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Promuovere la sharing city

La città come piattaforma di abilitazione dello scambio di beni, servizi e conoscenze tra pari. Valorizzare, prototipare e regolare nuove forme di reciprocità, in un’ottica di ibridazione con le logiche di scambio e di redistribuzione

Già nel 1987 Tom Malone, Joanne Yates e Robert Benjamin nell’articolo “Electronic Markets and Electronic Hierarchies” avevano previsto il passaggio dalla gerarchia al mercato attraverso la diffusione di tecnologie di rete. Yochai Benkler (2004), che per primo analizza in modo sistematico l’impatto delle tecnologie digitali sui rapporti tra economia e società, vede un superamento anche della logica di mercato: “queste tecnologie hanno permesso di affrontare vari problemi di approvvigionamento secondo forme di produzione decentrata basate su relazioni sociali, piuttosto che attraverso i mercati e le gerarchie”.

Benkler definisce questo modello come “common-based peer production” e i relativi beni come “shareable good”: una forma di produzione basata sulla collaborazione tra pari che mettono in comune il risultato del loro impegno. Un modello che nasce dall’esperienza dei software liberi e open source ma che grazie alle tecnologie digitali può essere esteso dai beni immateriali e non-rivali nel consumo anche a quelli materiali e rivali ma con capacità in eccesso (es. seconde case temporaneamente non abitate, auto parcheggiate ecc.). Benkler enfatizza una dimensione relazionale dello scambio fondata su fiducia, reciprocità di impegno dei soggetti coinvolti e motivazioni non solo strumentali nella condivisione del bene. Un’accezione che è rimasta solo nell’utilizzo più stretto del termine “sharing economy”, inteso come forma di “risocializzazione dell’economia” (Pais, Provasi, 2015), dove il consumo implica nuove forme di relazione, spesso con persone sconosciute, abilitate proprio attraverso meccanismi reputazionali e che Juliet Schor (2015) chiama “stranger sharing”.

Nella letteratura più recente si registra invece una maggiore attenzione all’efficacia distributiva di questi modelli. Arun Sundararajan (2016), pur titolando il suo recente libro “sharing economy”, nella sua analisi ricorre più spesso all’espressione “crowd-capitalism”, per porre l’attenzione su scambi organizzati attraverso “reti decentralizzate di individui anziché aggregati privati o pubblici”.

In questo modello, la “piattaforma” permette lo scambio di beni e servizi tra pari, riducendo le asimmetrie informative, abbattendo i costi di transazione e ottimizzando l’utilizzo delle risorse disponibili. Gli esempi più noti sono Airbnb nell’ambito dell’accoglienza, Blablacar per la mobilità, Upwork per l’incontro domanda-offerta di lavoro digitale, Gnammo nella ristorazione ecc.

La letteratura divulgativa associa la diffusione del modello-piattaforma a una logica di disintermediazione. Un’interpretazione solo parzialmente corretta: se da un lato c’è sicuramente una forma di abilitazione degli attori, dall’altra le norme costitutive sono determinate dalle piattaforme stesse, che introducono forme di re-intermediazione di cui dobbiamo ancora comprendere pienamente le logiche. Per limitarsi a un esempio, il costo del bene/servizio scambiato attraverso le piattaforme non è stabilito da un centro amministrativo, come nelle aziende tradizionali, ma dal singolo operatore; la determinazione del prezzo è però legata a un ranking reputazionale, di cui l’attore generalmente ignora l’algoritmo.

Il passaggio da organizzazioni (grandi e verticalizzate o piccole e a rete) a piattaforme è più evidente nella dimensione dello scambio di mercato, dove stanno cambiando anche le abitudini di consumo: generazioni abituate al possesso, anche come status-symbol, oggi prediligono l’accesso a breve termine.

Le pubbliche amministrazioni possono giocare un ruolo importante nella promozione e regolazione di questi mercati. I punti più delicati riguardano gli aspetti giuslavoristici e di tutela del consumatore. Le piattaforme possono facilitare la democratizzazione delle opportunità economiche e professionali, dal momento che non filtrano i candidati in base alle loro credenziali formali, ma questo richiede la costruzione di nuove forme di verifica della qualità del servizio, per esempio in termini di trattamento antidiscriminatorio. Inoltre il lavoro veicolato attraverso queste piattaforme è parcellizzato e “on demand”. Il vantaggio è che consente una completa flessibilità anche dal lato di chi eroga il servizio, che può decidere “istantaneamente” quando rendersi disponibile; una possibilità apprezzata soprattutto da persone per cui l’attività lavorativa non è esclusiva, come studenti o persone con compiti di cura. D’altro canto, questo comporta la necessità di ripensare la costruzione di profili di tutela del lavoro, ancora oggi costruiti su un modello di lavoratore full time e con datore di lavoro prevalente.

E’ poi importante riflettere sul ruolo delle amministrazioni locali, soprattutto nelle grandi città dove la densità abitativa favorisce la diffusione di queste pratiche. Il modello piattaforma generalizza a tutti i settori quello che nel consumo di prodotti agricoli viene definito “locavorism” e che in Italia traduciamo con il concetto di consumo “a km zero”, ma lo reinterpreta in un’ottica di “localismo cosmopolita”: le dinamiche di prossimità fisica sono rilevanti ma non sono vincolate a residenti stanziali o comunità chiuse perché la tecnologia facilita l’incontro anche occasionale tra domanda e offerta.

Questa dinamica pone nuove sfide alla città intesa come unità di analisi e come attore economicamente rilevante, posta al centro di una duplice tensione dialettica tra dimensione globale e locale e tra cooperazione e competizione (Le Galès 2002). Per spiegare la diffusione della sharing economy in un determinato contesto locale non si può prescindere dall’analisi del sistema socio-economico e istituzionale in cui questa va ad innestarsi: le tradizioni storiche che hanno contribuito alla creazione di competenze, capacità tecniche e know-how in una particolare area; la presenza di imprese che facilitano la crescita economica; l’architettura istituzionale che fornisce beni collettivi locali per la competitività come la formazione o l’accesso alla finanza; ma anche la forza del capitale sociale e delle relazioni comunitarie presenti a livello locale, con particolare attenzione alle ricadute in termini di diffusione dell’economia informale.

A questo si aggiunge un ulteriore livello di progettualità, più strettamente politica, a cui si fa riferimento con l’espressione “shareable city” o “sharing city” (McLaren, Agyeman 2015): molte città in tutto il mondo hanno promosso schemi orientati alla sharing economy in alcuni settori specifici e alcune stanno sperimentando politiche integrate. Tra queste, oltre ai casi internazionali di Seoul e Amsterdam, si segnala quello di Milano.

Oltre alla regolazione delle implicazioni del modello piattaforma nella dimensione di mercato, queste esperienze si caratterizzano per la costruzione di nuovi prototipi direttamente in ambito pubblico. Si tratta di un movimento speculare rispetto a quello visto finora: le logiche e le pratiche più interessanti sono quelle che espandono la reciprocità in direzione dello scambio di mercato, anche in un’ottica di “ibridi organizzativi” (Venturi, Zandonai 2016); allo stesso modo, il modello piattaforma può essere adottato espandere la reciprocità in direzione della redistribuzione (Pais, Provasi 2015).

Secondo il modello proposto da Polanyi (1944 in Pais, Provasi 2015), nella redistribuzione le risorse vengono allocate da un centro dotato di autorità e in funzione di fini che lo stesso definisce come corrispondenti al bene collettivo. (…) I beni e le risorse allocate per via d’autorità possono essere i più vari ma in quanto sottoposti al regime redistributivo assumono per ciò stesso la caratteristica di beni pubblici: beni che rispondono a bisogni ritenuti degni di tutela pubblica e che sono perciò allocati in forza di diritti di cittadinanza definiti dalla legge. I beni così redistribuiti prescindono dall’identità personale di chi li riceve e sono rigorosamente standardizzati sulla base di routine professionali burocratiche.

La reciprocità si distingue dalla redistribuzione, innanzitutto, in quanto presuppone una sostanziale simmetria tra i soggetti coinvolti. Polanyi per caratterizzarla sembra ispirarsi principalmente alle forme non economiche di scambio caratterizzanti le società premoderne e le relazioni primarie (amicali, familiari, di prossimità) di quelle moderne. Si sostanzia di scambi asincroni e non equivalenti, tali da generare un “indebitamento reciproco positivo” mediato dalla riconoscenza o gratitudine personale. (…) Si tratta di una forma di reciprocità elettiva, che presuppone cioè un rapporto diretto tra soggetti che si conoscono e riconoscono reciprocamente. Ciò che qualifica i beni scambiati sotto questo regime di reciprocità è il valore di legame che contribuiscono a creare; sono pertanto a tutti gli effetti beni relazionali, il cui valore cresce nella misura in cui sono in grado di modificare l’identità stessa dei soggetti coinvolti e la loro relazione (Becchetti 2009).

Rispetto alle possibilità di contaminazione tra questi due modelli, un esempio interessante è dato dal crowdfunding civico. Il crowdfunding è la mobilitazione, grazie a internet e ai social network, di piccoli investimenti su singoli progetti (imprenditoriali, creativi, sociali o civici) da parte di un gran numero di individui (la “folla”), a cui generalmente corrisponde un sistema di ricompense simboliche, materiali o economiche (Pais, Peretti, Spinelli 2014). Viene abilitato attraverso piattaforme peer-to-peer e la è relazione simmetrica, con parziale venir meno dei confini tra progettista/produttore e consumatore. L’equivalenza è incompleta perché si finanzia un prodotto o servizio che non è stato ancora realizzato, di cui non è possibile accertare a priori il valore. Oltre a valutare il prodotto, è quindi importante raccogliere informazioni circa l’affidabilità del progettista. Il meccanismo che abilita questo processo, quando non c’è conoscenza diretta tra progettista e finanziatore, è di tipo reputazionale (Pais, Provasi 2015).

Il crowdfunding è civico quando il progetto vede il coinvolgimento diretto o indiretto dell’amministrazione pubblica, nel fornire contributi in termini economici, progettuali o di visibilità (Davies 2015). Generalmente è orientato alla produzione di beni comuni (commons), definiti come quelle risorse sfruttate da più utilizzatori i cui processi di esclusione sono difficili, costosi o non opportuni data la loro essenzialità per la vita della comunità. A differenza dei beni pubblici, quelli comuni possono anche essere rivali: il consumo del bene da parte di un soggetto può ridurre la possibilità di consumo da parte degli altri, come nel caso delle risorse naturali oggetto delle prime analisi di Elinor Ostrom (1990;2015).
In Italia le campagne di civic crowdfunding sono state il 6% del totale fino al 2015 ma il dato è in forte crescita (Pais 2015).

Tra le esperienze più interessanti, si segnala la campagna “Un passo per San Luca” promossa dal Comitato per il restauro del portico di San Luca, che ha visto la donazione iniziale di 100mila euro da parte del Comune di Bologna, a cui si sono poi aggiunti altri 239.743 euro da parte di 7111 donatori.

Il Comune di Milano – nell’ambito delle politiche Milano Sharing City approvate con delibera del 19 dicembre 2014 – ha da poco avviato la sperimentazione di un canale di finanziamento basato sul crowdfunding civico: tra i progetti di innovazione e imprenditoria sociale pubblicati sulla piattaforma selezionata dal Comune, quelli che riusciranno a raggiungere la metà dell’importo previsto otterranno un cofinanziamento per la restante parte, fino a un massimo di 50.000 euro a progetto, per uno stanziamento complessivo 400.000 euro.

Una forma di integrazione che presenta, appunto, tratti di ibridazione tra logiche di reciprocità e di redistribuzione e che, per distinguerla da queste, si potrebbe definire di “condivisione” (Pais, Provasi 2015): si basa su una forma particolare di reciprocità, quella che lega ciascun individuo alla comunità cui si sente di appartenere (reciprocità generalizzata, ma non universale) ma – come nella redistribuzione – i beni prodotti attraverso questo processo vanno a beneficio anche di chi non ha partecipato allo sforzo progettuale e finanziario.

In questa e altre esperienze, anche la pubblica amministrazione sta iniziando ad adottare il “modello piattaforma”: una evoluzione del passaggio da strategie di government, caratterizzate da autoritatività, verticalità e autoreferenzialità dei meccanismi decisionali pubblici e da dinamiche di comando e controllo, a strategie governance, caratterizzate da paritarietà, orizzontalità e apertura verso la cooperazione con la comunità e la società civile (March e Olsen 1989; 2015).

L’elemento di novità sta nel passaggio da un coinvolgimento del cittadino organizzato attraverso associazioni nelle politiche proposte dall’amministrazione a uno «Stato relazionale» o «Stato-regia» (Iaione 2015) che abilita l’iniziativa autonoma dei cittadini. La sfida è quella di riuscire a veicolare e valorizzare il singolo “contributo”, anche in forma sporadica e non organizzata. L’esperienza delle piattaforme di mercato dimostra che è possibile, sia dal punto di vista tecnico che da quello organizzativo, nell’ambito dei processi redistributivi questo passaggio deve però essere accompagnato da una riflessione sulle relative implicazioni sociali in termini di potenziale rafforzamento della partecipazione civica, riduzione delle diseguaglianze sociali e ripensamento del ruolo dell’amministrazione locale.

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La «questione urbana» al centro della crisi

“Le città nella crisi”: è il titolo del nuovo numero de “La Rivista delle Politiche Sociali”. Tre gli argomenti affrontati nel fascicolo: le politiche urbane nella parte monografica, il welfare contrattuale nella sezione attualità, la crisi (“spiegata ai nipoti”) nello spazio riservato al dibattito e dedicato al libro testamento di Luciano Gallino.

In un tempo in cui la maggior parte della popolazione mondiale vive nelle città e in cui mutamenti strutturali e recessione economica hanno impatti significativi sulle condizioni di vita delle persone, la “questione urbana” si impone con urgenza. La sezione monografica del fascicolo indaga le politiche urbane messe in campo per far fronte alla crisi, con uno sguardo anche alle soluzioni innovative sperimentate in alcune realtà locali. Soluzioni che segnalano quanto sia importante l’iniziativa degli attori sociali ed economici (il sindacato, fra questi), come questa azione sia destinata a fallire – o comunque abbia scarsi effetti – senza una forte assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni pubbliche, a partire dalle amministrazioni comunali.

L’analisi dei diversi casi-studio di città straniere (Barcellona, Chicago, Parigi) e italiane (Milano, Torino, Livorno, Cosenza) ha evidenziato come le risposte “dal basso” alla crisi economica siano state fondamentali, pur nascondendo a volte insidie e punti oscuri e, comunque, sempre esigendo un ruolo forte delle istituzioni pubbliche, chiamate a coordinare, orientare, promuovere e sostenere i processi di riorganizzazione e riconversione urbana. A fare politica urbana, appunto. Così come, ricordano Paolo De Nardis e Luca Alteri, curatori della sezione, l’analisi “consiglia di rifiutare un approccio apodittico che consideri ogni politica urbana volta unicamente a creare un attivo di bilancio per l’amministrazione locale o per lo Stato”.

Un focus specifico per comprendere l’attualità delle profonde trasformazioni urbane che segnano il contesto italiano ed europeo è riservato alle periferie, luoghi stigmatizzati, dove vivono soggetti e gruppi maggiormente colpiti dai mutamenti degli assetti socio-economici: le dinamiche di espulsione dal processo produttivo, la precarizzazione lavorativa, la riduzione delle risorse di welfare state, l’erosione dei diritti di cittadinanza sono i caratteri preminenti che incidono sulle traiettorie di vita degli abitanti delle zone periferiche. A ciò si aggiunga la progressiva residualità del welfare abitativo, che ha contribuito a determinare la concentrazione spaziale di soggettività economicamente deprivate e socialmente marginalizzate.

Gli effetti prodotti dall’azione pubblica attraverso le cosiddette “area-based policies” risultano deboli, poiché non affrontano le cause strutturali della segregazione socio-spaziale e, soprattutto, non riducono la distanza tra la periferia e il centro. Vi è, quindi, la necessità di creare nuove forme di cittadinanza attraverso il rinnovamento dell’azione amministrativa e il cambiamento delle periferie in autonomi spazi di dialogo per condividere l’innovazione delle politiche. La questione urbana e le conseguenti politiche richiamano con forza il ruolo egli attori sociali ed economici. Più volte i casi trattati dai diversi autori evocano il potenziale (e necessario) ruolo del sindacato.

In particolare l’esperienza della Camera del lavoro di Milano, descritta da Massimo Bonini e Ivan Lembo, rappresenta un caso emblematico di quale possa essere il ruolo della contrattazione sociale per aprire a soluzioni innovative di fronte ai bisogni inediti che la crisi e i mutamenti sociali hanno prodotto; e per ridefinire i confini della stessa rappresentanza sindacale a soggetti – uomini e donne italiani e stranieri – altrimenti senza voce. Non solo. Un altro punto essenziale che si evince dai contributi pubblicati nel numero e che è rimarcato nel saggio introduttivo, è: di quale Europa delle città stiamo parlando, se non sono neanche certi i confini dell’Europa politica e se, all’interno di questa, le politiche urbane sono così differenziate? Di quale Europa si tratta se importanti distinzioni, all’interno dello stesso Stato, in termini di reddito, di occupazione e di condizioni di vita, costringono tanti giovani – come ricorda Gaetano Sateriale nel suo contributo – a stabilirsi all’estero? Si tratta degli stessi giovani che si sono inurbati nelle città europee nel vano tentativo di sfuggire alla crisi. A loro si sono aggiunte migliaia di energie maghrebine, asiatiche e sub-sahariane, più forti e più fortunate delle traversie del viaggio della disperazione. Un quadro che modifica profondamente le richieste di welfare e la stessa offerta di lavoro.

La sezione attualità è invece dedicata al welfare aziendale e contrattuale, tema divenuto ormai centrale nel dibattito nazionale, tanto nelle azioni del governo, quanto nelle posizioni e nelle proposte dei soggetti di rappresentanza, innanzitutto di parte datoriale. In particolare, la recente legge di stabilità ha previsto ulteriori misure di sostegno e agevolazioni di natura fiscale in grado di generare anche effetti diretti sulla crescita del welfare aziendale e contrattuale, di cui si evidenziano rischi e opportunità. Si avanzano sull’argomento anche delle proposte – è il caso dei contributi del segretario confederale Cgil Franco Martini e di Maria Concetta Ambra – per la crescita di un welfare aziendale e contrattuale più inclusivo, avendo a riferimento che solo un solido sistema di welfare pubblico e universale consente di sviluppare esperienze di welfare integrativo sostenibili, anche in termini di costi e convenienze contrattuali.

Chiude il fascicolo una riflessione sull’ultimo libro di Luciano Gallino, “Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegata ai nipoti”, ponendo attenzione al messaggio speciale che ci lascia un grande maestro: guardare ciò che è, ma soprattutto a ciò che potrebbe essere, con un indirizzamento dello sguardo verso nuovi orizzonti raggiungibili.

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Il tram a Marconi: le proposte del M5s per la mobilità del Municipio XI

La settimana europea della mobilità sostenibile è stata aperta annunciando suggestive corsie preferenziali. Da Corviale a Marconi, le proposte sono state analizzate dalle opposizioni municipali
Il tram a Marconi: le proposte del M5s per la mobilità del Municipio XI
La settimana europea per la mobilità sostenibile è iniziata. E dal Campidoglio sono arrivate già le prime proposte. Alcune hanno il gusto del dejà vù, altre sono del tutto nuove. E’ il caso, ad esempio, della nuova corsia preferenziale che l’Assessore Linda Meleo ha annunciato e che consentirebbe di collegare Corviale con il centro storico passando per Portuense. Ci sono poi corsie preferenziali di cui si parla da molti anni. Ce n’è una, su viale Marconi che “sarà prolungata dalla stazione della metro B fino a piazzale della Radio”. Ed un’altra, sul lato opposto del viale, che sarà realizzata ex novo.

LA SOLUZIONE PIU’ ECONOMICA – Il tema delle corsie preferenziali, in un quadrante congestionato come Marconi, tiene necessariamente banco. E da anni. “Ci sono due possibilità che possono essere prese in considerazione – ragiona Maurizio Veloccia, già Presidente del Municipio XI – una comporta una spesa di qualche centinaia di migliaia d’euro. E’ meno impattante e prevede che la preferenziale stessa sia realizzata addossandola al marciapiede. In quel caso però quest’ultimi vanno rifatti, e così’ anche i posti auto per i disabili e le fermate dell’Atac. Per rispettare il codice della strada, è però necessario eliminare anche la carreggiata centrale, dove attualmente viene tollerata la sosta di circa 250 auto. C’è poi un secondo intervento, più impattante e tutto sommato preferibile”.

IL TRAM – Il secondo intervento, cui Veloccia fa riferimento “prevede corsie preferenziali al centro della carreggiata, cosa che eliminerebbe la sosta irregolare nello square, ma che lascerebbe la possibilità di parcheggiare lungo i marciapiedi. Questa soluzione – conclude l’ex Minisindaco – permette di tornare a ragionare su un corridoio della mobilità che, con lo sfioccamento dell’8, potrebbe in tempi comunque non brevi portare il tram anche a Marconi”. L’idea, è anche sul tavolo dell’Assessore capitolino Meleo, che infatti ha dichiarato di “valutare anche l’ipotesi di una linea tram che arrivi fino a Trastevere connettendosi sulle rotaie delle linee 8 e 3 sua viale Trastevere”.

LA PORTUENSE – Per quanto attiene invece l’idea di collegare Corviale con il centro, si registrano le osservazioni del Vicepresidente del Consiglio Municipale Marco Palma. “Suggerisco vivamente di rendersi conto della realtà e della viabilità. Da via delle Vigne fino a piazza della Radio, la strada assume forme diverse con molti colli di bottiglia. Parliamo infatti di un tratto che già oggi è sofferente. Realizzare una preferenziale, non mi sembra quindi semplice senza rinunciare a molti posti auto”. Non c’è soltanto il problema dei parcheggi a destare preoccupazione. ” Se verrà fatta una preferenziale, quando aprirà il sottopasso ferroviario la carreggiata tornerà nuovamente ad una corsia, creando un altro collo di bottiglia”. Le soluzioni, dunque, vanno analizzate con attenzione. “Una città moderna – valuta Palma – avrebbe costruito un sottopasso che avrebbe consentito di superare l’area di via Oderisi da Gubbio, decongestionando viale Marconi e piazza Fermi e riconsegnando alcune strade al traffico locale piuttosto che alla pedonalizzazione”. Le proposte per migliorare la viabilità della zona, come Palma dimostra, non mancano.

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Emergenza abitativa, al via a Milano il progetto ‘Zero case vuote’

I lavori di recupero e manutenzione straordinaria degli alloggi sfitti di edilizia residenziale pubblica suddivisi in sei appalti per un costo complessivo di 30 milioni di euro.
Risanare e recuperare il patrimonio abitativo comunale in modo da poterlo restituire ai cittadini che ne abbiano bisogno. Con questo obiettivo è partito a Milano il progetto ‘Zero case vuote’ voluto dalla nuova amministrazione e realizzato con MM Spa.

La Giunta ha approvato il 9 settembre la delibera per la definizione degli interventi prioritari volti a ridurre il numero degli alloggi sfitti del patrimonio abitativo pubblico. Il progetto si inserisce in un’impostazione programmatica più ampia denominata ‘Piano periferie’, che l’amministrazione milanese considera cruciale in tema di rigenerazione urbana, qualità dello spazio pubblico e vivibilità dei quartieri.

I lavori di recupero e manutenzione straordinaria degli alloggi sfitti di edilizia residenziale pubblica saranno suddivisi in sei diversi appalti, per un costo complessivo di 30 milioni di euro, derivanti perlopiù da residui di precedenti mutui accesi dal Comune e in parte da finanziamenti statali destinati al progetto tramite Regione Lombardia. Si sta lavorando ora ai primi due appalti per un totale di oltre 11 milioni di euro (8 milioni e 589mila euro di fondi statali cui vanno aggiunti 3 milioni di risorse comunali). Con questo lotto i cantieri saranno concentrati all’interno del Municipio 7, tra San Siro e Baggio, e i fondi consentiranno il recupero complessivo di 276 alloggi. Molti di questi tra le vie San Romanello, San Bernardo, Palmanova, Tarabella, Mar Nero, Nikolajevka e Statuto, dove si trova uno stabile interamente destinato a persone con disabilità.

Seguiranno altri interventi per 18 milioni e 900mila euro (4 appalti ciascuno da 4 milioni e 725mila euro): già individuato l’elenco di 562 sfitti che verranno ristrutturati nei vari quartieri. L’elenco potrebbe prevedere l’aggiunta di ulteriori unità in corso d’opera, in ragione di possibili economie di spesa.

Il costo medio dei lavori sarà di 16mila euro per unità abitativa; in alcuni casi ne basteranno 10mila, in altri, quelli che presentano situazioni di degrado più pesanti, si potrebbe arrivare fino a 40mila euro. Perlopiù si tratta di adeguamenti impiantistici (elettrico e gas), del ripristino dei servizi igienici con la sostituzione di sanitari e apparecchiature, e di opere atte a rendere gli alloggi fruibili, in alcuni casi anche da soggetti con disabilità.

Nell’individuare le unità sfitte su cui intervenire, si è pensato innanzitutto di rendere i cantieri più efficienti ed efficaci, prendendo in considerazione gli interi stabili e ristrutturando tutte le unità sfitte all’interno. Priorità alle case più grandi (dai 60 metri quadrati in su) che sono quelle maggiormente richieste in graduatoria. Altro criterio seguito, quello di diffondere gli interventi in modo il più possibile omogeneo sull’intero territorio. MM Spa ha suddiviso i cantieri in modo equilibrato intorno alle proprie sedi territoriali: nell’area della sede A (che corrisponde ai Municipi 2,3,9) verrà eseguito il 20% dei lavori, nella sede B (Municipio 8) il 20%, nella sede C (Municipi 1, 4, 5) il 25% e nella sede D (Municipi 6 e 7) il 35%.

Dopo l’approvazione di questa prima delibera di indirizzo, verranno perfezionati i provvedimenti di approvazione e finanziamento dei progetti in modo da procedere con i bandi di gara e le aggiudicazioni ad inizio 2017 e far partire i cantieri – che avranno la durata di circa un anno – subito dopo. Per arrivare così nel 2018 al recupero degli alloggi e alla loro assegnazione ai nuclei familiari che ne abbiano diritto.

Stiamo avviando un vero e proprio intervento di welfare territoriale – spiega l’assessore alla Casa Gabriele Rabaiotti –, partendo da un piano straordinario di recupero del patrimonio pubblico non utilizzato e assegnandolo a canone sociale secondo le graduatorie comunali. Ci rivolgeremo quindi alle famiglie che si trovano in situazioni di particolare difficoltà economica, rispondendo alla forte domanda abitativa espressa dalle fasce più disagiate della popolazione. Un obiettivo cruciale per questa Giunta. Questa operazione avrà un altro fine, altrettanto importante: ridare fiato all’affitto anche per la fascia intermedia. Per questa seconda sfida chiederemo ai proprietari di case sfitte di riportarle sul mercato della locazione, con incentivi ed agevolazioni che consentano di rendere i canoni più accessibili per i redditi medio-bassi senza però mortificare le aspettative del proprietario. Questo il compito che abbiamo affidato all’Agenzia sociale Milano Abitare voluta dalla precedente Giunta che nei prossimi anni ci auguriamo di potenziare. Perché senza affitto la città rischia di rallentare, invecchiare e perdere in dinamismo.

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Emergenza casa, pubblico e privato Così rinasce l’edilizia popolare

Il Comune apre un dossier sullo stabile di via Pianell 15, alla Bicocca. E studia un bando che, attraverso il co-finanziamento con il privato, lo traghetti fuori dal degrado. L’obiettivo: realizzare appartamenti da destinare a quella fascia di popolazione che non può permettersi di comprare casa ma neppure di accedere agli elenchi per le case popolari. L’assessore alla Casa, Gabriele Rabaiotti, lo ha spiegato ai consiglieri: «Soldi per realizzare nuove case Erp non ne abbiamo. Una strada per affrontare l’emergenza abitativa è intervenire sull’esistente, riqualificandolo, come stiamo facendo con il piano di investimenti da 30 milioni di euro. E poi avviare sperimentazioni come quella allo studio per via Pianell». Il Comune cioè investe una quota (2 milioni di euro), e il vincitore del bando mette la parte mancante, di cui rientrerà attraverso la gestione. Il dossier su via Pianell fa comprendere come l’intervento dell’amministrazione sulla città sia «chirurgico». La storia di via Pianell, grande stabile diroccato all’angolo con via Ugolini, è emblematica. All’inizio del secolo scorso è stato un bell’esempio del welfare meneghino: ospitò per decenni le ragazze madri con i loro piccini. Da 45 anni, però, è abbandonato. Di lui, in Comune, risulta si siano ricordati quando è stato il momento di concorrere ai fondi regionali per l’edilizia residenziale pubblica.

Secondo un documento ormai datato (risale al 1999) e intitolato «Recupero e ristrutturazione dell’edificio da destinare a residenza pubblica da finanziare con le risorse regionali dell’edilizia sovvenzionata», nell’edificio – due corpi di fabbrica, uniti da una scala che sale di tre piani, cinquecento metri quadrati a piano -, si dovevano ricavare undici piccoli appartamenti e, fuori, nel cortile, laboratori artigianali. I soldi arrivarono. A memoria, resiste l’impalcatura principale, sul fronte che s’affaccia su via Pianell. Non c’è traccia di un cartello che denunci l’apertura di un cantiere, per lavori che sicuramente iniziarono ma che furono misteriosamente interrotti. A ricordarci che via Pianell non è più la periferia della città, dal tetto dello stabile dove spuntano brandelli di palificazione in cemento armato, s’intravedono la Collina dei ciliegi e gli squadrati palazzoni grigi che portano la firma dell’architetto Gregotti. A 10 anni dalla presentazione del progetto definitivo di recupero con fondi regionali, i lavori erano in alto mare. I progetti andavano adeguati: nuovo progetto, nuova gara d’appalto… In un documento del Settore Tecnico Casa e Demanio del 27 maggio 2009 si legge: «Si può prevedere che i lavori potrebbero iniziare nel marzo 2010 e concludersi in circa un anno». Ma di via Pianell nessuno finora s’era più ricordato.

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L’operatore di quartiere: l’operaio della coesione sociale

Un operatore sociale dedicato al sostegno e alla cura di ogni quartiere. E’ questa una delle novità introdotte da Fili Sociali, il progetto lanciato a Bergamo, per promuovere un sistema di welfare di comunità, rendendolo più vicino ai cittadini.

“Si tratta di un ruolo nuovo, che però agisce su un contesto già esistente. L’operatore sociale infatti, più che con il singolo cittadino, lavora con l’intera comunità.” Spiega Andrea Preda, uno tra i primi sette operatori di quartiere ad aver assunto questo ruolo negli ultimi anni.

“Dalla fine degli anni novanta, infatti, a Bergamo sono state attivate delle reti che riuniscono i protagonisti delle realtà sociali di ogni quartiere, dando così origine a momenti di incontro e condivisione. Inizialmente le tematiche delle reti sociali erano concentrate sull’educazione, ma la nuova amministrazione ha deciso di investire su questo capitale, ampliandolo anche ad altri aspetti del sociale.”

Ad oggi le reti sociali del territorio sono 18, su 22 quartieri. Ogni operatore quindi gestisce 3 quartieri diversi, svolgendo un’azione di supporto, connessione e attivazione, dove queste non esistono ancora. Un’azione per cui è fondamentale trovare un’intesa con la comunità.

“Il nostro è un lavoro di ascolto. Avere un contatto così stretto coi diversi quartieri permette di avere costantemente il polso della situazione, intercettando le diverse domande presenti sul territorio.” Continua Andrea Preda, spiegando che gli operatori di quartiere funzionano come antenne territoriali.

“Partecipiamo agli incontri delle reti sociali e ai diversi tavoli tematici organizzati dalle reti stesse. In questo senso, il networking e la facilitazione costituiscono gran parte del nostro lavoro. Grazie all’osservatorio privilegiato che abbiamo, siamo in grado di mettere in connessione realtà sociali che non sono ancora in contatto, per rispondere ai bisogni specifici.” Un lavoro lungo che pagherà con il tempo, secondo Andrea Preda.

“Per ora non assumiamo ancora un ruolo di problem solving attivo, per questo il singolo cittadino fa ancora fatica a percepire il nostro impatto diretto, noi siamo un supporto ai gruppi.” Spiega, “inizialmente venivamo confusi come sostituti della circoscrizione, ma piano piano ci stiamo facendo conoscere. Per arrivare a capire davvero le persone e i luoghi ci vogliono tempo e molta pazienza.”

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Nuova Babilonia, la città fluida dei nomadi digitali

Dall’utopia di Constant, concepita ad Alba 60 anni fa, alla Senseable City aperta alla condivisione, in cui ognuno è libero di muoversi e decidere dove vivere
La meno conosciuta delle rivoluzioni urbane del XX secolo iniziava esattamente sessant’anni fa, per caso, in un campo nomadi alla periferia di Alba, nelle Langhe. È qui che Constant Nieuwenhuys, l’artista olandese per tutti noto come Constant, passeggiando su un appezzamento di terreno di proprietà dell’amico pittore Pinot Gallizio, ebbe un’intuizione che avrebbe cambiato il nostro modo di guardare alle città, al loro funzionamento e alla loro bellezza. In quelle settimane, su quel terreno ai bordi del fiume Tanaro era ospitato un gruppo di Sinti. Avvicinandosi alla comunità, e osservandone i ritmi, Constant intravide la possibilità di un’architettura nuova, al cui interno immaginare un’esistenza condotta in movimento perpetuo.
In altre parole, quel giorno d’autunno del 1956, ad Alba, era stato piantato il primo seme di New Babylon (la Nuova Babilonia): l’utopia urbana e artistica su cui Constant avrebbe lavorato nei vent’anni successivi. Nei tanti disegni e modellini oggi conservati al Gemeentemuseum dell’Aia, New Babylon si presenta come un insediamento esteso all’infinito: una rete di enormi piattaforme sopraelevate che attraversano l’intera Europa. Una via di mezzo tra una grande autostrada abitata e un intreccio di scale, vele e impalcature. In questo «campo per nomadi su scala planetaria» ogni individuo avrebbe potuto condurre un’esistenza fluida, libero di riconfigurare sia il suo luogo di residenza, sia il suo spazio domestico, sia la sua attitudine al lavoro. New Babylon sarebbe stata abitata da un uomo nuovo – chiamato Homo ludens riprendendo la definizione dello storico olandese Johan Huizinga – la cui vita flessibile avrebbe abbattuto ogni distinzione tra lavoro e arte.
L’architettura dinamica
A sessant’anni di distanza, il lavoro di Constant appare oggi più che mai attuale: capace di anticipare in modo straordinario alcuni paradigmi che definiscono la vita del XXI secolo, quali la mobilità a basso costo o l’ibridazione tra lavoro e tempo libero. Fino all’idea – fondamentale – che la città si possa rappresentare come una trama di flussi. A partire dalla New Babylon, dire «architettura dinamica» non è più un ossimoro.
In quegli stessi anni il sociologo francese Paul-Henry Chombart de Lauwe aveva realizzato, con gran fatica, una mappa di tutti i movimenti di una studentessa a Parigi durante un intero anno. La povera ragazza, tracciata nel suo peregrinare ricorrente tra casa borghese nel XVI Arrondissement, scuola a Sciences Po e lezioni di piano, era poi diventata un facile sberleffo del Sessantotto. Oggi, grazie al Gps e servizi come la Location History di Google, quella mappa è disponibile in potenza per ciascuno di noi.
Insomma, nell’epoca digitale i flussi ci circondano. E proprio a partire da una loro analisi possiamo capire meglio la nostra città, odierna Babilonia. Come Constant aveva intuito, i flussi sono oggi uno dei soggetti di indagine più importanti per il futuro dell’architettura: proprio per questo li ritroviamo al centro di molti progetti su cui abbiamo lavorato negli ultimi anni, sia al Senseable City Lab del Mit, sia presso lo studio Carlo Ratti Associati. Uno dei nostri obiettivi è proprio quello di capire come riprogettare lo spazio a partire dalle scie di dati che la quotidianità lascia dietro di sé, in proporzioni crescenti.
Il mondo di Homo ludens
Ad esempio nell’estate 2006, con il progetto «Real Time Rome», abbiamo usato i dati dalla rete cellulare di Roma per interpretare la mobilità locale. Erano le ore della finale dei campionati mondiali di calcio: quella sera, con meraviglia, abbiamo iniziato a vedere milioni di persone palpitare e muoversi in sincrono. Era la prima volta che informazioni di questo tipo – Big Data alla scala urbana – venivano usate per leggere la città. Il disegno della metropoli in festa sembrava dare forma a un unico cuore pulsante – richiamando quell’idea, cara a Jorge Luis Borges, che le strade della città «sono le viscere dell’anima mia».
Constant sognava che ogni stanza dell’Homo ludens potesse essere rimodulata e riconfigurata – secondo un ventaglio di luci, pareti mobili o scale. Anche questo è per noi un campo di ricerca, che parte sempre dal flusso dei dati per dargli forma costruita. L’idea che l’architettura possa diventare come una terza pelle, sincronizzandosi con le nostre esigenze, ci sta guidando nei progetti di nuovi ambienti di lavoro a Singapore come a Torino.
Quale nome dare a questa nuova metropoli progettata a partire dai flussi? La definizione che più ci piace è Senseable City: una città che sente i dati, e che è allo stesso tempo una città sensibile, vicina all’uomo e al suo bisogno di bellezza. Si tratta di un ambiente aperto, portato alla condivisione, in cui ognuno è libero di muoversi e decidere dove vivere. Una città che deve non poco alla Nuova Babilonia.
Sempre più forte, in rete, assistiamo al crescere di una nuova generazione creativa – di programmatori, makers, scrittori – che si ribattezzano «nomadi digitali». Questi ragazzi, forse senza saperlo, stanno a loro volta dando nuova linfa proprio alle idee di Constant. Lavorando e allo stesso tempo svagandosi: una settimana in un co-working su una spiaggia della Tailandia, un giorno in un caffè a Città del Messico, un mese in una stanza di AirBnB in un villaggio norvegese. Provando, insomma, a realizzare le speranze dell’Homo ludens. Non soltanto nelle grandi metropoli, ma anche nelle discrete periferie del mondo – un po’ come accadde ai margini di Alba, quel giorno d’autunno del 1956.

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Roma 2024, con le Olimpiadi 15 impianti nuovi nelle periferie

Non è solo ambizione, la voglia di regalare a Roma il sogno delle Olimpiadi. E’ desiderio di rimodulare l’intera città, migliorandone soprattutto i servizi, siano essi sportivi ma anche legati ai trasporti, al verde pubblico, all’occupazione. Punta su questo il Comitato promotore Roma 2024 che ieri ha presentato, ai piedi dello stadio Flaminio, uno studio mai realizzato prima su quello che la Capitale già offre, in termini di impianti sportivi, su cosa si potrebbe migliorare e creare se riuscisse a strappare la candidatura in vista dei prossimi Giochi.

Si parte così dal censimento di Roma «il primo completo e analitico che c’è in Italia», ha spiegato il numero uno del Coni, Giovanni Malagò, punto di partenza senza il quale «non si potranno fare tutti gli interventi individuati». Un gruppo di studenti universitari ha, dunque, passato in rassegna 2.221 impianti di cui mille pubblici (scuole incluse), 6.336 spazi di attività, producendo oltre 9.600 foto sullo stato delle strutture. Il censimento è servito anche a capire dove creare 15 nuovi impianti sportivi e riqualificare almeno 20 strutture sportive scolastiche da lasciare in eredità a Roma. Tra le zone interessate, quelle ai margini del Centro. Periferie e borgate, dunque, da Tor Bella Monaca a Corviale.

A questo si aggiunge la forza che già Roma detiene, anche grazie all’eredità delle Olimpiadi del 1960. Dispone, infatti, del 70% degli impianti sportivi, alcuni dei quali come lo stadio Flaminio che «proprio grazie alle Olimpiadi – ha aggiunto Luca Cordero di Montezemolo – potrebbe essere riqualificato senza investimenti di denaro a carico del Campidoglio».

Perché qualora Roma riuscisse davvero a ospitare i Giochi, i 5,3 miliardi di euro previsti e divisi tra costi di investimento e costi operativi sarebbero coperti per 3,2 miliardi dal finanziamento del Cio, dalle sponsorizzazioni, dal marketing e per 2,1 miliardi dal contributo dello Stato. Non dalla singola amministrazione comunale di Roma. Non solo, perché Olimpiadi è sinonimo anche di occupazione. Stando alle analisi compiute dal Comitato promotore, infatti, con i Giochi si verrebbero a creare circa 177mila posti di lavoro e il Pil della città, nei prossimi sette anni, potrebbe crescere di almeno il 2,4%.

Infine, le migliorie non riguarderebbero soltanto gli impianti sportivi. Il polo universitario di Tor Vergata, ad esempio, dove è prevista la creazione del Villaggio olimpico, sarebbe trasformato dopo le Olimpiadi in un campus da 6mila unità residenziali.

La rete viaria e dei trasporti della Capitale, inoltre, ne gioverebbe. Sono infatti previsti interventi ferroviari, come la realizzazione di nuove stazioni al Foro Italico, Tor di Quinto, Valle Aurelia e Pigneto, e, altresì, interventi stradali che riguarderanno il Ponte dei Congressi, quello di Dragona, il nuovo ponte tra Circonvallazione Ostiense e via Fermi, il collegamento tra il Grande Raccordo Anulare e la Flaminia.

Inoltre con le Olimpiadi è prevista anche “una cura del verde” per il Tevere e la volontà di creare nuovi parchi – a Saxa Rubra, Magliana e tor Vergata – fruibili per i cittadini.

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Riqualificazione Periferie: selezionate le dieci aree tra quelle indicate dai Comuni

È terminata la selezione delle proposte ideative per la promozione di interventi di riqualificazione di periferie urbane che saranno oggetto di un concorso di idee per la promozione di dieci interventi, tra quelli selezionati, destinati a giovani architetti under 35.

Sulla base di una serie di proposte presentate dai Comuni chiamati ad individuare siti di periferie urbane da riqualificare, sono state selezionate le seguenti aree che adesso saranno oggetto di concorso di idee finalizzato alla loro riqualificazione:

Il quartiere Toscanini ad Aprilia (Latina);
Case minime in rione Belvedere a Corato (Bari);
l’ex Casa Cioni in frazione Avane a Empoli (Firenze);
il Parco della Salinella a Marsala (Trapani);
la Cittadella dello sport a S. Filippo Neri, allo Zen (Palermo);
i rioni Trabocchetto e Sant’Anna a Reggio Calabria;
l’ex Convento in rione Cappuccini a Ruvo di Puglia (Bari);
il quartiere Praissola a San Bonifacio (Verona);
l’ex Collegio Carta-Meloni a Santu Lussurgiu (Oristano);
il quartiere Latte Dolce a Sassari

Le dieci aree sono state selezionate dalla Direzione Generale Arte e Architettura Contemporanee e Periferie Urbane del MiBACT e dal Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori. L’iniziativa, frutto di una convenzione sottoscritta tra i due organismi, ha registrato grande interesse con la partecipazione di 140 Comuni, 58 del Sud e delle Isole, 35 del Centro e 47 del Nord e ha visto premiare proprio il Sud del Paese con ben 7 aree selezionate. Tra le finalità della convenzione quelle di promuovere, attraverso interventi finalizzati alla riqualificazione delle periferie, la centralità e la qualità del progetto, la partecipazione e la condivisione delle comunità locali e la promozione dei talenti dei giovani architetti.

Su quest’ultimo aspetto l’iniziativa prevede che al concorso di idee finalizzato all’acquisizione delle proposte per la riqualificazione delle dieci aree scelte – lanciato oggi ed il cui bando scade il prossimo 11 novembre – partecipi, tra i firmatari degli elaborati, almeno un giovane professionista di età inferiore ai 35 anni.

Alle dieci proposte vincitrici (una per ciascuna area) la Direzione Generale assegnerà un premio di 10.000 euro; le idee saranno offerte gratuitamente ai Comuni interessati affinché, una volta reperite le necessarie risorse, possano procedere alle successive fasi della progettazione e della realizzazione degli interventi di riqualificazione urbana che dovranno essere affidate agli stessi architetti vincitori del concorso di idee.

Il CNAPPC ha sottolineato che la partecipazione al Concorso, in tutte le sue fasi, avverrà esclusivamente on line, attraverso la piattaforma “Concorrimi” messa a disposizione dall’Ordine degli Architetti di Milano e Provincia.

In particolare, il Concorso di idee, con procedura aperta, per la riqualificazione di dieci aree urbane periferiche, è aperto agli Architetti e agli Ingegneri ed articolato in unica fase in forma anonima (anonimato assicurato dal sistema Concorrimi che prevede l’assegnazione ad ognuno dei concorrenti un codice che sarà utilizzato per l’intero procedimento). Di seguito il calendario del Concorso:

12.09.2016 – pubblicazione del bando
12.10.2016 ore 23:59:59 – presentazione dei quesiti;
18.10.2016 ore 23:59:59 – pubblicazione delle risposte ai quesiti;
11.11.2016 ore 16:00:00 – ricezione delle proposte ideative;
12.11.2016 ore 11:00:00- prima seduta pubblica della Commissione Giudicatrice;
18.11.2016 – pubblicazione degli esiti del concorso.

Premi

Il concorso si concluderà con una graduatoria di merito per ciascuna delle dieci aree oggetto del concorso. Ai dieci concorrenti redattori delle proposte ideative classificate al primo posto (una per ciascuna area), sarà attribuito un premio di €. 10.000,00 (al lordo di IVA e contributi previdenziali).
Elaborati richiesti – Fase unica

La proposta ideativa dovrà riguardare solo una delle aree da riqualificare, poste a concorso e dovrà essere sviluppata con gli elaborati seguenti:

n. 1 relazione descrittiva, utile ad illustrare i criteri guida delle scelte progettuali in relazione agli obiettivi previsti dal bando e alle caratteristiche dell’intervento e stima sommaria dell’intervento. Dovrà essere contenuta in un numero massimo di 2500 battute, spazi inclusi, in formato UNI A4 su file PDF, orientamento in senso verticale, per un totale di max 2 facciate;
n. 3 (tre) tavole nel formato UNI A3, orientamento in senso orizzontale, su file PDF, contenente rappresentazioni grafiche, immagini, testo e quant’altro utile a rappresentare l’idea progettuale.

Affidamento dello sviluppo degli ulteriori livelli progettuali

I Sindaci dei Comuni nel cui territorio ricadono le aree selezionate e ammesse al concorso, hanno assunto, in sede di selezione, l’impegno di affidare i successivi livelli di progettazione ai vincitori del concorso, ai sensi del comma 6 dell’art. 156 del D.Lgs. n. 50/2016, a mezzo di procedura negoziata senza bando, a condizione che gli stessi vincitori comprovino, anche successivamente alla proclamazione, il possesso dei requisiti di capacità tecnico-professionale ed economica di cui al presente articolo, in rapporto ai livelli progettuali da sviluppare.

Al fine di quantificare i requisiti speciali richiesti per la procedura negoziata a cui ricorrere per l’attribuzione del servizio di progettazione dei livelli successivi (progetto di fattibilità tecnico-economica, definitiva ed esecutiva anche in unico livello), le categorie e le ID delle opere saranno individuate sulla base dei contenuti della proposta ideativa a base di gara, applicando, per il calcolo, il D.M. 17 giugno 2016, a cui fa riferimento l’art. 24, comma 8, del D.Lgs.50/2016.

In particolare, per l’affidamento dell’incarico, relativo ai livelli progettuali da sviluppare, con le modalità di cui al presente articolo, saranno richiesti i seguenti requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-amministrativa:

all’avvenuto espletamento, nell’arco della carriera professionale e sino alla data di pubblicazione del presente bando, dei servizi attinenti all’architettura ed all’ingegneria, di cui all’art. 3, lett. vvvv) del Codice, relativi a lavori appartenenti ad ognuna delle classi e categorie dei lavori cui si riferiscono i servizi da affidare, individuate sulla base delle elencazioni contenute nelle vigenti tariffe professionali, per un importo globale per ogni classe e categoria pari ad 1 volta l’importo stimato dei lavori cui si riferisce la prestazione, calcolato con riguardo ad ognuna delle classi e categorie;
all’avvenuto svolgimento, nell’arco della carriera professionale e sino alla data di pubblicazione del presente bando, di due servizi attinenti all’architettura ed all’ingegneria, di cui all’art. 3, lett. vvvv) del Codice, relativi ai lavori appartenenti ad ognuna delle classi e categorie dei lavori cui si riferiscono i servizi da affidare, individuate sulla base delle elencazioni contenute nelle vigenti tariffe professionali, per un importo totale non inferiore a 0,40 volte l’importo stimato dei lavori cui si riferisce la prestazione, calcolato con riguardo ad ognuna delle classi e categorie e riferiti a tipologie di lavori analoghi per dimensione e per caratteristiche tecniche a quelli oggetto dell’affidamento.

I sopraelencati requisiti sono estesi all’intera carriera professionale, al fine di garantire la più ampia partecipazione dei soggetti di cui al precedente art. 3, in linea con le indicazioni riportate nella parte II (capacità tecnica) dell’allegato XVII al D.Lgs.50/2016.

Qualora l’autore del progetto vincitore non fosse in possesso dei requisiti sopra elencati, potrà associarsi con altri soggetti di cui all’articolo 46, comma 1 del D.Lgs.50/2016, che ne siano in possesso, nelle forme del raggruppamento temporaneo e/o ricorrere allo strumento dell’avvalimento previsto dall’art. 89 del D.Lgs. n. 50/2016.

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Renzi da Sala per la firma del Patto per Milano. Metrò, militari, periferie Seveso: i punti dell’accordo

Sul tavolo anche la richiesta di creare una ‘no tax area’ dove una volta c’era Expo. Messi tutti insieme, i progetti e i desiderata della città rappresentano un conto che supera il miliardo di euro.
A due mesi (quasi) esatti dalla riunione straordinaria di giunta alla presenza del premier, Matteo Renzi torna a Milano per firmare con il sindaco Beppe Sala il Patto Milano: il documento che segna i fronti strategici per la città e su cui governo e Comune si impegnano a lavorare insieme. Dall’ambizione in chiave post Brexit di candidarsi come alternativa a Londra per diventare sede dell’Agenzia europa del farmaco al futuro delle aree Expo; dai prolungamenti delle metropolitane alla sicurezza, dalla casa al welfare. Fino al nodo, ancora irrisolto, del destino anche economico della Città metropolitana.

È lungo l’elenco di proposte che si è trasformato in un documento spedito a Roma. Tra cui la parte che riguarda la possibilità di utilizzare i militari, solo su base volontaria, per scopi di polizia locale, che è ancora in discussione. Il motivo: la possibilità sulla carta esiste, ma non è semplice da realizzare e soprattutto non ci sono fonti di finanziamento precise. L’architettura generale, però, c’è. Così come la volontà di Renzi, sono convinti in giunta, di mettere la faccia anche politicamente su questa operazione puntando le proprie carte su Milano.

Messi tutti insieme, i progetti e i desiderata della città rappresentano un conto che supera il miliardo di euro. In Comune si respira un generale ottimismo. Anche perché, è il ragionamento, l’importanza del patto è nella sua visione strategica e i fondi, a cominciare da quelli per le metropolitane, non devono essere trovati nell’immediato. Solo far viaggiare per i primi tratti i treni del metrò fino a Monza e Settimo Milanese (l’allungamento di M5) e Buccinasco (la 4) vale centinaia di milioni. Ma quello che deve partire ora, appunto, è solo il percorso.

Tra i punti c’è anche la protezione dal rischio esondazione del Seveso e del Lambro, con gli ultimi pezzi del piano che ancora mancano. Altri impegni del governo, però, non prevedono assegni da staccare, ma sponde politiche, legislative e diplomatiche. A cominciare dall’orizzonte più ampio. Per conquistare l’Agenzia europea dei medicinali o quella delle banche in fuga da una Londra fuori dall’Ue, servirà la volontà dell’esecutivo di spendersi a livello internazionale. Così come sarà Roma a dover studiare strumenti per attirare investimenti sulle aree Expo dedicati all’innovazione o fare di quel luogo una “no tax area”.

Infine, i campi in cui è Milano a candidarsi come modello nazionale: la casa e il welfare, con progetti pilota contro le povertà. Nel primo caso, la città conterà sulle proprie forze per trovare i 130 milioni necessari per curare periferie e quartieri popolari. Al governo si chiedono interventi normativi per velocizzare, ad esempio, le procedure per assegnare gli appartamenti che verranno ristrutturati. E una discussione dovrà essere aperta anche sulla questione degli arrivi dei profughi.

pattomilano

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