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Conoscere le periferie, per cambiarle

Negli ultimi mesi le cronache giornalistiche hanno investito di un’attenzione rinnovata le periferie delle nostre città, trattandole perlopiù come quinte sceniche davanti le quali fenomeni come la gestione dei flussi migratori, i disservizi nei trasporti o nel trattamento dei rifiuti, le infiltrazioni mafiose e molti altri sono stati mescolati e confusi nella grande narrazione del ‘degrado’ contro il ‘decoro’. Da Tor Sapienza a Quinto di Treviso, sono molti i quartieri sbattuti in prima pagina – in netto contrasto con l’oblio nel quale sono solitamente relegati – a causa di una questione come quella dell’accoglienza dei richiedenti asilo, che nel nostro Pese si è tramutata, più o meno artificialmente, in un’emergenza.

Stando alle descrizioni fornite dai media mainstream che ormai si sono impossessate del senso comune, le periferie sembrano essere proprio il terreno dell’emergenza, mentre chi per primo le vive sa bene che, una volta spente le telecamere e chiusi i taccuini, rimane una realtà forse molto più difficile da analizzare e raccontare, ma anche ben più problematica.

Quello di giornali e tv si rivela semplicemente un modo di raccontare le nostre città che certo può risultare efficace per catturare click o aumentare lo share di qualche punto, ma che ha un’utilità quasi nulla nel capire quali siano gli effettivi problemi che affliggono le periferie e quali possono essere le strade per risolverli.
Una storia di periferia

Periferia, dal greco περὶ φέρεια, significa letteralmente “linea curva che tornando sopra se stessa racchiude uno spazio, forma una figura”, un concetto sostanzialmente autonomo – e abbastanza generico – che tuttavia non corrisponde con il significato che ha via via acquisito il termine in italiano. Solitamente tendiamo a definire la periferia per contrasto rispetto al centro: periferia è ciò che sta fuori, che è marginale, lontano, rispetto ad esso. Il centro viceversa non si definisce tanto in opposizione alla periferia quanto per le sue qualità intrinseche: un insediamento storico, la presenza di edifici pubblici e privati importanti e delle funzioni che essi contengono, l’accessibilità rispetto ai mezzi di trasporto e così via.

Quella della periferia come opposto del centro è evidentemente una definizione efficace e immediata, che allo stesso tempo rivela un dato molto importante: definendo la periferia in ragione del centro tendiamo a guardare tutto dalla prospettiva di quest’ultimo. Almeno secondo questa definizione – stando cioè nei perimetri di questo frame cognitivo – la periferia in sé non esiste, ma soprattutto sembra non poter esistere come oggetto di ricerca autonomo, dotato di una sua dignità al di là della subordinazione al centro in termini di localizzazione, accessibilità, presenza di servizi, qualità del costruito e via dicendo.

Limitandoci geograficamente all’Italia e temporalmente a partire dal secondo Dopoguerra possiamo individuare – con un buon grado di approssimazione – due fasi diverse dello sviluppo delle periferie, legate all’estensione e alla ritrazione (e riarticolazione) dello sviluppo urbano del Paese (per una rassegna più completa, segnaliamo questo link).

La prima fase è quella del boom economico e demografico che si protrae con accenti diversi fino a tutti gli anni ’70 e che è caratterizzata da una grande estensione fisica delle città. Interi quartieri vengono costruiti – spesso pressoché da zero – per soddisfare le esigenze di una popolazione e di un’economia in crescita: al centro di questo processo ci sono da un lato il tentativo di calmierare gli squilibri del libero mercato garantendo un’abitazione alle classi sociali più basse, spesso in stretta connessione, anche fisica, con gli insediamenti industriali nei quali gli stessi abitanti dei quartieri periferici erano impiegati; dall’altro gli interessi sempre più forti dei grandi costruttori. È proprio in questa fase che l’espansione urbana fornisce un contributo determinante alla crescita ipertrofica del settore edile, che con il tempo diventerà strategico per il suo peso specifico all’interno dell’economia del Paese.

Questa crescita esponenziale delle città, e delle periferie, è spesso descritta come uno degli ingredienti principali del cosiddetto ‘Miracolo italiano’: dietro la patina positiva si nascondono tuttavia fenomeni molto diversi tra loro, dall’iniziativa pubblica a quella speculativa privata, fino ai molti casi di abusivismo edilizio su larga scala. L’apice di questa fase di espansione è simbolizzato dalla costruzione in molte città italiane, tra la fine degli anni ’60 e la metà degli anni ’70, di grossi agglomerati di edilizia razional­funzionalista: dallo Zen di Palermo al quartiere Corviale a Roma (ma quasi ogni città della Penisola può citare il proprio esempio), che costituiscono anche l’emblema del fallimento delle politiche abitative di quegli anni.

La seconda fase, con differenti tendenze dagli anni ’80 in poi, è caratterizzata da una stabilizzazione demografica e da una serie di crisi economiche, che si possono collocare nel più ampio ambito della transizione dal modello fordista a quello postfordista. Dentro questo processo lo sviluppo urbano assume due tendenze che si susseguono e in parte si intrecciano tra loro: la prima è quella della dispersione urbana, ovvero il trasferimento di residenze, attività produttive, funzioni e servizi fuori dai perimetri consolidati delle città, in un territorio più vasto segnato linearmente dalle direttrici infrastrutturali; la seconda è quella della rifunzionalizzazione di grandi aree della città consolidata, i cosiddetti processi di ‘rigenerazione urbana’ che, definendo in molti casi nuove centralità, ovvero nuove aree sulle quali l’interesse pubblico e – in maniera sempre più pervasiva – quello privato hanno rivolto la loro attenzione, hanno di converso definito altrettante nuove marginalità.

L’esempio più emblematico di dispersione urbana in Italia è quello del Veneto centrale, dove tra i capoluoghi di Vicenza, Padova, Venezia e Treviso i processi di urbanizzazione si sono notevolmente intensificati a partire dagli anni ’80, accompagnando un massiccio trasferimento di popolazione e di attività produttive dai capoluoghi alle campagne. Per quanto riguarda i processi di rifunzionalizzazione, dagli anni ’90 in poi molti di essi sono stati ‘pilotati’ dal programma europeo Urban: un esempio noto è quello del piano Urban di Bari con il recupero del centro storico di Bari Vecchia. Altri processi di rifunzionalizzazione sono stati determinati da grandi lavori di adeguamento infrastrutturale, ad esempio la ristrutturazione della Stazione Tiburtina a Roma.
Scampia, foto per gentile concessione di Daniele Napolitano Scampia – ph Daniele Napolitano
Fabbrica e Periferia

La lente migliore per leggere le diverse fasi dell’evoluzione delle periferie in Italia è probabilmente quella dell’evoluzione del modello produttivo: con l’industrializzazione fordista del secondo Dopoguerra la città si espande ‘a immagine e somiglianza’ della grande fabbrica, con grandi agglomerazioni e uno sfruttamento intensivo del suolo; con il declino del modello fordista, assieme alla grande fabbrica ‘esplode’ anche la città, con fenomeni di dispersione e di sfruttamento estensivo del suolo e grandi riarticolazioni delle funzioni dentro la città consolidata. Non è stato esclusivamente il legame con la sfera della produzione a mutare le nostre città e lo sviluppo urbano, ma il binomio fabbrica-­città è efficace nel descrivere tali trasformazioni e in particolare l’evoluzione delle periferie. La periferia infatti ha rappresentato, in particolare nel corso dell’affermazione del modello fordista, la naturale prosecuzione spaziale della collocazione sociale della classe operaia, e le lotte per l’estensione del welfare state che hanno trovato nel corso degli anni una lenta e faticosa concretizzazione proprio nei contesti periferici sono, di converso, il segno dello sviluppo di un sistema di controllo sociale delle masse operaie sempre più articolato.

La seconda parte dell’evoluzione delle periferie ci consegna degli elementi d’analisi più complessi e in parte contraddittori: viene di fatto definitivamente sconfessata la marginalità, intesa dal punto di vista meramente spaziale, come metro di classificazione della periferia. La periferia non è semplicemente “lontana dal centro”, e a volte non lo è affatto. L’esplosione della città fordista e l’ascesa della dispersione urbana hanno di fatto dimostrato che ‘tutto è periferia’, che la ridefinizione di centralità molto deboli attorno ad alcune direttrici di trasporto hanno sostanzialmente fatto scomparire il centro così come è stato sempre inteso nel corso della storia delle città italiane (ed europee). La scomparsa e la disarticolazione del centro cittadino come spazio pubblico predominante ha inoltre cambiato profondamente i connotati del conflitto sociale, facendolo riemergere in forme più carsiche ma più dirompenti anzitutto perché più inedite. La riarticolazione delle funzioni dentro la città consolidata, spinta sempre più anche da un insieme di interessi privati, ha dimostrato che la nascita di nuove centralità o il deciso rafforzamento di quelle vecchie determina il sorgere di nuove marginalità, a volte per nulla distanti dalle centralità stesse: pensiamo all’uso dello spazio pubblico, in particolare da parte dei migranti, nei pressi immediati delle stazioni, o le speculazioni sui prezzi degli affitti, spesso in nero, in molte zone universitarie.

Insomma, pare che le evoluzioni più recenti dello sviluppo urbano in Italia abbiano tolto di mezzo anche quelle poche certezze che potevamo desumere fin qui. Eppure, sgomberare il campo può essere utile ad allontanarsi definitivamente dall’idea che la marginalità spaziale sia un criterio sufficiente per definire le periferie, e per abbracciare come strumento di ricerca la marginalità sociale nelle sue varie declinazioni.
Scampia, foto per gentile concessione di Daniele Napolitano Scampia – ph Daniele Napolitano
Mercato e Stato, un duplice fallimento

Quando sentiamo la parola periferia solitamente tendiamo a collegarla ad accezioni negative, dal degrado all’assenza di servizi, dai problemi di integrazione alla mancanza di sicurezza. Si tratta di un collegamento molto spesso legittimo, che rappresenta il fallimento di questo modello di sviluppo della città. Ma, più esattamente, stiamo parlando del fallimento da parte di chi? Si tratta di un fallimento duplice, che riguarda in diverse accezioni tanto il libero mercato quanto lo Stato. Alla base del primo fallimento c’è una semplice assunzione: il libero mercato non è strutturalmente in grado di garantire un alloggio dignitoso e una qualità urbana accettabile a tutti, e peraltro non è nemmeno interessato a farlo. Non si tratta di un problema di scarsità in senso stretto: pensiamo soltanto al fatto che in Europa vi sono 11 milioni di case vuote a fronte di 4,1 milioni di senzatetto. Questo dato, che esemplifica in maniera drammatica il fallimento del mercato, rappresenta esclusivamente la punta dell’iceberg di una generale incapacità di garantire uno sviluppo urbano equilibrato, sostenibile e soprattutto socialmente equo.

A fronte di questo fallimento ne subentra un secondo: quello dello Stato come calmieratore degli squilibri del mercato, come regolatore di ultima istanza del modello capitalista, come garante di quel compromesso capitale/­lavoro che ha generato le proprie conseguenze anche sullo sviluppo urbano e del quale oggi assistiamo a una profondissima ristrutturazione. Se negli anni che sono stati espansivi anche dal punto di vista della conflittualità sociale si sono prodotti diversi avanzamenti nel campo del welfare, del diritto all’abitare e via dicendo, questi sono stati in larghissima parte spazzati via dal processo di ristrutturazione che, apertosi dagli anni ’80, continua ancora oggi nell’ambito delle misure di austerità e in particolare della riduzione drastica della capacità di spesa degli Enti Locali.

Questo fallimento tuttavia non si limita all’incapacità di conservare quel compromesso, rafforzarlo o estenderlo: anche negli anni più importanti dal punto di vista della conquista dei diritti nell’ambito della questione urbana e non, il ruolo dello Stato era già caratterizzato da limiti macroscopici, tanto rispetto al modello cognitivo e decisionale da applicare nella progettazione urbana, quanto rispetto al ruolo del pianificatore e in generale del progettista dentro quel modello.

Possiamo in sostanza affermare che dentro il compromesso capitale/­lavoro non si è sviluppato soltanto un preciso ambito di competenza dello Stato – l’edilizia pubblica popolare, la fornitura dei servizi etc. – ma anche un peculiare modello di approccio cognitivo ai problemi (di fatto quello razionalista e procedurale) e un modello dall’alto verso il basso di definizione ed esecuzione dei progetti, modelli nei quali il ruolo dell’urbanista è quello del tecnico preposto a dare esecuzione a scelte politiche prese nell’ambito della democrazia rappresentativa liberale.

L’estrema attenzione al disegno, dunque all’esito progettuale per giunta limitato ai suoi aspetti formali, ha prodotto in diverse occasioni delle situazioni paradossali: ad esempio, in molti dei casi citati sopra come esempi dell’architettura razional­funzionalista applicata all’edilizia popolare, l’attivazione dei servizi, l’attrezzatura degli spazi pubblici, l’insediamento delle funzioni diverse da quelle residenziali sono arrivati dopo anni, se non addirittura decenni, dall’arrivo dei primi residenti.

Il fallimento dello Stato è dunque ben più ampio dell’incapacità di dare seguito al compromesso capitale­/lavoro, ma riguarda proprio la definizione di quel compromesso come dispositivo – secondo la definizione foucaultiana del termine – che ha orientato un’intera strategia di sviluppo urbano.

Per tornare al problema della ridefinizione del concetto di periferia, potremmo affermare che periferia è lì dove i fallimenti del mercato e quelli dello Stato si incontrano: ritorna il paradigma della lontananza, applicato però alla distanza dalla risoluzione effettiva dei problemi, una distanza massima nel caso delle periferie. Le periferie continuano ancora oggi ad essere l’emblema del fallimento di quel ‘sogno urbano’ che anche nel nostro Paese aveva spinto milioni di persone a emigrare in cerca di una vita migliore. Se, come si suol dire, l’aria della città rende liberi, ciò che noi possiamo intendere come periferia si colloca al di fuori di questo perimetro, a prescindere dall’effettiva collocazione spaziale. Le periferie sono oggi anzitutto i luoghi dei senza potere, per cui la prima preoccupazione di chi vuole provare a cambiare questa condizione dovrebbe essere quella di come restituire la capacità di decidere del proprio territorio e della propria condizione a chi oggi non la ha più.
Periferie e resilienza

Privilegiare la dimensione sociale rispetto alla dimensione fisica nella definizione di cos’è periferia oggi non significa semplicemente recepire una tendenza storica, quella della fine dell’espansione della città occidentale per come l’abbiamo conosciuta nel corso del XX secolo. Si tratta più che altro di riconoscere come strategica la categoria multidisciplinare della resilienza. Resilienza è un termine che proviene dall’ambito ingegneristico e che rappresenta la capacità di un corpo di tornare ad uno stato di equilibrio a seguito di un evento stressante, ad esempio la capacità di assorbire una deformazione elastica. Il termine in seguito si è esteso al campo della psicologia, e poi ad altre discipline. In latino, il verbo resalio indicava il gesto del risalire sulla chiglia di un’imbarcazione dopo che essa era stata rovesciata dalla forza del mare.

Costruire società resilienti significa fare i conti con un termine polisemico, anche se molto spesso in ambito urbanistico è collegato esclusivamente alla dimensione ambientale: in questo campo, la resilienza di un insediamento è legata alla capacità di reagire e riorganizzarsi a seguito di turbamenti climatici o ambientali di ampia portata, ad esempio frane o inondazioni, quindi attiene all’aumento dalla superficie permeabile o al rispetto delle caratteristiche idrologiche del territorio.

In una dimensione sociale e culturale, invece, la resilienza allude alla capacità delle comunità locali di definire reti di solidarietà e inclusione capaci di affrontare, riconfigurandosi in maniera creativa, le fasi di stress (crisi economica, mutazioni nella composizione della popolazione insediata, usi conflittuali dello spazio etc.). Riprendendo la definizione di territorio come uso che se ne fa – sulla quale torneremo successivamente – l’idea dovrebbe essere quella di restituire agli abitanti la capacità di ridefinire collettivamente e in maniera continua l’uso degli spazi, rafforzandone le capacità di autorganizzazione e di scambio di competenze, conoscenze, tempo a disposizione: gli esempi delle banche del tempo, dei gruppi di acquisto solidale, dell’associazionismo culturale e ricreativo, sono molto significativi da questo punto di vista.

Rispetto alla resilienza culturale, risulta interessante capire come tradizioni, usi e memorie locali possono essere un materiale utile per operare processi differenti da quelli delle chiusure localistiche tipiche del contrasto all’insediamento di nuove popolazioni, diverse per etnia e cultura, come quelle dei migranti. In questo caso lo scarto tra resistenza e resilienza è evidente: se l’ambito della resistenza allude a una dimensione puramente contrappositiva – e a un bagaglio retorico che è quello della ‘difesa dall’attacco esterno’, al quale attingono continuamente movimenti e partiti razzisti e xenofobi – l’ambito della resilienza indica invece la possibilità di uscire dal binomio annullamento/difesa dell’identità locale, per concepire la base culturale locale come punto di partenza per il confronto e la contaminazione tra differenze.
Scampia, foto per gentile concessione di Daniele Napolitano Scampia – ph Daniele Napolitano
Conoscere le periferie, per cambiarle

Abbiamo già appurato come non esista – forse in realtà non sia mai esistita – la Periferia con la p maiuscola, intesa come modello assoluto di configurazione spaziale e sociale, come modalità peculiare di insediamento delle classi subalterne nell’area urbana: si tratta di un miraggio che appartiene ad un’altra epoca e che è stato definitivamente sconfessato dalla fine del protagonismo del pubblico nell’edilizia popolare, dall’esplosione del fenomeno della dispersione, dai massicci fenomeni di riconfigurazione della città consolidata. Siamo così dentro un apparente paradosso: una domanda crescente di conoscenza e di maggiore consapevolezza dei differenti problemi che attraversano questi contesti urbani si scontra con l’incapacità di definire modelli di lettura validi in termini assoluti. Possiamo tuttavia provare a fare ordine e a indicare alcune direzioni di ricerca che possono essere utili per conoscere le periferie.

La prima suggestione è quella di provare a non leggere i fenomeni che attraversano le periferie osservandoli dal centro, da un punto di vista che presuppone in sé subordinazione e marginalità rispetto ad un altrove. Questo sforzo indica la necessità di raccontare la ‘storia’ delle periferie in modo diverso, ovvero di costruire nuove metafore generative, secondo la definizione di Schön. “Ogni storia costruisce la propria visione della realtà sociale attraverso un processo complementare di naming (denominazione) e framing (configurazione). Le questioni sono selezionate accuratamente e nominate in una modalità tale da corrispondere alla cornice costruita per l’occasione. Insieme, questi due processi costruiscono il problema a partire dalla realtà vaga e indeterminata che John Dewey chiama la ‘situazione problematica’”. In sostanza, Schön afferma che le situazioni problematiche non sono realtà date, ma dipendono, in particolare nella capacità successiva di individuare soluzioni ai problemi stessi, dalla modalità con la quale sono conosciuti e descritti. “Non chiedere: ‘Qual è il problema?’. Chiedi ‘Qual è la storia?’. Solo così scoprirai qual è davvero il problema”, sottolinea John Forester.

Rispetto al nostro caso, dunque, non trattare le periferie ‘come periferie’ non significa, ovviamente applicare le stesse letture e le stesse soluzioni che si individuano per i centri storici, come ci insegnano molti fenomeni di gentrification – aumento dei valori immobiliari ed espulsione progressiva delle popolazioni storicamente insediate in determinate aree per fare spazio ad abitanti più facoltosi e alle loro attività e servizi – legati alla riqualificazione fisica ed economica di alcune aree urbane, in particolare nei Paesi anglosassoni. Significa invece che, lungi dal dover essere negati o sminuiti, i problemi che incontriamo in periferia possono essere letti in maniera radicalmente diversa dalla semplice marginalità, lontananza o subordinazione rispetto al centro, il che significa innanzitutto fare un lavoro di indagine accurata all’ombra di grandi definizioni come quelle della ‘città delle reti’ o della ‘città postfordista’ – come proposto di recente anche dalla sociologa Saskia Sassen-, letture che spesso si concentrano sulle dinamiche che si sviluppano nei centri delle grandi città finanziarie, relegando i fenomeni ‘di periferia’ in una dimensione quasi meccanica di crescente marginalità. Semplificando, le risorse per la risoluzione dei problemi che affliggono le periferie si trovano in qualche modo già dentro le periferie stesse, e il modo di raccontare questi problemi, che muta radicalmente se prodotto a partire da fuori o da dentro le stesse periferie, è la prima grande risorsa per risolverli.

La seconda suggestione, strettamente legata alla prima, è che per costruire queste nuove storie è necessario che il punto di osservazione sia il più possibile interno a luoghi e fenomeni che si vogliono indagare. Le letture dal centro sono inefficaci nella risoluzione dei problemi soprattutto perché sono operate da fuori, dall’esterno dell’oggetto dell’indagine. Per questo motivo la partecipazione della cittadinanza ai processi decisionali è innanzitutto un processo di apprendimento collettivo. Non è affatto una semplice tecnica procedurale, e proprio per questo motivo non può essere relegata esclusivamente a un uso preliminare o di ultima istanza, o semplicemente per la risoluzione dei conflitti più difficili e aspri, né essere sfoderata come abbellimento di progetti preconfezionati in contesti dove la conflittualità è più attenuata. Nessuno conosce meglio un quartiere di chi ci abita o lo vive nelle più diverse modalità (ci si sposta, ci lavora, ci studia, ci gioca etc.). La conoscenza diffusa e collettiva, i cosiddetti saperi locali, sono una risorsa non sostituibile, e non si acquisiscono da nessuna parte se non nell’interazione quotidiana sul territorio: il che non significa che sono un prodotto casuale dell’interazione, ma piuttosto che possono essere un prodotto eventuale dei processi di partecipazione. Spesso le istituzioni vedono le mobilitazioni locali come un’inutile deviazione, un ostacolo o addirittura un nemico da fronteggiare: si tratta viceversa di una risorsa, difficilmente estraibile ma altrettanto preziosa. La vera sfida è far emergere questi saperi nei contesti più difficili, quelli dove il capitale sociale o la disponibilità alla cooperazione appaiono più deboli, che sono poi quei contesti dove questa risorsa è estremamente determinante nella risoluzione dei problemi. Spesso siamo portati a pensare che questa scarsa disponibilità alla cooperazione derivi da una forma accentuata di familismo amorale: molto più spesso, come nota Marianella Sclavi in “Avventure Urbane, Progettare le città con gli abitanti (Eleuthera 2006)”, si tratta di “carenza di linguaggi e modalità organizzative e decisionali adeguati a rendere operativa e quindi efficace la comunicazione sugli ambienti, beni e diritti comuni”.

Terza suggestione: una rilettura radicale delle questioni di periferia non può che passare da una definizione decisamente utilitaristica del territorio, nell’accezione positiva del termine. Utilizzando infatti una definizione elaborata da Pier Luigi Crosta, “il territorio è l’uso che se ne fa”. Dunque il territorio non è un elemento statico e dato ma è il frutto dell’interazione di diversi attori, e in termini collettivi di diverse popolazioni, ovvero di gruppi più o meno omogenei che fanno usi diversi e quindi hanno visioni diverse dello stesso territorio. È collocandosi dal punto di vista di questi attori collettivi che si possono comprendere in maniera più chiara le dinamiche che attraversano un determinato territorio. Lì dove c’è uso dello spazio, e soprattutto lì dove gli usi dello spazio sono diversi tra loro, c’è interazione sociale: si tratta di un’ottima risposta a chi, con una visione dal centro, analizza le periferie come una tabula rasa dal punto di vista dell’interazione sociale, avendo in mente il modello canonico di relazioni sociali dei centri cittadini.

Questa suggestione diventa particolarmente potente se applicata a diversi casi concreti di convivenza tra popolazioni diverse: ‘autoctoni’ e migranti; vecchi e giovani; residenti e utenti di un centro commerciale; e così via. Pensiamo ad esempio all’uso radicalmente diverso dello spazio pubblico – delle panchine in una piazza, o degli spazi comuni in un condominio – effettuato da molte comunità straniere e dalla popolazione autoctona, usi che riflettono culture e modi di vita diversi e che, a volte, confliggono in un determinato spazio. La questione diventa particolarmente interessante quando questi usi diversi che si concentrano nello stesso spazio devono fare i conti con un’altra dinamica, spesso frutto di quel fallimento dello Stato esemplificato dai grandi progetti di edilizia popolare degli anni ’70: nelle nostre periferie convivono usi senza spazi e spazi senza usi. Una delle grandi sfide contemporanee della pianificazione consiste nel fare i conti con ciò che è già stato costruito e provare a renderlo compatibile con le esigenze e le aspirazioni delle diverse popolazioni. Locali commerciali sfitti che possono essere messi a disposizione della popolazione per usi ricreativi o di aggregazione; spazi comuni che possono essere ripensati come luoghi di interazione tra culture e tradizioni differenti; aree verdi abbandonate che possono essere curate dagli stessi abitanti per realizzare orti urbani; e così via. Si tratta di processi trasformativi che coinvolgono in maniera più diretta le pratiche di uso del territorio piuttosto che la progettazione fisica in senso stretto.

La quarta e ultima suggestione parte proprio dal riconoscimento del territorio come produzione sociale e dal fatto che questa produzione sociale è spesso conflittuale. Questa considerazione è utile per inquadrare il ruolo dei tecnici che a vario titolo sono chiamati a intervenire su un determinato territorio, e in particolare il ruolo dei pianificatori territoriali, come un ruolo ‘di parte’, fuori da una dimensione meramente tecnica. La pianificazione può essere dunque considerata come un processo sociale, di relazione conflittuale tra interessi a volte contrapposti, nel quale il pianificatore assume un ruolo attivo, di riconoscimento delle differenze; sono necessari infatti strumenti di pianificazione forti per riconoscere e difendere il valore delle pratiche deliberative, spesso non istituzionali, diffuse nel tempo e nello spazio. In sostanza, la prospettiva può essere esemplificata nel restituire potere a chi non l’ha più, e nell’agevolare la (ri)costruzione della società, cioè di una rete in grado di trattenere localmente potere, nei contesti nei quali, in particolare negli ultimi anni, è stato negato ogni spazio – fisico e non – a questo processo di (ri)costruzione. Quando Margareth Thatcher affermava che “la società non esiste. Esistono gli individui, gli uomini e le donne, ed esistono le famiglie”, stava in realtà rivelando un programma politico chiaro che in larga parte si è drammaticamente avverato. Lavorare in direzione opposta a questo programma politico a partire dalle periferie significa concepire la pianificazione dentro – non contro, né sopra – quello sviluppo continuo di relazioni di potere, in uno spazio per nulla asettico e indifferente. Si tratta, dunque, di riconoscere che proprio nel territorio, proprio in quell’intreccio di conflitti, tensioni, gerarchie, riconoscimenti, reti, aggregazioni e simboli, un intreccio apparentemente illeggibile e intrattabile, proprio lì si cela il potenziale necessario per trasformare l’esistente.

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link al dossier di versus sulle periferie




Case popolari ma redditi da ricchi

Primi sgomberi nel centro di Roma.
Trentuno appartamenti di Ater e Erp assegnate a chi non ne aveva i titoli per reddito verranno consegnate nei prossimi giorni agli aventi diritto.
Fuori i ricchi dalle case popolari: è cominciata dal centro storico, e dai redditi più alti, l’operazione di «pulizia» degli alloggi Ater e Erp (edilizia residenziale pubblica) voluta dall’ex assessore Francesca Danese e da qualche mese, dall’arrivo in Campidoglio del commissario Francesco Paolo Tronca, a fine ottobre, sostenuta dal subcommissario con delega al Sociale, Clara Vaccaro.

Tredici case Erp e diciotto appartamenti Caat, i residence per l’emergenza abitativa, sono già stati sgomberati; in molti altri casi – fatto nuovo – davanti all’evidenza dell’estratto conto inviato dal Comune gli inquilini hanno riconsegnato le chiavi prima ancora dell’accesso forzoso. Proprietà liberate e riassegnate a chi, per il momento cinquantasette famiglie, risultava in graduatoria in seguito ai bandi del 2000 e del 2012. Quelli appena cacciati fanno parte di un elenco di oltre duecento «furbetti»: redditi oltre i 120 mila euro, altre proprietà. In uno di questi casi, solo per fare un esempio, chi viveva nella casa Ater aveva intestati altri tredici appartamenti e due boschi.

Le verifiche sui «signori» delle case popolari accelerano quando alle Politiche sociali arriva Danese, che a luglio – al termine della prima ondata di controlli – diffonde il bilancio: tra Erp e Ater, 743 abusivi accertati più altre 2 mila posizioni sospette per le quali si attende la pronuncia del Tar, che comunque sta rigettando la maggior parte dei ricorsi promossi dagli inquilini. Ad ottobre il dipartimento Politiche abitative riunisce le prime 227 posizioni più eclatanti, in termini di reddito o proprietà possedute, da affrontare «in via prioritaria». Per esempio, c’è una coppia che, assieme alla casa Ater, sarebbe proprietaria di altri tredici immobili – e due boschi – tra le campagne di Roma e Perugia.

Un’altra signora, sempre inquilina Ater, avrebbe venduto l’appartamento romano mantenendo però gli altri sei in provincia. Poi: occupazioni doppiamente abusive, dell’alloggio originario «e di quello attiguo», vendita parziale dell’immobile o subaffitto, coniugi residenti in altre case pubbliche. Soprattutto, troppi zeri in banca: 123 mila euro, 111 mila euro, 112 mila euro, 67 mila euro… «Le case dei furbi – insiste la Danese – dovranno essere riassegnate a chi aspetta da anni in graduatoria o alloggia nei Caat in chiusura a fine gennaio».

Assieme ai redditi, l’altro dato anomalo che emerge dal dossier riguarda i tempi: molti dei primi decreti di rilascio «obbligatorio» degli immobili risultano firmati dal Comune già nel 2011, 2009, addirittura nel 2006, tutte situazioni che negli anni si sono trascinate senza soluzioni. «Ma qua ci viveva già mio nonno…» si sentono rispondere gli uffici. I movimenti per la casa, anche ieri sotto la Prefettura, chiedono «basta sfratti». E finalmente la strategia della squadra di Tronca dovrebbe far girare la ruota: fuori i furbetti e dentro chi ne ha davvero diritto.

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Le batteria che renderà inutili le reti elettriche tradizionali

Appesa al muro di casa, Powerwall raccoglie energia solare e la conserva per erogarla quando ne abbiamo bisogno. Potrebbe essere l’inizio di una rivoluzione energetica.

La domanda del titolo è lecita e se la stanno ponendo in tanti. Una batteria da tenere in casa che accumula energia solare e la converte in elettrica, per alimentare tutti i nostri gadget, auto elettrica compresa. Si chiama Powerwall, la produce Tesla e l’ha presentata pochi giorni fa in pompa magna Elon Musk, spiegando che la sua creatura “renderà inutili le reti elettriche tradizionali”.

Sarà vero? Forse si, se pensiamo ai luoghi remoti della Terra non ancora raggiunti dall’elettricità. Per le nostre case il discorso è diverso, ma di sicuro Powerwall potrebbe cambiare un po’ le cose. L’ambizione più alta di Tesla e del suo leader è di sganciarci dalle fonti fossili, sfamando il nostro fabbisogno energetico con fonti rinnovabili, nonché fermare l’immissione di gas serra nell’aria: “Sembra folle, ma vogliamo cambiare le infrastrutture energetiche di tutto il mondo”, ha dichiarato Musk.

Prodotta da Tesla Energy, un nuovo ramo dell’azienda californiana, Powerwall Home Battery è un parallelepipedo di 130 x 86 x 18 centimetri e pesante 100 chili.

Ha un design sobrio, quasi elegante, con diversi colori disponibili, tanto che la si può appendere al muro di casa senza sfigurare, con l’intervento di un tecnico specializzato (un’ora circa di lavoro).

Contiene una batteria ricaricabile agli ioni di litio che promette di soddisfare le esigenze di un’abitazione tradizionale: collegata ai pannelli fotovoltaici di casa, accumula energia durante il giorno e la conserva, rendendola disponibile in ogni momento, non solo nell’istante in cui viene prodotta. È questo il vero passo avanti proposto da Tesla, la conservazione dell’energia: fino ad ora l’energia solare ottenuta durante le ore diurne veniva immediatamente utilizzata oppure venduta alla compagnia elettrica, per poi essere ricomprata nel momento in cui serviva, con gran dispendio economico e inutili emissioni nocive.

Quanto alle specifiche, Powerwall ha capacità di 7kWh per ciclo giornaliero, ma ne esiste un’altra da 10kWh. La potenza prevede 2kW di lavoro continuo, con picchi da 3,3kW, mentre il voltaggio va da 350 a 450 volt. La prima costa 3.000 dollari, la seconda 3.500. La garanzia è di 10 anni. Tesla prevede la possibilità di installare fino a 9 batterie in una casa che abbia richiesta energetica elevata, per raggiungere un massimo di 63kWh nel caso delle Powerwall da 7kWh, e di 90kWh per quelle da 10kWh. Potrebbe essere il caso di chi deve alimentare un’auto elettrica, oltre ai soliti elettrodomestici di casa esosi, tipo un piano a induzione o un sistema di riscaldamento che faccia a meno del gas.

L’accoglienza che sta ricevendo Elon Musk dopo l’annuncio è a dir poso entusiasta. TechCrunch ad esempio ‘vede’ un mondo in cui le case vengono alimentate solo dall’energia solare. Ma in realtà questo potrebbe essere uno scenario del futuro prossimo, non del presente immediato. Anche con una o più Powerwall in casa, per ora continueremmo a consumare energia elettrica non derivata dai pannelli fotovoltaici, soprattutto a causa delle scarse infrastrutture in questo settore; tuttavia vedremmo ridurre di molto i picchi di consumo energetico, che sono proprio quelli che provocano l’aumento dei costi dell’elettricità (e delle emissioni di CO2).

Siamo quindi di fronte a un primo importante passo verso la casa energeticamente autonoma e rinnovabile. Se la Powerwall diventasse davvero un bene di massa, l’approccio di Tesla potrebbe portare a un nuovo sistema di gestione dell’energia, che verrebbe stoccata nelle batterie domestiche e industriali di tutto il mondo. Per poi redistribuirla a richiesta senza sprechi e senza emissioni.

Per questo motivo Tesla Energy ha anche presentato accumulatori più capienti, i Powerpack da 100kWh per aziende e condomini, che si possono collegare all’infinito. Musk ha anche calcolato che con 160 milioni di Powerpack installati, gli Stati Uniti potrebbero fare a meno delle fonti fossili per produrre energia elettrica, mentre con 900 milioni di questi accumulatori si convertirebbe tutto il pianeta all’energia solare. Con 2 miliardi anche riscaldamento e trasporti si svincolerebbero da carbone e petrolio.

Utopia? “No”, risponde Musk, “è una cosa che sta nelle nostre possibilità, abbiamo già portato a termine imprese del genere”. E non scherza, dato che la piattaforma è open source, per invitare altre aziende a portare avanti il progetto.

Tesla, alla fine, non è che un piccolo pezzo del disegno molto più ampio di Musk (che comprende anche Solar City e Hyperloop), il cui scopo è cambiare il modo in cui otterremo e consumeremo l’energia.

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Città, il futuro? Verde e policentrico

Policentrico: questo è il futuro delle periferie. Ripensate, riviste, ricostruite da chi le abita, ma sulla base di una collaborazione intessuta di scambi internazionali. Come quelli avvenuti a Motola, città in rapida crescita vicina a Maputo, la capitale del Mozambico, dove nella primavera scorsa si è svolto un incontro tra gli esponenti di quindici cittadine di cui sei brasiliane e nove locali: per far tesoro delle esperienze altrui, scambiare informazioni, ridisegnare e gestire centri urbani sostenibili. Partendo da fatti concreti, per piccoli che siano. Perché Piccolo è bello: e il titolo-slogan del volume pubblicato da Ernst Friedrich Schumacher nel 1973 è stato riproposto da papa Francesco nel suo intervento al terzo Forum mondiale per lo Sviluppo economico locale tenuto a Torino nell’ottobre 2015. «Abitazione propria, lavoro dignitoso e debitamente remunerato, alimentazione adeguata e acqua potabile, libertà religiosa: l’unico modo di ottenere questi obiettivi è lavorare a livello locale», ha detto il Papa, specificando che il piccolo è non solo bello ma anche «efficace». Gli incontri di Mozambico e di Torino sono due episodi di una vasta trama che si dipana sullo scenario mondiale.

«L’Europa promuove molte iniziative a livello internazionale – riferisce la parlamentare europea Mercedes Bresso, già presidente della Federazione mondiale Città unite –. Ma l’attuazione di passi concreti è nelle mani delle amministrazioni locali, che vanno sensibilizzate e messe nelle condizioni di operare al meglio. Per questo nulla è più utile degli scambi di idee e della trasmissione di esperienze, per esempio tramite gemellaggi tra città o con l’individuazione ogni anno di una “Capitale europea della cultura” o di una “Capitale verde d’Europa”, che forniscono esempi da imitare».

Per il 2016 come Capitale verde è stata scelta Lubiana, perché nell’ultimo decennio ha aperto cinque nuovi parchi urbani, piantato duemila nuovi alberi, rivitalizzato le rive del fiume che l’attraversa, drasticamente ridotto il traffico automobilistico a favore di ciclisti e pedoni. Non sono azioni di difficile concezione, ma il problema consiste nel trovare i modi migliori per attuarle in ciascun luogo, esaltando di questo le qualità, a volte nascoste.

Allo scopo, nell’incontro in Mozambico sono stati coinvolti organismi internazionali come Architetti senza frontiere, gruppo di progettisti costituito alla fine degli anni Settanta per fornire supporto tecnico per opere misurate sulle potenzialità locali. Recentemente la sezione italiana di questo organismo ha operato in Burkina Faso con tre associazioni di artisti locali per costruire un centro per l’educazione all’arte. Architetti senza frontiere ha fornito il progetto per compiere l’opera nella periferia di Bobo-Dioulasso, usando tecnologie e materiali locali. Ed è nato un complesso modulare, articolato attorno a diversi cortili che consentono flessibilità nell’uso di una costruzione che si compie in fasi successive, man mano che si raccolgono i fondi necessari. Progetti di questo tipo costano poco, generano lavoro, danno ordine alla crescita degli ambienti urbani.

Molte associazioni in tutto il mondo si muovono in questa direzione. Gruppi di architetti giovani e di amministratori pubblici che costituiscono reti locali e globali. «È straordinario constatare come, per quanto siano lontane, città europee, dell’America Latina o dell’Africa presentano problemi e propongono soluzioni tra loro simili»: il tema è caro a Silvana Accossato, già sindaca di Collegno, ora presidente del Comitato italiano Città unite che da decenni promuove gemellaggi che avvicina città lontane. La Accossato nota che il «bilancio partecipativo» è uno dei frutti generati da questi scambi: «Le amministrazioni locali destinano fondi per iniziative decise da assemblee di quartiere. Così si stimola la partecipazione attiva dei cittadini, i quali di solito scelgono interventi per abbellire spazi pubblici con giardini o per favorire la mobilità sostenibile». Tali iniziative sono favorite dal diffondersi della fiscalità locale, che cresce col decentramento amministrativo, così che il prelievo fiscale sia collegato a investimenti per migliorare il territorio e i servizi che vi si offrono.

«In Italia la sfida del futuro – spiega la Accossato – riguarda la continuità urbana nelle città metropolitane, tra capoluoghi quali Torino, Milano, Bologna, Napoli e le cittadine della cintura. Spesso la qualità di vita e dei servizi in queste ultime è maggiore di quella delle vicine periferie del capoluogo. Ma, proprio grazie a tale contiguità, quelle periferie possono rivitalizzarsi e acquisire nuove centralità che donano identità a quartieri che ne sono carenti”.

Si tratta di rivedere il concetto di periferia, a partire dall’impegno delle persone che vi vivono. «A Torino si lavora con gruppi di giovani immigrati di seconda generazione allo scopo di fornire un supporto al loro desiderio di sentirsi cittadini italiani a tutti gli effetti, mentre allo stesso tempo cercano di mantenere la cultura propria delle famiglie di origine. Solo così si supera il senso di sradicamento e di perdita di identità». E le periferie, da ambienti di emarginazione, divengono occasioni per nuovi radicamenti.

Come sostiene Anna Brown, condirettrice della fondazione Rockefeller che ogni anno premia cento città nel mondo capaci di “resilienza”: «Per quanto il termine “urbano” faccia pensare a una condizione statica, dobbiamo rivederlo come espressione di un processo. Le città cambiano in continuazione, sul piano fisico, sociale e politico… sono loro i motori dell’innovazione dei Paesi». E, nelle città, sono le periferie i luoghi più densi di dinamismo.

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Municipio XI: ecco i fatti salienti del 2015

L’incendio al Campo dei Miracoli e la fiaccolata contro le mafie. I roghi di via Candoni ed i controlli nel campo nomadi. Si conclude nel Municipio XI un anno pieno di novità. Ecco quali sono stati i fatti principali del 2015.
Si conclude il terzo anno, da quando l’ex Municipio XV ha cambiato numerazione. Il terzo anno della Giunta Veloccia, segna alcune interessanti novità. Ma lascia anche in eredità alcuni temi che, inevitabilmente vanno affrontati. Partiamo proprio da questi ultimi.

I ROGHI – Una questione che sembra ormai aver raggiunto e superato la soglia di accettazione, riguarda i roghi che si sprigionano nel campo rom di Muratella. Recentemente in via Candoni è stato predisposto lo stazionamento di una pattuglia della municipale, proprio. Da quando ci sono gli agenti del Gruppo di Polizia Locale, le segnalazioni di incendi non sono più arrivate. Se si darà continuità all’iniziativa, il problema potrà dirsi risolto. Servono però anche i controlli all’interno del campo dove, a seguito delle ripetute operazioni di polizia, è stato trovato di tutto: tonnellate di rifiuti ferrosi e animali macellati illegalmente.

LA VIABILITA’ – Un problema che nel 2015 non si è riusciti a risolvere è quello della viabilità. I livelli di traffico, soprattutto nel quadrante Marconi, sono rimasti invariati Tuttavia alcune novità si sono registrate, come la recentissima attivazione di tre postazioni di carsharing. Si tratta di gocce in un’oceano sterminato. Ciò nonostante rappresentano un buon auspicio se, anche in tal caso, si riuscirà a dare continuità a questo tipo d’iniziative. Sempre in tema di viabilità, si sono osservati dei miglioramenti anche sul versante dei lavori per il ponticello di via Portuense. Il tira e molla tra amministrazione locale e sovrintendenza, alla fine ha portato alla ripresa di un cantiere peraltro vittima di attacchi vandalici. Il 2016 potrebbe essere l’anno decisivo, per vedere completare un’opera così a lungo attesa.

LA RIQUALIFICAZIONE DI CORVIALE – Concludiamo ricordando le novità che hanno attraversato uno dei quartieri più noti del territorio: Corviale. Per la riqualificazione del Serpentone è stato indetto un bando internazionale. Il progetto vincitore è stato recentemente presentato. Grazie agli stanziamenti della Regione Lazio, il chilometro di cemento armato potrà cominciare a cambiar pelle. I risultati andranno però valutati nel corso dei prossimi anni. Per ora nel quartiere restano vecchi problemi, a partire dalla carenza d’investimenti per gli spazi d’aggregazione. L’apprezzato Farmer’s Market di via Mazzacurati ha chiuso i battenti, nonostante le resistenze dei produttori, disposti ad investire di tasca propria per riqualificare la struttura dov’erano ospitati. Un’altro importante luogo d’aggregazione, il Campo dei Miracoli, è stato vittima di un incendio doloso. Il gesto ha contribuito però a rinserrare i ranghi. I cittadini e le associazioni del territorio hanno infatti risposto in maniera decisa. Organizzando una partecipatissima fiaccolata di solidarietà, che ha fatto tappa per le realtà socialmente e culturalmente più impegnate del territorio. Una bella iniziativa che di per sè rappresenta una buona notizia ed un ottimo auspicio per il 2016.

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Tutto sull’ “ubercapitalismo”

Ecco i numeri della nuova “economia collaborativa”.
Il fenomeno più imponente di questa fase di “sboom” economico
Ultime notizie dall’ubercapitalismo. Airbnb vale 26 miliardi di dollari, ha raccolto fondi per 2,3 e occupa circa 500 dipendenti. Snapchat è quotata dagli analisti 26 miliardi, ne ha raccolti 1,2 e dà lavoro fisso a 400 individui. Uber, varrebbe tra i 40 e i 50 miliardi, ha trovato risorse per 6 miliardi e ha circa 500 salariati diretti (esclusi, per ora, gli autisti).
Sono cifre, ancora ballerine e un po’ oscure, soprattutto quelle relative alle persone, rilevate dall’Economist, che ha quantificato in 74 il numero delle start-up dei settori tecnologici che fanno parte di quei particolari ”unicorni” di successo, ovvero le aziende che quotano più di un miliardo. Valore totale (anche qui, presunto) di tutti gli animali mitologici, oltre 273 miliardi di dollari.
Marx aveva già a suo tempo trovato una definizione perfetta per questa rivoluzione digitale. Nel 1846, quando definì la società comunista. ”La possibilità di fare oggi una tale cosa e domani un’altra, di cacciare al mattino e di pescare nel pomeriggio, di praticare l’allevamento la sera e di fare della critica dopo i pasti. Tutto a proprio piacimento, senza essere pescatore, cacciatore o critico”. Sono passi scritti dal filosofo nella sua opera L’ideologia tedesca, quando certo non arrivava a preconizzare che col socialismo reale qualcuno tra milioni si sarebbe arricchito immensamente.
Eppure sembrano pensati oggi per definire il pianeta delle condivisioni, dove il capitalismo sembra ammantarsi di libertà, nell’attimo stesso in cui genera immensi profitti e un miliardo di utenti in un solo giorno si connettono a Facebook regalandogli sogni, desideri e identità.
È l’economia collaborativa, che si è materializzata decenni dopo la caduta del Muro e sembra aver creato spazi inimmaginabili per i consumatori e per la creazione di plusvalore: sì, proprio ”quel” Capitale, che continua comunque a dividere i fattori della produzione da chi li impiega.
Possibile che il neo comunismo sia nella Rete e nelle sue centinaia di applicazioni mobili, che cominciano a vivere molto bene sulle spalle dei giganti over the top? È questo il modello finale della nostra società, come professano il giovane economista Gaspard Koenig, o Maurice Levy, il primo a parlare di ‘ubercapitalismo’ al Financial Times, e prevedono negli Usa (entro il 2020 il 40% dei lavoratori sarà indipendente), ovvero un mondo in cui si affitta un’auto o una casa e si vende e si compra di tutto, diventando una volta proprietari di una rendita, un’altra ancora strumenti della stessa?
Il saldo finale ha il segno più o bisogna aspettare l’esito della rivoluzione, durante la quale cadono parecchi teste? In Francia, dove non manca lo spirito rivoluzionario ma si è anche tradizionalisti, a questi interrogativi non ci sono risposte certe ma si segue con attenzione il germogliare dei frutti della trasformazione digitale, si contano con stupore e ammirazione le decine di nuove aziende che fasciano come un vestito da sarto ogni cliente e tra dieci anni varranno come le blu chips dell’indice Cac di borsa, secondo Pwc.
Oggi, non raggiungono la capitalizzazione di Solvay. Si chiamano Blablacar, Ornicar, Ouicar, Drivy, Heetch, Boaterfly, Etaussi, KissKissBankBank, Indiegogo, Ulule, Lendingckub, Lecollectionist, DemanderJustice e altri ancora e ancora, in una teoria di sigle senza fine dagli scopi utili e banali allo stesso tempo, se la nostra società non avesse smesso di funzionare.
Solo aggiungendo ai tre big suddetti da 100 miliardi di dollari gli altri sette magnifici ”unicorni”, Palantir, Spacex, Pinterest, Dropbox, Wework, Theranos e Square, si arriva a oltre 80 miliardi di dollari di valutazione e non più di 10.000 addetti. Insomma, molto capitale e poco lavoro. Lo avesse immaginato il buon Karl si sarebbe strappato barba e baffi.
Ma i settori tradizionali, a cominciare da quello cruciale del turismo alberghiero, sono in subbuglio e preparano la controriforma, a cominciare proprio dal paese transalpino.
D’altronde negli anni dell’eurocrisi l’economia digitale è cresciuta il doppio di quella reale e non si dovrebbero preoccupare solo a Parigi (dopo gli Usa, primo mercato per Uber e Airbnb).
Il settimanale francese Le Point, in una lunga inchiesta di copertina sulla rivoluzione del capitalismo, ha piazzato una tabella su cui riflettere: un confronto tra AirBnb e Accor, il gigante dell’accoglienza. I numeri, più di ogni altra cosa, devono far riflettere, senza alcuno spirito tecnofobico.
Airbnb, come ricordato, ha un valore di 24 miliardi di dollari, un giro d’affari di 900 milioni, 130 milioni di perdite, 500 dipendenti, nessun immobile di proprietà ma vende un milione di stanze nel mondo, mentre Hilton, Marriot e Intercontinental ne fanno 700.000 ciascuna impiegando più di mezzo milione di persone. Ecco perché insidia Accor, che vale 10,4 miliardi di dollari, ha un giro d’affari di 5,4 miliardi, utili per 233 milioni, 180.000 occupati e 495.072 camere in 3.792 paesi.
In teoria non dovrebbe esserci match, ma la crescita dell’ospitalità alternativa è esponenziale, a cominciare dalla città più visitata al mondo e da New York (rispettivamente 11% e 17% del mercato totale). Se cresce l’unicorno dell’affitto in proprio, se la condivisione si sostituisce al commercio, ai servizi, alle banche, agli avvocati, che fine faranno le decine di migliaia di posti di lavoro tradizionali, potranno davvero dirsi sostituite dai nuovi prosumers di beni e servizi (consumatori e produttori allo stesso tempo) o avrà ragione chi, come Hillary Clinton, ha parlato a questo proposito di nuovo ”precariato”?
Sono tutte domande scomode, forse ormai anche retrò, che occorre però porsi senza preconcetti. Il cambiamento epocale che stiamo vivendo quasi inconsapevoli in questo sboom senza fine deve in qualche modo essere sostenuto e allo stesso tempo governato, proprio per evitare che le prossime start-up siano soffocate nella culla da chi ha preso il dominio del web e si è fatto mercato.

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Sport nelle periferie: anche così si combatte l’emarginazione sociale

Lo sport è uno strumento fondamentale per combattere uno dei mali che rende invisibili alcuni cittadini come se avessero un destino già scritto

Sono nata, cresciuta e vivo ancora oggi in periferia, una di quelle che spesso è avvertita nell’immaginario collettivo come una zona grigia della quale ricordarsi solo per i fatti di cronaca. Non scegliamo la parte del mondo in cui nascere. Non ci sono meriti e non ci sono colpe.

Le periferie vengono spesso percepite come luoghi pallidi, anonimi e, spesso, come territori dove la criminalità e l’ignoranza la fanno da padroni, quasi si respirassero nell’aria. Io, in periferia, ho imparato prima di tutto l’umanità: ho visto persone dividere il poco che avevano con chi non aveva nulla affinché tutti potessero andare avanti, ho conosciuto il senso vero e profondo della comunità, quella dove nessuno volta la testa davanti alle difficoltà dell’altro, ma mette in campo le proprie energie e risorse per dare una mano, ho imparato ad ascoltare ed ho ricevuto ascolto.

Ho conosciuto ragazzi e ragazze che si sono persi per strada convinti di non avere alternative, coetanei che hanno abbandonato gli studi troppo presto, con un titolo di licenzia media in tasca, sicuri che le scuole superiori fossero per “altri”, schiacciati forse dai pregiudizi che si sentivano cuciti addosso.

Le periferie non saranno luoghi ameni, ma sono spazi importanti delle nostre città, sono quartieri come gli altri, spesso, solo con una densità abitativa più alta e maggiori urgenze dal punto di vista sociale. Anche in periferia i bambini diventano adulti, , giocano, ridono, invecchiano. Esattamente come in tutti gli altri spazi della città. Per questo le periferie devono essere luoghi accoglienti, belli, con spazi vivibili per tutti e, in questo senso, è importantissima l’iniziativa che sta portando avanti Renzo Piano per concepire e realizzare una nuova idea di periferia che si fondi sull’inclusione e la bellezza e che sappia accorciare le distanze.

Le nostre periferie non sono solo degrado ma anche territori di riscatto e liberazione che, in tante occasioni, possono passare attraverso lo sport. Penso alla palestra di Gianni Maddaloni a Scampia o il Campo dei Miracoli a Corviale. Queste sono realtà importanti, perché sono spazi in cui si sta tutti insieme rispettando le regole per poter ottenere un obiettivo comune. Lo sport parla una lingua internazionale, che tutti possono comprendere, a prescindere dal grado di istruzione. Per questo è fondamentale il forte investimento fatto dal governo che ha scommesso sul rilancio delle periferie anche attraverso lo sport. Da un lato, infatti, vengono investiti 100 milioni di euro per gli impianti sportivi, importanti risorse che consentiranno interventi mirati di riqualificazione urbana attraverso spazi utili a tutta la collettività; perché i luoghi del movimento devono essere al servizio dei cittadini e non solo dei grandi campioni. Queste strutture, però, non dovranno essere cattedrali nel deserto, utili solo per una fotografia al momento del taglio del nastro, ma dovranno essere spazi vivi dove le associazioni e i cittadini possano incontrarsi per stare insieme, divertirsi, diventare comunità. Solo dal divertimento nasce la vera passione per lo sport e, perché no, anche qualche campione magari in discipline per ora ancora poco conosciute.

Dall’altro lato la novità che emerge dal Bilancio dello Stato è lo stanziamento di altri 1,5 milioni di euro in tre anni per la lotta all’emarginazione sociale attraverso lo sport. Cos’è l’emarginazione sociale? È uno dei mali peggiori della nostra società, ciò che rende alcuni cittadini invisibili e che rischia di relegarli ai margini, come se ci fosse un destino già scritto. Ecco noi dobbiamo lottare contro questo destino e fornire a tutti gli strumenti per compiere il proprio percorso e trovare la propria strada, a partire dal rispetto delle regole. E lo sport per questo è uno strumento bellissimo.

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Il disprezzo verso le periferie, da Nuova Ostia al Front National

Per il ponte dell’Immacolata Casa Pound ha organizzato una festa di quartiere a Nuova Ostia, una delle zone più marginali e sconosciute della capitale. Nelle foto pubblicate in internet si vedono bambini sorridenti che fanno ginnastica e addobbano alberi di Natale, e sullo sfondo uno striscione dai caratteri neogotici: “Nuova Ostia rinasce dai suoi figli”. Nuova Ostia, nata all’inizio degli anni Settanta, era stato un baluardo del partito comunista a Roma: la maggior parte dei suoi abitanti ottennero le case con un’immensa occupazione organizzata dalla sezione locale nel 1972. Dal quartiere nacquero un’infinità di iniziative culturali e sociali, sempre autogestite, che andarono avanti fino ai primi anni Novanta, in assenza di qualunque appoggio istituzionale, di fatto “grazie” a quest’assenza.

Si dà spesso per scontato che l’ascesa delle destre in Europa abbia a che vedere con l’abbandono istituzionale delle periferie. Il trionfo del Front National in Francia è visto come il risultato dell’“abbandono delle classi popolari, del proletariato operaio, delle banlieue metropolitane da parte della sinistra socialista” (Alberto Burgio su il Manifesto, 8/12/2015); l’abbandono viene costantemente chiamato in causa per spiegare sia la radicalizzazione islamista che l’islamofobia; invariabilmente qualcuno risponde: quale abbandono, le periferie francesi sono piene di scuole e servizi, le rivolte distruggevano proprio queste strutture. Molti, osservando le conseguenze disastrose della deriva a destra in Francia, non esitano a tracciare apocalittici paralleli con l’Italia, e suggeriscono di rimediare “rammendando” le periferie, per riprendere l’infelice metafora di Renzo Piano.

Ma l’idea dell’abbandono è fuorviante. Qualche mese fa il giornalista francese Jack Dion ha pubblicato un librino in cui collega l’ascesa del FN all’atteggiamento della sinistra verso le classi popolari: lo battezza le mépris du peuple, il disprezzo del popolo. Al centro del suo ragionamento non ci sono le periferie e l’urbanistica; il titolo però richiama una riflessione di molti anni fa sui campi nomadi in Italia: L’urbanistica del disprezzo di Piero Brunello (1996). I campi rom sono stati in gran parte prodotto di amministrazioni di sinistra: a Roma il primo è stato istituito da Rutelli; Veltroni li ha chiamati “villaggi della solidarietà” e li ha spostati ancora più in periferia. Abbandono e disprezzo sono due cose diverse; se proviamo a ricostruire la storia di Nuova Ostia, capiamo la differenza tra questi due concetti.

All’inizio degli anni Settanta a Roma c’erano tantissimi borghetti auto-costruiti. Migliaia di famiglie italiane vivevano nelle baracche: alcune scandalosamente misere, altre dignitosamente povere. Una generazione di militanti politici, di attivisti cattolici, di ricercatori, frequentavano queste zone per alleviare le sofferenze degli abitanti, per dare voce alle loro esigenze o per creare reti di solidarietà. Franco Ferrarotti pubblicò interviste e descrizioni delle abitazioni più misere in uno dei primi libri di sociologia urbana in Italia, Roma da Capitale a periferia; Roberto Sardelli contravvenne agli ordini delle gerarchie ecclesiali trasferendosi a vivere in baracca, dove creò la Scuola 725. La “lettera al sindaco” con cui i bambini della scuola chiedevano case dignitose, restò inascoltata per qualche anno; finalmente la risposta arrivò, e dal 1972 iniziò una grande campagna di demolizioni e trasferimenti, che si concluse a metà degli anni Ottanta con le giunte “rosse” di Petroselli e Vetere.

La città – e soprattutto la sinistra della città, compresi i movimenti di lotta per la casa che avevano rappresentanti in comune – celebrò la soluzione del problema delle baracche; al posto dei tuguri dell’Acquedotto Felice si costruì il Parco degli Acquedotti: verde a perdita d’occhio per i pic-nic e lo jogging (e per la felicità dei proprietari immobiliari della zona). Ma pochi si preoccuparono di cosa succedeva nei posti in cui erano stati mandati i “baraccati”. Non c’erano più le loro case, e questo contava.

I grandi complessi di case popolari di Roma – Corviale, Laurentino 38, Torbellamonaca – nacquero dopo; vi confluirono anche ex baraccati, tra le migliaia di famiglie che provenivano da vicende del tutto diverse. L’unico quartiere composto interamente da ex abitanti dei quartieri spontanei è proprio Nuova Ostia: un complesso residenziale sul litorale, costruito abusivamente alla fine degli anni Sessanta, rimasto invenduto, dove il Pci e le associazioni del quartiere organizzarono un’enorme occupazione di case, di cui si beneficiarono milletrecento famiglie. A seguito di una vertenza, il comune assegnò le case che erano state occupate. Solo gli abitanti dell’Acquedotto Felice ebbero la fortuna di vedersi assegnare una casa; tutti gli altri furono alloggiati attentamente dai militanti della sezione locale, che assegnarono le case secondo i bisogni di ogni famiglia, provvedendo anche agli allacci dei servizi, agli spazi pubblici e a continue mobilitazioni per ottenere scuole e ospedali.

Ma il comune non aveva “abbandonato” il quartiere. Le palazzine non erano state tolte al proprietario e lasciate nelle mani del popolo. Tutt’altro: il comune prese in affitto la maggior parte degli appartamenti, pagando puntualmente al costruttore Renato Armellini la pigione – naturalmente, molto alta. Da allora e fino a oggi, ogni mese centinaia di milioni di lire, ora centinaia di migliaia di euro, piovono nelle tasche del palazzinaro, per delle case costruite senza permessi e fuori dal piano regolatore; mentre tutte le richieste degli abitanti sono sistematicamente disattese, anche per far asfaltare le strade ci sono voluti anni di manifestazioni. In Amore tossico di Claudio Caligari si ritrae piazza Gasparri come una specie di zona franca, off-limits per gli abitanti del resto di Ostia, in cui l’eroina circolava liberamente; solo l’autorganizzazione delle cosiddette “madri coraggio” di Nuova Ostia permise di creare i primi centri per tossicodipendenti.

A metà anni Novanta l’amministrazione propone di “investire” di nuovo nella zona: e parte il progetto del porto turistico di Roma, con la retorica del superare l’isolamento, del portare risorse nelle zone deprivate. Si puliscono le spiagge, si crea una passeggiata, una pista ciclabile, che rende permeabile un lato del quartiere; ma all’interno si continua a vendere e comprare le case popolari senza nessun controllo, e le reti criminali prosperano; strade e piazze diventano meno pericolose, ma le case cadono a pezzi. Nel 2009 il comune fa evacuare una palazzina pericolante, e si scopre che Armellini aveva fatto mischiare la sabbia del mare al cemento. Gli abitanti – quasi tutti muratori, quasi tutti con una lunga esperienza di autocostruzione – lo sapevano e lo dicevano da sempre.

Quest’anno, poi, con la scusa che Ostia è la porta d’entrata della mafia a Roma, l’amministrazione nominata dopo le dimissioni del presidente del Municipio (accusato di corruzione) ha colpito a casaccio, senza comprendere né il quartiere né la sua storia: hanno fatto chiudere una scuola di danza, senza dubbio abusiva (perché occupata dagli anni Settanta dal PSI, poi lasciata al vecchio custode) ma che suppliva alla mancanza di servizi culturali per i ragazzi; la chiesa, ugualmente abusiva (o occupata), è rimasta aperta. E la figlia di Armellini ha alzato l’affitto al comune, anche quando tutti i giornali hanno reso pubblico che, durante tutti questi anni, su quelle case non è mai stato pagato l’Imu. Intanto, emergono le connessioni tra i gruppi politici al governo, gli imprenditori che gestiscono le concessioni sul litorale e i narcotrafficanti. Ma l’accusa di “mafia” è invariabilmente per chi abita nel quartiere, non per chi ne trae enormi benefici.

Il disastro per le periferie non è l’abbandono. Nell’abbandono prosperano le attività criminali, ma anche autogestione e mutuo supporto. Gli spazi lasciati liberi dal controllo istituzionale permettono un certo grado di gestione collettiva del territorio, che in alcuni casi può riuscire anche a controllare, o a contenere, la diffusione della criminalità e della droga. Il disprezzo, invece, è il sistematico supporto delle istituzioni alle forze più antisociali e predatorie della città, che usano a proprio vantaggio i bisogni dei settori più deboli, e che quindi desiderano che i loro problemi non siano mai risolti.

La ricostruzione della storia di Nuova Ostia si basa su un’intervista con Giorgio Jorio, pittore e intellettuale di opposizione di Ostia, realizzata il 18 agosto 2015.

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Il Trullo. Tra poesia, viandanti e street-art

Il nostro viaggio nelle periferie si arricchisce di una nuova meta e stavolta ci porta a scoprire il Trullo: un quartiere di Roma un tempo malfamato, incastrato tra Magliana e Portuense, e oggi alle prese con un riscatto dal basso capace di spazzare via il degrado a colpi di vernice colorata.
Tutto è cominciato circa un anno fa, in un giorno di aprile, quando questo piccolo angolo di città si è risvegliato con i muri colorati di giallo, verde, viola e arancione. Durante la notte, un gruppo di residenti era uscito di casa con vernice e pennelli per colorare i muri grigi delle case popolari, insieme alle stradine e ai vicoli più malconci e dimenticati.
E’ così che sono nati i “Pittori Anonimi del Trullo”, considerati in zona come abitanti storici della borgata, che oltre all’infanzia e ai luoghi della memoria condividono intenti e problemi di vita: il lavoro che va e viene, i soldi che non bastano mai. All’inizio erano solo in tre, oggi più di una ventina.
Senza sosta e con lo stesso entusiasmo continuano a colorare scale, aiuole, muretti e a dare nuova vita a quelle facciate grigie troppo piene di malinconia. «Un tocco di colore –scrivono i pittori sulla seguitissima pagina facebook- Un colpo di ramazza. Non cambiamo quartiere. Cambiamo il quartiere per chi ci vive e per chi ci passa. Per me, per te, per loro, per tutti».
Colorare il quartiere per uscire dal degrado:
Nel giro di pochi mesi, un fiume di vernice e di colori arcobaleno ha inondato gli spazi che circondano la scuola comunale, i giardini davanti la chiesa San Raffaele, le vie accanto al mercato comunale e la piazzetta dell’ex cinema Faro, storico punto di ritrovo per chi vive qui e qui resta.
Nel tempo, l’impresa di strappare la borgata al degrado nel quale da sempre era stata confinata è continuata a crescere fino a che, accanto ai pittori, sono arrivati i poeti. Er Bestia, Er Pinto, Er Farco, Inumi Laconico, Er Quercia, ‘A Gatta Morta, Marta del terzo lotto: sette ragazzi accomunati dalla voglia di esprimersi in versi, di scrivere poesie per non soffocare le emozioni che esplodono dentro.trullo2
Un coro che concepisce il quartiere come un luogo della mente, la periferia come un fiume colorato di versi da far fluire e con cui sporcare i passanti. I “Poeti der Trullo” raccontano una mentalità metroromantica (come loro stessi amano definirla) che vuole cantare l’amore e la rabbia, l’esperienza e la meraviglia, la provenienza e il viaggio.
E’ così che le vertigini del sentimento diventano a volte un tributo all’amicizia, altre il ricordo di un amore passato, altre ancora uno sguardo sulle strade di Roma, protagonista e musa di tante poesie create in questo piccolo pezzo di mondo. I giovani poeti diffondono le rime attraverso la rete, dove vengono accolte da centinaia di followers e condivise attraverso i principali social network.
Un successo talmente contagioso da aver portato alla pubblicazione di un vero e proprio libro, simbolo del quartiere che in tutto e per tutto è complice di questo risveglio culturale.
L’arte urbana al Trullo:
La sfida finale il Trullo l’ha vinta lo scorso mese, ospitando il terzo festival internazionale di arte urbana. Un evento esclusivo che ha unito pittura, musica e poesia, organizzato col sostegno del Municipio XI.
Il tema scelto è stato “viandanti“: il viaggio inteso come migrazione, per riflettere su un tema di scottante attualità, ma anche come ispirazione, ricerca di nuove occasioni, come condizione di chi sogna mete alternative alla paura e alla sfiducia. Acclamati artisti di strada e gruppi musicali di spicco nella scena romana e non solo, hanno trasformato la periferia in un laboratorio creativo a cielo aperto, con concerti, poesie e murales. T
utti hanno lavorato in modo indipendente per sostenere il festival, i pittori utilizzando i propri materiali e i cantanti rinunciando al cachet, allestendo concerti al CSO Ricomincio dal Faro a prezzi stracciati. Quando dici “Trullo” la gente non storce più il naso. L’ispirazione, qui, è di casa.

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Roma gentrificata: lungo la Casilina, tra la Certosa e Torpignattara

I-love-Torpigna-2Tor Pignattara, o Torpigna in slang neo-romanesco, è un quartiere popolarissimo sin dalle sue origini, lungamente guardato con sospetto dai romani e ignorato dai non romani. Fino a non molto tempo fa, anche a causa della sua rassegna stampa quasi del tutto presente in cronaca nera (omicidi, accoltellamenti, ritrovamenti di cadaveri e di serre di cannabis sui balconi), pochi si spingevano a esplorare questa zona incastonata tra l’Acquedotto Alessandrino e la Prenestina, confinante con il quartiere, spesso a sproposito definito “gentrificato”, del Pigneto.

Non sono moltissime le associazioni culturali, tra queste Ottavo Colle, che organizzano passeggiate alla scoperta del quartiere. Per arrivarci dobbiamo percorrere Via Prenestina e lo facciamo salendo da piazza di Porta Maggiore sul pittoresco trenino bianco e giallo della linea Roma Giardinetti – che ai semafori fischia e sembra un trenino dei bimbi. Prima, a piedi, potremmo percorrere Via del Pigneto fino in fondo per ritrovarsi in Via dell’Acqua Bullicante o fare tre fermate in più e scendere proprio a Tor Pignattara per scoprire un mondo vivace e variopinto, una mescolanza di popoli orientali (con netta predominanza di bengalesi), romani di Torpigna e alcuni lavoratori squattrinati afferenti alle cosiddette “professioni creative”, nobile stratagemma per dare una dignità a pluri-dottorati e idee per start up miseramente vanificate perché l’Italia non è certo gli USA.

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Il trenino bianco e giallo della linea Roma Giardinetti

Tor Pignattara è un quartiere popolare in attesa di una futura riqualificazione della qualità urbana che probabilmente, tra non meno di cinque anni, potrebbe portarlo a incamminarsi sulla strada della gentrification che lascerebbe sulla strada le vittime di chi non potrà più permettersi l’innalzamento degli affitti (soprattutto lavoratori stranieri). Nel frattempo è anche location di video musicali come questo dei Calcutta nell’album Mainstream, che provano a raccontare la multietnicità di una città in trasformazione, a partire dal cuore pulsante delle sue periferie, in un centro storico diventato da tempo un simulacro artefatto per turisti di bocca buona. Una multietnicità però che, ad esempio nella cucina, si coniuga bene con la persistenza di osterei di cucina romana ancora tradizionale, come nel caso dell’Osteria Bonelli, dove ordinando da una lavagna trasportabile, si possono mangiare filetti di baccalà, fiori di zucca, la gricia (per chi non la conoscesse è la carbonara senza uovo, solo con pancetta e pepe), e un buon bollito condito semplicemente. Nel raggio di poche centinaia di metri, si può mangiare vero cinese, vero bangla, vero peruviano, vero indiano, a prezzi davvero economici, e provare l’ebbrezza di essere gli unici italiani all’interno del locale.

Proprio a metà di Via Tor Pignattara c’è Spice of India, come recita l’insegna, un “bar ristorante pizzeria”, ma indiano. Il locale ha l’aspetto di un normalissimo bar-tabacchi, di indiano ci sono solo i dolci esposti nella vetrinetta del bancone, i video musicali in tv e, naturalmente, baristi e camerieri. È molto ampio, con circa venti coperti e offre a pranzo e a cena le tipiche specialità indiane: samosa, pollo tandoori, riso byriani e così via.

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Il palazzo di Via Galeazzo Alessi col murales dedicato a Pasolini

Nel mercato coperto di Via Laparelli c’è un ristorante peruviano. L’ambiente nei colori del verde e del giallo è molto gradevole, il menu è composto da piatti unici a base di carne o di pesce, con riso e patate. Sull’altro lato della Casilina, in Via Eratostene, ci sono le luci colorate e le vetrine del ristorante dal nome che è tutto un programma: Eurobangla. Un menu fotografico ci alletta con i suoi “Imboltini di carne, imboltini di verdure e imboltini di patate”.

In uno dei quartieri più pasoliniani di Roma, dove Pier Paolo Pasolini ambientò molte scene dei suoi film e racconti, non poteva mancare la street art, che sta facendo di Roma la capitale europea di questa forma d’arte urbana, con un murales dedicato proprio a lui. Ci ha pensato Nicola Verlato, pittore vicentino che lo ha realizzato in Via Galeazzo Alessi, al civico 215. Grande com’è, su un muro di un palazzo alto dodici metri e largo otto, è impossibile non notarlo. Quel muro l’ha individuato l’artista David Diavù Vecchiato, amico e collega di Nicola. David è il fondatore di MURo, il museo di Urban art del Quadraro. “Gli abitanti del quartiere – ha detto l’artista – mentre passavano e mi vedevano lavorare, hanno ribattezzato il muro la Cappella Sistina di Tor Pignattara”.

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Ma forse l’esempio che più viene citato come riqualificazione – e ripeto per chi ha letto i miei precedenti articoli o il volume Gentrification in parallelo. Quartieri tra Roma e New York, è la zona chiamata Certosa. Si trova in cima a una collinetta racchiusa tra la ferrovia Roma-Napoli, il nostro quartiere di Tor Pignattara e la Casilina. L zona rimane nascosta agli occhi dei più. Dal traffico caotico in basso, basta svoltare su Via dei Savorgnan per trovarsi in un altro mondo. L’atmosfera è quella di un paese il cui centro è Largo dei Savorgnan. Le case, in gran parte edificate in proprio dai primi abitanti, per lo più braccianti agricoli provenienti da altre regioni del Centro-Sud, in quello che era chiamato abusivismo di necessità, nascono alla spicciolata e senza servizi. Succede poi che a metà anni Novanta cinquecento famiglie ottennero case popolari in altri quartieri. Alcune delle case rimaste vuote o sfitte furono occupate da immigrati capoverdiani, altre acquistate da speculatori che creavano mini appartamenti da rivendere. Oggi gli abitanti, vecchi e nuovi, sono meno di duemila, alcuni hanno lasciato il Pigneto per sfuggire al chiasso notturno e allo spaccio. La Certosa è un set a cielo aperto: negli anni Cinquanta Luigi Zampa girò qui Ladro lui ladra lei con Alberto Sordi e Sylva Koscina; più recentemente Daniele Lucchetti ha ambientato qui La scuola e Francesca Archibugi Questione di cuore.

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