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Slow, sharing, low cost, dalla bici al bus

Lo stile di vita ci influenza anche negli spostamenti. Tutto lo ‘sharing’ cui stiamo assistendo in maniera esponenziale da qualche tempo a questa parte anche in Italia, seppure più lentamente che nel resto d’Europa, è testimonianza di come la pensiamo in termini di mobilità e non solo relativamente ai costi: bike sharing, scooter sharing e car pooling (Enjoj e Car2Go i principali competitor) innanzitutto. Con-divisione e scambio di qualcosa è ormai un modello che si sta affermando, vale per gli appartamenti (couchsurfing o home exchange, per citare due portali noti), come per gli acquisti alimentari dai produttori (i Gas che festeggiano i loro primi venti anni). Certo il tema risparmio soldi è trainante, ma non basta a spiegare il fenomeno sharing che è basato su nuova socializzazione – sì nel tempo delle solitudini da iperconnessione c’è anche questo altrimenti perchè saliresti in macchina con uno sconosciuto per dividere le spese come avviene con BlaBlaCar? – e su altri ritmi, decisamente meno nevrotici del passato. Ecco che ‘slow’ si affianca al low cost.

BlaBlaCar, è una community di passaggi in auto con oltre 20 milioni di utenti verificati. Il conducente riduce le spese di viaggio (fino al 75 per cento sul costo di benzina e pedaggio) non viaggiando da solo e offrendo un posto da passeggero che a sua volta spende una decina di euro o poco più per tratti come ad esempio Milano-Bologna, magari prenotando online, e facendo nuove amicizie. E il successo di megabus.com, la compagnia scozzese di autobus, da poco arrivata anche in Italia, è molto più affine al concetto di mobilità slow, condivisa più che al low cost vero e proprio. Altrimenti perchè usare il pullmann anzichè l’aereo allo stesso costo, in entrambi i casi stracciato? Più che a Ryanair, Megabus.com sta a BlaBlaCar. Ci si sposta a bassissimo costo e non necessariamente per mancanza di soldi con il bus che ti porta in giro per l’Italia, o a Londra o a Parigi a prezzi stracciati, con tanta gente accanto da conoscere e con tante ore di viaggio da condividere.

Negli Stati Uniti, in Canada, e nel resto d’Europa è un trend consolidato: da sei anni le vendite di biglietti dei pullman hanno avuto un’impennata. Mentre in Italia la spinta è stata data dall’arrivo della compagnia scozzese che nella prima settimana ha venduto ben 30.000 biglietti. Gli autobus, ci sarebbe da dire, tornano di moda. Una volta venivano utilizzati per viaggiare dalla provincia alla città, oggi invece sono di nuovo in auge per viaggiare da città a città o tra un Paese e l’altro a prezzi economici e con tutti i comfort: autobus a due piani nuovi e comodi, con wi-fi, prese elettriche e toilette.

I servizi megabus.com sono molto popolari non solo tra studenti ma anche tra famiglie alla ricerca di soluzioni di viaggio economiche avendo tempo a disposizione. Creano domanda e nuovi viaggiatori, come già fatto anni fa dalle compagnie aeree low cost: con biglietti al prezzo di una tazzina di caffè si prende in considerazione l’idea di partire per un fine settimana o qualche giorno in più anche se non era un programma. Perché non organizzare un weekend se il viaggio costa pochissimi euro? Non solo Italia, ma anche qualche meta estera come Lione, Parigi e Lille. O è possibile visitare Londra e dintorni. L’idea poi, come ai tempi della vecchia cara interrail ferroviaria, è di immaginare una vacanza “on the road” toccando diverse mete: dalla Liguria alla Campania, passando per la Toscana e magari per Roma.

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Bolletta dimezzata ai cittadini che puliscono le strade

Grande adesione al progetto del ‘Baratto amministrativo’, lanciato a Massarosa (LU), dove coinvolge già 123 cittadini in difficoltà, e diventato realtà in molti comuni italiani.
Sono già 123 i cittadini del piccolo comune di Massarosa (in provincia di Lucca) che sono diventati volontari e che si impegnano settimanalmente nella cura e nella manutenzione degli spazi pubblici della città: dalla pulitura dei giardini alla verniciatura dei muri, dai servizi di vigilanza dei bambini in pre e post-scuola all’accompagnamento sugli scuolabus. Tutti loro, grazie a questi lavori socialmente utili, usufruiscono di uno sconto del 50% sulla Tari, la tassa sui rifiuti.
E’ il progetto Cittadinanza Attiva, lanciato in Italia proprio dal Comune di Massarosa (23 mila abitanti) nel febbraio di quest’anno e pensato per quei cittadini meno abbienti che, attraverso lavori per il bene comune, hanno la possibilità di usufruire di ingenti sconti sulle bollette. Il progetto, più comunemente chiamato ‘Baratto amministrativo’, è adesso realtà in molti comuni italiani. Particolarmente gettonata la pulitura e la manutenzione delle strade, tanto che sono già 80 i chilometri “adottati” dai cittadini. A coordinare i cittadini in questi progetti, ci sono le associazioni, al momento 12.

Ogni giorno sono una trentina i volontari impegnati nel Comune, e i numeri crescono mese dopo mese, segno che il progetto funziona. “E’ incredibile – ha detto il sindaco di Massarosa Franco Mungai – l’attenzione che questo progetto ha ottenuto sia da parte dei cittadini, dei media ma anche da parte di altri amministratori. Mi chiamano da tutta Italia per avere informazioni. Grazie all’intuizione e all’operativa del nostro segretario generale Luca Canessa, siamo riusciti, per primi in Italia, a recepire e mettere in pratica una possibilità offerta dal Decreto SalvaItalia, dando così ai nostri cittadini l’opportunità di eseguire piccoli lavori per conto dell’amministrazione ottenendo in cambio uno sconto sulla Tari del 50% o un contributo se si tratta di un’associazione. Un progetto – ha concluso Mungai – che non si limita solo a dare un sollievo economico ai contribuenti ma rappresenta un’importante occasione di socializzazione e di consolidamento dell’attenzione verso la cosa pubblica”.

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Città a propulsione educativa

“Oggi più che mai la città, per piccola o grande che sia, dispone di innumerevoli possibilità educative. Essa racchiude in se stessa, in un modo o nell’altro, gli elementi importanti per una formazione integrale”. Così esordisce la Carta delle Città Educative.
Era il 1990 quando, su proposta dell’Ayuntamiento di Barcellona, si tenne in questa città il primo Congresso Internazionale de las Ciudades Educadoras, le Città Educative. Le 70 città che in rappresentanza dei 21 paesi vi parteciparono avevano un’idea chiara: pensavano che attraverso l’educazione i cittadini potessero riappropriarsi della loro città.
Da allora i congressi si sono tenuti ogni due anni e nel 1996 si è istituita l’Aice, l’Associazione Internazionale delle Città Educative, a cui attualmente aderiscono 521 amministrazioni locali di 38 paesi a livello mondiale. Sono città che hanno compreso come la grande sfida del ventunesimo secolo consista nell’investire nell’educazione permanente affinché ogni persona sia sempre più in grado di esprimere, affermare e sviluppare il proprio potenziale umano. Città che si impegnano a essere educative mettendo a disposizione dei cittadini tutte le opportunità e potenzialità possibili, insegnando loro ad utilizzarle.
L’intenzionalità formativa diviene, dunque, una dimensione forte e pregnante della vita della città.
In Italia sono 23 le città che aderiscono alla rete delle città educative, con in testa Torino, che si è dotata di un assessorato specifico.

D’altra parte continuare a invocare la società della conoscenza, il ruolo strategico dell’istruzione, lasciando poi tutto procedere come prima, sarebbe l’ennesimo esito del gattopardismo italico. Sapere che esiste una rete italiana di città educative è davvero una buona notizia. Perché parlare di città educativa è come significare che si intende configurare un sistema di formazione complesso, di apprendimento diffuso, in grado di mettere in gioco le sue varie componenti.
In sostanza la città educativa sottende un’idea buona, un’idea morbida di descolarizzazione, di superamento cioè del preconcetto che la formazione debba essere tutta giocata a scuola, di quel monopolio che invece di aprire la scuola al territorio ha finito per isolarla e richiuderla sempre più in se stessa. Insomma, la città educativa nutre una sana e salutare forma di descolarizzazione, che nulla toglie alla scuola, anzi la colloca intelligentemente al centro, al centro di un polo territoriale in grado di offrire un tessuto differenziato e diversificato di esperienze formative, più ricco, più pieno, più generoso, più autentico.
Dopo tanti “post”, post-moderno, post-industriale, post-capitalista, la Carta delle Città Educative invita al “pre”: a pre-pararsi al cambio di fase. Non siamo di fronte solamente a semplici cambiamenti, ma a sfide epocali, che richiedono soprattutto alle giovani generazioni nuovi attrezzi e nuovi modi di attrezzarsi. Anche la scuola fa parte di questo cambio di fase, essa stessa è al centro della crisi, per identità e ruolo, perché inadeguata di fronte alle sfide e alla complessità mondiale. Non può più essere lasciata sola, ha bisogno intorno a sé di città e di amministrazioni solidali e attente, soprattutto alle necessità dei propri giovani e ai loro bisogni formativi.

La città educativa è l’espressione della consapevolezza ormai diffusa che il territorio dell’istruzione è più ampio e aperto di quello scolastico, angusto e formale, che ci sono opportunità e modalità formative più accessibili e interconnesse, più immediate e dirette, più attive e più esperienziali della scuola. Ogni città, con la rete delle sue opportunità di apprendimenti formali e informali, è senz’altro anche questo. Non c’è migliore comunità di apprendimento di una città che fa propria la dimensione educativa permanente, non per rivolgersi solo ai bambini e alle bambine, ai cittadini in quanto alunni e studenti, ma a tutti indistintamente nella loro interezza.
È tempo ormai che la dimensione educativa proceda oltre la tradizionale caratterizzazione scolastica per assumere quella del territorialismo, di qui la forza della città educativa. La formazione, l’istruzione, i saperi non sono più solo una questione privata, singolare, ma per la prima volta nella storia di tutti i tempi, nella storia dei diritti dell’uomo, diventano parte del diritto di ognuno a esercitare la cittadinanza, trasformandosi in una questione plurale. Con questo le città devono fare i conti, perché nel nostro tempo l’enfasi sempre maggiore data alle competenze, significa in realtà la necessità di fornire ciascuno di tutte le mappe necessarie a orientarsi nel tragitto verso un mondo mai prima condiviso, e questo è tipicamente un tema di cittadinanza, di solidarietà e di democrazia.
Il diritto oggi non è più solo diritto a conoscere, a sapere, a possedere gli strumenti di un mondo in cui oltre ai linguaggi digitali, sempre più si impongono gli alfabeti della migrazione, ma diritto a esperienze educative calde, piene di risonanze, fortemente contestualizzate. La città può offrire questo, una full immersion nella realtà, non l’istruzione dei curricula, che non è certo suo compito, ma la dimensione dell’istruzione continua, dell’educazione permanente.

Nella città educativa ognuno ha il proprio ruolo, funzione e responsabilità. Le amministrazioni pubbliche, i servizi pubblici, le istituzioni, le strutture culturali, il mondo della creazione e produzione di cultura, arte, scienze e nuove tecnologie, il mondo delle organizzazioni economiche e del lavoro, le associazioni, la stampa, la radio e la televisione locale.
Nel contesto generale della città sono però le scuole che continuano a svolgere il ruolo più importante, perché è a scuola che si impara a imparare, a imparare per tutta la vita. Non c’è città educativa per nessuno dei suoi abitanti, se la scuola non assolve con serietà e impegno rinnovato a questo compito centrale, che non è di sapere, ma di imparare a sapere, per poter camminare verso qualsiasi futuro portando con sé la cassetta degli attrezzi dell’apprendimento, dell’apprendimento continuo in una città educativa, amica e solidale.

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carta delle citta educative




La profezia autoavverante di una periferia immanente

“nei luoghi sconfinati dove credi che la città finisca, e dove invece ricomincia, nemica, ricomincia per migliaia di volte, con ponti e labirinti, cantieri e sterri, dietro mareggiate di grattacieli, che coprono interi orizzonti”.
Una delle domande ricorrenti, probabilmente ossessionanti, per chi cerca nell’arte le risposte capitali è di certo “Chi è un artista?“, una bella mano di sopraffino artigianato arriva a lambire la facoltà di produrre arte? E se l’arte fosse la visione? L’intuizione semi istintiva prima del movimento effettivo di un società verso una direzione? La facoltà, come un cane, di sentire il terremoto arrivare grazie ai suoi sensi, che gli permettono di captare gli impercettibili smottamenti nella pancia della terra?

Ma nei rifiuti del mondo, nasce un nuovo mondo: nascono leggi nuove dove non c’è più legge; nasce un nuovo onore dove onore è il disonore…

Pier Paolo Pasolini come Balzac, come Hugo, e poi semplicemente alla maniera di Pasolini ha fiutato con spirito a tratti partecipativo a tratti scientifico l’immenso potenziale della periferia. Certo, vi era una fascinazione verso i vinti, quelli vinti davvero attraverso i quali si sperimenta l’abisso, ma non si esaurisce con il banale assioma che vorrebbe l’avventura e la vita vera soltanto fra le macerie, lontana dai colletti bianchi: quello sarebbe mero classismo e stucchevole melodramma. Nessuna Madre Courage, nessun moralismo, nessun migliore e nessun peggiore.

Nascono potenze e nobiltà, feroci, nei mucchi di tuguri, nei luoghi sconfinati dove credi che la città finisca, e dove invece ricomincia, nemica, ricomincia per migliaia di volte, con ponti e labirinti, cantieri e sterri, dietro mareggiate di grattacieli, che coprono interi orizzonti.

L’analisi poetica di un paesaggio straniante, la disamina del covo di delinquenza a buon mercato e di violenza feroce. Ed ecco l’intuizione dell’artista, quello vero, la facoltà di intuire la deriva sociale di un fenomeno che gli ingenui della city credevano arginato nei palazzoni ad alveare: l’avanzamento selvaggio della periferia, con tutto il corollario di significati che il senso della periferia raccoglie. Non più rurale, non più villaggio chiuso ma familiare e neppure città, piuttosto una sorta di augeiano non luogo ripetibile modularmente a Ostia quanto a Cinisello Balsamo. Una Rivoluzione Industriale accolta dagli italiani ma non regolata, dove selvaggiamente prolifera la legge di nessuno che diventa legge di periferia. Una terza società creduta detrito accidentale contenibile in aree dove vigono leggi e architetture del paesaggio che solo gli autoctoni possono comprendere. Una riserva di disagio isolata.

Dove credi che la città finisca, e dove invece ricomincia…

Oggi un altro artista, secondo il medesimo approccio pasoliniano, ha colto la questione, si tratta di Renzo Piano che da anni si concentra proprio sulla revisione del concetto di periferia partendo dal corretto assunto dell’inevitabilità del suo avanzare: “Dobbiamo smettere di costruire periferie. Ormai le nostre città sono piene di questi luoghi dove il centro non è più centro, e la campagna non è ancora campagna. Invece di continuare ad espanderli così, dobbiamo intensificare i nostri centri urbani, fecondando e fertilizzando le periferie. Ovunque ci sono grandi buchi neri da recuperare e trasformare, in modo che questi sobborghi diventino luoghi di civiltà, e non solo posti dove si va a dormire. Capisco che con i centri storci era più facile, perché sono fotogenici, ma anche i sobborghi hanno la loro bellezza. La bellezza dei desideri di milioni di esseri umani che li abitano, e dobbiamo aiutarli a realizzare.”

Una città come Parigi, oggi, conta 6 milioni di abitanti, di questi soltanto 600.000 vivono in centro. E’ quindi corretto dire che il 90% dei parigini è gente di periferia. Ecco perché Pasolini andava ascoltato e forse tutelato come un qualche bene prezioso; Pasolini non è riconosciuto come un genio per la sua fine tragica dai risvolti epici che incorniciano una morte a bastonate su una spiaggia della peggio periferia di Ostia. Di gente finita così, ahinoi, sono piene le tombe; Pasolini aveva intuito quale sarebbe stato il futuro del 90% del mondo occidentale e se ne occupava con scientifica e minuziosa indagine. L’obolo che paga ogni Cassandra del proprio tempo è ben quello di aver restituito un futuro prossimo tanto sgradevole quanto inevitabile. Sostituire alla speranza un spietata consapevolezza è un di quelle cose che le persone non ti perdonano mai e non pochi, ne siamo certi, di quella morte violenta hanno detto “Se l’è cercata“. Il dramma è che in questa considerazione da bar risiede un briciolo di tragica verità: Pasolini aveva fiutato l’invadenza e l’incedere della periferia nei futuri decenni di questo Paese e, probabilmente, anche nella sua fine umana.

dove credi che la città finisca, e dove invece ricomincia, nemica.

Talmente nemica che si muore a bastonate.

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Come ripensare le città ritrovando un’unica identità urbana

Il «rammendo delle periferie», secondo la suggestiva formula coniata da Renzo Piano, pare sia opera pubblica destinata a divenire punto programmatico del governo Renzi. Ed è dalla probabilità d’una sua concreta attuazione che viene il decisivo interesse nazionale di questa impresa, al cui fondo credo ci sia il voler riconoscere a quelle stesse periferie il rango d’inedite e autonome città storiche. Un riconoscimento che appare del tutto fondato, visto che la grande maggioranza degli uomini (il trend è infatti planetario) vive oggi in periferie urbane. Ma che male si adatta, fino a essere errore, all’ultramillenario quanto indissolubile e meraviglioso insieme di vere città storiche e di vero paesaggio storico che fanno dell’Italia un unicum nel mondo intero, un insieme in cui le periferie sono quasi sempre infelice o infelicissima presenza; non storica, bensì, per dirla con Alexandre Kojéve, «post-storica». Per quale ragione un grande architetto nato in Italia commette l’errore di non considerare il nostro Paese in primis per la sua facies storica? Perché il suo non è un errore, bensì la semplice presa d’atto, più o meno inconsapevole, del completo fallimento delle politiche urbanistiche finora adottate nel Paese. Un fallimento originato dalla distinzione – sempre presente nei piani regolatori, ancor più, dopo il 1972, dal passaggio alle Regioni delle competenze in materia urbanistica – tra un centro storico rigido e immodificabile e una periferia (post-storica) al contrario flessibile e modificabile; correlando infine il tutto con un’integrazione di funzioni più o meno variamente articolate, ma sempre studiate in modo da far salvo il principio che la flessibilità della moderna periferia post-storica possa compensare la rigidità del centro storico. Tutto ciò con il risultato d’aver creato una crescita metastatica delle periferie intorno ai centri storici, portando infine il tutto a un comune degrado. Il degrado oggi sotto gli occhi di tutti.
Prima però credo vada sottolineato come la crescita metastatica delle periferie rispetto ai centri storici sia avvenuta in Italia soprattutto nell’ultimo mezzo secolo, cioè proprio nel momento stesso dell’avvento anche da noi della cosiddetta scienza urbanistica, la stessa che diceva d’avere in mano le carte per creare «l’uomo nuovo della Cité radieuse».
Evidentemente perché non erano in grado di capire, gli urbanisti di allora, che l’uomo nuovo era una balla di Le Corbusier e non la sola dell’architetto francese; il suo «modulor» di 2 metri e 40 d’altezza è infatti stabulario e del tutto funzionale «all’uomo nuovo» della speculazione edilizia, non certo all’uomo nuovo d’un nuovo ordine democratico. Balla passata in cavalleria perché mezzo secolo fa il ritardo culturale del Paese era immenso, ma con ancora dei tratti d’ingenuità, cioè non ancora completamente incanaglito verso furto e arroganza come ormai è oggi; e balla perciò fatta ingenuamente propria dalle Regioni, almeno nei primi tempi della loro istituzione, nel 1970; le stesse Regioni che al posto della Cité radieuse ci hanno ammannito nel vero, e direi inevitabilmente, le periferie di cui sopra.

Le ragioni del degrado delle periferie
Tutto ciò premesso, proviamo a cercare le ragioni per le quali un problema di tale evidenza e di così decisiva importanza per il futuro stesso dell’Italia e delle sue giovani generazioni è venuto lievitando in oltre mezzo secolo senza che mai lo si sia, se non risolto, almeno affrontato. Ragioni che sono numerosissime e che provo qui a citare in ordine sparso, ovviamente saltandone per sintesi alcune.
Prima ragione, è il gravissimo ritardo culturale in cui vive oggi il Paese e di cui ho appena detto. Quello soprattutto attestato dalla nostra classe politica che, proprio in causa della sua impreparazione, sempre più è andata scartando dai suoi «doveri» (Mazzini) la realizzazione di tutto quanto fosse complesso da elaborare sul piano delle scelte rispetto a ciò che è pubblico. Quindi mai si è preoccupata di predisporre razionali, coerenti e moderne politiche industriali, agricole, energetiche e quant’altro, come di mettere a punto piani a lungo termine su temi civili e sociali fondamentali quali istruzione, ricerca scientifica, ambiente, giustizia, fisco, sanità, pensioni, mobilità viaria e ferrotranviaria, urbanistica, salvaguardia del patrimonio storico e artistico, eccetera, per invece promuovere e autorizzare la politica economica più semplice, stupida, dannosa e redditizia che c’è: la speculazione edilizia. Ciò per assicurare il lavoro alla popolazione italiana (ma un lavoro, oltretutto infinitamente meno dannoso sul piano socio-economico e ambientale, è anche spostare le pietre da una riva all’altra d’un torrente, come Keynes ci ha insegnato), dove il far lavorare la popolazione fuori da un qualsiasi disegno razionale e coerente per il futuro del Paese ha reso la nostra classe politica compartecipe, non solo della devastazione dell’ultramillenario paesaggio urbano, agricolo e naturale del Paese, ma anche della cementificazione dei suoli, quindi della loro impermeabilizzazione, perciò principale responsabile, sempre la nostra classe politica, anche del dissesto idrogeologico del Paese, quello che sta producendo disastri ambientali con cadenza
sempre più ravvicinata nel tempo e sempre più diffusa sul territorio.
Seconda ragione, la sostanziale incompetenza della nostra università a formare i quadri amministrativi (dai soprintendenti, ai funzionari regionali e comunali) che dovrebbero risolvere – in via tecnica – l’immenso problema organizzativo, giuridico, tecnico-scientifico, urbanistico, viario e architettonico del rapporto tra città storica, periferia e territorio. Noto è che la recente introduzione di nuclei di valutazione della produzione scientifica dei docenti incardinati nelle nostre università ha evidenziato come molti di loro, specie quelli afferenti alle sedi di provincia, abbiano presentato titoli bibliografici dichiarati da quegli stessi nuclei di valutazione irricevibili, perfino articoli sulla cronaca locale del «Resto del Carlino» o sul bollettino della Comunità montana. Mentre, per restare al tema della tutela del patrimonio storico e artistico, sono stati di recente attivati corsi universitari di restauro dei beni culturali affidandone la direzione a docenti che non hanno mai toccato un’opera d’arte in vita loro, né hanno una bibliografia di specie, tanto da essere stati bocciati agli ultimi concorsi da professore ordinario. Da ciò l’evidente impossibilità che un’istituzione universitaria di tale modestissimo livello possa formare persone in grado di dar risposta al decisivo quesito sotteso al nostro vivere in un Paese, come è l’Italia, colmo fino all’inverosimile di storia: quale sia il senso della presenza del passato nel mondo d’oggi.
Terza ragione, a ribadire quanto appena detto, l’insensato numero dei circa 250.000 laureati in architettura e urbanistica (più o meno uno per kmq sul totale dei 301.340 kmq del territorio italiano, togliendo laghi, fiumi e inabitabili monti e valli) prodotti fino a oggi dall’università italiana. Oltretutto, architetti e urbanisti in gran parte formati secondo il principio di Bruno Zevi, per il quale il «nuovo» costruito non deve avere rapporto alcuno con il «vecchio». Una posizione illustrata nel Manifesto dell’architettura organica del 1945, testo fondativo d’una nuova scuola d’architettura, di cui Zevi era magna pars, che trovava forma e funzione nell’ambiente naturale, appunto l’architettura organica teorizzata dall’architetto statunitense Frank Lloyd Wright. Sfuggiva evidentemente a Zevi e ai suoi che, in Italia, la natura non è il luogo mistico di un Walt Whitman o di un Thoreau, bensì è un «ambiente culturale» indisgiungibile da un’ultramillenaria e infinitamente ramificata storia di sedimentazioni di civiltà. Quindi Zevi e i suoi non si resero conto di come, in Italia, da sempre si fosse costruita un’architettura che, per appartenere alla natura, quindi essere organica, mai aveva avuto bisogno di far scorrere al proprio interno una cascata d’acqua, come la «Casa Kaufmann» di Wright, peraltro edificio semi-inabitabile perché troppo umido; e si può andare, per l’architettura «naturalmente organica» italiana, dai Templi di Tivoli all’intera Venezia, a tutte le città storiche che ornano, intatte fino a qualche decennio fa, i profili delle nostre colline in forma di umanissime concrezioni nello stesso colore della terra su cui poggiano per aver da lì tratto i loro materiali da costruzione. Mai dimenticando, però, di là da questo esiziale errore culturale di Zevi e dei suoi, i tentativi svolti da alcuni architetti del secondo dopoguerra per recuperare un rapporto con le preesistenze storiche, come fecero Gustavo Giovannoni, Giuseppe Pagano, Roberto Pane, Ludovico Quaroni, Mario Ridolfi o Saverio Muratori, per dirne alcuni.
Ciò a conferma di come l’aggressione al paesaggio e alle città storiche avvenuta in Italia nell’ultimo mezzo secolo non possa essere attribuita solo alla terribile miscela tra impreparazione culturale, ignoranza della Storia e volontà di potenza soi-disant creativa dei molti, troppi architetti. Decisiva è stata infatti anche la corresponsabilità d’una insaziabile speculazione edilizia, d’una classe politica troppo spesso ignorante e corrotta, ovvero arrogante e dirigista, e di masse popolari ingenuamente persuase che il comfort piccolo-borghese dei condomini equivalesse al bello.
Quarta ragione, la generale e bovina osservanza alla «istanza storica» (1952) della Teoria del restauro di Brandi. Una posizione per molti versi fondata, quando si tratta d’una lacuna d’un dipinto. Assai più problematica da difendere quando si parli di architettura. Un errore fu infatti la rigida posizione presa da Brandi, sia nell’assurda condanna (ex post) della ricostruzione tal quale del campanile di San Marco realizzata nel 1912 al seguito dell’improvviso crollo dell’originale, sia nella rigida, quanto di nuovo assurda, opposizione al rifare uguale il cinquecentesco ponte di Santa Trinità di Bartolomeo Ammannati, fatto brillare nel 1944 dall’esercito nazista in ritirata da Firenze. Per fortuna campanile e ponte furono ricostruiti tal quali, ma quello stesso principio ideologicamente storicista è stato invece fatto valere per la ricostruzione delle città e dei paesi distrutti da calamità naturali. Al posto di rimetterne in piedi tal quali case e cose, così da restituire a quelle comunità ferite e umiliate almeno il ricordo della loro così brutalmente perduta identità storica, la consueta miscela di soprintendenti, architetti, urbanisti, restauratori e politici (i soliti formati nelle nostre università) ha provveduto alla costruzione di edifici «nuovi», perciò in pace con la «Storia».
Dalle mortuarie casette tutte uguali del dopo-Vajont, alla tanto ideologica quanto velleitaria (e anche un poco fessa) «nuova Gibellina», alla ricostruzione in squallidi condomini, ossia in villette geometrili, tanto dell’Irpinia quanto delle zone tra Umbria e Marche, fino alle sciagurate new towns dell’Aquila e al criminale abbandono a se stessa della città storica – lasciata, dopo il terremoto del 1999, a sciogliersi alla pioggia, al vento, alla neve e al sole –, le istituzioni (soprintendenze, università, assessorati regionali e comunali ecc.), nella loro incapacità e incompetenza, hanno preferito dibattere per anni su temi tanto ideologici quanto privi di veri fondamenti culturali («com’era, dov’era, ma non com’era, lo facciamo stilistico, no post-moderno», e così via farneticando), perché nel vero del tutto impreparate a dare risposte rapide, razionali e coerenti ai cittadini circa un problema ormai endemico in Italia, le distruzioni e le morti provocate, lo ripeto, dalle catastrofi ambientali, d’origine idrogeologica o sismica.
Quinta ragione, la completa farraginosità del quadro legislativo che oggi governa l’urbanistica in Italia. Quello generato dall’ingresso nel 1970 delle Regioni nella politica nazionale. Regioni avviate in grande ritardo rispetto al 1948 della Costituzione che già le prevedeva, quindi non create sulla spinta morale e civile di quegli anni (e qui si torna alla «Costituzione inattuata» di Piero Calamandrei: come sarebbero state le Regioni se varate subito dopo il 1948, sotto il diretto patrocinio dei padri costituenti?). Bensì Regioni avviate sull’onda del cosiddetto «Sessantotto», il movimento che allora in molti credemmo una rivoluzione, mentre era solo l’ultimo sussulto agonico della civiltà occidentale definitivamente vinta dal pop planetario della società post-storica di massa. Quindi Regioni in un primo momento determinate a creare un (sessantottesco) «regno di utopia», vale a dire un nuovo e, appunto, rivoluzionario modello di democrazia diretta, antitetica a quella dello Stato centrale, che in breve si è però rivelato una vana promessa cui si era del tutto incapaci di dare concretezza organizzativa e culturale. Ed è questo un passaggio delicatissimo per il generale tema della tutela del patrimonio storico, artistico e del paesaggio italiano, come del futuro stesso del Paese, passaggio che vede le Regioni assumere una posizione di raddoppio dello Stato centrale, con la delega data loro, nel 1972, della potestà legislativa in materia urbanistica e, nel 1977, in materia ambientale; pensando, sempre le Regioni, di correggere inefficienze e errori dello Stato con il varo d’un rilevante numero di iniziative di decentramento, spesso formalizzate in specifiche leggi.
Una stagione tra utopia, demagogia, dilettantismo e improvvisazione durata una decina d’anni, passando poi, le stesse Regioni, a promulgare leggi in difesa dei ben più fruttuosi e concretissimi interessi clientelari di speculazione edilizia e piccoli proprietari, fin quasi rasentando la demenza, come la legge della regione Liguria che avrebbe consentito di costruire fino a tre metri dalle rive dei torrenti, legge di qualche mese fa e non varata solo in grazia (si fa per dire) della recente e ennesima e disastrosa alluvione. Mai dimenticando però alcuni esempi virtuosi, come i recenti piani paesistici della Puglia e della Toscana, quest’ultimo per molti versi eroico, a onore di chi l’ha così pervicacemente voluto, Anna Marson.
Infine – ma di ragioni per spiegare il completo fallimento della costruzione delle nuove periferie in Italia ce ne sarebbero molte altre – aver fatto le Regioni verbo ideologico della suddetta rigidità dei centri storici rispetto alle periferie, nel nome d’una puerile idea di conservazione a oltranza dell’esistente. L’idea inverata nella politica fatta solo di vincoli e divieti di cui può essere simbolo l’Emilia-Romagna dei primi anni Settanta, politica il cui principale effetto è stato d’aver museificato i centri storici ottenendo la fuga della gran parte dei residenti. Basti, per dire in concreto del fallimento di quella politica, che dagli inizi degli anni Settanta si è avuta nei centri storici italiani una diminuzione di circa il 60% di abitanti e attività produttive. La stessa che passa al 100% nelle molte migliaia di piccoli comuni ormai in via di abbandono in tutt’Italia. Uno spreco di risorse umane ed economiche: basti il problema immobiliare, che grida davvero la vendetta di Dio.

Un’idea di Cavour: le grandi regioni
Soluzioni? Prima cosa, abolire subito le attuali Regioni, portandole a numeri sensati e razionali, ad esempio mutuandone le dimensioni da quelle degli Stati pre-unitari; e sarebbero le stesse che con grande lungimiranza volevano istituire Cavour e Cattaneo al momento stesso dell’Unità d’Italia, ben capendo le difficoltà strutturali nel realizzare quell’Unità, le stesse ancora oggi sotto gli occhi di tutti, peraltro. Secondo, riaffidare allo Stato centrale il compito sia di indicare le linee guida delle politiche urbanistiche, sia di provvedere al coordinamento della loro messa in opera, sia infine di sovrintendere alla verifica dei loro risultati applicativi. Tutto ciò sempre conservando per sé (lo Stato) un ampio potere di censura. Dopodiché, resettare (di nuovo lo Stato) l’attuale quadro legislativo relativo a tutela del patrimonio storico e artistico, ambiente, paesaggio e urbanistica, semplificandolo radicalmente e finalizzandolo a essere un unico strumento organizzativo, così – tra l’altro – da poter favorire con facilità una armonica ricongiunzione tra città storica e periferia, e di questa con ambiente e paesaggio.
Favorire come? Facendo tornare nelle città – a partire dai centri storici – le attività lavorative oggi in genere confinate nelle estreme periferie, quando non disperse senza alcun senso nelle campagne, quindi facendo tornare dentro le città industrie, opifici e quant’altro dia concreta occupazione a operai, impiegati e dirigenti. Il che porterebbe a ridisegnare un rapporto armonico tra nuovo e vecchio costruito, e di questo con il paesaggio, aprendo in tal modo – soprattutto ai giovani – immensi spazi creativi progettuali, con la formazione di molte migliaia di posti di lavoro. Ridisegnare quel rapporto significherebbe, infatti, riprogettare le periferie ponendone le funzioni abitative e i servizi in diretto rapporto con i centri storici; ma al tempo stesso riprogettare i centri storici facendo dei vincoli non più, come è oggi, sempre meno sopportabili provvedimenti solo in negativo, ma trasformandoli in indicazioni in positivo per la progettazione di un nuovo compatibile per forme, tipologie, materiali e quant’altro con l’esistente storico. Quel nuovo costruito che va comunque realizzato per non far morire il «vecchio» patrimonio edilizio italiano di troppo storicismo. Si tratterebbe poi di:
– restituire alla coltivazione il terreno agricolo oggi occupato dai capannoni industriali (dismessi e non) così anche riconsegnando alle città i loro confini, ovvero il loro contesto paesaggistico;
– poter esercitare i cittadini un controllo diretto e immediato sulle emissioni inquinanti di opifici attivi sotto il loro naso;
– far abitare le persone vicino ai luoghi di lavoro, perciò riportando i consumi alimentari, vestiari, eccetera, nei «negozi di quartiere», così come favorendo la creazione di servizi culturali e civili, quali biblioteche, cinema e teatri;
– riportare gli uffici pubblici nelle città, dalle scuole primarie e secondarie, all’università, agli uffici comunali;
– ridurre drasticamente il traffico veicolare privato;
– smettere di dare la solita, ideologica e demagogica e quasi sempre fallita in partenza destinazione museale all’immenso patrimonio immobiliare demaniale di palazzi storici, rocche, caserme, ospedali obsoleti, mercati coperti dismessi, eccetera, progettandone un riuso di concreta utilità sociale;
– perciò favorendo un riuso che inizi dall’insediare in quelle stesse caserme, rocche ecc., le predette attività lavorative, ovvero trasformando le solite rocche, caserme, eccetera, in unità abitative.
Per fare un solo esempio – pur se poco trendy rispetto alle attuali politiche talebane di tutela – una delle principali ragioni della conservazione del Palazzo Ducale di Mantova viene dal suo essere stato ininterrottamente abitato. Dai Gonzaga, che lo fondano, e lo abitano fino al Settecento con i loro famigli o le loro truppe, per poi divenire residenza teresiana, fino a quando, dopo l’Unità, viene occupato dagli «sfollati», tanto che, come mi raccontava tempo fa una «vecchia» soprintendente di Mantova, Giuliana Algeri, prima di diventare negli anni Venti del Novecento l’attuale (e deserto) museo, vi vivevano circa 3.000 persone.

Tornare a una “cultura vissuta”
Obiettivo di questa possibile e auspicabile azione di tutela attiva delle città e del paesaggio – tutela, ribadisco, finalmente non museificante – è il ritorno delle città (centri storici e riconnesse periferie) e dei paesaggi a luoghi di vita, quindi luoghi di relazioni civili, sociali e economiche. Il ritorno a una «cultura vissuta» aperta in mille diversi ambiti di pubblica utilità. Ambiti tutti da progettare e che sono formativi, ambientali, giuridici (si pensi al delicatissimo tema della legittimità degli espropri), economici, fiscali, sociologici, agricoli, idrogeologici, infrastrutturali, storico-artistici, eccetera, fino alla grande sfida d’una azione architettonica e ingegnerile orientata a un riuso compatibile dell’esistente storico, quindi alla ricerca scientifica nella domotica, nelle energie rinnovabili, nei sistemi di trasporto leggero (vettori, loro fonti energetiche e vie di transito) per raccordare rapidamente i piccoli paesi in via d’estinzione con i luoghi di lavoro delle città, così da ovviarne lo spopolamento, fino alla conservazione preventiva e programmata del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente, in primis la prevenzione del patrimonio monumentale, o più semplicemente edilizio, dal rischio sismico e da quello idrogeologico.
Sarà questa la ratio sottesa ai rammendi di Renzo Piano e alle future politiche di sviluppo territoriale del governo Renzi? Dar corpo a un grande «progetto nazionale» mirato a realizzare un coerente e razionale riassetto del territorio italiano attraverso una sua de-cementificazione? Un progetto cioè mirato alla fondazione d’una nuova e inedita «ecologia culturale»? Sarà perciò il contrario d’un maquillage estetizzante teso a mascherare ultradecennali e gravissimi errori progettuali, culturali e politici, economici e sociali, errori di cui oggi sono vittime soprattutto le giovani generazioni, come lo saranno ancor più le future, quando nulla dovesse cambiare?
Lo scopriremo. Tenendo però già adesso conto di due cose. Una, l’illuminata decisione di Brunello Cucinelli d’acquistare un piccolo e abbandonato paese storico dell’Umbria, Solomeo, facendone la sede della propria industria, con il risultato che gli operai tornano alla sera malvolentieri a rinchiudersi nei condomini di Perugia, dove perlopiù abitano. L’altra, che se i rammendi di Renzo Piano fossero rivolti solo a mascherare gli errori di cui sopra, sarebbero l’ennesima bugia raccontata agli italiani. Bugia dalle gambe corte, anzi cortissime, perché si risolverebbe nell’applicare alberi e alberelli a vecchi e nuovi condomini speculativi, magari verticali piuttosto che orizzontali, a dipingere di verde i container o i viadotti dismessi, a decorare la facciate in cemento con stecche di legno «ecologico» e così via. Si risolverebbe, cioè, nella definitiva resa del Paese alla speculazione edilizia. Ricordiamolo, industria in gran parte nelle mani di camorra, ‘ndrangheta, sacra corona e mafia. Nel Nord Italia, nel Centro Italia, nel Sud Italia e nelle isole.
Bruno Zanardi insegna Teoria e tecnica del restauro all’Università di Urbino «Carlo Bo». Questo suo saggio, che pubblichiamo per gentile concessione del Mulino, la rivista di cultura e di politica diretta da Michele Salvati, fa parte del dibattito intitolato «Abuso di territorio?».

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L’arte che ridà vita ai quartieri di Roma

Intervista al fondatore di “MURo”, il Museo di Urban Art di Roma.
Un artista a 360° gradi spinto dal nobile obiettivo di donare nuova vita a tutti quegli spazi che appartengono ai quartieri della Capitale (e non solo) lasciati in balia del degrado e nell’indifferenza delle istituzioni, portando così i cittadini vecchi e quelli nuovi a confrontarsi con la storia di ieri e oggi fusa in un’opera di arte urbana.

Lui è David “Diavù” Vecchiato, uno dei principali esponenti della Urban Art in Italia, che partendo dal Quadraro – suo quartiere di origine – è riuscito a tracciare un percorso che lega attraverso le opere che vanno dai murales alle scalinate diverse zone di Roma, creando così un “MURo – Museo di Urban Art di Roma”.

Noi di Abitare A Roma abbiamo voluto conoscere “Diavù” da vicino per comprendere come una sola persona è stata in grado in poco tempo di rivoluzionare una città e scoprire le passioni e i sogni nel cassetto dell’artista.

Artista, fumettista, scrittore, musicista. Chi è David “Diavù” Vecchiato?

Sono un artista che impugna strumenti diversi, dai pennelli al microfono, dalle matite alla reflex. Per esagerare ho anche curato la serie di documentari “Muro” sulla Street Art che sta andando su Sky Arte ogni martedì alle 22. Insomma, il termine “artista” potrebbe inglobare tutte le discipline espressive per come la vedo io, poi occorre valutare se ciò che fai è davvero arte o semplice intrattenimento…o chissà che altro. Ma ciò spetta agli altri deciderlo. Magari ai posteri.

Hai conquistato un tuo spazio nel panorama della Urban Art in Italia e non solo. In che modo ti sei avvicinato a questo mondo?

La mia storia personale si è spesso incontrata coi graffiti e la conquista degli spazi pubblici è sempre stata un mio pallino, ma non sono mai stato un writer perché io disegnavo e dipingevo, non scrivevo e non facevo tag. Ammiravo Haring, Kenny Scharf e Basquiat ed esponevo i miei dipinti – che riconosco già allora fortemente influenzati da quell’immaginario street – in occasioni come l’Happening Underground, al Leoncavallo di Milano come al Forte Prenestino di Roma, fianco a fianco coi writers che esponevano le foto dei loro ‘pezzi’ sui treni.

Io però la notte mi limitavo ad attaccare per Roma i miei poster con disegnato sopra Kontrol, personaggio dei miei fumetti di allora che pubblicavo su le fanzine che auto-producevo e mandavo in edicola con un gruppo di disegnatori ‘underground’ come me. L’interesse per le opere in strada mi è sempre rimasto però, ho curato mostre di Street Art fin dai primi anni 2000 e realizzato performance di live painting ovunque, ma ho preso a dipingere regolarmente murales solo dal 2009-2010, su per giù quando ho ideato il progetto MURo Museo di Urban Art di Roma. Mi sono fatto strada velocemente forse perché ho idee ben chiare sull’argomento.

Chi ispira i tuoi lavori?

Le persone ispirano i miei lavori. L’umanità con le sue contraddizioni a volte mi interessa, altre volte mi ripugna, ma comunque mi incuriosisce ed influenza molto il mio lavoro. Cerco sempre di andare oltre la prima impressione, di comprendere cosa c’è dietro ai comportamenti, alle parole o ai prodotti dei miei simili. E da quello sguardo attento spesso partono le idee.

Raccontaci il progetto “MURo – Museo di Urban Art di Roma”

Nel 2010 ho iniziato a dipingere dei murales nel quartiere Quadraro a Roma con l’idea di invitare là gli street artist più forti del mondo, raccontargli le storie del quartiere dei miei nonni, dove io sono tornato a vivere dopo molti anni di assenza, presentargli quindi le persone che ci vivono e poi chiedergli di realizzare là le loro opere di Street Art. Ho voluto creare quindi una connessione, un rapporto di empatia, tra artisti (internazionali ed italiani) e l’identità di quel luogo dove la storia del Novecento rischiava di essere dimenticata.

Al Quadraro hanno subìto un’infame deportazione nazifascista, hanno visto nascere negli anni 20 il cinema di Cinecittà e lo hanno visto risorgere negli anni 50, hanno combattuto contro la cementificazione dei palazzinari negli anni 60 e 70. Tutte storie che ora si ritrovano sui muri. Negli ultimi anni MURo è cresciuto, ha prodotto murales a Torpignattara e si è espanso dipingendo grazie al Festival Ossigeno alcune scalinate romane, col progetto Popstairs, e arrivando fino alla Borghesiana col mio dipinto antimafia realizzato con l’Associazione DaSud alla Collina della Pace. MURo è un Museo perché grazie a una collezione pubblica di una trentina di murales di grandi artisti oggi conserva le memorie e tramanda le emozioni di una Roma diversa da quella del turismo di massa. Sul sito muromuseum.com si può vedere come procede il progetto, ci si può iscrivere ai tour e bike-tour e molto altro.

E’ sempre più lunga la lista dei quartieri di Roma che possono godere dei tuoi lavori. C’è un quartiere su cui vorresti mettere le mani?

Si, vorrei proseguire col progetto Popstairs dipingendo su una scalinata una monumentale Gabriella Ferri a Testaccio, quartiere dov’è nata. Glielo devo perché quando ero piccino aspettavo ogni settimana i programmi “Dove Sta Zazà” e “Mazzabubù” di cui era protagonista che mi hanno fatto amare ed assorbire quell’ironia tipica romana capace di sdrammatizzare tutto, che appare strafottente ma è la reazione al malessere antico di un popolo che per centinaia di anni è stato schiacciato dal potere politico e religioso del papato a cui si poteva rispondere solo con lo sberleffo, dal basso. La incontravo spesso da ragazzo a via de’ Giubbonari la Ferri, ma non avevo il fegato di infastidirla. Eppure ne ho disturbati da Federico Fellini a Nanni Loy, da Jacovitti a Carlo Rambaldi, ma lei no. Era venerazione la mia.

Diversi sono stati i personaggi che nel corso degli anni hai omaggiato attraverso la tua arte. Qual è l’opera che ti ha dato più soddisfazione?

Per ragioni stilistiche sono legato alle scalinate di Popstairs perché mi diverte lavorare gradino per gradino e vedere alla fine un’opera così monumentale. Per ragioni politiche sono legato ai murales del Cinema Impero, coi ritratti di Pasolini, Monicelli, la Magnani e i fratelli Citti, perché hanno avuto una forza tale da contribuire a far riaprire uno spazio enorme rimasto chiuso per oltre trent’anni, che era negato dunque alla comunità.

Quella a cui sei più legato?

Di solito è sempre l’ultima. Ma alle opere gli si vuole bene a tutte, come ai figli. Quel bene consapevole del fatto che sono si parte di te, ma soprattutto liberi di andarsene per la loro strada.

Come è nata la collaborazione con Matteo Maffucci per la rubrica “Rifatto”?

Matteo è un grande appassionato di arte, specialmente di Street Art e ci siamo conosciuti nella galleria MondoPop a Roma, dove io mi occupavo della direzione artistica e lui acquistava opere, tra cui anche le mie. L’idea ci è nata lo scorso anno poiché entrambi giriamo molto a causa dei nostri lavori, e discutevamo di quanto sarebbe stato interessante far realizzare ad alcuni artisti dei murales ‘virtuali’, cioè come bozze di opere murarie da proporre ai lettori, su edifici in abbandono e su ecomostri, anche per parlare di questi spazi, visto che il territorio italiano è ferito da due milioni dei primi e centinaia di migliaia dei secondi. Lo abbiamo proposto a Il Fatto Quotidiano che ha accolto a braccia aperte l’idea cogliendone anche lo spirito da guerriglia artistica e mettendoci a disposizione due pagine a settimana.

La prima serie di RiFatto di 24 uscite si è conclusa prima dell’estate, ora vedremo con il giornale se riprenderla. Nel frattempo una di queste bozze è diventata realtà in uno dei documentari della serie “Muro” di cui ti parlavo prima, la cava dismessa di Arcevia che davvero è stata dipinta dall’artista statunitense Zio Ziegler, come avevamo ipotizzato su RiFatto.

Quali sono i tuoi progetti futuri?

Chi può dirlo? Decido sempre all’ultimo momento quale murale dipingere, quale nuovo progetto avviare o chi ritrarre nelle mie opere. E sono veloce nel realizzarli, quindi consiglio di andare su www.diavu.com e di cercare “Diavù” sui social network per vedere cosa sto facendo proprio in quel momento in cui mi cercate.

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Facciamo il “condominio di strada”, per ricostruire le comunità

Un’alleanza per migliorare la qualità della gestione dei condomini nelle nostre città: buona amministrazione, risparmio, mediazione dei conflitti di vicinato, attivazione di rapporti con le istituzioni locali, sicurezza del piano stradale. Con queste buone intenzioni l’Uniat (Unione nazionale inquilini ambiente e territorio), presieduta da Augusto Pascucci, e l’Uppi (Unione piccoli proprietari immobiliari), presieduta da Angelo de Nicola, hanno lanciato un’iniziativa per i proprietari di immobili, per gli inquilini e i residenti in genere.

Il nuovo servizio messo a disposizione dei cittadini si chiama “Condominio di strada”. L’idea messa a punto propone un nuovo modello per la gestione dei condomini, del fronte della strada e della cura del patrimonio pubblico di zona in una rinnovata relazione tra le comunità di persone e il territorio.

Ne abbiamo parlato con Alfonso Pascale, esperto di sviluppo locale e innovazione sociale che, dopo una lunga esperienza di direzione nelle organizzazioni di rappresentanza dell’agricoltura, nel 2005 ha promosso l’associazione “Rete Fattorie Sociali” di cui è stato presidente fino al 2011.

Cosa c’è dietro all’idea del Condomino di strada? «Si tratta di una modalità innovativa per ricostituire le comunità, soprattutto nelle grandi città, ma anche nei piccoli centri; visto che anche in questi ultimi i legami sociali si stanno sfaldando sempre di più. Il Condominio di strada comincia a mettere insieme quelle aggregazioni naturali e spontanee che esistono tra persone che vivono nello stesso palazzo, nella stessa strada, nello stesso quartiere al fine di costituire dei servizi comuni e di impegnarsi in forme di autoorganizzazione. Questa è la novità del progetto. Questa iniziativa è rivolta non solo agli amministratori di condominio ma anche, e soprattutto, ai cittadini. L’idea è quella di unire questi ultimi al fine di gestire in forma comune una serie di servizi per la collettività».

Come può trovare spazio un’idea del genere, laddove anche all’interno dei condomini le relazioni sociali sono ridotte ai minimi termini? «La sensibilizzazione che sta partendo è diretta agli amministratori di condominio, che solitamente non hanno una forte cultura aggregativa. Non mancano, fortunatamente, amministratori intelligenti, che capiscono di essere in grado di dare una marcia in più alla propria professione se restituiscono al condominio la sua dimensione comunitaria, che è quella che c’è in altri Paesi europei e negli Stati Uniti, dove i condomini sono gestiti da associazioni di proprietari e inquilini e sono, quindi, vere e proprie strutture associative. In Italia non c’è questa tradizione, perché il condominio nasce giuridicamente durante il fascismo e poi è stato inserito nel codice civile nel 1942, evitando in tal modo la forma associativa. Da noi c’è una forte dipendenza dall’amministratore. Oggi non c’è più la comunità, che è stata assorbita dai partiti e dalle associazioni che nascono per fini privatistici. Dobbiamo, invece, ricostituire comunità che svolgono attività di interesse collettivo».

Quali obiettivi spera che si potranno raggiungere? «Il Condominio di strada nasce dalla consapevolezza che oggi nella società contemporanea c’è una forte mancanza di legami comunitari. L’obiettivo è quello di arrivare alla consapevolezza che i beni comuni sono della collettività e non degli enti locali. Noi dobbiamo ripristinare questo livello, che è stato eliminato. In sintesi, la gestione dei beni comuni deve essere esercitata direttamente dalle popolazioni, che devono autoregolarsi in maniera spontanea».

D’altronde, la ridefinizione dei valori sociali, culturali, economici, tradizionali e relazionali, costituiscono la nuova cifra della complessità presente nel tessuto urbano delle città contemporanee.

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Risposta a Causi sulla crisi in Campidoglio

 Marco Causi ha scritto:

La crisi in Campidoglio: un primo commento

Dovremo riflettere a lungo e seriamente sul caso Roma. Nel 2013 siamo tornati al governo della città, ma eravamo impreparati. Non avevamo compreso la profondità delle ferite inferte dalla crisi alla città, e soprattutto alle sue parti più deboli. Non avevamo capito il livello devastante del degrado politico-amministrativo procurato al Campidoglio e ai suoi dintorni durante i cinque anni di Alemanno. Non avevamo consapevolezza che quel degrado aveva coinvolto anche pezzi del nostro mondo. Alla fine di novembre 2014, invitato dal PD alla Conferenza del Quirino, Giuseppe Pignatone aprì uno squarcio, seguito solo pochi giorni dopo dagli atti dell´inchiesta “mondo di mezzo”.

Abbiamo reagito, abbiamo messo in azione gli anticorpi (che a Roma ci sono). Nel partito con il commissariamento, l´indagine Barca, la ristrutturazione dei circoli. Nel Comune con il piano anti-corruzione, il più vasto e pregnante fra quelli esistenti in Italia, che ha salvato il Campidoglio dall´onta del commissariamento per mafia.

L´errore più grave di Ignazio Marino non sono gli scontrini. Certo, anche quelli hanno rilevanza, e − per noi che siamo garantisti, che difendiamo lo stato di diritto e l´esercizio della legalità all´interno delle garanzie costituzionali − quella vicenda significa una sola cosa: che Marino dovrà probabilmente affrontare un procedimento. Ci auguriamo che ne possa uscire a testa alta. Ma non possiamo permetterci il lusso di una rimozione psicanalitica del problema. Cosa che invece sembra avere indotto Marino all´ultimo dei suoi errori, ritirando le dimissioni annunciate venti giorni fa.

L´errore più grave di Ignazio Marino è di proporre una lettura del conflitto da lui aperto con il PD sulla chiave mafia-antimafia. Il PD sarebbe dalla parte della mafia, lui invece dalla parte giusta. Non accetta di condividere una riflessione collettiva e politica sulla nostra (e sua) impreparazione, da cui sono derivati evidenti problemi nel governo quotidiano della crisi di Roma. Non accetta, il 5 novembre, di essere con noi a testimoniare il presidio e la battaglia dei democratici (e anche la sua, in prima linea) per la legalità e contro la corruzione all´apertura del processo “mondo di mezzo”.

Perché anche questo faceva parte della proposta che il PD ieri pomeriggio, in un incontro fortemente voluto da chi scrive queste righe, aveva fatto a Marino. Primo, un passaggio in aula consiliare per un messaggio di fine mandato alla città (che adesso non potrà più esserci, per effetto dell´immediata caduta dell´Assemblea  a seguito delle dimissioni di almeno 25 consiglieri). Secondo, un incontro con il segretario nazionale e Presidente del Consiglio, a dimissioni esecutive. Terzo, tutti insieme dalla stessa parte il 5 novembre, a testimoniare che avremo anche compiuto errori, ma che a testa alta e con coraggio abbiamo saputo risalire la china, nell´amministrazione del Comune e nell´organizzazione del partito. Le formazioni politiche del centro-destra coinvolte nelle stesse vicende − e ben più pesantemente di noi − non possono dire lo stesso.

Ignazio Marino ha preferito scegliere la strada della testimonianza solitaria, arroccata su una strada politica senza senso e priva di sbocco. Accusa il PD di non averlo mai aiutato, e anche su questo − come sugli scontrini − dimostra uno stato di preoccupante rimozione. La norma “salva Roma”, che ha permesso al Campidoglio di affrontare il deficit strutturale di 800 milioni lasciato da Alemanno, nella sua prima stesura era inefficace e cadde due volte in Parlamento. Sono stati i gruppi parlamentari del PD, al Senato e alla Camera, a riscriverla, a renderla potente, a farla approvare. Sono stati esponenti del PD ad affiancare la giunta capitolina per il piano di rientro. E´ stato il Governo Renzi a riconoscere gli extra costi della Capitale − una rivendicazione che da 25 anni avanzavano gli amministratori di Roma. Ed è stato il PD ad esporsi in prima linea per rafforzare la giunta alla fine dello scorso luglio, e a lavorare pancia a terra insieme al Campidoglio e al Governo nazionale per mandare a buon fine gli interventi del Giubileo.

Io non so a quale approdo porterà la strada scelta da Ignazio Marino. Mi auguro per lui che possa ritrovare serenità, quella serenità che gli è stata tolta da una campagna mediatica di inusitata violenza e dai contorni opachi. Per personale esperienza so che prove di tale intensità emotiva è meglio affrontarle in squadra, e non rinchiusi da soli nel bunker di un ufficio. So però qual è il compito, dentro la crisi aperta dal ritiro delle dimissioni di Marino, per un partito come il PD, che ha responsabilità di governo e deve occuparsi della città e del suo futuro. Chiuderla velocemente. Riprendere il filo dei progetti per Roma, nell´immediato (Giubileo, emergenza trasporti) e nel medio termine. Chiedere al Governo un impegno straordinario per un´area metropolitana con tre milioni e mezzo di abitanti a cui non possiamo dare la percezione di essere abbandonati allo sbando. Basta con i giochi tattici su cui Ignazio Marino si è inerpicato: rimbocchiamoci tutte e tutti le maniche per risollevare Roma.

Risposta a Causi sulla crisi in Campidoglio

E’ vero quanto afferma l’on. Causi che il PD dovrebbe riflettere a lungo sulla crisi che si sta dipanando sul Campidoglio. In questa affermazione però si potrebbe quasi cogliere una consapevolezza tardiva che i processi in atto stanno prefigurando una mancanza di protagonismo del PD. Si sta pensando di gettare la spugna? Si sta valutando, al Nazzareno, che sia più utile uscire dal Campidoglio passando il testimone ad altri – M5S o società civile – per continuare l’approfondita riflessione?

Il cambiamento sottile che ha pervaso la Città, e non una città qualunque, il patto non detto su rendite di posizione acquisite nel pubblico impiego, nelle professioni, nelle imprese, per accomodarsi nella ridistribuzione di una ricchezza pubblica inesistente e quindi prodotta con l’indebitamento è sicuramente precedente la Giunta Alemanno. Forse è un animus della Città, ma la presenza del primi Sindaci di Sinistra l’aveva calmierata prima con il risanamento delle borgate, il piano scuole, l’ammodernamento delle infrastrutture, poi con la cultura e la comunicazione. E poi tutto si è fermato, senza slancio questo enorme e onnivoro corpo obeso ha incominciato a mangiare se stesso senza regole, ognuno a preso quel che poteva. Su questo impianto è emersa mafia Capitale, un piccola punta di un iceberg, quindi solo quello dimostrabile giudiziariamente, quindi solo una piccola parte di un comportamento diffuso. Ma se la Magistratura individua solo una parte ristretta chi dovrebbe intervenire con indirizzi e comportamenti diversi e di forte discontinuità? Ma la Politica.

Quindi, on.Causi è la politica non l’amministrazione a dover svolgere il suo compito, quindi sono importanti i fondi , ma se manca un Progetto di CITTA’ e chi lo interpreti i fondi saranno rivoli dispersi. Quindi smontare i Circoli seguendo l’analisi di Barca ma, non non individuare le responsabilità nei Dirigenti del PD che ne hanno promosso e permesso la creazione utilizzandoli ai propri fini, è inutile. Quindi non coinvolgere i Cittadini organizzati nei territori e i Municipi in una rigenerazione morale e e assegnare obbiettivi di riqualificazione per tematiche o per quadranti è sventato. La scelta di Marino è stato uno sbaglio? Bene va affermato e tratte le conseguenze, in Consiglio e con pubblico dibattito. Si è verificata una resistenza al cambiamento, magari improvvido, proposto da Marino nel PD o no? E di quale cambiamento parliamo? Insomma è stato scelto Marino come candidato di facciata per non cambiare gli accordi sottesi che hanno governato per lungo tempo Roma o no? E quale è il progetto di Città che il partito di maggioranza propone? Se non si risponde la maggioranza non ci sarà più.

Guardiamo alle immense periferie realizzate spesso con accordi non limpidi e facciamoci ispirare dalle condizioni estreme in cui versano molti cittadini e molte famiglie, affacciandoci umilmente sui territori, ascoltando e aprendoci ai problemi della partecipazione e dello sviluppo.

Eugenio de Crescenzo

 




La rivolta gentile del Trullo, quartiere metroromantico

Non solo degrado, scarabocchi e insulti sui muri, palazzi grigi e strade lerce. Non solo rabbia, conflitto, disfattismo. Una periferia può essere anche altro. Colori, versi, solidarietà, relazioni amicali. È la lezione del Trullo, quartiere difficile di Roma in cui si scrivono storie esemplari. Qui sono nati i Poeti e i Pittori Anonimi, qui si organizzano festival di poesia di strada e street art, qui si insegna il senso del rispetto per i luoghi e le persone. Dove la politica non arriva, i cittadini si organizzano da sé.
QUANDO L’ARTE RISCATTA LA PERIFERIA
Ci sono luoghi che raccontano un’altra verità. Antagonisti per definizione, dove l’essere “contro” diventa l’essere “con”, e le ragioni del conflitto incontrano le modalità del dialogo, un codice condiviso, un ordine alternativo fiorito nel disordine stratificato.
Luoghi che all’emergenza sociale rispondono con l’urgenza della cultura. Intitolati a una realtà ruvida, di aculei, di strappi e di improvviso tepore. È da qui, da questi centri vitalissimi e marginali, che sorge l’idea di quel nuovo “realismo” a volte divenuto una faccenda estetica, filosofica, intellettuale. Ma questo è un passaggio successivo, che attiene giusto alla teoria. Qui, intanto, si registrano i fatti. Cronaca di un quartiere che rinasce, a suon di versi e di immagini sui muri. Fenomenologia di una periferia in transito, fuori dai cliché politico-mediatici.
Il Trullo è un posto così. Roma, municipio XI, una realtà popolare con tutte le asprezze del caso: tra piccola borghesia in lotta contro i colpi della crisi, disoccupazione, criticità sociali, spaccio, emarginazione, solitudini e scarsezza di servizi, il Trullo racconta anche storie di solidarietà, di generosità, di militanza, di genuinità. E soprattutto di coraggio, laddove non si lascia spazio alla resa. E racconta, sorprendentemente, storie di rinascita dal basso, mediate dalla pratica dell’arte. Fra scrittura e pittura.

I POETI DER TRULLO. VERSI FRA LE STRADE DI UN QUARTERE
Nel 2010 nascevano, un po’ per caso e un po’ per urgenza d’espressione, i Poeti der Trullo. Ragazzi del quartiere ma anche di zone limitrofe, come Corviale, trovatisi a condividere l’amore per il verso. Non la droga, non le aggressioni pseudo-ideologiche tra fazioni rosse e nere, non il vuoto quotidiano e la disillusione. La poesia, piuttosto, come provocazione dolce e scommessa affilata.
Loro sono Er Bestia, Er Quercia, Er Pinto, Inumi Laconico, ‘A Gatta Morta, Marta der III lotto, Er Farco. Giovani, ironici, cocciuti sognatori metropolitani. O come amano definirsi: “metroromantici”. Che sono i figli di un romanticismo urbano, senza fronzoli né metriche polverose, senza retoriche, artifizi e stilemi: un modo contemporaneo d’essere ottocenteschi, impastati d’emotività e di inquietudine, di empatie e di minime ispirazioni, d’infinito, d’utopia e di malinconia sottile, scegliendo la strada come spazio d’avventura.

I Poeti der Trullo restano anonimi, scrivono parole sui muri, sfrecciano su Internet e impazzano sui social, raggiungendo oggi quasi 150mila like sulla loro pagina Facebook. Nel 2015 pubblicano un libro, totalmente autoprodotto e andato letteralmente a ruba. Perché i Poeti diventano, prestissimo, un fenomeno mediatico. Aiutati dal gioco della segretezza, insoliti nella loro vocazione lirica, intimamente popolari, seducono, conquistano, spargono mucchietti di parole fra i cieli di una Roma proletaria e i muri sgualciti di un quartiere-nido, giardino, isola, rifugio.
“Il Trullo è un luogo della mente”, scrive Inumi, “e tutta la periferia esistente può essere seme e frutto di poesia. Noi esistiamo per dimostrarlo. Noi esistiamo per sporcare i passanti e i vicini del colore che ci è esploso dentro. Abbiamo deciso di lasciarlo fluire e di non arginarlo”.
Quei versi mezzo romaneschi e mezzo italiani – di un italiano un poco ruvido, screziato d’amarezza e joie de vivre– hanno inseguito l’obiettivo: parlare alla gente, attecchire fra il cemento e la distrazione diffusa, incidere gli interstizi dello spazio pubblico con versi, storie, assalti laterali, pause d’introspezione. Roba che richiede attenzione e che provoca stupore.

I PITTORI ANONIMI DEL TRULLO. TUTTE LE STORIE DIETRO I COLORI
In principio fu il verbo. Il verso poetico come pozione insolita, per curare l’apatia di un quartiere, il suo grigiore. Poi, qualche tempo dopo, seguirono i colori: rulli, pastelli, acrilici, pennelli. I Pittori Anonimi del Trullo sono un’altra germinazione felice di questo tessuto sociale disagiato, solo apparentemente infruttuoso.
Era il 2013 quando Mario D’Amico, un sessantenne dalle lunghe chiome canute e gli occhi infinitamente buoni, decideva di aprire un nuovo capitolo della sua vita un po’ sbilenca, da combattente e solitario freak, ai margini del mondo e nel cuore del quartiere. Così, perseguì il suo credo: agire, invece di voltare lo sguardo; unire, anziché distruggere; seminare, per non soccombere al degrado. Un luogo lo si ama anche e soprattutto prendendosene cura. E insegnando agli altri come si fa.

Mario, nato e vissuto al Trullo, amabile sciamano dalla vita irregolare, insieme a un gruppetto di coetanei prese a dipingere i muri dei palazzi, le panchine, le scale, preoccupandosi prima di pulire, cancellare, sistemare le aiuole. Operazioni di riqualificazione notturna, svelando al risveglio piccoli teatri variopinti. Il Trullo diventava, via via, un altro luogo. Monocromi pastello, intrecci geometrici, rettangoli rosa, azzurri, verdi e gialli, pattern e raggiere: una serie di esperimenti d’astrazione divoravano lo scempio di scritte politiche, ingiurie, scarabocchi, cartacce.
La nuova legge era stabilita, prima tacitamente, poi chiarita a gran voce: niente svastiche, falci e martelli, scritte calcistiche, manifesti. L’armonia del colore sanciva la deposizione delle armi. Basta gang, fazioni, piccoli branchi di pischelli o adulti rabbiosi. Basta alla tirannia del brutto e del volgare.
Mario e i suoi amici, a un certo punto, uscirono alla luce del sole. E iniziarono a discutere coi residenti. Perché la conseguenza migliore di tutto questo non fu la bellezza ritrovata del quartiere, quanto l’energia che ne veniva. Qualcuno, afferrando un pennello, ritrovava la voglia di evadere dal baratro quotidiano; qualcuno iniziava a scambiare opinioni coi vicini sulla scelta di un colore, sulla facciata pulita, sul Trullo che cambiava. E c’era chi offriva un piatto di spaghetti ai pittori in azione, chi si fermava a sbirciare, chi si lasciava contagiare partecipando al gioco. La pittura come attivatore sociale.

C’erano – e ci sono – ragazzini incattiviti, che alle tinte pastello preferiscono lo sfregio e il pugno duro; a questi ragazzi Mario mette i colori tra le mani e prospetta un’alternativa, sul piano della creatività e della partecipazione. Certi si salvano, altri restano attaccati al loro destino di micro criminalità e di vuoto affettivo. Ma la battaglia è in atto: Pittori e Poeti stanno provando a costruire una comunità. E versi e colori non sono che la scorza. Dietro ci sono storie, vicende private, possibili riscatti, distanze e appartenenze.
I Pittori Anonimi del Trullo, oggi, vanno in giro per tutta Roma. Li chiamano le scuole per colorare le pareti insieme ai bambini. E loro vanno, spesso senza nemmeno una copertura spese. Una specie di missione. Là dove lo Stato non c’è, il cittadino – a volte – risponde con l’esempio. Lo scontro politico è già bypassato. Perché mentre la politica muore, fra talk show e manifesti elettorali (abusivi), magari sta già risorgendo in forme autonome e micro comunitarie.

STREET POETRY E STREET ART. IL FESTIVAL
“Ecco la Street Art, ar popolo appartiene / Potenza nelle vene che spezza le catene / Ner monno che se spegne è foco nella strada / Che ‘n giorno apre l’occhi e se trova tatuata / Non conosce serrature e orari de chiusura / De ‘n museo a cielo aperto indomabile creatura”. Così si chiude una poesia di Er Bestia, che bene racconta il legame resistente del quartiere con l’arte di strada. Amicizie, frequentazioni, passaggi di artisti e progetti comuni. Come nel caso di Solo, street artist con la passione per i fumetti, anche lui figlio del Trullo, nato qui 33 anni fa, cresciuto in mezzo a quei ragazzini che oggi si reinventano Poeti e in mezzo a quei Pittori che un tempo erano gli amici del papà, prima che la vita se lo portasse via, prematuramente. Legami e ancora legami, tra biografie private e intrecci professionali.
Solo, nel 2014, insieme ai Poeti, i Pittori, allo studio Trasformazioni Urbane e al lettering artist Pepsy, ha regalato al suo quartiere la splendida Nina, opera corale e simbolica, divenuta simbolo di questa rigenerazione attiva.

E c’è anche la Street Art al centro della terza edizione del Festival Internazionale di Poesia di Strada, approdato – dopo Milano e Genova – proprio in questo angolo di Roma, fra il 17 e il 19 ottobre scorso. Declinando il tema dei “Viandanti”, street artist e street poet hanno lavorato in coppie, tra muri di palazzi e saracinesche di negozi. Effetto didascalico evitato. Pittura e scrittura si sono tenute insieme a partire da un’urgenza di fondo: leggere l’anima del Trullo e restituirla in una forma creativa. L’alchimia è sgorgata da sé.
Dal ritratto di Mario nei panni di scrivano, magistralmente dipinto da Gomez sul filo di un toccante componimento del Poeta del Nulla – opera dedicata alla potenza dell’ombra come altro da sé, racconto intimo, linguaggio notturno – all’efficace intervento dei milanesi Ivan e Piger: una membrana di calligrammi rossi e azzurri, a ricalcare un frammento architettura, nascondendo parole chiave e versi di resistenza lungo un tappeto di scrittura goticheggiante, preziosamente contemporanea.

E poi Solo – parte attiva dell’organizzazione del Festival – che nella piazza principale ha dipinto un ritratto oversize di Laura, vecchia amica del quartiere, scomparsa di recente; Moby Dick, col suo omaggio allo sguardo magnetico delle donne d’Oriente, creature in fuga, in cammino, in trincea; Diamond, che sulla facciata di una scuola ha tracciato con maestria i profili di un uomo e una donna, agganciati in un romanico stemma d’antan; Mr. Klevra, col suo angelo custode, raffinata apparizione spirituale; Bol23, col suo iconico pappagallo; Marcy, che ha sospeso un funambolo nello spazio, sulle orme di un “coraggio clandestino”; Gio Evan, col suo inno alla gioia per i ragazzi di strada, impreziosito da un dipinto di Jerico… Giunti da tutta Italia i poeti – tra gli altri anche Ste-Marta, Factory Wrting, M.E.P, Mr. Caos, Alfonso Pierro… – per una piccola Woodstock di periferia nutrita di parole, ritmi, haiku. sonetti. Una grande festa creativa, ma soprattutto umana.

I concerti al Cso Il Faro, intanto, hanno supportato l’operazione con gli incassi, grazie alla generosità dei musicisti, privatisi dei cachet. Cantautorato romano, indie, tanto rap e come special guest i Colle der Fomento, sempre travolgenti.
“Ci ancoriamo per navigare altrove” è il verso di Poesie Pop Corn inciso sul muro di Diamond. Forse la sintesi migliore di questo festival e di tutta la mitologia urbana fiorita intorno al Trullo. Essere insieme, per affrontare traversate difficili, per inventare viaggi collettivi, laddove è nella collettività che si definiscono la rotta, le pratiche di navigazione, i codici d’attraversamento, gli orizzonti possibili e le traiettorie giuste. Immaginando d’essere guerrieri di una guerra di quartiere, di una rivolta gentile. Combattuta a colpi di piccole poesie e di visioni monumentali.

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Stasera mangiamo InGalera

Il ristorante nel carcere di Bollate.
I detenuti cucinano e servono ai tavoli. Giuseppe, 23 anni: «Sono emozionato».
Nel menu non ci sono gli spaghetti alle vongole fujute (scappate) o le pennette al 41 bis, come sarebbe piaciuto all’ispettore Vincenzo Ormella, responsabile del settore esterno. I piatti vanno dalle pappardelle di castagne con ragout di cervo con grappa e ribes alla faraona farcita con belga e nocciole. Dodici euro piatto unico del pranzo, trenta-quaranta euro una cena completa, con la carta dei vini che non fa torto a nessuna regione.
Un nuovo ristorante a Milano. Anzi a Bollate. Anzi, dentro il carcere di Bollate. Il primo in Italia. Si entra dalla guardiola, ma non si lascia il documento, basta aver prenotato: una stagista dell’Istituto alberghiero Paolo Frisi accoglie gli ospiti e li accompagna «InGalera», tavolo d’angolo con vista cortile, le sbarre alle finestre, tovaglie di stoffa immacolate la sera e tovagliette di carta a mezzogiorno con le foto delle prigioni d’Italia e del mondo: Regina Coeli, Dorchester, San Vittore.

La brigata di sala e cucina
Massimo Sestito, 46 anni, è il maître, food & beverage manager: praticamente in sala comanda lui. È un uomo libero, come lo chef, Ivan Manzo, una roccia di 140 chili per 185 centimetri. I due camerieri, i due aiuto cuoco e il lavapiatti che li assistono no, loro sono detenuti. Uomini che hanno sbagliato, e molto, ma che in prigione si stanno conquistando una seconda possibilità.
Hanno scontato un terzo della pena quindi hanno diritto all’articolo 21 dell’Ordinamento penitenziario, cioè a uscire dal carcere per lavorare.
Le loro condanne sono lunghe, proporzionate al reato commesso: fine pena nel 2027, 2023, 2025, dipende. Racconta Giuseppe, 23 anni, in prigione da sette. «Se sono contento? Cavolo, sì! È il mio terzo giorno, sono emozionato. Questa è una soddisfazione anche per la mia famiglia, finalmente. Non mi sento giudicato e i clienti mi trattano da persona sociale».
I requisiti dei detenuti-lavoratori
Silvia Polleri è la responsabile della cooperativa Abc che ha assunto il personale, sette in tutto, al quale si aggiungono le hostess e quattro tirocinanti-detenuti del Frisi. «Era necessario che avessero tutti ancora molti anni da scontare, per garantire continuità al loro lavoro e un senso al nostro investimento. Al bando, all’inizio, avevano risposto in 90 per due posti. Un ufficio specifico della polizia penitenziaria ha fatto la prima scrematura: i candidati non dovevano avere dipendenze da alcol o da droga e non dovevano assumere psicofarmaci. Il salario di ingresso è pari al 65 per cento dello stipendio base. A seconda dei ruoli parliamo di 600-700-1.200 euro al mese».
Il vero senso della pena
Un ristorante così non si improvvisa. È l’evoluzione di un progetto formativo avviato quando la cooperativa Abc ha cominciato a far lavorare i detenuti per servizi di catering, nel 2004. Si è rafforzato con l’arrivo della succursale dell’alberghiero, nel 2012. E, infine, ha potuto contare sul supporto indispensabile di PwC (network di servizi di revisione e consulenza legale e fiscale), di Fondazione Cariplo e Fondazione Peppino Vismara. Ognuno ha fatto la sua parte, compreso il direttore Massimo Parisi, che ha concesso in comodato d’uso i locali della sala convegni della polizia penitenziaria. Dice: «Dobbiamo riflettere sul senso comune della pena e chiederci che cosa ci aspettiamo davvero da un carcere. Io mi aspetto che i detenuti, una volta usciti, non commettano altri reati». Missione, per adesso, compiuta: il tasso di recidiva, a Bollate, è del 17 per cento.
«InGalera» sarà inaugurato oggi, anche se ha aperto in sordina un paio di settimane fa (e ha già ricevuto la visita della polizia annonaria: tutto ok). Passate parola.

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