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RomArchè, una app per scoprire l’archeologia in periferia

Geolocalizzazione per creare mappe interattive che identificano i punti d’interesse più vicini e calcolano i percorsi. Nella app, aperta al contributo dei cittadini, anche informazioni su osterie e ristoranti, gallerie d’arte, musei e monumenti.
Dalle Mura Aureliane al Raccordo Anulare, lungo le antiche arterie viarie romane, per scoprire l’archeologia di periferia. È “RomArché”, il progetto multimediale che diventerà un sito web e una app per smartphone, sfruttando la geolocalizzazione per creare delle mappe della città interattive che identificano i punti d’interesse più vicini alla posizione dell’utente e calcolano i percorsi per raggiungerli. L’attenzione sarà focalizzata su tre aree tematiche: le strade, gli acquedotti e le fontane, e infine la Roma sotterranea. A guidare cittadini e turisti, saranno le principali strade, dalla Prenestina all’Ardeatina, fino alla Portuense, costellate da tesori antichi spesso dimenticati, che diventeranno delle schede multimediali con foto e descrizioni scientifiche.

La partecipazione. Il progetto – nato in seno al mensile archeologico “Forma Urbis” e alla fondazione Dià Cultura – diventerà accessibile solo a novembre, con l’app e il sito in italiano e inglese, fruibili gratuitamente. Ma in realtà lo sviluppo è già partito da mesi, perché la mappatura è in fase avanzata e oggi si apre al dialogo con i cittadini, accogliendo suggerimenti e segnalazioni all’indirizzo mail ad hoc info@diacultura.org. Infatti, oltre ai segreti archeologici, gli itinerari proposti saranno delle vere e proprie guide ai rispettivi quartieri, segnalando gli indirizzi di osterie e ristoranti storici dove fermarsi per una pausa golosa, ma anche associazioni attive sul territorio, gallerie d’arte e musei, oltre a monumenti contemporanei e moderni.

Gli itinerari. «Così l’archeologia di periferia diventa una chiave per far conoscere, anche a chi li abita, quartieri spesso dimenticati – spiega Simona Sanchirico della fondazione Dià Cultura – e grazie al contributo dei fruitori “RomArché” diventerò un progetto in continuo divenire, aggiornabile in ogni momento anche dopo la sua messa online». Allora il tracciato protostorico delle attuali vie Prenestina e Casilina, inevitabilmente prende il via da Porta Maggiore e dalla sua Basilica Sotterranea, per poi toccare il mausoleo di Elena e le catacombe dei Santi Marcellino e Pietro, ma anche il parco archeologico di Centocelle e il sepolcro di largo Preneste, spesso oscurato alla vista dei passanti dal brulicare di traffico, pedoni e caos della piazza. «L’obiettivo è quindi unire il centro alle periferie attraverso passeggiate ricche di storia e cultura, ma in maniera non convenzionale, capace di guardare anche al presente e connetterlo al passato», continua Sanchirico, spiegando l’aggettivo del sottotitolo dato al progetto: “archeoguida inconsueta delle periferie di Roma”.

La rassegna. Ma la chiamata a raccolta degli appassionati di archeologia, già
da subito invitati a segnalare i tesori nascosti del proprio quartiere, coincide anche con la settima edizione del Salone dell’editoria archeologica, in programma dal 26 al 29 maggio nei suggestivi spazi delle Terme di Diocleziano. Qui decine di case editrici del settore saranno protagoniste in un calendario di rievocazioni storiche, mostre, visite guidate sperimentali, laboratori e performance, secondo il filo conduttore dell’edizione di quest’anno, dedicata al Tempo.

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Piano Nazionale per la prevenzione della dispersione scolastica nelle periferie

Con D.M. n. 273 del 27.04.2016 sono stati stanziati 10.000.000,00 di euro (dieci milioni) per la realizzazione di interventi per la prevenzione della dispersione scolastica nelle zone periferiche delle città metropolitane caratterizzate da elevato tasso di dispersione scolastica.

Il Decreto riporta i criteri stabiliti e le modalità per l’avvio di un programma sperimentale di didattica integrativa e innovativa da realizzare in orario extra-curricolare nelle istituzioni scolastiche statali di ogni ordine e grado delle aree delle città metropolitane di Roma, Milano, Napoli e Palermo.

Le istituzioni scolastiche sono chiamate a candidarsi per ricevere un finanziamento, nel limite massimo di euro 15.000,00 (quindicimila), presentando un progetto di didattica integrativa e innovativa attraverso attraverso la compilazione del formulario online disponibile per le Istituzioni Scolastiche all’interno dell’area riservata.

Per accedere all’area riservata del sito, le istituzioni scolastiche dovranno utilizzare la medesima password assegnata per l’inserimento dei progetti per le “Aree a rischio”. In caso di smarrimento o non possesso della password potrà essere utilizzata l’apposita funzione “Richiedi Password”.

Il formulario online sarà modificabile fino alla data di chiusura della piattaforma – 20 giugno p.v.. Oltre la data di chiusura non saranno ammesse richieste di modifica per alcun motivo.

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La città invisibile

Tutto sommato non è passato molto tempo da quando autorevoli pensatori profetizzavano la fine delle città. Grazie alla rivoluzione digitale, con la globalizzazione che accorciava le distanze e connetteva tutti, ci spiegavano, ognuno avrebbe potuto vivere, lavorare, socializzare, senza muoversi dalla sua tenda nel deserto o dal suo sperduto eremo in montagna. E forse non avremmo più nemmeno sentito il bisogno di viaggiare, frequentando quotidianamente, attraverso internet, le persone e i luoghi più lontani, con il semplice ausilio di una webcam e di un microfono.

La storia è andata in un’altra direzione. E non solo perché un cittadino romano e un aborigeno australiano, su internet, non avevano poi molto da dirsi, come notava già Corrado Guzzanti in un memorabile sketch. L’evoluzione tecnologica ha semmai aumentato la centralità delle città, facendone gli epicentri della competizione economica globale: la sfida tra sistemi urbani si è fatta sempre più dura. Coltivare e attrarre capitale umano, intercettare flussi commerciali e finanziari, garantire una moderna rete di servizi sono divenuti obiettivi strategici di tutte le principali metropoli occidentali. La gerarchia delle città è cambiata. Alcune, a tutto questo, hanno pagato un prezzo altissimo – come la Detroit raccontata dal nostro Sergio Pilu nel numero 2 di Left Wing («Mercato») – altre, invece, ne hanno saputo trarre le risorse per crescere e modernizzarsi. Erano e restano, in ogni caso, il simbolo della società occidentale e delle sue contraddizioni, come ci hanno brutalmente ricordato i nuovi terroristi che dalle Torri gemelle di New York all’aeroporto di Bruxelles, passando per Madrid, Londra, Parigi, Istanbul, per sfidare l’occidente ne hanno colpito le capitali, spargendo sangue nei luoghi della nostra quotidianità.

Così ancora una volta la città è diventata il luogo della paura. Nulla di nuovo. Come scrive in questo numero Marco Filoni, la città, sia essa «immaginaria, antica o moderna, ha nella paura un dispositivo del suo funzionamento e della sua realizzazione». Se non fosse che questa volta il nemico non viene da fuori, ce l’abbiamo in cantina, e spaventa per questo molto di più: «È il nemico che non si vede e che alimenta il sospetto, il senso di persecuzione, a essere una minaccia per la città perché rimette in causa le sue strutture e architetture».

È proprio questo che oltre a spaventare ferisce di più la coscienza dell’occidente: i nuovi terroristi non vengono da fuori – nonostante populisti a caccia di facili consensi vorrebbero raccontarla così – ma sono figli delle nostre città, dei suoi nuovi conflitti e delle sue crescenti esclusioni. Perché non è cresciuta la distanza solo tra le città che ce l’hanno fatta e quelle che sono rimaste indietro. Anche all’interno dei centri che si contendono la leadership globale si è squarciato il tessuto della coesione: centri storici tirati a lucido, quartieri bene dedicati al business e al turismo, convivono, sempre meno serenamente, con periferie degradate e veri e propri quartieri ghetto abbandonati a se stessi.

Non è successo per caso: abbiamo raccontato nel numero che abbiamo dedicato al «mercato» le ragioni della crisi, misurando i danni dell’egemonia di un pensiero di destra che tanti guasti ha prodotto anche a sinistra. La scomparsa della parola «eguaglianza» dal nostro vocabolario, la rottura del nesso tra soggettività politica e lavoro, la conseguente auto-esclusione di un numero crescente di persone dai processi di rappresentanza. Nelle città dell’era fordista il rifiuto dell’ingiustizia individuale trovava luoghi in cui aggregarsi, come la fabbrica – dalla quale non a caso ci siamo messi in viaggio col nostro numero zero – e qui trovava, o si costruiva, gli strumenti per una battaglia di emancipazione collettiva, che era anche una scuola di democrazia.

Dopo la lunga stagione dell’egemonia liberista, con partiti, sindacati, associazioni e movimenti ridotti all’ombra di quel che furono, le città sono divenute terreno di coltura ideale per quel mix di esclusione e paura che alimenta populismi e spinte disgregatrici. E che ha finito per offrire nuovi soldati all’esercito del terrore.

Non è un caso se la città nasce intorno ai suoi luoghi pubblici. Paul Zanker cominciava il suo celebre saggio su Pompei spiegando che lo spazio pubblico è sempre stato un palcoscenico che la società si crea secondo le esigenze dell’epoca: «Non importa se siano stati interessi politici, sociali o economici a determinare le decisioni, numerose e tra loro indipendenti, che hanno preceduto le singole realizzazioni: l’immagine urbana che ne risulta offre in ogni caso allo storico l’autorappresentazione autentica di una società. In quanto palcoscenico e spazio della vita quotidiana, infatti, gli edifici pubblici, le piazze, le strade, i monumenti, così come le case e le necropoli con le rispettive decorazioni figurate, sono nel loro insieme un elemento sostanziale dell’autorealizzazione di chi in quello spazio vive. Proprio perché tali immagini urbane vengono a formarsi attraverso un complesso intreccio di singole decisioni, alla cui base sono anche interessi contrastanti, esse ci dicono molto sull’autocoscienza di una società».

Nelle ex borgate romane cresciute negli anni in cui si affermava l’egemonia liberista, per incontrare una piazza bisogna prima incrociare cento strade. Ognuna di quelle piazze è dunque un punto di riferimento per più di diecimila persone. Semplicemente, lo spazio pubblico non serviva più, contava solo la soddisfazione dell’interesse privato. Alle piazze si sostituiva il giardino della villetta unifamiliare, tipico modello abitativo di quei nuovi quartieri spesso abusivi che si moltiplicavano consumando suolo e disperdendo risorse collettive, ma creando rendita individuale.

Le nuove periferie sono figlie di un modello diverso, ma pagano anch’esse il costo dell’accrescersi della diseguaglianza: più povere, con servizi di qualità inferiore, spesso scollegate dai centri produttivi dove si crea lavoro. Nuovi luoghi di emarginazione e solitudine. Non per niente, come ha notato Papa Francesco, la solitudine è la cifra di questa modernità.

D’altra parte, se il mondo di oggi è guasto, è perché la politica ha smesso di fare il suo mestiere, lasciando il campo ad altri poteri. E questo è tanto più vero per quanto riguarda il tema a cui dedichiamo questo numero: quando più ci sarebbe stato bisogno di lei, la politica ha lasciato il dibattito sulla città ai sociologi e agli urbanisti. E forse questo è il segno più grande del suo fallimento, perché la politica nasce nella polis e dalla polis, invece, ha finito per auto-ostracizzarsi. Il risultato è che è rimasta solo l’urbs – la città nella sua forma urbana – ed è scomparsa la civitas, la comunità umana che ne costituisce la ragione e l’anima. In questo senso sì, ahinoi, hanno finito per avere ragione i profeti che ne annunciavano la scomparsa. Ma non sarebbe giusto rassegnarsi a quest’esito, perché nelle nostre città, in quelle periferie dimenticate, ci sono i problemi ma anche i germi della rigenerazione. «Ci sono frammenti di città felici che continuamente prendono forma e svaniscono, nascoste nelle città infelici», come scriveva Italo Calvino nelle Città invisibili. È nelle faglie aperte dai nuovi conflitti che può sprigionarsi una forza, un’energia nuova che ha però bisogno che la politica torni a incanalarla e a disciplinarla. E in fondo è questa la sfida che ci siamo proposti, il filo rosso che ha tenuto insieme la costruzione della piccola città ideale di Left Wing: l’idea che ancora e nonostante tutto sia possibile immaginare una città, una modernità e una politica che non siano solo una somma di angosciate solitudini.

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Pezzi

“Pezzi” verrà proiettato di nuovo giovedì 19 maggio alle ore 19:00 presso il padiglione del “Museo della mente” all’interno del “Santa Maria della Pietà”(ex manicomio di Roma) in Piazza Santa Maria della pietà 5.
Quella Roma fragile delle periferie che ti fa male come un pugno.
Il film di Luca Ferrari sul volto tumefatto dei margini di una città.
“Credo nei film che hanno una valenza critica e culturale. Come è avvenuto con “Pezzi” di Luca Ferrari, uno dei film che mi ha fatto più male”, ha detto Valerio Mastrandrea produttore del film in un’intervista a L’Espresso in cui racconta di Showbiz, il nuovo documentario di Ferrari che ha prodotto con Kimerafilm. “A fine riprese, sono subentrato nella produzione perché credevo nella capacità del regista di narrare un mondo che nessuno racconta”. Male. “Pezzi” fa male, ecco. La realtà che ci racconta, fa male. Storie di droga, di delinquenza, di morte. Storie di dolore che arrivano violente come un pugno sul volto.

Margini. Storie di chi non ce la fa, di chi rimane incastrato nella durezza della sua marginalità, di chi non riesce a uscire dall’angolo di inferno che si è scavato. Incastrati come pezzi di un puzzle mostruoso. Eppure così umano. Lontani dal frastuono della grande città, lontani dai problemi con cui Roma affligge i suoi figli, il traffico, la confusione, la disorganizzazione amministrativa e burocratica, lontani dai palazzi della politica e di quel che resta della maestosa bellezza della Città Eterna, c’è chi cerca solo di sopravvivere alla maniera che conosce e che di questa Roma ignora l’esistenza.

Scorrono immagini cupe, dure, forti, violente, sporche. Come sporche sembrano allo spettatore distratto le vite di questi reietti. Ma le riprese così strette, così vicine, così “dentro”, costringono a immergersi in una realtà estranea, a parteciparvi, a viverla. Per questo è impossibile volgere lo sguardo altrove. Impossibile non rimane toccati dalla straordinaria bellezza di queste anime perse che dall’angolo più oscuro della loro marginalità, inchiodano la nostra indifferenza, scavano negli abissi della nostra anima, ci costringono a stare in ascolto. Dolori che sono quelli di tutti, ma che nel buio della periferia che “Pezzi” ci mostra, fanno più male.

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L’incubo di Corviale, gomito a gomito in 8.500

Un chilometro di cemento e degrado alla periferia di Roma: Corviale è il simbolo della cattiva amministrazione cittadina, che da anni non riesce a prendere in mano la situazione. Siamo andati a vedere, e abbiamo chiesto ai candidati sindaco di offrire le loro soluzioni.
A guardare questo “Serpentone” che contiene 1200 famiglie, ci si chiede a cosa pensavano gli architetti che si sono testati sull’emergenza abitativa romana negli anni ‘70. Come può essere una buona idea pigiare in un unico mostro di cemento 8500 vicini di casa, anime afflitte dalla vita?

La risposta l’hanno avuta negli anni le amministrazioni comunali che si sono succedute, perché Corviale, con il suo serpentone è diventato simbolo del disagio e dei problemi delle periferie romane, il nodo che fino ad oggi nessun sindaco è riuscito a sciogliere. Qualche giorno fa le istituzioni hanno deciso di venire qui, a Corviale, a portare promesse. Lo ha fatto la presidente della Camera Laura Boldrini che ha visitato due famiglie del “serpentone”, invitata da Massimo Vallati, fondatore del Calciosociale, e Alessio Lucci , «Mi hanno accompagnato a visitare il quartiere e con loro sono andata nelle case di alcune famiglie. Ho incontrato la direttrice della biblioteca Giovanna Micaglio che mi ha presentato giovani e volontari coinvolti nell’attività della struttura, ho parlato con le bimbe che fanno danza e gli anziani che fanno corsi di pittura all’associazione culturale Mitreo animata da Monica Melani, ho ascoltato il coro di Giorgia Bassano al Campo dei miracoli, struttura sportiva all’avanguardia, anche architettonicamente, dove il riscatto si fa azione attraverso sport, legalità e inclusione». Ma non tutti sono d’accordo qui, dove quasi il 50 per cento delle case sono occupate abusivamente e dove dilaga l’illegalità.Il quarto piano fu costruito per ospitare negozi. Oggi è «il piano degli abusivi», a nulla sono servite due sanatorie.

Lidia, Marina, Francesca, sono madri che lottano ogni giorno. Con i soldi che non ci sono, con il quartiere che offre solo pericoli ai loro figli, con il lavoro che non c’è. Sono occupanti. Da molti anni, alcune da 20, e un po’ se ne vergognano: «So che non è una cosa bella, ma non è bello neanche non avere dove andare a dormire», dice Michela. «Se avessi avuto alternative non avrei occupato….». Adesso vorrebbero trovare un accordo con l’Ater, una sanatoria che permettesse loro di rimanere e avere un tetto. Fino ad oggi non è stato possibile. Le donne mostrano le lettere che arrivano ogni mese e che richiedono i canoni di affitto maggiorati dalle multe per l’occupazione abusiva. Bollette da 900, 100 anche 1200 euro al mese. «Ma come pensano che potremmo mai pagare una somma del genere?», dicono. «Noi vogliamo pagare, ma il giusto, quello che possiamo. Questa è una presa in giro». E certo Manuela, che vive in una cantina senza bagno dopo la separazione dal marito, non può pagare questa somma.

Il rappresentante degli inquilini regolari preferisce non dire il nome e preferirebbe anche non esprimersi: «mi hanno bruciato auto e garage, non vorrei avere altri guai…». Lui di verità ne racconta un’altra. Dice che molti degli occupanti non hanno nessuna intenzione di mettersi in regola, «a loro va bene così, rimanere nell’ombra, occupare, rubare elettricità». «Queste signore che adesso fanno il pianto greco», dice, «in realtà stanno bene come stanno. Noi dobbiamo pagare ogni mese i servizi di questo condominio e loro invece no e quindi non hanno nessun interesse a mantenerlo decoroso». Duecentomila gli euro che vengono spesi ogni anno solo per riparare gli ascensori.

Una lotta tra poveri che nessuno media. Come nessuno risolve il problema degli spacciatori che circolano liberamente nel corridoio chilometrico che collega le varie scale. E le mamme se vogliono che i loro figli giochino nel cortile o nel parchetto che sta di fronte devono prima raccogliere le siringhe. Non esiste più il parco giochi, da sette anni la scuola di fronte al palazzone è chiusa, nessuna alternativa alla strada per i più piccoli che vogliono giocare. Anche il «calcio sociale», l’associazione che ha invitato la Boldrini, poi si scopre che tanto sociale non è. Certo fanno un torneo gratuito, ma i ragazzini che vogliono fare sport devono pagare una retta. Le mamme fanno vedere bollette che vanno dai 60 agli 80 euro al mese. «Io ne guadagno 280 al mese, mio marito è disoccupato, ma come facciamo a pagare?», dice Nadia. Adesso 22 milioni di euro sono pronti per la riqualificazione di Corviale. La speranza che qualcosa cambi. E speriamo che Corviale prenda Il volo «e si tiene il cappello con le mani accanto a una donna che prega l’eclissi di periferia», come canta Max Gazzè che a questo luogo ha dedicato una canzone.

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Radio Freccia Azzurra

La Radioscuola delle bambine e dei bambini. Progetto e sperimentazione didattica ideata dal Circolo Gianni Rodari Onlus e dall’ Associazione Matura Infanzia, in collaborazione con l’ Istituto Comprensivo A. Gramsci – Scuola primaria G. Perlasca.
Stanno arrivando……mettetevi all’ascolto!!

Eccoli i radiologi della scuola Perlasca! Stanno arrivando.
Ancora tre giorni e potrete ascoltare il martedì e il giovedì su Radio Freccia Azzurra https://www.spreaker.com/user/radiofrecciaazzurra tutte le cose fantastiche che hanno creato per il nuovo palinsesto.

In questi ultimi mesi, Adriano, Alessandra, Elena, Elisa, Emanuele, Flaminia, Giulia, Jacopo, Leonardo, Lorenzo, Luca, Michela, Massimiliano, Mauro, Said, Sara, Simone, Sofia, Valentino, Valentino Manuel, Valerio hanno letto, commentato, consultato testi scritti e testi on line, discusso, ascoltato, scritto, imparando ad esprimere le proprie idee ed emozioni.
Chi si sintonizzerà su Radio Freccia Azzurra potrà ascoltare piccole storie inventate, scoprire animali fantastici, seguire vere e proprie lezioni di epica, di matematica, di disegno, di musica; esplorare il mondo esterno alla scuola Perlasca o conoscere personaggi che sono stati invitati in classe; potrà ridere con le pubblicità fantasiose e conoscere l’oroscopo dedicato a chi va a scuola; sperimentare nuove ricette, ascoltare interviste impossibili o seguire la presentazione di un libro e il ricordo di una canzone; scoprire insieme ai radiologi della scuola Perlasca i misteri della dislessia, ragionare sul terrorismo, conoscere il punto di vista dei ragazzi sul bullismo e approfondire i loro consigli.

Cari ragazzi, Insieme a Matteo vi ho seguiti settimana dopo settimana, voi e le vostre splendide maestre Daniela, Bellina, Marta, Alessia assistendo alla vostra “crescita e trasformazione” fisica, emotiva ed intellettuale: avete “spalancato” le finestre dell’aula, osservando, ragionando e cooperando, superando confini e limiti che sembravano impossibili, discutendo anche animatamente.
Avete capito che potevate imparare tante cose divertendovi e che le materie scolastiche non erano più noiose.
Consultare i libri, fare domande e interrogarvi, vi ha permesso di crescere e di esprimere meglio le vostre opinioni su quello che succedeva nel mondo “vicino” e “lontano”.
Avete anche imparato a fare da tutori, con le maestre Anna e Giulia, ai bambini della prima elementare, e con la maestra Nadia a quelli delle classi terza e quarta, che hanno scoperto con voi il mondo della radio.
Un’esperienza che chiuderà un ciclo di studi e vi proietterà con tanti ricordi ed esperienze verso la scuola media e verso nuovi traguardi, ma sempre …collegati con la radio!!.

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Sharing economy, parte la discussione sulla legge: Airbnb sì, Uber no

Il testo composto da 12 articoli incardinato alle commissioni riunite Trasporti e Attività produttive. Antonio Palmieri, uno dei firmatari del provvedimento: «Puntiamo a ottenere un duplice vantaggio: da una parte ridurre l’evasione e l’elusione fiscale, dall’altra mettere un freno a fenomeni di concorrenza sleale».
Parte alla Camera nelle commissioni congiunte alle Commissioni riunite IX Trasporti e X Attività Produttive l’esame parlamentare dell’atto 3564 battezza “Disciplina delle piattaforme digitali per la condivisione di beni e servizi e disposizioni per la promozione dell’economia della condivisione” più nota come legge sulla sharing economy.

In Italia secondo uno studio di Collaboriamo.org e dell’università Cattolica le piattaforme collaborative nel 2015 sono 186 (+34,7 per cento rispetto al 2014) e, nota l’onorevole Antonio Palmieri (Forza Italia) secondo firmatario della proposta di legge e animatore dell’intergruppo per l’innovazione tecnologica, «ormai un quarto degli italiani si serve di questo genere di strumentazioni».

Antonio Palmieri: “vogliamo agevolare questo tipo di economia creando un meccanismo win-win sia per chi mette in condivisione, sia per chi fruisce del servizio», distinguendo in modo netto fra operatori professionali e chi invece utilizza la sharing economy come integrazione del reddito”

La norma ad oggi si compone di 12 articoli.
L’articolo 1 detta le finalità della legge, sostanzialmente favori l’economia della condivisione, mentre a delimitare il perimetro è il secondo articolo in cui dall’economia della condivisione sono escluse « piattaforme che operano intermediazione in favore di operatori professionali iscritti al registro delle imprese».

«L’obiettivo», spiega, Palmieri, «è quello di agevolare questo tipo di economia creando un meccanismo win-win sia per chi mette in condivisione, sia per chi fruisce del servizio», distinguendo in modo netto fra operatori professionali e chi invece utilizza la sharing economy come integrazione del reddito». Per questo all’articolo 5 si prevede un diverso trattamento a seconda del volume di affari: «…Ai redditi fino a 10.000 euro prodotti mediante le piattaforme digitali si applica un’imposta pari al 10 per cento. I redditi superiori a 10.000 euro sono cumulati con i redditi da lavoro dipendente o da lavoro autonomo e a essi si applica l’aliquota corrispondente.». «In questo modo», è ancora il deputato azzurro che parla, «favoriamo chi mette a disposizione una stanza, ma teniamo fuori gli affittacamere che magari si servono di piattaforme tipo Airbnb o servizi sul genere di Uber». Con questo filtro «dovremmo ottenere un duplice vantaggio: da una parte ridurre l’evasione e l’elusione fiscale, dall’altra mettere un freno a fenomeni di concorrenza sleale».

Infine altri due passaggi qualificanti del Pdl: le piattaforme della condivisione dovranno iscriversi a un Registro elettronico nazionale tenuto dall’ L’Autorità garante della concorrenza e del mercato (articolo 3) e dovranno trasferire all’istat tutte le informazioni statistiche su utenti – naturalmente senza violare il diritto alla privacy – e fatturati (articolo 9) «in modo da costruire un quadro attendibile del peso economico della sharing economy in Italia», conclude Palmieri.

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Il futuro della sharing economy passa dalle cooperative

Se gli autisti di Uber invece di scioperare si auto-organizzassero come i fotografi del sito Stocky? Ecco come il platform cooperativism può cambiare davvero la vita dei freelance

Nel giro di pochi anni, il sogno di una “rivoluzione economica” basata sulla sharing economy si è trasformato nella on-demand economy. Da Couchsurfing a AirBnb, da BlaBlaCar a Uber: nelle differenze tra queste piattaforme c’è tutta la parabola che porta dall’immaginare un mondo in condivisione all’affrontare una realtà spesso fatta di assenza di diritti, bassi salari e cancellazione del welfare.

Ma siccome a ogni azione corrisponde una reazione, anche il sogno infranto della sharing economy ha dato vita alla nuova utopia del platform cooperativism, in cui alla logica della solidarietà che da sempre contraddistingue il cooperativismo si uniscono le opportunità della rete e di alcune tecnologie dalle potenzialità ancora in buona parte inesplorate.

“Si tende a considerare il platform cooperativism come una cosa di sinistra, ponendo l’accento sulle sue caratteristiche più vicine alla tradizione socialista, ma è una forma che attrae anche gli iper-liberisti.

È una realtà che supera la dicotomia destra-sinistra, perché sono cambiati i paradigmi e i meccanismi classici non si applicano più”, spiega Bertram Niessen, direttore di cheFare, una delle prime realtà in Italia a occuparsi del tema.

Fondamentalmente, l’obiettivo è quello di applicare alle piattaforme della sharing economy le logiche della auto-organizzazione. Pensate a come funzionerebbe Uber se tutti coloro i quali ne fanno parte fossero in cooperativa, condividendone valore, rischi, guadagni e avendo l’opportunità di decidere assieme la policy che regola la piattaforma (che è esattamente come funziona la start up La’zooz).

Facile a dirsi, più difficile a farsi. Soprattutto visto che, come sottolineato su CoExist, “Uber e AirBnb non sono diventate quello che sono grazie solo ai loro meriti, ma grazie anche a un ecosistema di investimenti ad alto rischio, incubatori, incentivi governativi e conferenze tech. (…) Il platform cooperativism ha bisogno di imprenditori che vogliano vedere la loro idea diventare un bene sostenibile, non solo un motore di profitti esponenziali e ricerca a tutti i costi della scalabilità”.

Le difficoltà non hanno però impedito a concrete realtà di platform cooperativism di sorgere e di provare a consolidarsi sul mercato. Uno dei casi più celebri è quello di Stocksy, un’agenzia fotografica basata su principi cooperativi fondata nel marzo 2013 da Brianna Wettlaufer e Bruce Livingstone.

stocky

Il concetto alla base è molto semplice: la cooperativa è gestita dagli stessi fotografi, che mantengono il 50% dei profitti generati dalla vendita dello foto e che, soprattutto, ricevono un dividendo dei guadagni alla fine di ogni anno. Con il risultato che, alla fine del 2015, Stocksy aveva redistribuito oltre 4 milioni di dollari in royalties ai suoi circa mille fotografi e raddoppiato il fatturato fino a 7,5 milioni di dollari.

“Il momento è quello giusto per andare nella direzione di una comunità solidale, in cui tutte le voci sono ascoltate e in cui un’equa distribuzione dei profitti consenta al maggior numero possibile di persone di beneficiarne, non solamente ai soliti pochi prescelti. Il platform cooperativism può diventare incredibilmente potente, capace anche di sfidare grandi corporation”, spiega a Wired Brianna Wettlaufer di Stocksy.

Più complesso e ancora in attesa di consolidarsi sul mercato è invece il caso di Fairmondo, fondata in Germania nel 2012 da Felix Weth, Anna Kress e Bastian Neumann e immediatamente soprannominata

“ l’alternativa cooperativa ad Amazon ed eBay ”

Un mercato online gestito in maniera solidale e che promuove (anche) società del commercio equo-solidale ed etico. Per fare un esempio, tra i prodotti più spinti in questo periodo c’è il nuovo Fairphone: “Il 2015 è stato un anno difficile, ma adesso ci siamo rafforzati e stiamo preparando l’espansione internazionale, con dei team che lavoreranno in Gran Bretagna e negli Stati Uniti“, ci racconta il fondatore della piattaforma, Felix Weth.

“Vogliamo essere parte del futuro di internet, in cui le piattaforme si organizzeranno in cooperative democratiche, trasparenti, possedute dagli utenti stessi. È un modello molto migliore di quello basato sulle grandi corporation e sulle startup rette dai soldi degli investitori”.

fairmondo

I soldi per lo sviluppo del software e l’espansione della piattaforma non vengono, per policy interna, dai venture capitalist, ma attraverso crowdfunding e grazie allo sforzo dei soci della cooperativa: “Le platform coop stanno avendo difficoltà a trovare finanziamenti in un ecosistema che andrebbe ripensato. Dobbiamo trovare soluzioni più innovative e più intelligenti, che portino risorse alle società che offrono il lavoro più utile alla società, non a quelle che estraggono il massimo del valore dalla società”, continua Felix Weth.

La strada, quindi, è ancora in salita. Senza contare le difficoltà a cui si va incontro necessariamente quando bisogna coordinare una proprietà distribuita e gestire gli affari in maniera cooperativa. Da questo punto di vista, però, un grosso aiuto potrebbe arrivare da una tecnologia che sembra davvero avere le potenzialità per cambiare il mondo del lavoro: blockchain, il meccanismo alla base dei Bitcoin.

blockchain

Un database distribuito, che sfrutta la tecnologia peer-to-peer, in cui chiunque può diventare un “nodo” del meccanismo scaricando l’apposito programma. Una sorta di libro contabile in cui sono registrate tutte le transazioni, che devono ricevere l’approvazione del 51% dei nodi. Il sistema di verifica distribuito permette quindi di saltare qualsiasi autorità centrale.

“Il platform cooperativism non dipende necessariamente dalla blockchain, ma le due cose vengono sempre più frequentemente associate per le possibilità che blockchain offre di automatizzare e certificare i passaggi necessari, aspetto che diventa decisivo in cooperative che magari hanno soci e attività in ogni angolo del mondo”, spiega il direttore di cheFare Bertram Niessen.

Una delle applicazioni più promettenti è quella degli smart contracts: contratti automatizzati sui quali, grazie alla blockchain, le clausole contrattuali (pagamenti, tempistiche, royalties ecc.) vengono automaticamente corrisposte. Ma ci sono applicazioni molto interessanti anche per il mondo dell’arte e della fotografia; nel caso dell’agenzia fotografica Stocksy, l’utilizzo della blockchain permetterebbe alle fotografie di portare con sé, in qualsiasi passaggio, tutte le informazioni necessarie: autore, prezzo, condizioni. Così, a ogni download, le royalties e i pagamenti previsti verrebbero immediatamente versati direttamente all’autore, senza più attese, controlli e soprattutto utilizzi pirata dell’opera stessa.

“Grazie alla blockchain si potrebbero risolvere molti dei problemi dell’arte digitale e della duplicazione delle opere, facendo in modo che tutti i dati importanti viaggino sempre con l’opera stessa”, prosegue il direttore di cheFare. Mentre Fairmondo, per ammissione dello stesso Felix Weith, sta seguendo con attenzione l’evoluzione di Etherium, una startup focalizzata sulle cripto-monete e gli smart contract.

La blockchain mostra già oggi le sue potenzialità per le realtà distribuite, com’è il caso del platform cooperativism. Ma per il futuro ci si può spingere ancora più in là e provare a immaginare fino a dove la decentralizzazione possa arrivare. Uber, Airbnb e anche servizi di crowdfunding come Kickstarter, in fondo, non sono altro che delle “directory glorificate” (come le chiamano su Backchannel); è possibile, grazie alla blockchain, immaginare un futuro in cui queste piattaforme diventino obsolete e in cui ognuno di noi condividerà i propri dati in maniera automatica e sicura e senza dover sottostare alle condizioni imposte da altri?

Siamo quasi nel regno della fantascienza, e probabilmente ci vorrà ancora parecchio tempo prima che tutto questo diventi realtà. Ma un futuro in cui i freelance potranno lavorare decidendo in autonomia le proprie condizioni e saltando ogni piattaforma di mediazione, oppure riunirsi in una cooperativa hi-tech in cui condividere rischi e opportunità, potrebbe non essere solo un’utopia.

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Jorit Agoch. Il volto che cambia le periferie di Napoli e del mondo

“Da piccolo sono cresciuto in una realtà periferica, tra i binari di Quarto. A questo devo la nascita della mia arte”

Periferia, uno spazio racchiuso da una linea chiusa: insieme delle zone di una città al di fuori del suo centro storico. Il concetto di periferia circoscrive uno spazio urbano, ma anche una comunità, un’etnia. Le persone che vivono in questi ambienti sono quasi considerate come emarginati, vivono nella periferia del mondo, lontano dalle dinamiche del mondo contemporaneo. Oltre alle persone esiste un’arte spesso considerata ai margini di quella ufficiale: il graffitismo. È prima di tutto un movimento spontaneo, che nasce dalla strada, in cui giovani talenti realizzano le loro opere d’arte in spazi urbani improvvisati. La conseguenza è la nascita di un museo a cielo aperto.

Jorit Agoch rientra in questa categoria. Ragazzo della periferia di Napoli, che ha fatto del suo talento e della sua arte ‘periferica’ un linguaggio unico e distintivo. Fedele alle sue origini, opera a volto coperto, cosa quasi naturale per la sua attività. Prima di arrivare alla realizzazione dei suoi volti, ha iniziato, come tutti gli altri, con scritte e immagini di relative dimensioni negli angoli della sua città. Travolto dalla sua passione decide di iscriversi all’Accademia di Belle arti di Napoli, che gli ha dato modo di completarsi stilisticamente. Questo periodo di formazione gli ha consentito di dilatare lo sguardo verso la realtà, verso il mondo figurativo. Jorit ha concluso i suoi studi con il massimo dei risultati e ha approfondito il mondo della pittura ad olio su tela. Questa sarà solo una breve parentesi, perché la tecnica che l’artista predilige è la bomboletta.

La sua arte cresce e si evolve fino a trovare nel volto la maggiore resa espressiva. Il volto costituisce il mezzo ideale per la trasmissione del messaggio di Jorit: alla base c’è l’umanità che accomuna tutti gli individui. Il mondo contemporaneo divide le persone per etnie, classi sociali e provenienza geografica. Ma, se ci si sofferma ad osservare il volto, ecco che ogni forma di gerarchia viene azzerata e le persone sono unite dal loro essere umani.

Jorit cerca l’umanità in ogni parte del mondo. Trascorre molto tempo in Africa e porta con se un grande bagaglio culturale. Il concetto di fratellanza si sedimenta nei pensieri e nei sentimenti dell’artista, tanto da costituirne in maniera essenziale il linguaggio. Le strisce rosse che riporta sui suoi volti sono un altro elemento che egli porta con se dall’Africa e trasferisce nelle sue opere.

Le strisce costituiscono l’interpretazione in chiave figurativa delle cicatrici che i giovani africani recano sul volto. Queste sono nate dai riti d’iniziazione che si compivano nelle diverse tribù del continente e sono differenti nelle diverse comunità di provenienza. Il volto rappresenta l’umanità, ma il marchio del luogo d’origine è un qualcosa che ogni persona porta con se per tutta la vita.

Periferia può anche essere interpretata come uno spazio del mondo, che viene contestato non tanto per la sua collocazione, ma anche per l’essere etichettato come zona a rischio.

Forcella è un quartiere presente nel cuore della città, della storia di Napoli e della tradizione. È qui che Jorit ha realizzato il suo San Gennaro, che s’inserisce perfettamente, come se fosse stato sempre li, nella struttura urbanistica del quartiere e nel cuore dei suoi cittadini. San Gennaro è il patrono della città, la figura a cui si rivolge la maggior parte della devozione dei cittadini napoletani e non a caso esso non è lontano dalla Cappella del Tesoro di San Gennaro. Il volto sembra volgere verso i turisti il suo sguardo intenso, incoraggiando il passaggio nel quartiere, andando oltre i pregiudizi e i fatti di cronaca. In questo caso l’arte è canale di comunicazione, per promuovere alla conoscenza e allo stesso tempo è interprete dello spirito del luogo.

Attraverso il graffitismo di Jorit si pùo leggere l’evoluzione di questo tipo di arte. Combinato alla tecnica e al supporto tipico di questo linguaggio, c’è uno stile realistico, volto alla promozione del concetto di umanità. L’artista si pone così come un ponte tra i due mondi, quello della strada e quello dell’arte ufficiale.

L’umanità è al centro dei suoi interessi e determina l’unità tra le persone, consentendo di andare oltre la gerarchia dell’arte e del mondo. Andare oltre la periferia attraverso un unico volto, che rappresenti il cittadino del mondo.

INFORMAZIONI UTILI

Jorit Agoch: http://www.jorit.it/index.html

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Le periferie sostenibili immaginate dal MIT

Aree verdi, orti suburbani e mezzi di trasporto avveniristici come l’Hyperloop di Elon Musk per le periferie sostenibili del futuro.
Quando parliamo di città i riflettori sono sempre puntati sul centro urbano, anche se in realtà la maggior parte delle persone risiede nelle periferie. E’ quindi in queste aree decentrate che bisognerebbe investire per innalzare la qualità della vita degli abitanti e per influire positivamente sull’impatto ambientale.
Si è discusso di questo nella conferenza ‘The Future of Suburbia’ organizzata e ospitata dal Center for Advanced Urbanistica (CAU) della Scuola di Architettura e Pianificazione del MIT (Massachussets Information Technology). L’evento ha riunito studiosi e professionisti provenienti da ambiti diversi che hanno condiviso punti di vista sulle tendenze evolutive e di sviluppo delle periferie e sul contributo che architetti, progettisti e urbanisti possono dare per rendere gli spazi più sostenibili.

“Le domande che ci siamo rivolti”, dice Alan Berger, professore di architettura del paesaggio e progettazione urbana, e co-direttore del CAU “, sono state: Come può l’ambiente suburbano operare in modo olistico? E come possiamo gestire in modo sinergico lo sviluppo urbano e suburbano e in modo che ci sia uno scambio delle risorse ambientali? ”
La maggiorparte della popolazione si concentrerà nelle perifierie

Pianificatori e urbanisti spesso operano con il presupposto che la maggiorparte della crescita demografica si verificherà nelle città, anche se il 70% delle persone negli Stati Uniti vive in periferia. E anche secondo le Nazioni Unite entro il 2050 soltanto 1 persona su 8 vivrà nel centro urbano, mentre i restanti vivrà nella periferia urbana.

Un fenomeno dettato sia da motivazioni economiche sia dalla volontà di vivere in abitazioni più grandi, in aree più tranquille e attorniate da spazio verde. Non a caso sono perlopiù le giovani coppie con bambini ad optare per la periferia.

“Progettate in modo intelligente le periferie possono diventare un banco di prova per la produzione di energia rinnovabile, cibo e socialità.”- ha riferito Berger.

Verde e orti

Prima di tutto, il verde. Le aree periferiche hanno spazi estesi dove la vegetazione può proliferare. Joan Nassauer, docente di architettura del paesaggio presso l’Università del Michigan, ha condiviso la sua ricerca incentrata sull’importanza delle aree verdi e come queste possano contribuire alla lotta contro il cambiamento climatico. Le periferie dovrebbero trasformarsi in veri e propri polmoni verdi. E non solo, oltre a giardini dovrebbero prevedere orti, dove poter coltivare frutta e verdura a km zero per gli abitanti e anche per coloro che risiedono in centro città.

Trasporti veloci e sostenibili

Altra tematica principe, quella dei trasporti. Uno dei problemi più evidenti delle aree suburbane è che sono spesso mal collegate al centro urbano. E che l’eccessivo utilizzo di mezzi privati finisce per provocare alti tassi di inquinamento. Knut Sauer, vice presidente di Hyperloop Technologies, una delle società che sta lavorando in modo indipendente allo sviluppo dei prototipi del mezzo teorizzato da Elon Musk, ha illustrato gli sforzi che l’azienda sta sostenendo per trasformare radicalmente la mobilità.

Hyperloop è un supertreno che coniuga alle potenzialità della levitazione magnetica i vantaggi di tubi a vuoto in cui far scorrere le capsule, e permette di raggiungere un’accelerazione massima di 1g (quella di una macchina da corsa), sfruttando principalmente l’energia fotovoltaica. Attualmente l’azienda è impegnata nella costruzione di una pista sperimentale di 8 km per Hyperloop nella Quay Valley, una futura comunità “verde” tra Los Angeles e San Francisco, interamente alimentata a energia solare. Ma il prototipo potrebbe essere applicato ovunque, per collegare centri urbani alle periferie.

Tutte le proposte e i risultati emersi dal convegno saranno pubblicati nel 2017 in un volume scientifico ‘Infinite Suburbia’, 1200 pagine frutto di un lavoro di due anni di collaborazione fra 52 professionisti, una ventina di ricercatori e 10 partner istituzionali.

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