l’essere umano e se riesce a umanizzare anche i mattoni della casa in cui vive: meglio!»
vivalasposa
Roma. Ascanio Celestini
durante le riprese del film Viva la sposa

Viste da lei che ci vive, quali sono le peculiarità di quartieri come il Quadraro e Cinecittà?
«Non è facile dire cosa sia Cinecittà o il Quadraro. Chi vive a via dei Quintili o a via dei Laterensi si sente quadrarolo. In fondo a via dei Consoli la gente vive a Don Bosco e oltre via degli Angeli gli abitanti sono di Tor Pignattara. Eppure qualcuno che viene da fuori potrebbe dire che si tratta sempre di Cinecittà.
Vista da fuori è come una matrioska che appare coma una sola bambola, ma dentro ce ne sono tante che per il distratto non esistono. I luoghi sono soltanto spazi da attraversare per arrivare da un’altra parte o, nel migliore dei casi, palazzi e monumenti che fanno stupire i turisti. Ma il luogo nel quale si vive ha due peculiarità in più: il tempo e le storie. Vivendo nel tempo, lo spazio si riempie di accadimenti. Non è più solo un luogo, ma anche le cose che in quel luogo accadono. E quando si passa oltre gli accadimenti, questi possono essere raccontati. I luoghi sono libri pieni di pagine bianche che col tempo si riempiono di parole e disegni».

Nel mondo che racconta c’è una piccola e sincera solidarietà tra gli ultimi, i soli. È una sua visione, da autore, o davvero questa solidarietà è possibile in quartieri come questi, lontani dai “Palazzi”? Ne ha viste tante di storie di questo tipo?
«C’è violenza e solidarietà. A volte le due convivono. Ovviamente c’è anche la solitudine e la distrazione. È facile uscire di casa e passeggiare incontrando persone quando abiti a piazza Navona o anche a piazza Vittorio. Nelle periferie dove le piazze sono parcheggi e alla chiusura dei negozi sembra che una saracinesca cali su tutto… è un po’ più difficile creare relazioni. Ma dove ci sono gli esseri umani c’è sempre una possibilità per crearne. Ci vuole coraggio e curiosità».

Uno degli aspetti della solidarietà di cui parliamo è anche il formarsi di famiglie non di sangue, ma di affetti. Crede che sia una risposta ad alcuni dei problemi di oggi?
«In generale la famiglia è il nucleo fondamentale della nostra società. Lo è nella maggior parte dei casi. Dobbiamo però riconoscere che non è possibile riconoscerla solo nella sua forma standardizzata e ipocritamente venduta come “naturale”. La famiglia oggi ha bisogno di essere riconosciuta in tutte le sue possibili forme».

Nel suo racconto la figura dell’ubriacone ha quasi una sua sacralità. È un po’ una sorta di custode del quartiere, un sostegno per tutti, una memoria storica della gente che ci passa?
«L’ubriaco è attratto dal bar più di chiunque altro. E nel bar, soprattutto quando il resto del quartiere attorno si spegne, è il primo che resterebbe per un ultimo bicchiere e poi per un altro ultimo ancora, per un altro… come per allungare il tempo».
vivala sposa
Roma. Ascanio Celestini, Francesco De Miranda e Mimmi Gunnarson
in una scena del film

Come mai ha scelto di ambientare alcune delle scene della sposa a L’Aquila? Forse perché il terremoto del 2009 è una delle tante rimozioni del nostro Paese? A sei anni di distanza, quali crede siano le responsabilità dei media e della politica?
«I media giungono in un posto quando accade qualcosa di eclatante, la raccontano e poi se ne vanno via. Raccontato così il fatto è decontestualizzato. I media dovrebbero raccontare meno e raccontarlo meglio. È un po’ come accade con le figurine. Il telegiornale mette in fila francobolli di notizie che raccontano pezzetti di verità. La realtà sta al telegiornale come il calcio all’album delle figurine.
La politica sfrutta questa semplificazione e spesso si pone nei confronti dell’informazione e della realtà come il giornalaio che vende l’album al bambino e le figurine nelle bustine».

In uno dei suoi film ha detto “Parole sante” a proposito del mondo del lavoro. Crede che la nuova riforma del lavoro possa portare a qualche miglioramento, o il precariato è una di quelle congiunture destinate a non mutare per molto tempo?
«In “Parole sante” ho fatto parlare dei lavoratori che si sono autoorganizzati e hanno compreso che il proprio problema dovevano incominciare a risolverselo da soli. L’idea di cambiare una legge ingiusta ci pone davanti ad una salita difficilmente percorribile. La lotta importante è nel fare in modo che la legge non venga nemmeno pensata. E questo è possibile se i lavoratori dimostrano di non essere docili e addomesticabili. Lo devono dimostrare non quando vengono attaccati, ma per non essere attaccati. Penso al movimento in Val Susa. Seppure il governo e i privati riuscissero nel loro intento, sarebbe l’ultima volta che tenteranno di contrapporsi a qual territorio che ha dimostrato di non essere affatto docile».

Ne “La pecora nera” ha raccontato in modo magnifico la malattia mentale e il mondo dell’ospedale psichiatrico. Crede che in Italia si stia riuscendo ad andare oltre gli ospedali, o la soluzione è ancora lontana?
«In Italia si è fatto molto. Molto più che in altri paesi. La legge 180 del 1978 è stata una rivoluzione. Ovviamente chiudere i manicomi non significa superare il disagio mentale. Ma nei manicomi i pazienti non erano curati, ma sedati e archiviati. Risvegliarli è stato un atto di grande umanità e responsabilità. Tenerli chiusi dietro un muro crea un apparente senso di sicurezza, ma è un modo nazista di relazionarsi tra esseri umani».

viva la sposa

link all’articolo




Big data per la diagnostica degli edifici malfunzionanti

Dagli Usa uno strumento in cloud di analisi di dati che potrebbe semplificare il lavoro degli operatori tecnici, con diagnosi precise e opzioni di intervento.
Il perfetto funzionamento di un sistema-edificio ha delle ricadute positive sia in termini di comfort degli occupanti sia di risparmio energetico e quindi di riduzione di costi e impatto ambientale. Far funzionare un edificio significa trovare il giusto equilibrio tra riscaldamento, raffreddamento e ventilazione, ma anche effettuare una corretta manutenzione di tutte le apparecchiature e i sistemi coinvolti. Un onere che spetta agli operatori tecnici, che spessò però, data la complessità delle strutture, non hanno i giusti strumenti per intervenire.
Al fine di colmare queste lacune- dettate dal numero elevato di dati che i tecnici devono analizzare ed interpretare senza poter seguire un protocollo ben preciso- i ricercatori della Drexel Univesity (Usa) stanno sviluppando uno strumento di analisi di dati su una piattaforma in cloud che potrebbe semplificare questi processi diagnostici.

Offrire agli operatori un quadro diagnostico accurato

Il team, guidato da Jim Wen, professore associato presso la Facoltà di Ingegneria e co-direttore di Building Science & Engineering Group, sta lavorando su un sistema che analizza i big data generati da i diversi componenti di controllo di un sistema-edificio: termostati, sensori di flusso idrico, contatori di energia e via dicendo. Con l’obiettivo di fornire agli operatori tecnici un quadro più completo della situazione, suggerendo delle opzioni precise per l’intervento in caso di mal funzionamento.

Gli operatori sono costretti a confrontarsi con un numero infinito di dati ‘grezzi’ provenienti dai sensori e dai sistemi di controllo, e con avvisi di rilevazione di guasti, ma le informazioni sono così complesse e indefinite che è difficile capire da dove iniziare e individuare una soluzione adeguata per la risoluzione dei problemi emersi- spiega Wen- E’ come se un medico ci desse i risultati delle analisi senza aiutarci ad interpretarli e senza suggerirci le giuste cure, pensando che possiamo essere in grado di farlo da soli. Lo strumento a cui stiamo lavorando deve assumere il ruolo del medico, ovvero dare agli operatori una diagnosi e una lista di opzioni da seguire.

Utilizzare gli algoritmi per individuare i problemi prima che si manifestino

L’individuazione di alcune problematiche è ardua. Perché i malfunzionamenti possono derivare non soltanto da un guasto nei sistemi hvac ma anche da difetti costruttivi o difetti nei dispositivi di controllo. E talvolta ci si accorge di tutto ciò quando il danno è già esteso, ovvero quando gli occupanti iniziano a risentirne o quando le bollette testimoniano consumi eccessivi. Per far si che questo non avvenga, lo strumento allo studio dei ricercatori utilizza degli algoritmi per controllare ed analizzare i volumi di dati dell’edificio automaticamente, rendendoli noti agli operatori ancor prima che il problema si manifesti concretamente.

Il malfunzionamento può essere causato da piccoli problemi che sommati nel tempo diventano un grande problema- spiega Wen- La mancanza di raffreddamento, ad esempio, può essere causa di una perdita di refrigerante, da un condotto che perde, da una valvola guasta o da un fan coil difettoso, ma il più delle volte è il risultato di una combinazione di queste problematiche. Il nostro strumento di rilevamento dei guasti e diagnosi automatica aiuterà gli operatori ad individuare una diagnosi accurata e quindi delle soluzioni da approntare.

La fase di test

Lo strumento sviluppato dai ricercatori di Drexel- finanziato dal Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti- verrà implementato nell’edificio di Stratton Hall, all’interno del campus universitario. Se la fase di test darà esito positivo, come gli studiosi si aspettano, il sistema verrà commercializzato dalla KGS Buildings, una società specializzata in software per l’edilizia, con cui l’Università ha già preso contatti.

link all’articolo




Condominio, nasce il building manager

È un professionista che non si limita a svolgere un’attività di amministrazione, ma è in grado di offrire servizi integrati agli utenti, con elevate potenzialità di sviluppo per “l’economia del condominio”.
Il ruolo dell’amministratore di condominio sta evolvendo verso la figura del “building manager”, professionista che non si limita a svolgere un’attività di amministrazione, ma che è in grado di offrire servizi integrati agli utenti con, inoltre, elevate potenzialità di sviluppo per “l’economia del condominio”.

Groma, società di gestione e servizi integrati per il patrimonio immobiliare fondata nel 1987 dalla Cassa italiana di previdenza e assistenza dei geometri liberi professionisti (Cipag), nel corso dell’appuntamento “L’evoluzione dell’amministratore di condominio: il building manager” che si è svolto oggi a Milano, ha illustrato le potenzialità di questa “figura” e le relative ricadute economiche positive.

I VANTAGGI DELLA “GESTIONE PROFESSIONALE”. Oggi il valore delle spese classiche condominiali (ristrutturazioni, riqualificazioni e manutenzioni ordinarie) raggiunge l’1% del pil, pari a circa 15 miliardi di euro. Con il passaggio da una mera “amministrazione” degli immobili alla “gestione” degli stessi e dei servizi integrati, invece, è possibile creare valore aggiunto per l’immobile, i condomini, i professionisti, e l’economia in generale, per ulteriori 20 miliardi di euro ogni anno. I vantaggi della “gestione professionale” per i soli clienti potrebbero ammontare al -10% del bilancio ordinario e +10% del valore dell’immobile.

La riforma del condominio del 2013 ha innovato profondamente il quadro, ma l’evoluzione è in ancora corso. E’ prevedibile, infatti, che nei prossimi anni i 260.000 amministratori non professionisti abbandonino il ruolo per le enormi responsabilità ed incombenze che la riforma ha introdotto. In Italia i condomini sono circa 1 milione e per i 40 mila professionisti si aprono enormi possibilità, che però non possono prescindere dalla professionalità, l’organizzazione, l’offerta strutturata di servizi, l’innalzamento degli standard qualitativi. All’estero già esistono consolidate società di capitali, multinazionali, consorzi che offrono servizi integrati di ogni genere (contrattazione ampliata con i fornitori di servizi, programmazione delle manutenzioni, introduzione del controllo di gestione, fino all’offerta di servizi di baby sitter, consegne a domicilio, fisioterapia, infermiere).

ENORMI MARGINI DI CRESCITA. “I margini di crescita in questo settore sono enormi – ha spiegato Vincenzo Acunto, direttore generale di Groma – e l’Italia non può perdere l’occasione. E’ necessario che i professionisti aderiscano al network, perché è necessario presentarsi con organizzazioni strutturate in grado di competere con i concorrenti esteri, ma anche offrire servizi ad un numero di utenti elevato. Questo settore non sarà più ad appannaggio dei singoli, ma solo di network strutturati”, ha concluso.

Per Fausto Amadasi, Presidente della Cassa di previdenza dei geometri (Cipag): “l’Italia non può perdere questo treno. E’ un’occasione importante che può avere ricadute positive per l’occupazione, per gli utenti, nel mercato immobiliare, come anche nei consumi e per l’economia in generale”.

link all’articolo




Il paese che ha aperto le sue cucine

A Borgo Tricase 10 mamme lavorano al primo ristorante diffuso d’Italia. Si compra un ticket e si gira di casa in casa a ritirare il piatto. Le prime due cene sono state un successo

“Lu porto” in dialetto salentino significa porto. Anche il Borgo Tricase è un porto. Un rione del comune di Tricase, in provincia di Lecce, dove vivono poco più di 250 persone. Nel piccolo borgo marinaro, però, si pensa in grande. «Nell’ottobre del 2014 c’è venuta l’idea», racconta Eleonora Bianchi, 31 anni, lombarda di nascita ma pugliese d’adozione. «Volevamo rivalutare il borgo di Tricase, volevamo questa rinascita anche per il porto. La maniera più facile per farlo era coinvolgere gli abitanti con le loro attività culinarie».

Così nasce “Le mamme del Borgo”, un ristorante “diffuso” dove dieci mamme che abitano il borgo aprono la loro cucina ai turisti. Eleonora Bianchi questo “ristorante” l’ha pensato insieme ad altri tre amici Mattia Sansò, Agnese Dell’Abate e Giuseppe Ferrarese; stanno trasformare le attività culinarie tipiche del paese in una vera e propria attrattiva. «Le prime due cene le abbiamo organizzate a giugno e ad agosto dell’estate appena passata», racconta Eleonora. «Inizialmente avevamo pensato ad un home restaurant, ma poi visto che nel borgo c’è spazio ci siamo detti che sarebbe stato ancora più bello creare un ristorante comunitario all’aperto, dove le mamme cucinano per tante persone». Attualmente le mamma che hanno aderito sono dieci. Nelle prime due cene pilota organizzate hanno partecipato circa 200 persone a sera.

«Abbiamo fatto stampare dei ticket, il prezzo è di 15 euro a biglietto. Con ogni ticket si ha diritto ad un pasto completo. Tutto il borgo viene mappato, e ogni mamma che partecipa si impegna a preparare un piatto tipico del posto. Si parte dall’antipasto e il cliente sa a quale “mamma” rivolgersi. Non si mangia nella casa della signora, ma è lei che ti aspetta sulla porta per offrirti il piatto».

Tolte le spese dei fornitori, poi i ricavi si dividono tra le mamme e gli organizzatori della serata.

«Una volta dimostrato che il progetto può funzionare», continua Eleonora, «l’obiettivo per l’anno prossimo è di organizzare cene a scadenza settimanale. Vogliamo stampare massimo 300 ticket per serata perché abbiamo pensato ad un sempre menù diverso dove ogni sera si possono trovare prodotti freschi e tipici del posto, a chilometro zero. Così possiamo mantenere alta la qualità ed evitare lo spreco alimentare».

I fondatori de “Le mamma del Borgo” hanno anche un altro obiettivo: rendere il progetto replicabile negli altri borghi o nei piccoli comuni italiani. Perché come spiega Eleonora «è importantissimo per la nostra generazione mettersi in gioco ma soprattutto è importante differenziare il lavoro e creare nuove attività economiche anche nelle realtà più piccole».

link all’articolo