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La comunità musulmana a Roma

Breve viaggio all’interno dei luoghi di aggregazione della comunità dei musulmani della Capitale. Come vivono? Quanti sono? Qual è il rapporto con il resto della società?
All’interno della complessa struttura dello scheletro sociale della Capitale, vivono più di 100.000 musulmani, a stretto contatto con le altre comunità, ben radicati e inseriti nei contesti quotidiani dei quartieri romani.

Nell’ombra di una città che mostra una doppia faccia nei loro confronti, come nei weekend le targhe alterne delle auto che affollano viale Marconi, la presenza musulmana a Roma comincia a espandersi a metà degli anni Novanta, anche grazie all’inaugurazione della Grande Moschea, nel 1995.
L’Imam della Moschea di Magliana
Erano pochi quando arrivarono, alcuni senza documenti, molti non sapevano nemmeno parlare l’italiano e non possedevano un lavoro, come mi racconta Sami Salem, Imam della Moschea di Magliana, a sud ovest della città, fin quando, con la fatica e le difficoltà che incorniciano tutti i processi di integrazione, cominciarono ad ottenere tutta la documentazione necessaria e a cominciare un cammino: “[…]piano piano tutti sono diventati regolari, lavoratori, hanno imparato la lingua e hanno studiato, la maggior parte sono qualificati. Alcuni sono anche nati qui […]”. Nelle scuole del quartiere, due parti complementari del mondo giocano insieme fra i banchi, studiano sugli stessi libri e disegnano un futuro felice, distanti dai dibattiti e dal vocio della politica.

Sono le 19,30 di un freddo marzo e l’Imam mi accoglie nella sua moschea offrendomi del tè, non prima di essermi slacciato le scarpe. Il luogo è semivuoto, è tardi e non è nemmeno venerdì, giorno di preghiera collettiva.
Sono tempi difficili, ma “stiamo cercando di costruire qualcosa in questo paese, in questa città” mi dice, “dobbiamo collaborare, è una società unica quella in cui viviamo”.
La parola “integrazione” pare sia stata ampiamente superata e sostituita, ma va interpretata sotto due significati: quella degli immigrati e quella degli italiani. “Noi abbiamo fatto la maggior parte del lavoro: abbiamo imparato la lingua, le legge, la Costituzione, abbiamo trovato un lavoro, spesso senza ricevere nessun aiuto e abbiamo sofferto per legalizzare la nostra posizione, con i documenti e tutto il resto”. E’ tardi per tornare indietro. La nuova parola chiave ora è “costruire”, insieme. Mi elenca tutti i progetti svolti con le amministrazioni capitoline precedenti, con le associazioni e con il governo e mi dice che sua figlia fa volontariato con la Comunità di Sant’Egidio, per gli anziani. Se non è integrazione questa.

Sono stati proprio questi ultimi a tender loro una mano, quando vent’anni fa arrivarono centinaia di egiziani, marocchini, tunisini e bengalesi, e come una coincidenza a verifica della veridicità delle sue parole, in quell’esatto istante bussa alla porta della moschea un esponente dell’Ong.
Non riesce a capire quali siano le motivazioni che spingono una parte della popolazione ad emarginare la comunità islamica, specialmente quando afferma di volermi spiegare bene come funziona: “E’ inutile tentare di dividerci. Posso dire che uno straniero che sceglie di vivere qui, in Italia, ha più voglia di dare un contributo alla società rispetto a chi in questa società ci è nato, non per sua volontà. E se parliamo di criminali ti dico una cosa: un criminale è un criminale, punto. Non ci sono altri titoli da aggiungere: che sia ebreo, cristiano, musulmano non importa.
preghiera musulmana in moscheaQuegli individui che noi definiamo terroristi sono dei fantasmi invisibili: non frequentano nemmeno la comunità, non pregano con noi in Moschea, stanno ai margini. Ci sono delle persone che interpretano le Scritture in maniera più radicale rispetto agli altri, ma non sono terroristi. Presto questo centro diventerà un ospedale e già ora facciamo la donazione del sangue, destinato ad ogni anima che ne abbia bisogno, musulmana o no.” Le colpe sono individuali, non sono da addossare ad un’intera comunità, allo stesso modo di come fece l’Europa per gli assassini compiuti dal fondamentalista cristiano Anders Breivik il 22 luglio del 2011 in Norvegia. All’epoca il dibattito si concentrò principalmente sulla lucida follia del terrorista ma nessuno diede la colpa all’intero Occidente per la morte di 77 persone. Quando il 25 aprile del 2015 invece, la Polizia arrestò a Torpignattara Niaz Mir, un ragazzo pakistano sospettato di esser membro di un network terroristico affiliato ad Al-Qaeda, l’opinione pubblica puntò il dito su tutta la collettività araba del paese. I due pesi e le due misure dell’Occidente.

La religione musulmana impone ai fedeli di partecipare alla vita della comunità e conseguentemente di rivolgere un pensiero alla costruzione di un futuro che offra condizioni sociali dignitose. Mi ripete più di volte di amare Roma, di considerarla come la città dell’accoglienza, della misericordia, della tolleranza e del dialogo, ma troviamo un nemico comune: l’ignoranza, matrice d’odio, creatrice di falsi idoli e nemici fittizi che può servire solamente a farcire asettici talk show. Prima di salutarci ci tiene a ricordarmi una cosa: “Noi stiamo insegnando ai nostri fedeli ad essere come la pioggia: esserci sempre dove sarebbe davvero utile. Per il bene di tutti.”
Torpignattara

Lascio la moschea di Magliana e il mio viaggio non può che passare proprio per Torpignattara, dove i cittadini sembrano quasi infastiditi dalle mie domande, ma dove si respira un fortissimo senso di comunità che anima la vita del quartiere.
La comunità musulmana non è composta solamente da moschee, istituzioni religiose e politiche, ma anche da centri di accoglienza, spesso i primi porti nei quali i migranti approdano.
Baobab

Il “Baobab” di via Cupa, centro multiculturale ripensato e riadattato ha accolto 35000 persone in pochi mesi ed è un esempio calzante di una capitale europea che accoglie, che abbatte i muri e che si dimostra solidale, una Roma che capisce che le differenze culturali sono delle opportunità da cogliere, e non degli ostacoli.

In un soleggiato pomeriggio di marzo invece, in un caffè di San Giovanni incontro Sara El Debuch, siriana, studentessa di Giurisprudenza e attrice, di vent’anni. Ha vissuto la metà della sua vita in Toscana, fin quando i suoi genitori non hanno cambiato lavoro e si sono stabilizzati a Roma. Nota alle cronache recenti per la sua scelta di non portare più il velo, mi racconta la sua storia. Ha cominciato a fare cinema circa 4 anni fa, con “Border”, un film di Alessio Cremonini che le ha aperto una strada, fornendole nuove opportunità.

“Non sentivo di rispettare il velo con i miei atteggiamenti: non si trattava solamente di coprire i capelli ma anche di coprire determinati comportamenti.” I ragazzi di seconda generazione come Sara vivono una sorta di doppia identità, tra i genitori attaccati alla loro tradizione, complessa, diversa e non uniforme e la società in cui sono proiettati, che tende ovviamente ad assimilarli. La sua famiglia non ha accettato di buon grado la scelta di non portare più l’hijab, specialmente perché ha deciso di toglierlo durante il ramadan. Mi racconta di non aver mai subito atti di razzismo, a differenza di alcuni sue coetanee, spintonate sugli affollati autobus di Roma ma “un po’ è anche colpa dei musulmani che tendono a ghettizzarsi, che non parlano con le persone che non conosco personalmente”.

Sara è una ragazza decisa e convinta delle sue scelte anche se mi confessa di sentirsi in colpa per essersi distaccata dalla sua tradizione, per aver abbandonato la politica del suo paese e per essersi tolta il velo. “Portavo indirettamente un messaggio, e anche per il lavoro che svolgo, molti musulmani si affidavano alla mia figura”. Il simbolismo della religione però, lascia il tempo che trova, e di certo contribuisce all’impoverimento del dibattito, favorisce l’espansione degli stereotipi e distorce le analisi, almeno fin quando ogni cristiano devoto non indosserà un crocifisso al collo.

“L’Italia mi ha dato tanto, sono quel che sono anche grazie a questo paese, e così tanti giovani come me, che lo sanno perfettamente e ricambiano il favore”. Tutto dipende dall’ambiente, dallo spazio culturale in cui la società ti costringe a vivere, che contribuisce a portare confusione anche nel lessico politico. La parola “jihad”, per esempio, viene interpretata come un qualcosa di esclusivamente negativo mentre il Corano in realtà, ne fa riferimento solamente cinque volte, nessuna delle quali in senso militare e offensivo. Sara infatti mi spiega che “jihad non vuol dire uccidere, significa “sforzo”, ed è lo sforzo che fa mio padre per portare i soldi a casa, che fa mia mamma per cucinare la sera. Tutti conduciamo il nostro jihad quotidiano […] Se continuiamo a farcire la testa delle persone con la convinzione che tutti i musulmani sono terroristi, conseguentemente in loro cresce un senso di resistenza e di difesa che accumulano e infine diventano davvero ciò di cui sono accusati. Quelli che diventano “terroristi” hanno delle crisi di identità, non riescono a capire più chi sono, e si attaccano a qualcosa per farlo, come alla religione. Non si sentono accettati nella società e iniziano a vedere attorno ad essi soltanto nemici.”

Sara pensa che nel modo in cui stiamo procedendo, non arriveremo da nessuna parte perché “le guerre in corso le abbiamo fomentate noi, e ce lo dimentichiamo. Abbiamo depredato l’Africa per secoli, è normale che centinaia di persone vengano qui in cerca di un futuro migliore. Mio fratello per esempio ha 8 anni, e da quando è nato ha sentito parlare solamente della guerra, e questo deve cambiare. Smettiamola di essere egoisti e individualisti”.

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Immigrazione e periferie, nei quartieri di Milano arrivano gli psicologi di strada

Il piano parte dal quartiere con più alta densità di stranieri. L’obiettivo è sviluppare nuovi modelli di integrazione e gestire potenziali tensioni.
Una squadra di psicologi “di strada” per intercettare bisogni e problemi di chi vive in via Padova, il quartiere più multietnico della città. La proposta è dell’Ordine degli psicologi e ha avuto il finanziamento del consiglio di Zona 2. Per tre mesi un gruppo di esperti parlerà con i cittadini e con i rappresentanti delle comunità straniere e delle associazioni di volontariato. Al termine di questi incontri e dialoghi a più voci, si cercherà di fare una mappa dei temi da approfondire e anche una prima proposta di iniziative per far fronte ai disagi che potranno emergere nei colloqui.

Il piano che parte dal quartiere con più alta densità di immigrati in realtà è stato pensato per tutte le periferie milanesi, “luoghi in cui, ogni giorno, la contaminazione tra idee, nazionalità, costumi e religioni si traduce in opportunità per lo sviluppo di nuovi modelli di integrazione e in potenziali tensioni da gestire, anche sul piano del benessere mentale”, spiegano all’Ordine degli Psicologi della Lombardia che ha in mente un approccio nuovo di lavoro, col metodo della prossimità ai cittadini e della presenza capillare, concreta, in sinergia con i consigli di Zona, che sono poi i terminali dell’istituzione locale dove la gente va a presentare le sue richieste e doglianze.

Gli psicologi sonderanno bene la zona attorno al Parco Trotter, luogo di ritrovo delle famiglie con i bambini, ma anche dei giovani delle comunità sudamericane. “Crediamo che iniziative di welfare integrativo reale possano e debbano nascere a partire dalla comune volontà di depositare piccoli semi, anche economici, in grado però di far sbocciare grandi cambiamenti nel vissuto delle famiglie, delle comunità, dei quartieri – dice Riccardo Bettiga, presidente dell’Ordine – Le periferie metropolitane possono essere straordinari laboratori, in cui realizzare progettualità inedite, immaginare risposte nuove a nuove esigenze, incrociare energie e far crescere idee”.

Quello della “Psicologia di Zona” è uno dei progetti all’interno della piattaforma generale per una “psicologia sul territorio della città”, con cui gli psicologi si sono offerti di presidiare e dare attenzione alle zone più decentrate della città di Milano, in collaborazione col Comune e le zone. “L’obiettivo è quello di
comprendere e rispondere in modo sempre più articolato ai bisogni di cura e di benessere mentale dei cittadini invitati a partecipare a gruppi di discussione e a immaginare soluzioni tutti assieme”, conclude Bettiga. La logica è quella della prevenzione dello scontro sociale con l’ascolto e con le risposte concrete a problemi che magari non sono di grande entità: questioni di normale convivenza in un territorio delicato per mescolanza etnica, religiosa e culturale.

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Gentrification: tutto quello che avreste voluto sapere ma non avete mai osato chiedere

Se volete sapere qualcosa di più su: gay gentrification, pink economy, social mixing, marginal gentrifier, studentification, family gentrification e new cultural class, sicuramente il libro di Giovanni Semi, Gentrification. Tutte le città come Disneyland? (ll Mulino, 2015) fa al caso vostro. Vi troverete molte risposte ma al contempo finirete per concluderne la lettura con nuovi dubbi su cause ed effetti delle trasformazioni nella città contemporanea occidentale. L’autore partendo da un’ampia (e aggiornata) rassegna della letteratura internazionale e dalle osservazioni attente di quattro casi studio di città italiane (il Centro storico di Genova, il Quadrilatero Romano e San Salvario a Torino, il quartiere Isola a Milano, il Pigneto e il rione Monti a Roma) si interroga sulla gentrification (il processo di riqualificazione edilizia e di sostituzione sociale osservato dalla sociologa Ruth Glass nel 1964) tentando di rispondere alle sempre ricorrenti domanda sul tema: si tratta di un fenomeno positivo o negativo? E positivo o negativo per chi? Da quali punti di vista? Va combattuto? Può essere innescata e/o controllata da adeguate scelte di politiche urbane? Qual è il ruolo del pubblico nel supportarla o arginarla?

Per l’Italia, se si esclude forse il caso milanese, opportunamente rilevato da Semi, ci troviamo quasi sempre di fronte ad una soft gentrification, non troppo stravolgente, con deboli processi di espulsione degli abitanti tradizionali, che però provoca omologazione nel tessuto commerciale (negozi vintage, botteghe finto-tradizionali, ma anche marchi internazionali) e nell’uso del patrimonio abitativo, riconfigurando i quartieri coinvolti rispetto a loro caratteristiche identitarie. In uno scenario di progressiva trasformazione della qualità della vita, delle abitudini e dei consumi a livello urbano (aumento del tempo libero, sviluppo del turismo e delle spese culturali), si è assistito, anche nel nostro Paese, a una nuova attenzione, da parte di molte città, verso alcune componenti immateriali dello sviluppo e verso processi di rigenerazione urbana, talvolta indotti (o favoriti) da interventi di politiche pubbliche, altre volte più orientati da dinamiche di mercato. In particolare, le aree centrali divengono nuovamente desiderabili, vengono percepite nell’immaginario collettivo con una nuova immagine, più dinamica, come catalizzatori di nuovi utenti, nuovi fruitori temporanei, ma anche mode e tendenze, e se ne apprezza l’autenticità. Tutto ciò avvia processi di riqualificazione edilizia e ricambio commerciale e sociale.

Semi sembra rifiutare le letture più “radicali” che interpretano la gentrification come un fenomeno che ha quasi unicamente caratteristiche negative (venir meno dello spirito pubblico, declino delle consuetudini comunitarie, erosione dei codici di base della cittadinanza), intrise di visioni nostalgiche e vernacolari del passato. Lo spazio pubblico è in rapida evoluzione, si ridefinisce continuamente, nella sua conformazione fisica e in quanto a modalità d’uso e di fruizione, come luogo delle relazioni sociali e delle forme di aggregazione. Le città (almeno quelle occidentali) dimostrano continuamente una straordinaria vitalità e una sorprendente capacità di mettere in atto strategie di rilancio e rappresentano un luogo straordinario d’innovazione, offrono chance ed opportunità di crescita economica e sociale a milioni di individui. Per questo mutano in continuazione e occorre saper leggere questi cambiamenti.

Il rischio maggiore è quello di interpretare la realtà secondo vecchie categorie arrivando a risultanti fuorvianti e distorti: occorre continuamente cambiare le lenti degli occhiali per leggere le trasformazioni in corso. Gli ambiti urbani centrali non sono in crisi, ma si trasformano: l’insediamento in zone e quote di patrimonio abitativo degradato non è più una scelta di ripiego per fasce di popolazione debole e marginale, ma è condizione ideale per giovani coppie senza figli e single di buon livello culturale, con forti bisogni di interazione e rappresentazione sociale, attratti da valori storico-culturali e ambientali e da zone centrali, i quali sono contemporaneamente mossi dalla ricerca di investimenti, non solo monetari, ma anche simbolici, remunerativi.

Nel libro i territori della gentrification emergono anche come ambiti ricchi di conflitti: l’apertura di nuovi locali “alla moda” e in generale l’evoluzione del tessuto commerciale in funzione dei nuovi fruitori genera frequenti tensioni fra vecchi e nuovi residenti (ognuno di questi gruppi si caratterizza per stili e tempi di vita diversi), fra popolazioni stabili e temporanee, le proteste dei residenti per il rumore dei locali notturni hanno come effetto rivendicazioni sull’amministrazione pubblica con richieste di maggiori regole, impianti di videosorveglianza, interventi sull’illuminazione pubblica, nuovi regolamenti sull’uso dei parcheggi e più in generale, degli spazi pubblici.

Nella parte iniziale sulle origini storiche del fenomeno, il saggio di Semi constata come la costruzione della città occidentale vede da secoli un ruolo attivo della borghesia (la radice gentry della parola che lo indica può essere un sinonimo di upper class) che, attraverso varie modalità, cerca di rinnovare la città a proprio uso e consumo o come propria forma di rappresentazione. I processi più recenti di rinnovamento e trasformazione urbana si muoverebbero dunque in continuità con questa linea di tendenza. Proprio per questo il libro – e questo è senza dubbio uno dei suoi pregi – è attento alle questioni immobiliari (anche dal lato degli imprenditori edili), troppo spesso trascurate dalla ricerca sociale sul tema, al mutare del significato di abitare e ai cambiamenti intervenuti nel mondo del lavoro che hanno implicazioni sull’abitare. L’andamento dei valori immobiliari rappresenta sempre una significativa misura degli esiti indotti dalle azioni di trasformazione urbana e costituisce un indizio di possibili mutamenti in atto. In fondo gli imprenditori del settore edilizio non sono solo tutti speculatori, ma soggetti che ogni serio approccio di policy analysis non può trascurare, dato che – come ad esempio nel caso torinese del Quadrilatero Romano – intuiscono potenzialità di un luogo e nuovi caratteri della domanda.

Riferimenti
Giovanni Semi, Gentrification. Tutte le città come Disneyland? Il Mulino, Bologna, 2015

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Re-Block, il progetto che salverebbe le periferie

Una soluzione elaborata per il quartiere di Tor Sapienza ancora mai presa in considerazione dalle istituzioni.
In un periodo come questo, che precede le amministrative a Roma e non solo, si percepisce, diffusissima, la convinzione che nulla nel panorama urbano possa cambiare. Vari volti si alternano, più o meno carismatici, più o meno conosciuti, ma il fortissimo tasso di astensionismo manifesta che la popolazione avverte come poco rilevanti questi cambiamenti, quindi non ne partecipa.

Come dare torto a chi si astiene: fattaeccezione per l’appartenenza a una certa zona politica come può il singolo scegliere il proprio candidato? I programmi sono tutti uguali, le inadempienze sempre le stesse. In particolare, guardando più da vicino Roma, il candidato di turno a richiesta risponde “Ce ne occuperemo”, come se le soluzioni si potessero improvvisare, come se una realtà complessa come la nostra potesse essere “guarita” da due interventi promessi quasi per caso in campagna elettorale.

Ai cittadini vorremmo dare una buona notizia: se le istituzioni volessero accoglierle, le risposte e i piani d’attuazione –studiati, provati, scientifici- esistono. Oggi parleremo del più illustre tra questi, il Re-BLOCK, già annunciato alle periferie, in particolare fatto conoscere a Tor Sapienza, ma evidentemente non compreso e non fattivamente utilizzato.

re-blockProcediamo per punti al fine di tracciare una panoramica su un progetto immenso e dettagliato, ma di cui si possono fornire poche e semplici linee generali adatte anche a chi non ha le competenze e l’esperienza della docente Maria Prezioso (Espon Contact point Italia, professore ordinario di Geografia Economica e Pianificazione del Territorio, Dipartimento di scienze e tecnologia della Formazione, Università degli Studi di Roma Tor Vergata), colei che porta la filosofia di Re-BLOCK in giro per l’Europa.

– ESPON raccoglie domande e risposte

L’osservatorio europeo ESPON, attivo dal 2002, connette dati, statistiche e studi relativi alle problematiche territoriali più disparate al fine di facilitare la progettazione di strategie risolutive dei problemi oppure adatte a amplificare le potenzialità di un determinato territorio. Per fare una semplificazione, per esempio, il Presidente di uno dei nostri municipi quando si rendesse conto che il suo territorio ha caratteristiche sociali, urbanistiche e problematiche simili a una cittadina nel sud della Francia, potrebbe ispirarsi alle strategie adottate lì, o suggerire ai francesi altre osservazioni che emergono dall’analisi del nostro territorio. In questo modo la pianificazione (in campi come il cambiamento climatico, l’uso del suolo, l’energia, la demografia, l’urbanistica) parte dal basso, è studiata e perfezionata all’interno della piattaforma ESPON e è a disposizione delle istituzioni, che avrebbero serviti su un piatto d’argento i dati su cui lavorare e le idee da prendere in prestito.

– STEMA fornisce le strategie di attuazione pratica

Processo metodologico specifico che definisce le modalità di organizzazione/gestione ambientale e territoriale sostenibili – STeMA. Sintetizzato in step logici, lo SteMA può essere applicato alla scala nazionale (macro), regionale (meso) e provinciale/sub-regionale (micro). L’obiettivo è la coesione del territorio e con questa “scaletta”, chi governa può fissare gli obiettivi specifici e identificare con facilità i mezzi pratici con cui raggiungerli, anche grazie alla possibilità di calcolare i potenziali effetti di determinati atti sul territorio.

– URBACT Re-BLOCK è il risultato CONCRETO

Dieci città in zone molto diverse dell’Europa partecipano al progetto e stanno già ottenendo risultati con una serie di interventi finalizzati a promuovere una rigenerazione efficiente ed efficace degli insediamenti urbani, dei quartieri ad alta densità abitativa e degli edifici di edilizia pubblica migliorando la loro qualità ambientale attraverso l’attivazione di un processo partecipativo (vi ricordo che l’analisi parte dai territori).

Il progetto europeo Urbact Re-Block nasce circa tre anni fa da un’idea e un lavoro di sviluppo coordinato dall’Università di Roma Tor Vergata in collaborazione con oltre 40 realtà culturali, sociali e ambientali locali e punta alla riqualificazione urbana e sociale.

Il progetto non a caso è stato presentato da Maria Prezioso a Tor Sapienza, esiste in concreto uno studio e una proposta pronta per essere attuata riguardo l’area di viale Morandi e viale De Chirico, che ha ottenuto le adesioni del V° Municipio e degli Assessorati alla Trasformazione Urbana e Ambientale di Roma Capitale. Dalle aree verdi, allo smaltimento dell’amianto, all’utilizzo della ex Vittorini come punto di concentramento delle attività delle ONLUS locali e luogo di laboratori artigianali per ragazzi e spazio per papà separati.

Peccato che nulla sia realmente successo, che nessun bando per i fondi europei sia stato vinto (i progetti per la riqualificazione delle periferie sono potenzialmente a costo zero per l’amministrazione capitolina). Il progetto era stato selezionato a livello europeo come migliore piano sulle periferie insieme a quello di Malaga, mancava solo la firma di Ignazio Marino (il bando Ue prevede che sia il comune a percepire l’accredito che si impegna a usare nel progetto), ma per una serie di sfortunati eventi è rimasto nel cassetto.

“E’ come avere in tasca il biglietto vincente della lotteria e non incassarlo”, spiega il presidente dell’Agenzia di Quartiere Alfredo Di Fante. La parola d’ordine è sostenibilità e Re-BLOCK è il progetto in cui essa può essere attuata. Non possiamo permettere che la cittadinanza continui ad assuefarsi a questa disperata deriva: l’esasperazione è alle stelle e le periferie sono polveriere pronte a scoppiare alla minima scintilla. Come al solito, rimaniamo indietro (pur avendo Maria Prezioso così vicina e disponibile!).

Le risposte ai quesiti sui trasporti, sul decoro urbano, sullo sviluppo in tutti i campi sono tutte a portata di mano (e anche i fondi europei lo sono se i progetti sono validi), stiamo ancora aspettando che qualcuno se ne accorga e le faccia proprie. E’ provato e comprovato che le improvvisazioni dei nostri sindaci e gli slogan troppo distanti dalla realtà non hanno minimamente scalfito i numerosi disagi romani. E’ importantissimo che i cittadini siano informati e pretendano una pianificazione sostenibile, partecipata e interdisciplinare che cambi davvero le cose in questa città.

La nostra città non può espandersi a caso, non può essere oggetto di norme completamente sconnesse le une dalle altre, di interventi privi di logica più che mai nelle grandi città e in zone problematiche come le periferie occorre procedere con un progetto tecnicamente valido come Re-BLOCK.

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Aree produttive dismesse, proposti incentivi per rigenerarle

La misura in un emendamento dei relatori al disegno di legge sul consumo di suolo.
Incentivi fiscali per la rigenerazione delle aree produttive dismesse in aggiunta alle misure per la riqualificazione delle periferie. La proposta è contenuta in un emendamento al disegno di legge sul consumo di suolo, ora all’esame della Commissione Ambiente della Camera.

Il pacchetto di proposte presentate dai relatori del provvedimento, Massimo Fiorio e Chiara Braga, mira ad accelerare l’iter della norma, iniziato da più di due anni.

Rigenerazione delle aree produttive dismesse
L’emendamento presentato non entra nel dettaglio, ma prevede che per incentivare questi interventi siano individuate “misure tali da determinare per un congruo periodo una fiscalità di vantaggio”.

La misura richiama la riqualificazione delle periferie, già presente nel disegno di legge, basata sul riuso di edifici e spazi pubblici attraverso la demolizione e ricostruzione e la sostituzione degli immobili esistenti, cui seguirà la creazione di aree verdi e piste ciclabili. Iniziative per cui sono previsti bandi e concorsi rivolti agli architetti.

Sul tema, lo ricordiamo, è intervenuta anche la Legge di Stabilità per il 2016 che ha stanziato 500 milioni di euro per la riqualificazione urbana e la sicurezza. La legge ha previsto un bando, atteso per il 31 gennaio, ma ad oggi non ce n’è traccia.

Consumo di suolo, i contenuti del disegno di legge
La norma prevede che il consumo di suolo sia possibile, per un periodo massimo di tre anni dall’entrata in vigore della legge, solo per i lavori e le opere inseriti negli strumenti di programmazione delle amministrazioni aggiudicatrici e per le opere della Legge obiettivo considerate prioritarie. Successivamente, non potrà essere superiore al 50% della media di consumo di suolo di ciascuna Regione nei cinque anni antecedenti. Chi ha ottenuto un titolo abilitativo prima dell’entrata in vigore della nuova legge potrà costruire sul suolo inedificato.

I proventi derivanti dal pagamento degli oneri di urbanizzazione o dalle sanzioni per gli interventi eseguiti in difformità dal titolo abilitativo dovranno essere utilizzati esclusivamente per la riqualificazione.

Un capitolo importante è dedicato alla riqualificazione delle periferie, basata sul riuso di edifici e spazi pubblici attraverso la demolizione e ricostruzione e la sostituzione degli immobili esistenti, cui seguirà la creazione di aree verdi e piste ciclabili. Per la progettazione degli interventi sono previsti bandi e concorsi rivolti agli architetti.

Consumo di suolo, critiche e segnalazioni
Ricordiamo che nei vari passaggi nelle Commissioni competenti, al ddl è stato contestato di dare troppi oneri ai Comuni e di non raccordarsi con i piani paesistici regionali. Sotto accusa, in particolare, il censimento degli immobili sfitti o abbandonati da poter riutilizzare e riqualificare. Operazione per cui gli enti locali non sembrano avere le risorse necessarie.

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L’ex-Asilo Filangieri ed il governo dei beni comuni

Labsus intervista gli attivisti dell’ex-Asilo Filangieri di Napoli.
Con la delibera 893/2015 il Comune di Napoli ha riconosciuto il Regolamento d’uso collettivo dell’ex-Asilo Filangieri, portando un inedito modello di governo dei beni comuni all’interno del nostro ordinamento.
La delibera riconosce autonomia di organizzazione e produzione ai fruitori del bene.

Tale regolamento infatti è stato prodotto in maniera autonoma dalla collettività di riferimento che usufruisce del bene, e pone l’autogestione della struttura come uno dei principi cardine della sua gestione. Abbiamo intervistato gli attivisti dell’Asilo, per capire gli aspetti più importanti e le novità che questo regolamento porta nella pratica teorico-giuridica dei beni comuni.
La storia

L’ex-Asilo Filangieri, ora L’asilo, è un centro di produzione interdipendente dedicato all’arte e alla formazione, autogestito dalla comunità di riferimento, ossia i lavoratori dell’arte e della cultura.
L’edificio storico, patrimonio Unesco nel cuore di Napoli, nonché demanio comunale, era stato scelto come sede del Forum delle Culture, di fatto dato come fondo di garanzia ad una fondazione privata.
Sulla scia delle diverse esperienze legate agli spazi culturali autogestiti che ha investito l’Italia, nel 2012 i lavoratori e le lavoratrici dello spettacolo e della cultura occupano l’immobile che viene così riconsegnato alla cittadinanza e riconosciuto dal comune di Napoli tramite la delibera 400/2012, in cui non solo si riconosce l’importanza della cultura come bene comune, ma si riconosce “ai lavoratori e alle lavoratrici dell’immateriale” la possibilità di gestire in maniera partecipata e trasparente uno spazio pubblico dedicato alla cultura. Nasce così l’esperimento dell’Asilo e dopo tre anni di tavoli pubblici, la comunità che usufruisce dello spazio, con l’aiuto di studiosi e giuristi, dà alla luce il Regolamento collettivo d’uso civico e collettivo urbano, convertito in atto amministrativo tramite la delibera 893 /2015.
Il Regolamento e i beni comuni

Tale Regolamento d’uso pone delle basi giuridiche al concetto di bene comune, diffuso nella prassi ma di difficile categorizzazione a livello giuridico. Partendo dalla nota definizione della Commissione Rodotà, dove il bene diventa comune se legato all’esercizio dei diritti fondamentali della persona, si è aggiunta un’interpretazione estensiva della tradizione degli usi civici, dove l’uso collettivo di un bene è strettamente legato alla partecipazione diretta della collettività (come già riconosciuto dalla Corte Costituzionale nella sent. 345/1997). Come ci spiega Giuseppe, “Noi volevamo che fosse riconosciuto il bene monumentale ex Asilo Filangieri come bene comune e per noi un bene diventa tale quando è legato ad un determinato regime di governo, ossia quando è presente una particolare forma di fruizione che garantisce ai cittadini non solo un potere di accesso, ma un metodo codecisorio per quanto riguarda le pratiche e la gestione degli spazi”. La partecipazione diretta della comunità diventa quindi un punto fondamentale per definire la categoria dei beni comuni, dove “la comunità si crea attraversando lo spazio, ossia nel momento in cui si mettono insieme le risorse, i mezzi di produzione artistico-culturali, le competenze” e che si autoregola tramite assemblee e tavoli di lavoro aperti alla cittadinanza tutta.
L’uso civico della struttura si basa sulla capacità di autonormazione civica di tale comunità e si fonda sui principi di imparzialità, inclusività, accessibilità e autogoverno della comunità, in quanto “gli operatori della cultura devono essere autonomi nelle scelte che fanno, vale a dire non essere soggetti a nessuna ingerenza da parte della partitocrazia né da parte dell’economia, ossia dalle logiche del profitto”, sottolinea Nicola.
Per un nuovo pubblico

“Tale sperimentazione”, si legge nel Regolamento, “si configura come demanialità rafforzata dal controllo popolare”. Il bene in questione rientra quindi in uno “speciale regime pubblicistico”, in cui lo Stato non è gestore dall’alto della struttura (come ad esempio con il meccanismo del bando pubblico), ma, tramite un meccanismo di sussidiarietà orizzontale, diventa garante del funzionamento della struttura stessa, riconoscendo l’autonomia di gestione dei fruitori dello spazio e assumendosi lui stesso oneri e responsabilità relativi al funzionamento del bene. Un pubblico che risponde quindi all’ articolo 3 della Costituzione, pronto a rimuovere ciò che può ostacolare il godimento collettivo della struttura da parte della comunità e della cittadinanza tutta. Il concetto di utilizzo collettivo del bene rientra nella volontà di “declinare i beni comuni a livello relazionale”, ci spiega Nicola, “ossia mettere in evidenza che la singola persona nell’esercizio legato ai diritti dei beni comuni non può che relazionarsi ad altri soggetti”.
Quindi uso collettivo di uno spazio pubblico, affidato alla gestione della comunità di riferimento tramite la condivisione degli oneri e delle responsabilità tra tale comunità e le istituzioni che hanno la titolarità del bene. E qui si evidenzia l’importanza del regolamento: la sua esistenza assicura infatti la pubblicità del bene, e permette un’amministrazione diretta da parte della collettività tramite modelli di democrazia partecipativa, che possano durare nel tempo indipendentemente da chi attraversa lo spazio. A livello pratico, ciò si traduce da una parte nell’introduzione di un elemento di terzietà (ossia il controllo delle istituzioni del rispetto di tale Regolamento), e dall’altra si riconosce il credito che tale struttura dà alla cittadinanza, di fatto tramite la partecipazione del Comune ai costi di gestione della struttura (come ad esempio l’utilizzo di dipendenti comunali per aprire e chiudere l’edificio o eventuali lavori straordinari legati a problemi dello stesso). “L’edificio deve essere tenuto come una piazza e sta all’istituzione garantire che le persone lo possano utilizzare”, ci spiega Giuseppe. Si riducono quindi i costi minimi della produzione teatrale e allo stesso tempo si riconosce una redditività civica del bene in questione, garantendo autonomia di organizzazione e produzione ai suoi fruitori.

L’esperimento de L’Asilo porta sicuramente nuovi spunti nel dibattito sui beni comuni (e il conseguente ruolo che possono avere le istituzioni) e per quanto sia legato ad una situazione specifica, può essere d’esempio nella creazione (e continua sperimentazione) di nuove forme di democrazia partecipata e di autogestione di quei beni che, per privatizzazioni o gestione centralistica statale, vengono di fatto sottratti alla collettività.

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La biblioteca delle cose

Gli spazi nei quali mettere in comune utensili, saperi e tempo stanno emergendo un po’ ovunque nel mondo. Si tratta in primo luogo di luoghi comunitari di creatività. Ecco come nascono e come funzionano.
In media i trapani elettrici vengono usati per soli tredici minuti nella loro durata di vita. Chiaramente non è necessario che ciascuno ne possegga una e in primo luogo spesso sono troppo cari per molti da comprare, comportando inoltre molta creatività non sfruttata e una enorme quantità di spreco di denaro. E il trapano non è l’unico oggetto a raccogliere costosamente polvere sugli scaffali.

Per contrastare questo curioso mix di iper-rifornimento e sotto-disponibilità, le esperienze di condivisione di utensili (tool-sharing libraries) stanno emergendo un po’ ovunque nel mondo. Queste realtà concedono ai loro membri di accedere a un’ampia gamma di utensili per un costo nettamente inferiore a quello pagato per l’acquisto individuale e possono divenire veri e propri centri comunitari creativi.

Uscendo da una cabina di polizia stile Dr. Who vicina al porto cittadino, la Edinburgh Tool Library va avanti dagli inizi del 2015 e ora conta 1.200 utensili, 180 membri e cresce molto in fretta. Abbiamo raggiunto il suo fondatore, Chris Hellawell, per scoprire come trasformare una vasca da bagno in un pezzo di arredamento, lavorando per attirare giovani padri insieme ai loro figli e quant’altro ha contribuito al successo della “biblioteca” di utensili.

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Perché un’esperienza di condivisione di utensili? Perché gli utensili si rivela adatti per un’iniziativa del genere?

Si possono evidenziare diversi aspetti. C’è un aspetto umano basilare nell’utilizzo di utensili per fare le cose più efficientemente o qualcosa che non potresti fare senza di essi, quell’impulso creativo che tutti noi abbiamo. Come esseri umani, vogliamo realizzare cose.

Vi è anche un importante aspetto psicologico, quel senso di benessere, salute e conquista correlato all’atto creativo. Penso che culturalmente ci stiamo allontanando da esso. La cultura in Occidente è molto più incentrata sui consumi – possedere e avere cose – piuttosto che sull’idea di condivisione. L’istinto ci porta ad andare e comprare un prodotto piuttosto che dire “Come posso realizzarlo da me?”.

L’atto di fare è veramente terapeutico, e se puoi offrire alle persone questo processo senza che gli costi una fortuna, allora ne beneficeranno sia sul piano dei risultati concreti, rendendo le loro abitazioni più belle, che in termini di benessere mentale.
È importante che la gente abbia facile accesso a questi utensili, proprio in virtù di quel senso di conquista che deriva dalla capacità di fare. Una delle grandi cose della condivisione degli utensili è che molto spesso le persone vengono a prenderli in prestito perché in realtà non sanno bene cosa vogliono realizzare o perché necessitano di un particolare strumento che non hanno mai utilizzato prima.

Per quanto riguarda la questione prezzo: la media delle famiglie inglesi spende ogni anno 110 sterline in attrezzi, mentre noi chiediamo un pagamento annuale di 20 sterline ma, se sei disoccupato o persona a basso reddito, puoi pagare in base alle disponibilità.
Abbiamo avuto una artista che ha usato i nostri utensili per realizzare un set di tre pezzi di arredamento da giardino ricavato da un vecchio bagno. Ha preso in prestito una molatrice angolare, che non aveva mai utilizzato prima, e ha sezionato una vasca per realizzare un sofà.

Ora la sta usando per vendere il suo lavoro e la sta portando con sé in giro nei festival del paese. Non le sarebbe mai venuto in mente di fare una cosa simile: in pochi si metterebbero a comprare un arnese così grande come una molatrice angolare solo per provare.

Che tipologia di persone sono i vostri soci?

Penso vi sia un’equa ripartizione tra coloro che sono interessati al discorso della sostenibilità e le persone a basso reddito, che vengono per risparmiare. Dal punto di vista della campagna ambientalista, è molto interessante perché quelle persone solitamente poco sensibili alle tradizionali campagne di riciclo, vengono comunque da noi per risparmiare soldi e perché non possono andare e comprare queste cose.

E cosa ha spinto te a farlo?

Ho studiato scienze ambientali e silvicultura, ma ho sempre lavorato per molti enti di beneficienza che si occupavano di disoccupazione e disabilità, aiutando le persone che non avevano le stesse opportunità degli altri. Così, dal mio punto di vista, sono contento di avere la possibilità di unire le due cose.

Come funziona la struttura dell’organizzazione?

Al momento, io faccio la maggior parte del lavoro, ma vorrei farla crescere in modo da renderla autosufficiente. Abbiamo cinque soci in consiglio: un presidente, un tesoriere, un segretario e abbiamo appena eletto uno dei nostri soci come tramite per veicolare gli interessi dei soci.

Incluso il consiglio d’amministrazione, vi sono circa dodici volontari che offrono il loro aiuto il sabato. Altri volontari sono tra i soci che vengono per aiutare quando collaboriamo con i gruppi delle varie comunità. Recentemente, abbiamo lavorato con uno di questi che ha costruito una wiki-house – una casa per una comunità open-source – e il progetto è stato realizzato con l’aiuto di alcuni nostri volontari e dei nostri utensili.

Come si svolgono normalmente?

Principalmente online. Una volta a settimana, il sabato mattina, affittiamo una cabina di polizia, che sarebbe il nostro punto ritiro e consegna. Le persone possono venire per registrarsi e versare la quota associativa, a seconda di quanto puoi permetterti. Gli spieghiamo le regole e così possono accedere al nostro database online. Se, ad esempio, vogliono una molatrice angolare, fanno una ricerca e gli appare quante ne abbiamo a disposizione; a quel punto loro posso richiederla e, se nessun altro l’ha prenotata, io confermo la richiesta. A quel punto il sabato la consegno alla cabina di polizia, il che vuol dire che tutto quello che dobbiamo fare è portare gli attrezzi solo una volta la settimana.
Attualmente abbiamo 180 membri. A questi livelli non abbiamo bisogno di avere qualcuno in sede tutti i giorni e questo si adatta alle esigenze delle persone perché la maggior parte preferisce dedicare il weekend a lavorare ai propri progetti. Questo programma settimanale, inoltre, fornisce alle persone una scadenza per i loro progetti, cosa estremamente utile. A molti piacciono le biblioteche dove si sa che è necessario finire un libro entro una certa data; allo stesso modo le persone tendono a completare le loro cose perché devono restituire gli utensili in una settimana. Spesso ci dicono che se avessero avuto quegli utensili di proprietà, ci avrebbero impiegato tre o quattro mesi, fino a farsi passare la voglia di farlo. Penso che abbiamo salvato un bel po’ di relazioni!

Vi sono altri in Edimburgo che vorrebbero fare lo stesso? Il vostro è un modello che chiunque può copiare?

Come impresa sociale, abbiamo comunque bisogno di generare economie e pertanto abbiamo qualcuno che si occupa di fundraising e del modello che utilizziamo. Voglio dimostrare che questo modello funziona e, se noi riusciamo ad avere un colpo di fortuna, non vuol dire che sia così per tutti, per cui dobbiamo dimostrare che non si tratta di un caso fortuito.

Attualmente siamo l’unica realtà del genere in Gran Bretagna e questo ci dà molto prestigio e visibilità, ma se qualcun altro dovesse aprirne uno in un’altra parte del paese, probabilmente non avrebbe la stessa visibilità e questo potrebbe diminuire il successo. Io vorrei che altri adottassero lo stesso modello, ma voglio che noi continuiamo a fare le cose per primi. Stiamo sviluppando uno schema di occupabilità basato sul rapporto tutor-allievo che pensiamo rappresenti una novità assoluta nel settore. Speriamo poi di riuscire a condividerlo con le altre esperienze di condivisione di utensili, molti dei quali sono in Nord America.

Ve ne sono circa ottanta in Canada e negli Stati Uniti – tutti con diverse strutture, dimensioni e capacità, dai capanni a enormi magazzini – quello che è interessante è che si può adattare alle esigenze locali. Possono persino essere fatti all’interno di nuovi insediamenti residenziali. Se costruisci un nuovo insieme di appartamenti, ha senso che ciascuno che vi abita abbia il proprio trapano o non sarebbe meglio mettere un armadietto così che li si può condividere?

Sei molto coinvolto anche in molti progetti locali come Dads Rock.

Dads Rock è un ente di beneficienza che lavora per far avvicinare di più i padri ai figli, attraverso il gioco e la qualità del tempo speso insieme. Nel progetto con cui noi abbiamo collaborato, i padri erano giovani che sono diventati genitori all’età di quindici o sedici anni. I giovani a quell’età spesso attraversano periodi di grande caos e questo potrebbe riflettersi anche sulle relazioni con i figli. Per cui il nostro progetto era quello di realizzare con loro una biciclettina per bambini: l’idea era che fosse qualcosa che potessero seguire fino in fondo perché stavano costruendo qualcosa per i loro figli.
La bicicletta è un regalo classico da fare ai bambini, ma questa volta sono stati i loro papà a costruirla per loro. Molti papà hanno personalizzato le biciclette in base agli interessi dei loro figli, una era in stile Harley-Davidson, un’altra era in stile motocross e a tema Minions.

Il progetto è durato otto-dieci settimane e, con il passare del tempo, potevi vederli presentarsi a ciascun incontro un po’ più cresciuti e alti della volta scorsa. È diventato il punto di riferimento della loro settimana: un vero e proprio senso di scansione del tempo, di ordine e attenzione. Quando il progetto è finito, hanno detto che non erano pronti per vederlo finire e per questo ora stanno lavorando per organizzare un weekend residenziale per fare qualcosa a beneficio della comunità in cui vivono.

Ciò che temo rispetto a questi progetti a breve termine come questo, è cosa accade dopo. I tuoi programmi per il futuro della tua esperienza sono collegati a questo?

Si. Vogliamo trasformarlo in un in un workshop in cui possiamo creare uno spazio dove i giovani possano venire ogni settimana, dove si sviluppano progetti aperti in cui siano le persone a stabilire il programma, dove si pratica il mutuo aiuto e dove non vi sia alcun giudizio.

La condivisione degli utensili è una passione ambientalista ma anche sociale. Voglio evitare che i giovani disoccupati siano trascurati, quando invece possiamo affiancargli persone che possano formarli.

Voglio far incontrare formatori e tirocinanti e dimostrare che si può tratte un mutuo beneficio da tale incontro. Vi sono più di 80.000 persone sopra i sessantacinque anni in Scozia che si sentono soli per la gran parte del tempo. Vogliamo creare un programma tutor-tirocinante in cui quelli con esperienza, i tutor più anziani con una formazione nel commercio e che sono a rischio esclusione e isolamento, possano lavorare fianco a fianco con i giovani tirocinanti, che devono affrontare i cambiamenti per riuscire a ottenere un lavoro. Insieme potrebbero catalogare e prendersi cura degli utensili, mostrare come utilizzarli e gestire parte dell’accoglienza del workshop.

Una volta acquisita sufficiente fiducia con il lavoro e capacità dimostrabili, possiamo lavorare insieme ai tirocinanti per scrivere il loro curriculum e aiutarli a trovare lavoro.

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Apre la Bottega dei piccoli

Il “non negozio” dove scambiare vestiti e giochi.
Con il motto “niente sprechi!” si inaugura a Roma il prossimo 19 marzo la bottega del baratto pensata per i bambini che vivono in casa famiglia e in famiglie indigenti. Iniziativa della Onlus Terra dei Piccoli.
Una bottega del baratto, o meglio un “non negozio” dove scambiare e regalare senza denaro beni nuovi e usati per bambini e ragazzi. Apre a Roma (in via Montaione 44) la Bottega dei piccoli. L’iniziativa è dalla Onlus Terra dei Piccoli, la sua inaugurazione è prevista per il prossimo 19 marzo.

Come funziona? Per 15 euro all’anno si sottoscrive una tessera associativa che dà diritto a uno scambi senza limiti. Ogni volta che si lascia qualcosa in cambio o in dono, il responsabile del negozio lo valuta e accredita sulla tessera magnetiche personale il valore in “good money”, le monete elettroniche “buone” che servono per gli scambi successivi. Tutto quello che non entra in negozio per problemi di spazio o perché richiesto da situazioni di disagio viene regalato.

Lo scambio sarà possibile solo tra gli associati alla onlus muniti di tessera, mentre i principali beneficiari dei beni sono i bambini che vivono in casa famiglia e i bambini di famiglie indigenti che la Onlus Terra dei Piccoli segue. “Abbiamo progettato questa iniziativa cercando di rispondere alle esigenze dei bambini che seguiamo – spiega la onlus -, mettendo attenzione alle preoccupazioni principali dei donatori”. Il motto dell’iniziativa è “Niente sprechi!”. “Riusare e condividere fa sfuggire alla discarica giochi, vestiti, scarpe e scarpine ancora nuovi, perché i bambini crescono in fretta e non fanno in tempo a consumarsi – aggiunge Terra dei piccoli -. Con gli scambi gli indumenti vengono usati più a lungo”.

La onlus garantisce, inoltre, che lo scambio o il regalo andrà veramente ai bambini in stato di bisogno, i cui stati di indigenza o di abbandono sono verificati e certificati dai servizi sociali pubblici. Fiorella Deodati, presidente di Terra dei Piccoli onlus, sottolinea che il “non negozio” si inserisce in un percorso tracciato da anni nella vista dell’associazione, che vuole proporre ai bambini e ai loro adulti di riferimento un modo nuovo per contrastare l’emarginazione, insieme alla riflessione sui temi della sostenibilità ambientale, sociale ed economica. “In Italia poco meno di 2 milioni di minori, quasi 1 su 5, vivono in condizioni di povertà relativa, cioè in famiglie che possono permettersi un livello di spesa modesto e comunque inferiore alla linea mediana nazionale (fissata nel 2014 in 1.698 euro per una famiglia di 4 persone) – sottolinea -. La capitale purtroppo amplifica questi numeri”.

“Siamo contenti ed emozionati” dichiara Francesca Accettella, responsabile del negozio, “dopo 4 anni, Terra dei Piccoli Onlus è riuscita finalmente a realizzare uno spazio interamente dedicato al dono e allo scambio. Si tratta di una soluzione per affrontare in modo ecologico le nuove povertà, ma anche per promuovere e sostenere l’attenzione allo spreco. Viviamo in città sempre più segnate dall’inquinamento e dalla povertà, soprattutto infantile. Crediamo che sia possibile scegliere con gesti concreti una maggiore sobrietà e rispetto per le cose, per l’ambiente e per i bambini.”

“Stimiamo che lo spazio riesca a permettere lo scambio e il dono, durante l’anno, di oltre 1.000 beni al mese; lavoriamo per arrivare all’autonomia finanziaria del negozio in tre anni”, sostiene Andrea Cippone, socio fondatore della Onlus. “Abbiamo scelto di insediare il negozio nel III municipio, una zona ad alta densità abitativa di minori, ma con un tessuto borghese ancora rilevante. Questo dovrebbe permettere ai genitori di poter disporre, potenzialmente, di molti più beni. Il locale che abbiamo affittato, grazie al supporto di alcuni cittadini e di un’azienda particolarmente attenta ai temi della difesa delle persone e dell’ambiente, è un po’ piccolo rispetto al potenziale di scambi che ci aspettiamo, ma è decisamente carino e colorato. Se riusciremo a convincere altri cittadini e la nuova amministrazioni dell’utilità del progetto. Siamo pronti a ingrandirci o ad aprire altri “non negozi”!”. “Tutti gli oggetti scambiati e donati saranno gestiti tramite un software appositamente realizzato e accessibile dagli associati anche dal web e tutte le “good money” saranno spese e accumulate in una tesserina magnetica che sarà consegnata a tutti i bimbi “ dichiara Fabrizio Fiore, volontario storico della Onlus e responsabile della digital innovation. La bottega resterà aperta il martedì e il giovedì dalle 15 alle 19 e il mercoledì e sabato dalle 10 alle 13.

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Così trasformiamo in sogni gli incubi delle periferie

Botto&Bruno: a Torino i due artisti ridisegnano lo spazio della Fondazione Merz con installazioni di forte impatto emozionale tra macerie, silos e vecchi film.
I torinesi Gianfranco Botto e Roberta Bruno, che formano l’ormai inscindibile marchio artistico Botto&Bruno, hanno incominciato a lavorare insieme nel 1992 sviluppando nel tempo (con lineare coerenza, duro realismo e poetica visionarietà) una ricerca incentrata sulle periferie delle grandi città. È l’esplorazione di un mondo travolto dalle contraddizioni e dai problemi più gravi dello sviluppo economico e urbanistico della società contemporanea; una costellazione di luoghi marginali degradati, di rovine architettoniche abbandonate, di macerie e spazi vuoti, ma anche un’affascinante e melanconica realtà impregnata dalla memoria di esperienze lavorative e esistenziali, collettive e individuali, suggestivamente rivitalizzata dal progressivo dilagare della natura selvatica.

Tutto questo è stato magistralmente messo in scena anche nello spettacolare progetto ambientale, «Society you are a crazy breed» (Società, sei una razza folle) una sorta di paesaggio fotografico che coinvolge in modo totale tutto il vasto spazio interno della Fondazione Merz. «La fondazione – dice Gianfranco Botto – è un luogo ideale per il nostro lavoro. Siamo stati affascinati dal fatto che si trattasse di un edificio industriale, un’ex-centrale termica. Abbiamo subito pensato di far rinascere in qualche modo la visione di quello che poteva essere qualche elemento essenziale dell’identità passata. La prima idea è stata quella di riportare in vita una cisterna di cui si vedono le tracce nel cortile esterno. E questa è la prima grande installazione, un silos, con le sue pareti interne circolari ricoperte di immagini fotografiche che riproducono dei vecchi muri in rovina invasi da una vegetazione anarchica, un luogo di immaginazione onirica».

Le altre due strutture ambientali, pensate anch’esse come «ristori dell’anima», sono da un lato un massiccio pezzo di muro aggettante da cui fuoriescono fogli di carta e scritte che fluttuano sulle pareti come tracce di anonime esistenze; e dall’altro, una bassa costruzione, estensione dell’architettura esistente, che accoglie il Cinema Lancia, in omaggio al vecchio stabilimento automobilistico, di cui la centrale termica faceva parte. Nella saletta interna c’è la proiezione in loop del video Kid World. «Nei territori periferici all’esterno non ci sono presenze umane – dice Roberta Bruno – e per questo abbiamo voluto proporre questo video che è un collage di spezzoni di film dove sono protagonisti dei bambini. Sono tratti da I 400 colpi di Truffaut, da Kes di Ken Loach, e da Il pane e il vicolo di Kiarostami, tre registi che amiamo moltissimo. La presenza dei bambini nella solitudine di questi luoghi desolati e inquietanti sono anche un segno di speranza nel futuro. La tecnica del cut-up è analoga a quella che usiamo anche per realizzare i bozzetti dei nostri paesaggi urbani, che sono un montaggio di moltissime foto prese in luoghi diversi e combinate insieme per formare delle scene apparentemente realistiche, ma con prospettive un po’ falsate e destabilizzanti, che producono nelle immagini ingigantite, con tutti i particolari a fuoco, delle visioni sospese con effetti stranianti».
Il titolo della mostra (che è anche quello del paesaggio virtuale sulle pareti e i pavimenti) è una citazione dal brano musicale di Eddie Vedder, colonna sonora del film Into the Wild, è un appassionato monito contro le possibili folli derive della società, contro i rischi purtroppo molto concreti di disastri sociali e ecologici.
Nel lavoro di Botto&Bruno ci sono vari significativi riferimenti , tra cui in particolare all’antropologia delle rovine esplorata da Marc Augé (Rovine e macerie. Il senso del tempo) e alle considerazioni sul «terzo paesaggio» di Gilles Clement. «Con Clement – conclude Botto – condividiamo la fascinazione per i processi di riappropriazione di luoghi, angoli e interstizi urbani da parte di erbe e piante che crescono spontaneamente. Ci ha interessato un suo articolo su Cernobil, che parla della rigogliosa esplosione vegetale nei terreni devastati dalla contaminazione radioattiva».

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Smart City, al via il primo programma di intervento del MISE

Quartieri-pilota e smart grid
Si parte con 65 milioni di euro in progetti innovativi pubblico-privati.
Rafforzare la dotazione infrastrutturale delle città italiane, attraverso Smart Grid interconnesse con le infrastrutture di banda larga, e potenziare la capacità dell’industria di rispondere ai fabbisogni di servizi innovativi espressi dalle Smart City, grazie a quartieri-pilota in cui verranno sperimentate soluzioni non ancora presenti sul mercato.

Questo l’obiettivo del primo programma di intervento del Ministero dello Sviluppo Economico per le Città Intelligenti, lanciato con la firma, da parte del Ministro Federica Guidi, dell’Atto di Indirizzo in materia di Smart City. Il programma ha una dotazione iniziale di 65 milioni di euro.

Progetti innovativi pubblico-privati

Il Mise ha deciso di puntare su progetti pubblico-privati ben identificati e misurabili, sia nelle risorse occorrenti che nella loro sostenibilità, grazie anche ad un confronto continuo con le Città e con gli stakeholder privati, dedicando iniziali 65 milioni di euro all’attivazione di due specifiche misure: la prima, finalizzata alla promozione di infrastrutture e servizi energetici efficienti e connessi nelle aree urbane; l’altra all’attivazione di appalti pre-commerciali di grandi dimensioni in risposta ai fabbisogni più innovativi espressi dalle amministrazioni.

Il programma prenderà avvio dalle aree metropolitane, grazie alla stretta collaborazione avviata in queste settimane con il Coordinatore Anci delle Città Metropolitane, Dario Nardella.

Primo incontro con i rappresentanti delle città metropolitane

Ieri si è tenuto, presso il Ministero dello Sviluppo Economico, il primo incontro con i rappresentanti delle Città Metropolitane, alla presenza del Sottosegretario di Stato con delega alle Smart City, Antonio Gentile, che ha sottolineato come “le Smart City rappresentino un contesto particolarmente favorevole alla sperimentazione di misure in grado di generare crescita con occupazione, perché è in esse che le tecnologie digitali possono incrociarsi con infrastrutture innovative, nuovi servizi e migliori sistemi di efficientamento energetico. Grazie agli investimenti che il Programma metterà in moto, si potrà generare non solo un significativo impatto su qualità della vita, crescita economica ed occupazione, ma rendere l’Italia un paese attrattivo per la sperimentazione dei più evoluti modelli di Smart City da parte di aziende multinazionali e delle eccellenze italiane”.

Esponendo ai rappresentanti di Anci e Città Metropolitane il contenuto dell’Atto di Indirizzo, il Capo di Gabinetto del Ministro dello Sviluppo Economico, Vito Cozzoli, ha ribadito come “l’obiettivo del Ministero sia quello di trasformare l’Italia in un Paese attrattivo per sviluppare una industria delle Smarter City. I quartieri-pilota, definiti d’intesa con le Città Metropolitane, consentiranno da un lato di promuovere Smart Grid di nuova generazione, facendo leva anche sui nuovi investimenti in Banda Ultra Larga; dall’altro di accelerare Servizi e Dispositivi Smart, anche attraverso la valorizzazione di Open e Big Data, generando così un percepibile miglioramento della qualità della vita per i cittadini e del contesto operativo per le imprese. Le soluzioni tecnologiche che finanzieremo diverranno un’ulteriore eccellenza che l’Italia potrà esportare nel mondo”.

Consultazione con gli operatori privati

Nei prossimi giorni, il Ministero avvierà una consultazione con gli operatori privati nei settori It, Energia e Tlc, finalizzata alla realizzazione condivisa delle Linee Guida per i progetti.

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