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Corviale, una passeggiata nel cemento che pulsa in cerca di identità e riscatto

Sapere qualcosa di più su Corviale era un mio desiderio. Eppure, poco prima dell’evento al quale avevo deciso di partecipare, ero titubante. Mi tormentava l’idea che le persone che vivono lì ci vedessero come visitatori di uno zoo. E un po’ la questione mi stava facendo desistere. Per fortuna, però, domenica 25 settembre ho deciso di andare. Queste incursioni urbane in periferia, come le definisce Irene Ranaldi (presidente dell’associazione culturale Ottavo Colle), sono importanti affinché i romani si riapproprino sempre di più dei propri quartieri. E’ stata lei ad avvisarci che qualche malumore lo avremmo avvertito, che la nostra presenza sarebbe stata avvertita dagli abitanti del quartiere e che saremmo stati accolti soprattutto dal silenzio. Per buona parte della passeggiata è andata proprio così.

Ma Corviale è davvero un mostro? E’ il quesito con il quale si è aperta la visita. Spesso la nostra percezione è distorta, quello che ci appare come brutto lo vediamo anche come distante e pericoloso. “Si tratta di un primo pregiudizio – spiega la sociologa urbana – Corviale è oggetto di tantissimi progetti di riqualificazione, tutti progetti fantastici sulla carta. Ma se Corviale non riesce a dialogare con la città è perché la città non dialoga con lui. Per far arrivare gli autobus le persone hanno dovuto bloccare le strade, accendere i fuochi. Gli ascensori, che sono spesso fuori uso, condannano anziani e disabili a vivere in un carcere. Ci sono corridoi di un chilometro che io non percorrerei mai da sola. A Corviale l’unico bar è quello della biblioteca, non ci sono ristoranti e c’è un solo supermercato. Il Mitreo è l’unica associazione culturale e l’Albergo delle Piante è uno dei pochi esempi che coinvolgono i cittadini e permettono loro di rendere bello e vivo uno dei cinque spazi-cavea inutilizzati”. A Corviale, infatti, non ci sono piazze. E non ci sono perché come spazi di aggregazione l’architetto che ha ideato il “serpentone”, Mario Fiorentino, aveva previsto gli spazi-cavea. Ma su quei gradoni non si riunisce nessuno, sono abbandonati. “L’albergo delle piante, ideato tra gli altri da Mimmo Rubino e Angelo Sabatiello, ha coinvolto i pazienti della Asl di Corviale, ha chiesto loro di adottare delle piante, disporle nella cavea e prendersene cura tra un tè e quattro chiacchiere”, sottolinea la presidente di Ottavo Colle.

Durante la passeggiata la Ranaldi racconta come è nato Corviale e mostra spezzoni di film che sono stati girati nel grande parallelepipedo, da “Sfrattato cerca casa equo canone” di Pier Francesco Pingitore, uscito nel 1983 a solo un anno dall’inaugurazione di Corviale, al dramma “Et in Terra Pax” di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, da “Scusate se esisto!”, la commedia di Riccardo Milani ispirata al progetto (vero) dell’architetta Guendalina Salimei, con Paola Cortellesi e Raoul Bova a “Zeta” di Cosimo Alemà, in questo caso è stato mostrato il videoclip “Serpente” che ha per protagonista Salvatore Esposito (Genny Savastano della serie Gomorra), con la voce del rapper Tormento.

Considerato da alcuni un mostro e da altri un monumento della Roma contemporanea, Corviale è un complesso di 958 metri di lunghezza, 200 metri di spessore, 30 metri di altezza divisi in nove piani il tutto per un totale di 750.000 metri cubi di cemento, su di un’area edificabile di circa 60 ettari. “Si tratta di 1.202 appartamenti in cui vivono tra le 6mila e le 8mila persone. Nessuno sa con esattezza quanti siano i residenti perché molti sono tutt’ora abusivi e l’Ater, che è proprietario dell’edificio, fatica a riscuotere gli affitti e a procedere al censimento – spiega la sociologa – E’ nato seguendo le visioni utopiche del filosofo ed economista francese Charles Fourier (1772-1837), che vedeva nel falansterio (grande edificio destinato a una comunità autonoma e dotato di tutte le istituzioni e i servizi indispensabili, n.d.r.) una risposta all’esigenza di giustizia sociale. Attorno al Corviale ruotano due leggente metropolitane, una legata al suicidio di Fiorentino, che secondo la leggenda sarebbe avvenuto dopo aver visto la bruttezza alla quale aveva dato vita a 10 anni dalla progettazione (e che invece è morto per un arresto cardio-circolatorio dopo un’accesa riunione), l’altra legata alla scomparsa del Ponentino per via dell’enorme edificio. Entrambe sono solo leggende”.

Eppure, Corviale resta una delle eccellenze architettoniche del Paese per la sua unicità. Oltre al fallimento del sistema falansterio, tra i suoi problemi più grandi ci fu l’occupazione abusiva già nel 1982 dei quarti piani, destinati ai servizi come circoli culturali e ricreativi, biblioteche, etc. Nonostante tutte le sue problematiche, Corviale si muove, cerca di trovare al suo interno la sua identità, ha sviluppato una sorta di orgoglio. Qualora la risposta al quesito iniziale fosse affermativa, Corviale sarà anche un mostro ma, come tanti altri mostri, è un mostro che sta cercando un sistema per evolversi e fare meno paura.

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Bruno Manghi: “Il problema delle periferie è la qualità demografica”

«La particolarità di Torino sta nel fatto che per alcuni secoli è stata governata da un forte potere centrale. Dopo un periodo di smarrimento, ha sostituito in parte quel potere pubblico con l’auto, con la grande fabbrica, che è stata a sua volta un riferimento autoritativo. Tutto questo è finito, ma ha lasciato una traccia nella mentalità del territorio, per cui ci si aspetta sempre dalle autorità qualcosa di particolarmente rilevante, e invece non è così. Siamo entrati in una situazione nuova che si è accompagnata anche ad un grande cambiato territoriale di natura demografica»: Bruno Manghi, sociologo, una vita passata nel sindacato (Cisl), collaboratore di Prodi, attualmente presiede la Fondazione Mirafiori promossa dalla Compagnia di San Paolo. Sabato, in occasione dell’assemblea annuale di Confartigianato Imprese Torino, è intervenuto trattando il tema delle periferie, ma anche il ruolo dell’associazionismo. «Partiamo da una banalità: se le periferie sono i luoghi dove vivono le persone meno abbienti, dopo 7 anni di crisi le loro condizioni di vita non possono certo essere migliorate. La crisi colpisce in maniera più seria coloro che sono svantaggiati in partenza. La novità sta, invece, nel grande cambiamento territoriale avvenuto. Quando ero ragazzo la cintura torinese era un posto da evitare, ora, invece, a Grugliasco, Collegno, Nichelino, Settimo, ecc., abbiamo assistito ad una trasformazione positiva e ad un ringiovanimento medio della popolazione. Mentre nella cintura torinese è avvenuto un netto miglioramento reddituale, demografico e di attivismo, la povertà si è concentrata nella cerchia urbana, e questa è una novità di non poco conto. A Mirafiori Sud il nostro problema numero uno è strettamente demografico, nel senso che le periferie torinesi sono invecchiate, magari dignitosamente, ed i giovani si allontanano perché non hanno opportunità di qualità. Ad eccezione di Barriera di Milano, che fa caso a sé anche per la sua vastità, il problema di questi quartieri non è la delinquenza, ma l’invecchiamento, cioè la qualità demografica. Come ha spiegato bene Enrico Moretti nel suo saggio sulla nuova geografia del lavoro – dove traccia un’analisi comparata delle città americane – normalmente ciò che fa la differenza è la qualità del capitale umano che si insedia in un luogo. Per questo a Mirafiori Sud tra le attività più interessanti promosse dalla Fondazione, a parte gli orti urbani, c’è il sostegno a 130 studenti stranieri del Politecnico che vivono in via Negarville. Perché se in un luogo arrivano giovani in gamba con aspirazioni di reddito e di qualità della vita, questo non può non avere influenza su tutti i servizi di quel luogo».
Ma Bruno Manghi ha colto l’occasione dell’assemblea degli artigiani per una riflessione sul ruolo delle associazionismo. «A Mirafiori incontro tante persone, ma le associazioni sono poche e poco presenti. In pochi si presentano come associazione, con l’orgoglio di essere un’associazione e i valori di un’associazione. Confartigianato come le altre associazioni di categoria dà servizi cruciali, è una tecnostruttura importante, fa lobby verso le istituzioni, ma non è solo questo a fare un’associazione. Da Confindustria al sindacato, tutte le associazioni hanno attraversato momenti difficili, però ci sono alcuni esempi in controtendenza. Pensiamo alla Coldiretti: vent’anni fa era un’associazione finita, perché erano finite le relazioni con il mondo politico, erano cambiati gli interlocutori. Un gruppo di giovani l’ha presa in mano e l’ha riformata fornendo una identità professionale e non generica e intercettando la nascita della curiosità per l’ambiente e per l’agricoltura. Oggi le sue bandiere le conoscono tutti. Quando l’autorità centrale diventa più debole e meno decisiva, la parola torna alle associazioni, ma solo se sono associazioni e non semplici coalizioni di lobby. Gli artigiani, per esempio, sono anche degli educatori, perché quando trasmetti la bottega non trasmetti solo un’attività economica, ma trasmetti il senso di quella bottega, il gusto di fare qualcosa. Oggi si è riscoperto il valore del maker, del fare, c’è una grande ripresa del lavoro che non va confuso con il posto di lavoro ma con il senso di un’esistenza. Da questo, dall’orgoglio del fare, devono ripartire le associazioni».

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A Verona le periferie si mettono in mostra

Se non fosse per la “serenissima” Venezia, nel Veneto la gloria spetterebbe tutta a Verona. Città d’arte, di storia, di tradizioni e contraddizioni. E’ la città dell’amore (finito male), della musica e dell’Arena. E’ la città del sindaco Tosi (leghista), di un Chievo che si gode l’alta classifica, di un Hellas gloriosa scivolata in B e che è troppo spesso ricordata per certi cori razzisti. Verona è anche una città solidale, capace di grandi progettualità sociali. E così, oggi, sposta la periferia al centro. Letteralmente. La città inverte canoni, stereotipi, luoghi comuni. Facendo leva sulla sensibilità di fotografi amatoriali lancia una provocazione capace di accendere un riflettore sui territori senza luce. L’occhio che racconta, stavolta, è quello della gente comune. Persone che vivono e conoscono la periferia, artisti invisibili che hanno quei luoghi negli sguardi e nel cuore. Ogni giorno. Fotografi che con i loro scatti riportano l’attenzione sulle periferie abitate ma dimenticate. DeniSGiusti1 Dal progetto culturale (con risvolto sociale) alla mostra, be’, il passo è breve. E così la periferia diventa “Periferika”. Cinque fotografi non professionisti hanno messo in gioco loro stessi e la città offrendo una personale visione della vita al di là del cuore della città (dal 3 al 29 ottobre). Grazie ai loro occhi e ai loro scatti, stavolta la periferia si posta al centro. La mostra fotografica sarà infatti allestita nella vetrina della Biblioteca Civica in via Cappello. Le foto? Saranno visibili di giorno e di notte, 24 ore su 24. Perché rivolte all’esterno, quindi fruibili “dal di fuori”. MarcoSempreboni Insomma, per una volta almeno la periferia diventa il centro. E viceversa. Ecco quindi un’esposizione da cui nasce un catalogo da cui nascono riflessioni. Come quella di Giorgio Massignan, ad esempio. Lui, architetto e urbanista, ha curato il volume che accompagna la mostra realizzata dall’associazione “Verona Off” (di cui fa parte) in collaborazione con il Comune e con la Fondazione Toniolo. «Le periferie rappresentano il luogo-non-luogo, residuo di una non pianificazione del territorio che ha sempre privilegiato gli interessi speculativi all’equilibrio urbanistico della città», dice Massignan. Eccole le periferie ritratte da Denis Giusti, Flavio Castellani, Marco Sempreboni, Mauro Previdi e Stefano Franchini. Periferie notturne o in bianco e nero, dove l’uomo è quasi fisicamente assente ma dove i suoi “effetti” sono ben visibili. Periferie sinonimo di ghetto, periferie dormitorio, periferie degradate e abbandonate. Periferie che diventano “Periferika” e che con quest’azione assumono il significato del riscatto rientrando di diritto nel cuore e negli sguardi della comunità e, perché no?, anche della politica.] Se non fosse per la “serenissima” Venezia, nel Veneto la gloria spetterebbe tutta a Verona. Città d’arte, di storia, di tradizioni e contraddizioni. E’ la città dell’amore (finito male), della musica e dell’Arena. E’ la città del sindaco Tosi (leghista), di un Chievo che si gode l’alta classifica, di un Hellas gloriosa scivolata in B e che è troppo spesso ricordata per certi cori razzisti. Verona è anche una città solidale, capace di grandi progettualità sociali. E così, oggi, sposta la periferia al centro. Letteralmente.
La città inverte canoni, stereotipi, luoghi comuni. Facendo leva sulla sensibilità di fotografi amatoriali lancia una provocazione capace di accendere un riflettore sui territori senza luce. L’occhio che racconta, stavolta, è quello della gente comune. Persone che vivono e conoscono la periferia, artisti invisibili che hanno quei luoghi negli sguardi e nel cuore. Ogni giorno. Fotografi che con i loro scatti riportano l’attenzione sulle periferie abitate ma dimenticate.

Dal progetto culturale (con risvolto sociale) alla mostra, be’, il passo è breve. E così la periferia diventa “Periferika”. Cinque fotografi non professionisti hanno messo in gioco loro stessi e la città offrendo una personale visione della vita al di là del cuore della città (dal 3 al 29 ottobre).

Grazie ai loro occhi e ai loro scatti, stavolta la periferia si posta al centro. La mostra fotografica sarà infatti allestita nella vetrina della Biblioteca Civica in via Cappello. Le foto? Saranno visibili di giorno e di notte, 24 ore su 24. Perché rivolte all’esterno, quindi fruibili “dal di fuori”.

Insomma, per una volta almeno la periferia diventa il centro. E viceversa. Ecco quindi un’esposizione da cui nasce un catalogo da cui nascono riflessioni. Come quella di Giorgio Massignan, ad esempio. Lui, architetto e urbanista, ha curato il volume che accompagna la mostra realizzata dall’associazione “Verona Off” (di cui fa parte) in collaborazione con il Comune e con la Fondazione Toniolo.

«Le periferie rappresentano il luogo-non-luogo, residuo di una non pianificazione del territorio che ha sempre privilegiato gli interessi speculativi all’equilibrio urbanistico della città», dice Massignan.

Eccole le periferie ritratte da Denis Giusti, Flavio Castellani, Marco Sempreboni, Mauro Previdi e Stefano Franchini. Periferie notturne o in bianco e nero, dove l’uomo è quasi fisicamente assente ma dove i suoi “effetti” sono ben visibili. Periferie sinonimo di ghetto, periferie dormitorio, periferie degradate e abbandonate. Periferie che diventano “Periferika” e che con quest’azione assumono il significato del riscatto rientrando di diritto nel cuore e negli sguardi della comunità e, perché no?, anche della politica.

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Non ci sarà smart city senza utilizzo dei dati. Siamo pronti?

I dati saranno l’infrastruttura delle città intelligenti ma privacy e sicurezza ne limitano lo sviluppo. Servono nuove idee e un approccio ‘smart’ per garantire accesso e protezione.
Cos’è che fa funzionare una città? Le sue infrastrutture. Strade, tubature, reti idriche ed elettriche e i sistemi di trasporti. Eliminiamoli e non avremo più una città.
L’accesso ai dati e la capacità di utilizzarli rappresenterà l’infrastruttura fisica dei centri iper-connessi. Una visione di città intelligente, efficiente ed avanguardistica non può esistere senza dati. Ne hanno bisogno i servizi pubblici per migliorare la sicurezza e la qualità della vita dei cittadini così come le società tecnologiche che hanno bisogno di creare interazione e proattività per definire i dispositivi di una città moderna. Le smart city non potranno vivere senza utilizzare i dati eppure questa visione di città improntata a una libera circolazione e messa a disposizione di informazioni che oggi definiremmo private spaventa. Ma se vogliamo evolverci questo è un punto da superare. Ad affrontare l’argomento è Matthew Fawcett in un interessante articolo pubblicato qualche giorno fa su Forbes, con l’obiettivo di far riflettere sulle contraddizioni che stanno immobilizzando l’innovazione e di spronare a fare di più.

Le smart city emergenti utilizzano attualmente i dati i modi nuovi e diversi e con vari gradi di successo. Barcellona, ad esempio, ha dotato i cassonetti pubblici con sensori che misurano il livello di pienezza, rendendo quindi molto più efficiente il servizio di raccolta della nettezza urbana, che interviene solo quando ce ne è bisogno. Questo è chiaramente un esempio di come l’accesso alle informazioni offre solo benefici senza andare ad intaccare la cosiddetta privacy. Altri casi hanno però dimostrato una maggiore controversia. Come il programma di controllo aereo di Baltimora che, pensato per combattere la criminalità, ha dovuto affrontare delle accese reazioni per essere stato istituito senza metterne a conoscenza i viaggiatori.

La grande contraddizione: utilizzo vs protezione dei dati

Tutte le società, sia pubbliche sia private, sono in corsa per poter raccogliere e sfruttare i dati in modi nuovi e creativi e per poter competere nel mondo digitale. Questa situazione crea tensione. Come si può colmare il divario fra la necessità di accedere ai dati e il muro da parte dei cittadini che chiedono privacy, sicurezza e garanzia del rispetto delle leggi vigenti?

La questione, secondo Fawcett, è idiosincratica. Il concetto di ‘personale’ non è chiaro e stride con una realtà in cui pressoché tutti accettiamo di utilizzare la tecnologia e i servizi ad essa legati fornendo i nostri dati ma allo stesso tempo chiediamo una maggiore protezione e controllo sulle modalità con cui questi dati sono raccolti e utilizzati.
I legislatori stanno cercando di mediare e di redigere nuove leggi che garantiscano più protezione ma sembra difficile farlo in un modo che evolve sempre più verso una condivisione. Prendiamo in considerazione la direttiva sulla protezione dei dati dell’UE, che regola la tutela dei dati personali, e sancisce il “diritto all’oblio”. Anche se il concetto è semplice questo diritto si è dimostrato difficile da definire e garantire nella pratica. Una volta che le informazioni sono state diffuse non esiste un pulsante da premere per cancellare tutto con un click.

Protezione dei dati personali, una materia complessa

La verità è che la protezione dei dati personali solleva nuove domande e crea gravi problemi di gestione. Il problema è stratificato. Fawcett lo distingue in tre livelli:

– La Privacy è un problema individuale e sociale. Come possono gli utenti fare in modo che i loro dati non siano senza il loro permesso? La semplice partecipazione al mondo digitale comporta un consenso alla fruizione di alcune informazioni personali?
– La Sicurezza è un problema sia aziendale che governativo. Quali standard devono soddisfare le organizzazioni per proteggere da minacce le informazioni personali di cui dispongono?
– La Sovranità è infine una questione nazionale, il che la rende la più imprevedibile. Quali promesse possono essere fatte ai cittadini? Cosa uno Stato può o non può garantire, anche in base alla legislazione internazionale? Ad esempio quali sono i dati che la Germania considera propriamente tedeschi ai fini della sicurezza nazionale o per altri scopi?

Le città intelligenti chiedono un approccio intelligente alla gestione dei dati

Le smart city faranno fatica a districarsi in queste contraddizioni normative.
“Le leggi- scrive Fawcett- hanno sempre bloccato le innovazioni tecnologiche. Abbiamo costruito strade prima di aver realizzato semafori, corsie e il codice della strada. E’ illegale registrare la voce di una persona senza il suo permesso, ma è legale (nella maggior parte dei casi) registrarne un video Perché? Poiché la tecnologia di registrazione del suono è venuta prima.”
Non servono nuove leggi, secondo Fawcett, ma nuove idee. La sfida di città intelligenti che debbano allo stesso tempo rendere accessibili i dati e proteggere i cittadini a cui appartengono, non può essere affrontata soltanto dai politici o dai tecnici o dalle associazioni dei consumatori. E’ una questione che richiede uno spirito di collaborazione e la messa in campo di abilità e conoscenze diverse. Insomma, le città intelligenti chiedono un approccio altrettanto intelligente alla gestione dei dati.

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Economia sociale: chi guida il processo?

Clean energy won’t save us”, così esordiva un articolo apparso sul quotidiano The Guardian qualche giorno fa, “only a new economy system can” chiudeva il pezzo, riproponendo un tema per certi versi classico, ma che è da declinare in uno scenario mutato sia in termini di opportunità che di rischi. Le opportunità sono legate alla disponibilità di tecnologie che consentono di produrre energia da fonti rinnovabili. I rischi derivano invece alla mancata o parziale affermazione di modelli di consumo autenticamente “equi e sostenibili”.

In parole povere: possiamo riempire i tetti delle nostre case di pannelli solari continuando comunque a consumare come abbiamo sempre fatto, cioè troppo e in modo diseguale. Il ragionamento si potrebbe generalizzare anche ad altre infrastrutture che, in teoria, possono abilitare modelli economici e di sviluppo in grado di affermare un nuovo paradigma, sia perché hanno una chiara connotazione alternativa rispetto al modello dominante, sia perché hanno i numeri per farlo, in termini di diffusione, impatto economico, capacità di influenzare le politiche.

L’articolo e altre prese di posizione similari sono utili perché contribuiscono, tra l’altro, a evidenziare i “nervi scoperti” nell’evoluzione recente dell’economia sociale e solidale. Sì perché è chiaro che da qualche tempo il “sociale” esonda fuori dagli schemi politico-culturali e giuridico organizzativi entro i quali è stato elaborato, diventando un elemento di valore conteso da una pluralità di soggetti: gli enti pubblici per risolvere il deficit (crescente) di partecipazione democratica e soprattutto l’economia capitalista per correggere le esternalità negative (ambientali e sociali) recuperando legittimità presso i propri “portatori di interesse”.

Rimangono invece poco chiare le conseguenze che investono il vasto e articolato campo popolato da attori variamente denominati: terzo settore, nonprofit, impresa sociale, ecc. Un dettaglio non da poco considerando la rilevanza di questi ultimi soggetti e soprattutto la ancor più rilevante crescita della domanda di socialità, relazione, coesione che si manifesta nella nostra società: dal nuovo civismo dei beni comuni che alimenta la rigenerazione di immobili e spazi pubblici, alla “nuova distribuzione organizzata” dei gruppi di acquisto. Una sfida importante che si riscontra anche all’interno di importanti riforme normative in fase di implementazione.

La nuova legge quadro sul terzo settore appena approvata (l. n. 106/2016) definisce anche in termini giuridici un comparto ampio e variegato (associazioni, organizzazioni di volontariato, cooperative sociali, fondazioni ecc.) che fino ad oggi era solo un concetto a uso di ricercatori e addetti ai lavori. Ma potremmo aggiungere anche altri dispositivi come la norma sulle “società benefit” inserita nella legge di stabilità 2016 rivolta alle imprese di capitali intenzionate a gestire in modo più stabile e continuativo la loro azione sociale incorporandola nei processi produttivi e non relegandola in iniziative di responsabilità sociale ispirate a una logica filantropica e redistributiva.

Esiste quindi uno spettro, se non ancora reale certamente potenziale, più ampio e variegato di attori impegnati nella produzione e redistribuzione di valore sociale. Per questo può essere utile non tanto delineare lo scenario prossimo venturo, ma piuttosto evidenziare le ambivalenze che caratterizzano una fase ancora molto fluida dove i diversi attori sono chiamati a ridefinire i loro schemi di cooperazione / competizione.

Ora sono la guida di nuove politiche pubbliche e di strumenti finanziari che fanno leva sull’investimento

La prima ambivalenza è generata dalla nuova asset class di strumenti finanziari di tipo “pay for success”, dove l’investimento delle risorse – sia nell’allocazione che nel ritorno – è guidata da indicatori di impatto sociale che, nelle intenzioni dei promotori, misurano non solo gli scostamenti rispetto a obiettivi progettuali e profili organizzativi predefiniti, ma piuttosto catturano elementi di valore multidimensionale e ad ampio raggio: beneficiari (diretti e indiretti) delle attività, contesti socio economici di riferimento e, non da ultimo, sistemi di regolazione e di policy. Una sperimentazione in tal senso è stata avviata dalla Regione Sardegna che ha istituito un fondo di social impact investing a favore di iniziative di inserimento lavorativo di fasce deboli della popolazione.

Otto milioni di euro riconvertiti da risorsa redistributiva (fondi strutturali europei) a investimento sociale, sostituendo i tradizionali contributi in prestiti, capitale di rischio e obbligazioni legati alla performance sociale misurata guardando alla capacità di reinserimento attivo nel mercato del lavoro. Prove tecniche per l’adozione ad ampio raggio di strumenti che remunerano, in forme e modi diversi, l’impatto sociale capace di generare risparmi nella spesa pubblica.

Una trasformazione rilevante, dopo che per anni queste misure erano considerate valori immateriali non catturabili se non da specialisti del settore innamorati del loro lavoro e desiderosi di comunicarli a chi invece rispetto a questi stessi elementi faceva, letteralmente, “orecchie da mercante”. Ora invece sono la guida di nuove politiche pubbliche e di strumenti finanziari che fanno leva non sulla redistribuzione, ma sull’investimento delle risorse e che interessano, per evidenti ragioni, una parte sempre più consistente della finanza mainstream.

La seconda ambivalenza viene invece da quella che è – o dovrebbe essere – una delle principali industrie del Paese cioè il turismo. Sempre più spesso, infatti l’incontro domanda-offerta in questo ambito avviene attraverso siti e portali che, come affermano gli esperti, disintermediano le classiche catene di fornitura, mettendo direttamente in contatto utente e fruitore attraverso il medium della “collaborazione” (sharing), anzi spesso ibridando i ruoli per cui al tempo stesso si è produttori e consumatori trasformando casa propria in una struttura turistica.

L’aspetto più interessante di questo processo ormai più che maturo e quasi totalmente monopolizzato da quelli che Morozov chiama “i signori del silicio”, è la tendenza a ricercare e a “mettere a valore aggiunto” le relazioni. Tripadvisor, Booking e altri big player sono sempre più alla caccia di startup di turismo esperienziale come potrebbe essere Destinazione Umana che nel suo “catalogo” turistico non ha solo mete intese come luoghi ricchi di attrattori turistico-culturali, ma anche e soprattutto persone disposte a re-intermediare il bene più ricercato per fare qualità turistica, ovvero le relazioni tra le persone e le comunità di riferimento. Quel “gusto degli altri”, come si intitolava un film di qualche anno fa, che fa apparire uno stesso luogo – magari in apparenza non così attrattivo – sotto occhi completamente diversi.

Terza e ultima ambivalenza ce la racconta, anzi ce la rendiconta, Symbola, una fondazione che lavora ormai da tempo sulle qualità che caratterizzano il nostro famoso “made in Italy”. Nel suo ultimo rapporto emblematicamente intitolato Coesione è competizione emerge non solo che queste qualità sono plurime, legate cioè a fattori intrinseci di prodotti e servizi, ma legate, ad esempio, anche alle competenze del capitale umano e dei sostrati fiduciari che alimentano iniziative sociali ed economiche (ben conosciute e indagate dalla letteratura scientifica e divulgativa sui distretti industriali).

L’aspetto che emerge in modo più rilevate è che tutto questo complesso di risorse che alimenta la coesione soprattutto su scala locale è all’origine della competitività delle imprese in termini economici, occupazionali e di posizionamento nei mercati. Insomma le nostre PMI manifattuiriere, le “multinazionali tascabili” dello sviluppo locale che ci hanno fatto conoscere ricercatori come Aldo Bonomi, Enzo Rullani funzionano meglio se sono più consapevolmente e intenzionalmente “sociali”. Un dato rilevante perché, aggiungiamo, è riferito non a singole esperienze di imprenditori illuminati, ma a performance registrate su campioni rappresentativi e su settori forti della nostra economia: manifattura di qualità, agroalimentare ecc.

Dunque il nuovo sistema economico che avanza è fatto, fra l’altro, di finanza che impatta socialmente, di tecnologia che disintermedia con le relazioni e di economia che ha il suo “core business” negli asset locali? Se è così le organizzazioni sociali come si posizionano in questo quadro? La tendenza immediata può essere quella di segmentare il campo, di tracciare i confini e da additare il “nemico”: il vero sociale, la vera innovazione, ecc. Ma forse è una strategia di corto respiro perché quel che è mutato, nel profondo, è la struttura della società e delle sue articolazioni organizzative.

Una società dove settori sempre più variegati e rilevanti come i giovani millennials, la parte degli esclusi, le nuove forme di socialità sono, come ricorda un interessante articolo apparso su Stanford Social Innovation Review, sempre più “agnostici” rispetto al sociale incorporato esclusivamente nel nonprofit e sono sempre più attratti da un valore che si manifesta e viene rendicontato come impatto (positivo) effettivamente realizzato per i beneficiari di queste iniziative: singoli individui, famiglie, comunità locali.

È importante guardare ai sistemi che governano la distribuzione delle quote di potere e delle risorse generate

Una prospettiva che richiede una maggiore attenzione alla rendicontazione e alla valutazione, facendo in modo che la coesione non sia solo un valore declamato, ma anche reificato in misure ed indicatori come peraltro comincia ad avvenire grazie a modelli come il BES (Benessere Equo e Sostenibile) realizzato in Italia non da un gruppo di attivisti ma, anche questo segno dei tempi, dall’istituto italiano di statistica (Istat).

In secondo luogo è parimenti importante guardare non solo all’architettura formale, ma al concreto funzionamento delle organizzazioni e in particolare dei sistemi che governano la distribuzione delle quote di potere e delle risorse generate. Non è, in parole povere, una questione da diritto societario, ma di management di relazioni complesse e ad ampio raggio che, nel loro insieme, non sono solo da informare e coinvolgere ma da inserire in processi di co-produzione di nuovi modelli di valore.

La vera partita per la nuova imprenditorialità che avanza non sta nel definirsi fuori o dentro il terzo settore, ma nel riuscire ad allargare il perimetro del mercato con nuovi meccanismi di produzione del valore: meccanismi inclusivi e coesivi. L’alba di questa diversità possiamo coglierla nelle 97 start up innovative a vocazione sociale ( di cui 9 cooperative) che segnano, attraverso la tecnologia, una discontinuità nelle attività proposte rispetto alle tradizionali esperienze; una diversità, trainata dalla spinta dei giovani, da assumere come ricchezza e come valore per rigenerare gran parte delle filiere sociali spesso pietrificate dalla rigida cultura della progettazione e delle tariffe.

La partita è aperta e l’economia sociale e solidale ha la possibilità di guidare questo processo e di scegliere il suo ruolo, forte di un’esperienza pluriennale. Un vantaggio non da poco che sarebbe un peccato concentrare nel buco nero di un dibattito autoreferenziale.

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coesione-e-competizione




#BiblioCorviale: Newsletter di Ottobre

biblioteca

da sabato 1 ottobre a domenica 20 novembre

Terza età della danza. Laboratorio di movimento e danza

Nell’ambito delle manifestazioni realizzate in occasione del Giubileo della Misericordia. Progetto realizzato per la Biblioteca Renato Nicolini di Corviale produzione Teatro di Roma, con il sostegno di Roma Capitale,
Il laboratorio, condotto da Silvia Rampelli,  gratuito  è aperto a tutti gli Over 50 iscritti con Bibliocard. Si svolgerà, a partire dal 1 ottobre fino al 20 novembre, per due volte alla settimana per il mese di ottobre e una volta alla settimana per il mese di novembre dalle 10,00 alle 12,30 durante il primo incontro saranno fissate tutte le date degli incontri successivi.
Non richiede abilità specifiche, ma regolarità nella frequenza. E’ consigliato un abbigliamento comodo.

Previa prenotazione al numero 06/45460421.

 

Sabato 1 Ottobre ore 10.30

Nonni Amore e Fantasia! Il loro cuore è così grande da contenere i sogni di tutti i nipotini…

Vi aspettiamo numerosi anche in compagnia dei vostri nonni. Tante allegre storie di Nonnette e Nonnetti energici, simpatici e un po’ bizzarri vi attendono!

Iniziativa a cura delle volontarie del Servizio Civile Nazionale presso la Biblioteca Renato Nicolini – ProgettoFantasia: Alessia, Ambra, Sara, Tatiana

Dedicato a tutti i bambini dai 3 ai 6 anni
Previa prenotazione al numero 06/45460421

Buon Compleanno Sala Fantasia

Festeggiamo tutti insieme il primo anno della Sala Fantasia

Nei prossimi giorni il programma completo




Muratella, M5S toglie presidio anti roghi tossi Via Candoni

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MURATELLA, M5S TOGLIE PRESIDIO ANTI ROGHI TOSSICI AL CAMPO DI VIA CANDONI

 

Sono sconcertata dalla mozione approvata in Consiglio dal Movimento 5 Stelle del Municipio XI, che chiede che venga sospeso il servizio di vigilanza da parte della Polizia Municipale davanti al Campo Nomadi di Via Candoni che, dalla sua istituzione nel Dicembre 2015, ha evitato lo svilupparsi di roghi tossici – Lo dichiara Emanuela Mino, già Presidente del Consiglio del Municipio XI e membro del Partito Democratico.

 Roghi Muratella

Già nel lontano Giugno del 2015 scrissi all’allora Prefetto Gabrielli per trovare una soluzione all’improvviso incremento di roghi tossici che da un lato rappresentavano il punto finale di una attività che sul commercio illegale di materiali metallici fondava il proprio business e che dall’altro costituiva grave nocumento per la salute pubblica, visti i centri abitati limitrofi e la presenza anche di una struttura ospedaliera, di un nido e della contigua rimessa dell’ATAC.

Con il sostegno dell’allora Municipio XI, il Tavolo per l’Ordine e la Sicurezza presieduto dal Prefetto elaborò questa soluzione che stroncò finalmente il fenomeno. Oggi, il Movimento 5 Stelle ne chiede l’abolizione perchè auspica che sia l’esercito a dover intervenire senza sapere, però, che una soluzione di questo tipo richiederebbe da un lato tempi lunghi per il necessario protocollo d’intesa con il Ministero competente e dall’altro, sarebbe probabilmente infattibile per la difficoltà di giustificare la presenza dell’esercito per un compito proprio delle polizie locali, cosa ben diversa dall’attuale dispiegamento dei militari a difesa degli obiettivi sensibili ad attacchi di terrorismo.

Dopo tre mesi di assoluto nulla in Municipio XI, cosi come in Campidoglio, il Movimento 5 Stelle intrappolato da faide interne, incompetenza e privo di una reale conoscenza del territorio non solo non mostra capacità di mettere in campo idee nuove e le tante promesse elettorali ma distrugge anche quei provvedimenti che hanno raccolto il consenso dei cittadini e che si sono dimostrati utili a risolvere i problemi della città.

La richiesta che ho sempre avanzato, coerentemente con quella degli abitanti del territorio, è di procedere alla chiusura del campo di Via Candoni e, nel frattempo, di poter continuare ad avere una vita dignitosa e nel rispetto della salute, senza lo spettro dei roghi tossici che inevitabilmente ricominceranno con l’eliminazione del presidio.

 




Proposta di legge: Piano nazionale per la rigenerazione delle periferie delle città metropolitane

Secondo le Nazioni Unite entro il 2050 soltanto una persona su otto vivrà nel centro urbano, in quelle che vengono ancora classicamente definite « città », mentre i restanti vivranno nella periferia urbana.

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Proposte e considerazioni della rete «Decide Roma» per il Tavolo tecnico istituito dalla Giunta capitolina

Il Consiglio Comunale di Roma Capitale ha approvato, lo scorso 5 agosto, una mozione ex art. 109, con la quale si dà mandato alla Sindaca e alla Giunta di istituire un «Tavolo tecnico propedeutico alla stesura di una nuova disciplina nell’uso dei beni del patrimonio indisponibile di Roma Capitale, che enuclei nel dettaglio i beni della futura regolamentazione e gestisca medio tempore le urgenze di rientro in possesso dei beni, in presenza di contestazioni che attengano a pretese inadempienze dell’Amministrazione». La rete Decide Roma, come è noto, da molti mesi ha intrapreso un denso percorso di consultazione popolare e di discussione democratica, anche in dialogo con le forze politiche e l’amministrazione, finalizzata ad individuare i principi che dovrebbero sovrintendere alla riscrittura delle regole per un nuovo uso comune dei beni pubblici nella nostra città.
Apprendiamo dai social media che il citato Tavolo tecnico è stato convocato. Crediamo che sia un segnale importante, sintomo (sperabilmente) della effettiva volontà di trovare una soluzione ad una vicenda ormai drammaticamente segnata da un perenne stato di emergenzialità, che costringe tutti i soggetti coinvolti in una detestabile incertezza, che ipoteca la possibilità di affrontare con la giusta serenità una discussione così importante per la città tutta, e che – soprattutto – rende quasi impossibile, nella quotidianità, l’esercizio delle nostre tante attività sociali e culturali, spesso delicate, e che comunque hanno bisogno di progettazione e programmazione di lungo periodo. Con riferimento alla mozione approvata in agosto, riteniamo di centrale importanza la parte in cui ci si riferisce alla «partecipazione dei cittadini alle scelte politiche che determinano la loro vita ed il destino dei loro territori», concetto ripreso laddove si segnala che «anche […] gli immobili relativi alle deliberazioni […] n. 219/2014 (patrimonio pubblico di Roma Capitale “bene comune”) necessitano, per la relativa assegnazione, di un processo che coinvolga cittadini ed organi politici competenti in un’ottica di programmazione più efficace per il territorio e le realtà che lo animano». Questa attenzione alla partecipazione democratica, dei soggetti coinvolti e degli abitanti di Roma in generale, che da sempre costituisce il significato e il metodo della nostra rete Decide Roma, crediamo debba innervare oggi, da subito, la discussione che sta intraprendendo il Tavolo tecnico. In altre parole, non crediamo sia possibile, per l’Amministrazione, procedere alla modifica della normativa sul patrimonio pubblico senza un coinvolgimento protagonistico e una consultazione costante dei soggetti associativi e le realtà sociali che da decenni operano nella città in relazione alla materia. Altrimenti si tratterebbe, in sostanza, di uno schema identico a quello scelto dalla Giunta Marino (e segnatamente dagli assessori Nieri prima e Cattoi dopo), proprio lo schema che ha portato all’attuale, drammatica situazione. Nel richiedere dunque l’immediata apertura pubblica e partecipativa della discussione, crediamo sia utile cominciare ad esporre alcune considerazioni ed alcune proposte in merito, elaborate in questi mesi.

• Il quadro normativo
Il quadro normativo entro il quale va collocata la riforma della regolamentazione per l’uso dei beni di natura indisponibile di proprietà di Roma Capitale è piuttosto complesso e articolato. È possibile individuare almeno tre nuclei normativi, che permangono ancora nella vigenza: il primo e più risalente nucleo è il vecchio Regolamento sulle concessioni del 1983; il secondo nucleo è quello composto dalla delibera n. 26/1995 e dalla delibera n. 202/1996; il terzo nucleo, più recente, è quello costituito da alcune norme della delibera n. 6/2014, dalla delibera n. 219/2014 e dalla famigerata delibera n. 140/2016.
Su ciascuno di questi nuclei normativi, sulla sua storia, sulla concreta applicazione e sugli esiti sociali, ci sarebbe molto da dire. Valgano però intanto alcune considerazioni, certamente utili al lavoro da svolgere nelle prossime settimane.
La delibera n. 26/1995 costituisce effettivamente il più importante atto di riconoscimento formale dell’importanza della vivace scena associativa e culturale romana. Si trattava, in buona sostanza, del riconoscimento politico di spazi di autonomia e di autorganizzazione, in assenza dei quali non sarebbe stata possibile la moltiplicazione di esperienze e attività che – da un lato – hanno oggettivamente contribuito per anni a tracciare uno dei profili culturali più moderni e avanzati della città, e che – dall’altro lato – hanno organizzato dal basso servizi propriamente welfaristici (addirittura, sovente, in ambito sanitario), sostituendo “sussidiariamente” il settore pubblico laddove la sua assenza si avvertiva più duramente in termini di mancata garanzia di diritti fondamentali (diritto ala salute, diritto allo sport, diritto alla cultura, diritto allo studio, diritto al lavoro degno, diritto alla socialità, eccetera). Questo riconoscimento politico (nel senso più nobile del termine) si traduceva, tra le altre cose, nella decurtazione dell’80% del canone concessorio degli immobili: una scelta lungimirante, che non solo rendeva possibile il concreto svilupparsi di realtà davvero “indipendenti”, ma che contribuiva alla sottrazione di importanti porzioni di patrimonio immobiliare capitolino alla mercificazione selvaggia dei territori, agendo per questa via come vero e proprio strumento di politica urbanistica, oltre che sociale e culturale. Pur prendendo atto della necessità storica di immaginare nuove e più moderne forme di regolamentazione, che non guardino solo al passato ma al futuro, crediamo che questo senso profondo di quell’esperienza vada ricordato e mantenuto: la gestione del patrimonio pubblico, infatti, non può essere una mera gestione contabile o amministrativa, improntata soltanto a ciechi criteri di efficienza, efficacia ed economicità, ma può e deve essere strumento di politica sociale e culturale, per mezzo del quale promuovere e favorire le iniziative cooperative e solidali della cittadinanza, differenziando regole e procedure a seconda della finalità oggettiva dei soggetti coinvolti.
La seconda considerazione relativa al secondo nucleo normativo è, per così dire, l’altra faccia della medaglia. Se infatti quella stagione amministrativa aveva dimostrato la capacità di riconoscere e favorire il meglio dell’attivazione dal basso del tessuto sociale, dall’altro lato, tuttavia, specialmente con la delibera n. 202/1996, venivano a ciò predisposte attività amministrative eccessivamente procedimentalizzate, poco chiare sia per i cittadini che per l’Amministrazione stessa, spesso inutilmente cavillose, più attente alle forme amministrative che alla sostanza dei processi in atto. Questa procedimentalizzazione, tra l’altro, non ha soltanto – sul lungo periodo, cioè oggi – generato i mostri amministrativi che saranno successivamente esposti e ai quali urge trovare rimedio, ma non ha neppure impedito che l’Amministrazione stessa ne rimanesse vittima, in termini di responsabilità personale dei funzionari e dei dirigenti preposti. Crediamo che questa vicenda debba necessariamente insegnare qualcosa, relativamente a come e a quanto si deciderà di normare la materia in oggetto.
Il terzo nucleo normativo, quello più recente, ha provato – in maniera assolutamente scomposta – a riordinare la disciplina in materia. Una prima decisione, assolutamente rilevante e rispetto alla quale non è opportuno arretrare, è quella contenuta nella delibera n. 6/2014, laddove essa – nel disporre il piano di alienazioni di una parte del patrimonio pubblico capitolino – esplicita che gli immobili interessati dalle assegnazioni ex delibera n. 26/1995 sono escluse dal suddetto programma di (s)vendita immobiliare. Gli altri due provvedimenti, invece, sono quelli che hanno creato l’attuale «emergenza sgomberi», ossia quelli che hanno nei fatti predisposto la totale tabula rasa dell’intero tessuto sociale, culturale e associativo romano.
In primo luogo, c’è da segnalare come la delibera n. 219/2014 sia una delibera menzognera. Essa, infatti, è intitolata «Patrimonio pubblico bene comune», eppure la disciplina in essa contenuta non ha nulla a che vedere con i beni comuni, con la loro teoria giuridica e con la loro prassi amministrativa ormai consolidatasi in quasi 100 Comuni in tutta Italia.

• Delibera 140: cancellazione

• I beni comuni urbani
• Che cosa sono i beni comuni urbani (in generale, brevemente)
• Dettaglio della prassi amministrativa sui beni comuni + Napoli (cfr. Piscopo)
• La delibera presentata dalla Raggi nella scorsa consiliatura (importante!)
• Soluzioni intermedie, soluzioni a geometria variabile (non soluzione erga omnes)

• Urgenze, soggetti in campo, metodo
• Questione della Corte dei Conti e dei debiti (nel dettaglio)
• Metodo politico (brevemente, no missili)




La scuola al Centro

Duecentoquaranta milioni di euro per consentire le aperture pomeridiane e in orari extra scolastici in 6.000 scuole di tutto il Paese. “La Scuola al Centro”, l’iniziativa di contrasto alla dispersione scolastica e di inclusione sociale fortemente voluta dal Ministro Stefania Giannini, torna con un nuovo bando finanziato dal Fondo sociale europeo nell’ambito del PON 2014-2020. Questa estate sono state quattro le città coinvolte: Milano, Roma, Napoli e Palermo. Dieci i milioni stanziati nei mesi scorsi per le aperture estive. Ora sarà possibile ampliare l’esperienza in tutta Italia con una maggiore apertura delle scuole in orari diversi da quelli delle lezioni e quindi di pomeriggio e nei week end.

Sono 240 i milioni (fondi europei) che vengono messi a disposizione con il bando pubblicato oggi sul sito del Miur. Un finanziamento che consentirà a

circa 6.000 istituzioni scolastiche (il 72,4% delle 8.281 presenti sul nostro territorio) di prolungare il loro orario di apertura, offrendo in tutta Italia ai ragazzi coinvolti un arricchimento del percorso formativo e garantendo alle famiglie e al territorio un presidio di contrasto alla dispersione scolastica e di recupero delle sacche di disagio sociale.

“Partendo dal progetto ‘La Scuola al Centro’ stiamo proponendo al Paese un nuovo modello di scuola. Una scuola che è un punto di riferimento non solo quando c’è lezione. Un centro civico dove, anche grazie alla collaborazione con il territorio, i ragazzi possano stare di pomeriggio o nei week end, d’estate come d’inverno, trovando stimoli e iniziative alternative alla strada. La Scuola al Centro è il cuore del nostro piano contro la dispersione scolastica. I dati ci dicono che la situazione sta migliorando, il tasso di dispersione medio nazionale passa dal 20,8% del 2006 al 14,7% del 2015. Ma dobbiamo ancora lavorare molto. Soprattutto nelle aree dove c’è maggiore disagio sociale. Questa è la nostra risposta: un piano nazionale per una iniziativa organica, senza più fondi distribuiti a pioggia su micro-progetti non monitorabili come avveniva in passato – sottolinea il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Stefania Giannini – 400 istituti hanno tenuto le porte aperte nei mesi di luglio e agosto in quattro città, garantendo a ragazzi e famiglie un servizio gratuito e molto apprezzato. Ora puntiamo a raggiungere 6.000 scuole, per un impatto di scala e un salto di qualità grazie anche a più ore di musica, sport, teatro”.

Il bando
Il bando prende il via oggi e scadrà il 31 ottobre. Le scuole che accederanno ai finanziamenti dovranno garantire almeno 60 ore extra di potenziamento delle competenze di base (tra cui la lingua italiana) e almeno 60 ore extra di sport ed educazione motoria. A queste, si aggiungeranno quattro moduli (da 30 ore ciascuno) che dovranno essere coerenti con il Piano dell’offerta formativa e potranno riguardare il rafforzamento della lingua straniera, le competenze digitali, l’orientamento post-scolastico, la musica e il canto, l’arte, la scrittura creativa, il teatro, i laboratori creativi e/o artigianali per la valorizzazione delle vocazioni territoriali, l’educazione alla legalità e la cura dei beni comuni, la cittadinanza italiana ed europea, i percorsi formativi di inclusione che prevedano il coinvolgimento dei genitori. Complessivamente, ogni scuola potrà ricevere 40.000 euro per realizzare le attività extra.

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