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Periferie, Ater: “Condivido le lamentele sulla manutenzione”

“Ora si spaccia anche a mezzogiorno, non più solo di notte, eppure questo non viene raccontato abbastanza. Molti di coloro che sono ingaggiati dalla criminalità romana (immigrati) fanno molto più notizia in quanto stranieri che arrivano e non in quanto assoldati dalla malavita”. Così Adriana Goni Mazzitelli, antropologa, autrice della ricerca per l’Università Roma Tre ‘Vincere il confine’, frutto del lavoro di quasi cinque anni a Tor Sapienza. “Che qui la tensione nel 2014 fosse altissima, è verissimo. Ma se da un lato ci si è resi conto della consistenza della mafia di colletti bianchi in politica – precisa – dall’altra si dovrebbe parlare di più della mafia ordinaria legata ai traffici di droga, senza attendere che il pretesto per farlo sia lo straniero”.

Come ridare al territorio un vissuto quotidiano che lo renda abitabile e sicuro?

Mentre percorriamo i corridoi bui dei palazzoni di via Morandi, teatro delle rivolte di due anni fa, il prof. Carlo Cellammare, docente di Urbanistica a La Sapienza, esprime la desolazione per un progetto che si è rivelato fallimentare, quello che qui risale agli anni Settanta: edifici pensati in modo che dovessero essere autonomi dal resto del quartiere, isolati da un vialone difficilmente attraversabile, di fatto mai più dotati dei servizi ipotizzati all’origine. Eppure ci sono giovani che si danno da fare, tra cui Carlo Gori, regista, responsabile del Centro Culturale municipale Giorgio Morandi. Ci racconta che la maggior parte delle persone arrivate qui venivano dalle baracche del Quarticciolo e dalle aree limitrofe. Via via si sono stratificate altre persone, molte delle quali hanno occupato la spina centrale degli edifici e anche i sotterranei. Alcuni angoli evidenziano un’opera di salvaguardia e di decoro grazie al contributo volontario di alcune associazioni come la nostra, ma nella maggior parte di questi luoghi domina il degrado e l’abbandono. “Noi cerchiamo di fare più progettazione territoriale possibile”, spiega. “Con il gruppo teatrale funzioniamo molto bene. Proponiamo laboratori a cui partecipano i migranti, artisti veri. E’ un lavoro prezioso: loro non si stancano mai quando sono in un centro per immigrati, hanno quindi bisogno di impegni per avere una vita pressoché normale. Così dai loro dignità. E’ un mondo estremamente interessante”.

Se ci fosse maggiore e più costante manutenzione…

Raggiungiamo Giovanni Tamburino, Commissario Straordinario ATER (Azienda Territoriale per l’Edilizia Residenziale), già magistrato, il quale condivide le lamentele degli inquilini: “E’ vero che è insufficiente. Io ho voluto indicare nelle linee guida ATER che la manutenzione fosse messa al primo posto per l’anno 2017. Abbiamo aumentato in bilancio di oltre il 30% la quota destinata a questo aspetto. Non sarà sufficiente ma credo che migliorerà la situazione. Vogliamo anche che ci sia un maggior controllo su come questi soldi sono spesi. Deve finire la storia che le aziende demandate alla manutenzione poi non la fanno o la fanno male. Bisogna che la facciano, bene e nei tempi”. E aggiunge l’auspicio “che la collaborazione tra Ater e Comune ci sia e sia piena ed efficace. Altrimenti si rischia di perdere tempo. Per esempio, man mano che recuperiamo gli alloggi, noi li rimettiamo a disposizione del Comune per nuovi ingressi. L’anno scorso circa 400. Ma le nuove assegnazioni sono tardive. C’è qualcosa che non funziona. Il fenomeno delle occupazioni abusive potrebbe così essere superato anche se resta molto complesso giacché persone senza scrupolo fanno commercio di queste case. E’ gravissimo questo e deve essere stroncato. Il fatto è che bisogna ritrovare il senso di una regola comune perché diversamente prevalgono forme di sopraffazione, di violenza e minaccia che ricadono sempre sul più debole. E’ un dato di verità che c’è una guerra tra poveri. Per quanto mi riguarda non è questione di pelle, italiano o non italiano. Io non faccio differenza. Sicuramente ci saranno degli immigrati che starebbero meglio nei loro paesi ma questo vale anche per tanti italiani che si comportano male. Quindi la vera distinzione che dobbiamo fare è tra chi vuole una società secondo le regole e chi non la vuole. Che ci abitino italiani o non italiani a me non interessa, è una enorme sciocchezza per me”.

E’ solo una questione di usare la Forza pubblica?

“L’intervento della forza pubblica alle volte non è possibile – sottolinea Tamburino a proposito delle richieste, che pure emergono da diversi abitanti, circa l’impiego più massiccio della Polizia, vista come paralizzata, a garanzia della sicurezza del territorio – perché le conseguenze sarebbero ingestibili. Chi ha il difficilissimo compito dell’ordine pubblico, in una città come Roma, si deve confrontare con gli effetti di una azione. Conosciamo per esempio circa un migliaio di appartamenti dove vi sono persone che non ne hanno il diritto, ma non si può procedere contro di loro in modo indiscriminato. Le conseguenze vanno preparate e vanno predisposte. Togliere delle persone quando non ci sono strutture alternative causerebbe problemi di ordine sociale. Si tratta purtroppo di situazioni insolubili. Procediamo per approssimazioni progressive”. E intanto annuncia la fase esecutiva della trasformazione del quarto piano di Corviale dove ci si avvia verso una riconfigurazione generale dando un centro a quel modulo abitativo, “il cui famigerato quarto piano non ha funzionato nemmeno per un giorno”. A fronte dell’impegno di tanti abitanti, e non, per creare socialità e integrazione in territori difficili come questo, forse manca un anello di congiunzione con le istituzioni, mancano sostegno e risorse. “Se mancano – conclude Tamburino – vanno cercate, costruite e pretese”.

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Le start up di successo? Nascono in periferia e sono fondate da donne

A Milano la maggior parte nasce per iniziativa di donne, under 35. Dalla ciclofficina con bar all’hamburgeria con carne di struzzo, la fantasia delle nuove imprenditrici non ha limiti. Dal 2012 al 2015 complessivamente in città sono nate 382 imprese e l’83% è ancora in attività. Danno lavoro a 706 soci e 1.222 dipendenti

Anche in periferia possono nascere start up di successo. I fratelli gemelli Veca, uno apicoltore e l’altro disegnatore, a Baggio hanno avviato un progetto di animazione nelle scuole sulla difesa della biodiversità, con tanto di “Ape canterina” che accompagna gli incontri con i bambini. Luca e Riccardo, ingegneri ma con una grande passione per la corsa, al Parco Nord hanno creato, insieme ad altri amici, la prima (e per ora unica) Runstation della città: “La42” un negozio in cui non solo si possono acquistare scarpette, tute o integratori, ma dove è anche possibile fare la doccia o lasciare in deposito oggetti di valore (dal cellulare al pc) prima di fare la solita corsetta durante la pausa pranzo o prima di cena. Sono due tra le 570 imprese e start up sorte dal 2012 a oggi a Milano. Alcune grazie a specifici bandi dedicati alle periferie. L’ultimo, chiamato “Startupper” e chiuso l’estate scorsa, ha messo a disposizione 1,5 milioni di euro: ne sono nate così 21 imprese di periferia. La maggior parte fondate da donne (16), under 35 e in possesso di laurea o diploma. Le nuove realtà che aprono sono sei in Corvetto, quattro a Villapizzone, tre in Lorenteggio e Giambellino, due in Barona e in Bicocca-Greco una a Morsenchio, a Bruzzano, in Bovisa e in Certosa. La fantasia dei novelli imprenditori va dalla produzione di pasta fresca a una moderna ciclofficina con annesso bar, passando da elementi d’arredo esterno realizzati in marmo a un’hamburgeria dove gustare sapori esotici come carne di canguro e struzzo, sino a uno studio specializzato nella realizzazione di spazi abitativi sostenibili, come giardini e orti urbani.

Secondo i dati del Comune, presentati oggi dall’assessora al Lavoro e Commercio Cristina Tajani, su 382 start up monitorate e sostenute attraverso gli otto incubatori d’impresa o con i diversi bandi dedicati come “Risorse in periferia”, “Tira su la clèr”, “Tra il dire e il fare” e “Agevola Credito”, l’83% è ancora attiva a 5 anni dalla nascita, quando il tasso di sopravvivenza nazionale è del 44%. Sono imprese che danno lavoro a 706 soci e 1.222 dipendenti. Dal 2012 al 2015 hanno fatturato circa 314 milioni di euro, mentre i finanziamenti ricevuti ammontavano a 7,1 milioni di euro. Questo vuol dire che ogni euro dato tramite bando ha generato circa 43 euro di fatturato. “I risultati raggiunti costituiscono la miglior cartina di tornasole per giudicare l’efficacia delle politiche attuate dall’Amministrazione”, ha sottolineato con un certo orgoglio l’assessora.

Tra le imprese sostenute in questi anni dal Comune ci sono anche quelle nate o che operano all’interno delle carceri milanesi. Ne è nato anche un consorzio, Vialedeimille, che raccoglie cinque cooperative con 100 persone -detenute o in misura alternativa- assunte e un fatturato di produzione di circa 1,5 milioni di euro in diversi campi d’intervento, dalla ristorazione alla meccanica, dall’artigianato alla botanica.

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La sfida di Made expo, rigenerare le città dalle periferie

Il salone internazionale dell’architettura e delle costruzioni che si terrà dall’8 all’11 marzo in Fiera Milano con 1.400 espositori punta sulla ripresa del mercato delle costruzioni. Quattro settori specialistici e un progetto per la riqualificazione urbana del futuro
La sfida dei prossimi anni per l’architettura e l’edilizia si chiama “rigenerazione urbana” e parte dalle periferie con l’obbiettivo di ridurre il consumo del suolo e riqualificare aree urbane con fabbricati spesso caratterizzati da scarsa qualità architettonica e costruttiva e spesso privi di requisiti antisismici.

Con attenzione, per quanto riguarda le politiche urbanistiche, alle aree di aggregazione, ai servizi e ai parchi con l’obbiettivo di riqualificare anche il capitale sociale delle periferie. E’ questa la parola d’ordine lanciata alla presentazione di Made expo, fiera internazionale dell’architettura, del design e dell’edilizia che si terra dall’8 all’11 marzo nei padiglioni di Fiera Milano. Un grande hub per il mondo dell’architettura e dell’edilizia.

Dibattito al quale hanno preso parte, oltre al presidente di Made Expo Roberto Snaidero, l’architetto Stefano Boeri, John Foot professore di Storia italiana all’Università di Bristol, Cristina Tajani assessore al Commercio del Comune di Milano, responsabile del progetto Sharing Cities.

“In Europa viviamo sempre di più in città diffuse, disperse e frammentate, i cui tessuti urbani aumentano ogni anno il proprio diametro, pur generando deserti al loro interno, città in cui centro e periferia sono parole dure e difficili da definire. Non perché non ci siano centri o non ci siano periferie, ma perché oggi, per i fenomeni demografici e di immigrazione, per la polivalenza di culture che abitano le nostre comunità urbane, la questione è diventata irriducibile a una semplice opposizione tra centro e periferia – ha spiegato Stefano Boeri -. Si stanno formando anticittà non contrapposte alla città ma che le erode dall’interno distruggendo il fare città”.

“In Italia abbiamo città dove questo tipo di periferia è nel cuore stesso della città: i Quartieri Spagnoli a Napoli così come il centro storico a Genova sono luoghi di sofferenza e di assenza di servizi o come via Gola, a Milano: vicino alla Darsena. Le politiche urbane – ha proseguito l’architetto Boeri – non possono semplicemente essere politiche che riducono le distanze centro-periferia o intervengono localmente per portare servizi. Occorre promuovere condizioni di urbanità, di intensità di scambi e relazioni. Si tratta di creare spazi di aggregazione, di cui le singole comunità possano appropriarsi e che possano gestire e spazi di interazione, dove le diverse comunità possano incontrarsi”.

“Le città e le società occidentali hanno attraversato profondi cambiamenti nell’ultima trentina d’anni. La fabbrica non è più il centro della vita urbana o economica.

– ha esordito il professor John Foot -. Gli immensi spazi che si sono liberati sono stati riempiti con nuovi progetti a destinazione mista, aree residenziali, centri commerciali, zone ricreative, musei, parchi. Questo cambiamento rivoluzionario ha inciso sul funzionamento della città, e quindi sul ruolo dell’architettura e dell’edilizia, oltre che del design. Adesso si lavora tutto il tempo, e la giornata è scandita da internet e dai social media. Non esiste un orario lavorativo: la vita – come l’orario di lavoro – è flessibile. Ritmi, tempi e griglia delle attività urbane non sono più quelli di uno spazio industriale. I luoghi del lavoro e del tempo libero sono mescolati tra loro, non più separati da muri, cancelli e divise da lavoro che fanno vedere a tutti qual è la nostra occupazione. Questi mutamenti sono stati accompagnati e spinti dalla globalizzazione che ha portato l’immigrazione di massa e spostamenti di popolazione in tutto il globo, coinvolgendo persone qualsiasi in cerca di lavoro, ma anche professionisti – architetti, designer, costruttori – che sono chiamati a trasportare altrove le loro capacità di innovazione e le loro competenze, in ambienti e culture diverse”. Per questo, ha spiegato ancora Foot, “dobbiamo andare oltre la retorica della periferia, la rapidità del cambiamento fa sì che la periferia di oggi possa diventare il centro di domani”.

“E’ un cambiamento epocale – ha spiegato l’assessore Cristina Tajani – dove cittadini, amministrazioni e progettisti dovranno collaborare in maniera sempre più stretta per favorire uno sviluppo territoriale attraverso l’ottica dell’innovazione. Essere una Smart City non significa puntare esclusivamente sulla tecnologia quale strumento per migliorare la qualità della vita dei cittadini ma soprattutto favorire la condivisione e l’innovazione. E’ un processo virtuoso che unito alla trasformazione di porzioni di città già urbanizzate come gli ex-scali ferroviari in aree di aggregazione, servizi e parchi urbani, ci proietterà nelle città del futuro. Ed è qui – ha concluso – che la Made expo gioca un ruolo da protagonista grazie alla sua capacità di attrarre innovazione e ricerca proponendo soluzioni e materiali che avranno un ruolo fondamentale in questo processo di trasformazione”.

“Questa edizione di Made expo – ha dice Roberto Snaidero – rappresenterà un fondamentale momento di confronto tra imprese e istituzioni per dare un contributo alla crescita economica e alla trasformazione del nostro Paese e delle nostre città. Grazie a un mix unico di innovazione e competenza la manifestazione presenta e mette a disposizione del mercato gli strumenti indispensabili per portare avanti questo ambizioso progetto. Anche quest’anno Made expo sarà un grande evento esperienziale, un luogo fisico dove scoprire, vedere, conoscere, toccare, decidere. Un grande evento in grado di spingere verso i mercati internazionali e far ripartire quelli nazionali. Grazie ai quattro Saloni tematici specializzati e al palinenseto di iniziative mirate, i visitatori potranno conoscere in anteprima materiali e soluzioni in un momento di inizio ripresa del mercato delle costruzioni che, secondo stime di Ance, nel 2017 registrerà un incremento dell’0,8% degli investimenti in edilizia”.

La fiera, con circa 1.400 espositori offre una visione multi-specializzata su materiali, sistemi costruttivi, serramenti, involucro, finiture e superfici. Quatto i Saloni.

Made costruzioni materiali (padiglioni 6-10) – Presenta soluzioni costruttive e tecnologie innovative, materiali performanti, attrezzature più all’avanguardia per un’edilizia sostenibile e sicura. In scena sistemi costruttivi e strutture in legno (di grande interesse per il boom delle case in legno), laterizio, calcestruzzo e acciaio, materiali, manufatti, prodotti performanti nei settori dell’impermeabilizzazione, isolamento, protezione, risanamento e rinforzo strutturale, colore e pitture, sistemi di misura, prova e controllo, soluzioni per il cantiere e per la sicurezza. Made involucro e serramenti (padiglioni 1-2-3-4) – Rappresenta tutta la filiera in tema di serramenti, tende, sistemi di oscuramento, protezione, involucro edilizio e coperture. Made interni e finiture (padiglioni 5-7) – Propone soluzioni ad alta qualità e prodotti innovativi per pavimenti, rivestimenti, porte, maniglie e accessori, controsoffittature, partizioni interne, pareti attrezzate, scale e finiture. Made software tecnologie e servizi (padiglione 10) – Mette in mostra le ultime novità in ambito software: dalla progettazione e calcolo strutturale alla progettazione architettonica ed ingegneristica, e del Bim. E poi stampanti 3D, realtà aumentata, tecnologie e servizi innovativi funzionali a progettare, costruire e gestire edifici ed ambienti.

Da segnalare infine Carousel for Life, il progetto che FederlegnoArredo ha deciso di lanciare a Made expo generato da una ricerca condotta sull’architettura per l’infanzia, finalizzato a orientare una nuova visione che definisca criteri qualitativi di progettualità e produzione, mettendo i bambini al centro del mondo.

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Stefano Boeri: l’edilizia verde che porta la Natura nelle città e il lavoro nelle comunità terremotate

Il tema dell’edilizia sostenibile è all’ordine del giorno non solo tra gli addetti ai lavori ma anche a livello governativo, economico e sociale: gli edifici del prossimo futuro dovranno sfruttare fonti rinnovabili, sprecare meno energia possibile e integrarsi con l’ambiente circostante per consentire alle persone una migliore qualità di vita.

Ne abbiamo parlato con un personaggio di spicco dell’architettura italiana, Stefano Boeri, noto al grande pubblico per essere l’artefice del cosiddetto “Bosco Verticale”, un nuovo complesso residenziale a Milano in cui le forme tipiche dei grattacieli sono state integrate ed arricchite da piante ed alberi disposti su più livelli. Boeri è stato recentemente incaricato di ricostruire con criteri moderni e sostenibili alcuni luoghi pubblici di Amatrice. L’intervista è andata in onda in “A Conti Fatti” rubrica di EconomiaCristiana.It trasmessa ogni domenica da Radio Vaticana 105.0.

Architetto Boeri, il suo bosco verticale non è solo un nuovo stile architettonico ma anche un nuova filosofia edilizia che porta l’ambiente a diretto contatto con gli edifici. Può raccontarci la genesi, l’essenza e la filosofia di questa idea?
Le torri di Milano, il “Bosco verticale”, sono due edifici alti 120 e 90 metri che ospitano sulle facciate circa 21 mila piante: 850 alberi e 5 mila arbusti; le restanti 15 mila sono piante rampicanti, perenni ecc. L’idea è contribuire fortemente a cambiare il rapporto tra artificio e natura all’interno di una grande città. Portare l’equivalente di due ettari di bosco su una piccola superficie nel centro di una città vuol dire, da un lato, produrre ossigeno e assorbire CO2 grazie a foglie, alberi e piante; dall’altro assorbire le polveri sottili del traffico e creare condizioni climatiche che riducono fortemente i consumi energetici.
L’altro grande contributo di questi edifici, che stiamo verificando e studiando in questi mesi, è rispetto alla biodiversità: non solo ci sono più di 100 diverse specie di piante ma hanno anche nidificato più di 15 specie di volatili; significa che molte specie che erano lontane dei cieli di Milano, sono tornate a nidificare grazie a questo esperimento. Io credo che sia un prototipo, un esperimento che sta dando dei frutti interessanti.

Le due torri milanesi sono edifici di pregio, destinati a persone benestanti. Si può conciliare l’edilizia sostenibile con quella popolare?
L’investimento importante fatto per queste due torri ci ha permesso di fare una serie di ricerche e trovare delle soluzioni tecniche che prima non avevamo a disposizione. Oggi noi siamo in grado di utilizzare queste conoscenze per realizzare architetture che hanno una destinazione molto diversa. In Cina, Francia, Svizzera e Albania stiamo facendo delle architetture, non così alte, anche con funzioni diverse, tutte però con la presenza degli alberi sulle facciate, come elemento caratteristico. Quindi, assolutamente si: oggi si può pensare anche ad un’edilizia sociale che porti la natura a contatto diretto con gli abitanti.

In un recente seminario a Pavia, organizzato per discutere di architettura alla luce dell’enciclica ambientale di papa Francesco, la “Laudato si’”, le ha dichiarato che gli architetti hanno ora anche un ruolo attivo nella salvaguardia dell’ambiente e nel miglioramento delle condizioni sociali nelle città.
Credo che la “Laudato si'” sia un testo di grandissima importanza perché pone con forza il problema di un’etica della responsabilità nei confronti del rapporto con la natura. Senza ipocrisie chiama, non solo gli architetti, ma tutti quelli che hanno a che fare con le trasformazioni dello spazio, a fare i conti con le grandi questioni dell’ecologia; l’ecologia integrale, olistica, a cui oggi è importante guardare, come il Pontefice sottolinea più volte.
Credo che, da questo punto di vista, il lavoro dell’architettura sia importante, perché si tratta di immaginare una città che stabilisca un rapporto diverso con la natura. Non dimentichiamo che le città producono circa il 70% dell’anidride carbonica che viene poi immessa nell’atmosfera, e le foreste e i boschi ne assorbono il 45%. Quindi portare i boschi, la foresta, dentro la città, significa in qualche modo andare a combattere il nemico dov’è più forte; oppure, in altri termini, immaginare un nuovo modo di conciliare la città con la presenza della natura. E’ davvero una sfida importantissima per il futuro, e questo richiamo a una visione ecologica integrale mi sembra importantissimo.

Il nostro paese è pronto a questa sfida, dal punto di vista politico, amministrativo, finanziario ed economico?
L’Italia ha delle caratteristiche particolarissime. E’ un paese dove il consumo di suolo, la crescita delle città a scapito dell’agricoltura e della natura non si è mai arrestato. Contemporaneamente è un paese dove sono cresciute le foreste e i boschi perché l’abbandono delle campagne, l’abbandono dell’agricoltura, l’abbandono dei piccoli centri appenninici ha determinato una crescita delle foreste spontanee. Io credo che oggi dovremmo ragionare molto bene su questa condizione e capire, ad esempio, che investire sui boschi e le foreste, che sono una risorsa di tutto il territorio italiano, dalla Valle d’Aosta al Trentino, dal Lazio agli Abruzzi, alla Calabria, potrebbe portarci non solo a immaginare un paesaggio dove la forestazione, anche urbana, è più importante, ma immaginare anche un modello economico. Come nel secolo scorso il carbone e l’acciaio sono stati risorse materiali che hanno, in qualche modo, ispirato e governato un intero modello produttivo, credo che il legno il legno dei nostri boschi possa diventare una risorsa fondamentale per pensare a un sistema di distretti del legno nelle diverse regioni italiane che in qualche modo coprano tutta la filiera: dal taglio, perché sappiamo che la selvicoltura cura e aiuta le foreste e la biodiversità, fino alla fabbricazione, agli arredi, al riciclo del legno come materiale ecologico. E’ un investimento importante. Un po’ provocatoriamente mi è capitato di dire che in Italia servirebbe un ministero del legno e dei boschi.

Un’applicazione pratica di questo concetto è la nuova mensa di Amatrice, realizzata in gran parte in legno, per cui lei ha prestato gratuitamente la sua opera. Può raccontarci il progetto e il suo impegno futuro per le zone terremotate?
Siamo stati chiamati dal Corriere della Sera e dal TG La7 a immaginare uno spazio che fosse una mensa scolastica ma, come il Sindaco di Amatrice ci ha subito chiesto, fosse anche un luogo pubblico, per eventi; un luogo d’incontro della comunità ma anche, mi piace dire, un luogo di lavoro: abbiamo finito di costruire l’edificio della mensa, stiamo finendo l’edificio di altri otto ristoranti, e a pasqua dovremmo inaugurare una piazza che, di fatto sarà, un polo dell’alimentazione, dell’agro alimentare, che darà lavoro a circa 130 persone, quindi a 130 famiglie. Io credo che l’attenzione alla ricostruzione dei luoghi di lavoro sia la condizione perché le comunità non si disperdano. L’effetto di un sisma è che in pochi secondi annulla secoli di storia e decenni di memoria collettiva; si perde il rapporto col presidio del territorio che solo il lavoro può dare: quando dico lavoro intendo pastorizia, zootecnia, enogastronomia, turismo, artigianato. Quando si perde quell’elemento, si perde il senso del fare città, del fare comunità sul luogo. Quindi penso che sia fondamentale partire dal ricostruire, inventare luoghi di lavoro, che permettono alle comunità di non perdere il rapporto con quel territorio.

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Scrivere su Roma, per parlare a chi?

Mentre la città affonda nelle macerie della sua fantastica Storia come un incubo nelle Carceri di Piranesi, scrivere su Roma è un po’ come scommettere, alle corse, su un cavallo zoppo: inutile sprecarci inchiostro, e poi per parlare a chi? Non certo ad amministratori afoni, preoccupati solo di rispondere a un codice etico stabilito dal loro partito o dal loro Capo, e neppure alle singole persone abituate, come solo succede ai romani, ad attraversare campi minati, scavalcare fili spinati, attendere inutilmente autobus sgangherati. Un suk di disperazioni. Chi si ricorda che questa città ha bisogno di idee e progetti? Chi si preoccupa del fatto che esiste una città di sotto dove invisibili presenze senza nome costruiscono rifugi e rovistano tra rifiuti? Eppure, magari perché poco inclini all’assuefazione, continuiamo ostinati a domandarci: sarà ancora possibile disegnare un modo diverso di essere moderni senza pensare di essere a Dubai?

Di Roma si parla ormai solo in occasioni di cronache giudiziarie, di scandali, di presunte o vere mafie, di aggressioni e stupri. Nel mentre la città affonda nelle splendide macerie della sua fantastica Storia, come nelle Carceri di Piranesi. «Siamo sereni, andiamo avanti» è il refrain della sindaca Raggi e della sua squadra, ma nessuno sa in quale direzione. Sarebbe più saggio affermare: «Fermiamoci e chiediamoci dove e in che direzione andare».

Scrivere su Roma è come scommettere, alle corse, su un cavallo zoppo: inutile sprecarci inchiostro, e poi per parlare a chi? Non certo a questi amministratori afoni preoccupati solo di rispondere a un fantomatico codice etico stabilito dal loro partito o dal loro Capo, e neppure alle singole persone ormai abituate, come solo succede ai romani, ad attraversare campi minati, scavalcare fili spinati, attendere inutilmente autobus sgangherati sperando che non cedano lungo il percorso.

Si è dimenticato che una città ha bisogno di idee e progetti; i quali, però, non sono quelli che dovrebbero renderla simile a Dubai o a qualche altra fantasmagoria ultra (o post) moderna. Si è dimenticato che esistono periferie in balia di attività illegali, droga, disagio esistenziale ed economico. E si è dimenticato che esiste una città di sotto dove invisibili presenze senza nome costruiscono rifugi e rovistano tra rifiuti.
Quando le cose vanno bene, l’amministrazione si limita alla pura ragioneria contabile, strozzata dai debiti. La rassegnazione dilaga incontrastata: è già tanto che qualche autobus arrivi alla fermata e raggiunga il capolinea o che una delle due metro funzioni.

È già tanto che non ci si azzoppi una gamba durante il percorso ad ostacoli per arrivare al lavoro. E una volta arrivati si tira un sospiro di sollievo: anche questa mattina ce l’ho fatta, sono salvo! Nel mentre sciami di cavallette travestite da turisti, scendono da torpedoni a due piani, pronti a divorare tutto ciò che incontrano: dall’Altare della Patria al Mosè di Michelangelo, non distinguendo l’uno dall’altro. Centri commerciali fioriscono come funghi intorno e oltre il raccordo anulare e si leggono, sempre più spesso, cartelli di affittasi o vendesi di antichi negozi e botteghe che non ce l’hanno fatta; fioriscono nuovi Bingo, nuovi negozi di «Compro oro», o creative insegne di «Non solo pane», «Non solo pizza»: un suk di disperazioni.

C’è chi ritiene che Roma sia afflitta da un ritardo di modernizzazione, una modernizzazione mancata o incompiuta, tanto che si invoca il trasferimento della sua funzione di capitale ad altre città (la solita Milano). Ma di quale mancata modernizzazione si parla? Non quella di far funzionare gli autobus, di dare pace a una metropolitana che non sa da che parte andare né di mettere fine al problema dello smaltimento dei rifiuti o di valorizzare (anziché far chiudere) quei centri sociali e quelle associazioni dove si creano lampi di possibili comunità conviviali, nuove culture e nuovi linguaggi. Né, ancora, di accogliere i diseredati del mondo o di intervenire sul risentimento delle periferie, prima che diventino polveriere pronte ad esplodere.

Roma non è mai stata, non lo è ancora adesso, e non sarà mai moderna se a questa parola si attribuisce il significato di competere nella classifica delle città globali, o di essere luogo indiscusso della finanza mondiale, o di essere smart o brand per attirare capitali. E insistere nella necessità di modernizzarla (leggi: politica delle grandi opere), è come tentare di normalizzare il collo della giraffa per farlo diventare come quello di un cavallo.

Roma non ha bisogno di aggiunte, di imbellettamenti per diventare una star nel firmamento della globalizzazione o un’attraente prostituta in attesa di clienti. Roma ha già quanto ogni altra città desidererebbe avere; non servono le grandi opere, serve, al contrario, far funzionare e valorizzare ciò che già c’è (non era questo il programma della sindaca Virginia Raggi?). Perché allora non utilizzare questa sua «mancata modernizzazione», questo suo cronico «ritardo», per trarne un vantaggio competitivo nella scena globale, per sviluppare un modo diverso di essere moderni?

Questo potrebbe essere il progetto. Valorizzare le sue bellezze (arte, cultura, tradizioni) e perfino quella sua lentezza e pigrizia, risorsa rara in un mondo che corre troppo veloce; valorizzare la sua tradizione antirazzista (forse più per pigrizia che per merito), per creare luoghi e occasioni di accoglienza, valorizzare quell’immenso patrimonio di verde dell’Agro romano minacciato dall’urbanizzazione, valorizzare le tante esperienze di centri e comunità che producono cultura, convivenza tra diversità e quel welfare spontaneo fatto di coltivazione di orti e di pratiche di sopravvivenza.

E poi ancora impegnarsi seriamente per il Progetto Fori rendendo finalmente giustizia a Antonio Cederna. Dovremmo insomma fare tesoro di questa sua diversità anziché tentare di accorciare il collo della giraffa per renderla simile a un cavallo di razza, del quale non se ne sente alcun bisogno.

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Il Politecnico ha elaborato le mappe di Milano piú belle che abbiate mai visto

Alcuni studenti del Politecnico hanno presentato alla commissione periferie del Comune di Milano una serie di progetti e idee per possibili riqualificazioni delle periferie cittadine.

Il sindaco Sala ha più volte dichiarato che le periferie della città sono “la sua fissazione.” Oggi, alcuni studenti del Politecnico hanno presentato alla commissione periferie del Comune di Milano una serie di progetti e idee per possibili riqualificazioni delle periferie cittadine. I ragazzi hanno esposto le proprie proposte attraverso alcune slide, che sono disponibili sul sito del Comune e di cui vi proponiamo qualche estratto. I risultati del loro lavoro sono soprattutto grafici: cartine tematiche, grafici, simulazioni.

Il progetto è stato seguito dai professori Boatti e Rossi, che hanno coordinato i 32 studenti al primo anno di magistrale nella realizzazione dei progetti. “Gli studenti hanno compiuto un’analisi su tutta la città, e poi sono passati ad occuparsi dei singoli municipi,” ha dichiarato il professor Rossi prima che gli studenti cominciassero ad esporre. L’idea è suggerire una città più vivibile, risolvendo alcuni punti critici all’interno dell’urbanistica cittadina. Molti progetti, ad esempio, evidenziano la cronica mancanza di verde in città e la barriera costituita dalle varie ferrovie, che tagliano interi quartieri in due o più parti.

Alcune mappe sono anche buffe, come quella sui quartieri che twittano di più.

“Il lavoro ha avuto una parte che ha riguardato l’accessibilità — non solo barriere fisiche, ma anche economiche e sociali, che limitano il funzionamento urbano,” ha proseguito Rossi.

Gli studenti hanno elaborato una serie di mappe sulle diseguaglianze sociali, come quelle sul diverso valore degli immobili in città e il grado di inclusività di ogni quartiere.

Ovviamente i ragazzi del Politecnico hanno affrontato anche l’argomento scali ferroviari, forse la sfida urbanistica più importante per i prossimi anni.

Alcune mappe sono un po’ più creative, soprattutto quelle composte dalla sovrapposizione di più cartine tematiche.

“Abbiamo impostato il lavoro sul rispetto delle norme vigenti — il Comune di Milano ha un PGT, e i lavori sono stati svolti partendo da questa base. Chiaramente, con un PGT migliore, anche i risultati sarebbero stati migliori,” secondo il professor Boatti. Il PGT è il Piano di Governo del Territorio, il documento fondamentale per l’edilizia di ogni comune: quello in cui si decide quante case costruire, quanto verde piantare, quante strade tracciare. In poche parole, quanto sia vivibile una città.

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Periferie romane assediate dal disagio sociale e dalla criminalità organizzata.

In campo la Commissione d’inchiesta parlamentare e quella anti-mafia della Regione Lazio
Il tempo sembra essersi fermato nelle periferie romane. In queste ore sono iniziate le ‘ispezioni’ della Commissione parlamentare di inchiesta, che ha scoperto una condizione dei quartieri periferici romani ai limiti della sopportazione umana. A descrivere la situazione il presidente della speciale commissione, Andrea Causin che con queste parole ha descritto la situazione: “Le audizioni dei rappresentanti dei consorzi di autorecupero‎ delle periferie, delle associazioni per la rigenerazione urbana e dei comitati e associazioni degli abitanti dei Piani di Zona di Roma, sono un contributo prezioso per i lavori della commissione da me presieduta. Il dialogo e il confronto con chi ogni giorno vive i problemi e cerca soluzioni, è fondamentale ed imprescindibile”.

Il quadro che emerge a Roma è drammatico e preoccupante. Opere primarie mai completate e un miraggio la presenza di polizia e carabinieri

“Il quadro che emerge su Roma è drammatico e preoccupante. Opere di urbanizzazione primarie mai completate, piani di zona privi di rete elettrica, telefonica, del gas, e allacci fognari, con la conseguenza che i cittadini sono costretti in alcuni casi a pagare di tasca propria. In alcuni quartieri, come la Borghesiana e Tor Bella Monaca, la presenza delle forze dell’ordine è un miraggio, il tasso di abbandono scolastico è elevatissimo, vi è presenza di piazze dello spaccio aperte 24 ore al giorno‎, lotti di terreno dove sono state edificate abitazioni per residenza agevolata che tutt’oggi risultano di proprietà di società malavitose. Le denunce dei rappresentati dei comitati e degli abitanti dei Piani di Zona di Roma saranno parte integrante della relazione che la commissione periferie presenterà al Parlamento. Non solo. Trasmetteremo al sindaco di Roma, Virginia Raggi, al presidente della regione Lazio, Nicola Zingaretti e alle istituzioni competenti, le relazioni dei comitati e delle associazioni ascoltate oggi”, conclude.

In Regione le audizioni del presidenti di IV e VI Municipio, quadranti ricchi di potenzialità ma assediati dalla criminalità

E mentre la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle periferie va avanti con il suo lavoro, stessa cosa fa quella antimafia della Regone Lazio. E’ cominciato infatti l’ascolto dei presidenti dei municipi di Roma, a partire da quelli che amministrano i territori menzionati dal capo della polizia, Franco Gabrielli, durante l’audizione in Commissione parlamentare sulle periferie. L’incontro con i presidenti del IV e del VI municipio, ha permesso alla Commissione di approfondire le problematiche di zone quali San Basilio, Tor Bella Monaca e Ponte di Nona. Quartieri difficili ma al contempo ricchi di potenzialità, dove il basso livello dei servizi si associa spesso alle piazze dello spaccio, alla delinquenza minorile, a un’aspettativa di vita inferiore rispetto agli altri quartieri”. E’ quanto afferma la vice presidente della Commissione regionale sulla criminalità e le infiltrazioni mafiose nel Lazio, Marta Bonafoni.
“Un’audizione necessaria, quindi, per ascoltare questi territori, ma anche per individuarne le criticità maggiori e per chiedere risposte a chi si trova adesso a governarli – prosegue Bonafoni – Ripartire dal sociale, dalla cultura, dalla rigenerazione urbana sono le parole d’ordine emerse nel corso dell’audizione, ma anche la necessità di non criminalizzare i territori e di valorizzarne le risorse migliori, le associazioni, i comitati e le realtà che più di ogni altro conoscono il quartiere in cui vivono. Recepire prima di tutto le loro istanze, dunque, a partire dal grido di allarme lanciato proprio oggi dai rappresentanti di consorzi di autorecupero delle periferie e dalle associazioni per la rigenerazione urbana della Capitale, che durante la seduta della Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni delle città e delle loro periferie hanno descritto una situazione di abbandono inquietante. A questo degrado e a questa solitudine vanno trovate risposte nella partecipazione e nell’inclusione, quali strumenti a disposizione delle istituzioni per ridurre quel divario tutt’oggi presente tra la politica e i bisogni delle periferie”.

Giordano (Cgil Regione Lazio): “Sempre più evidente nelle periferie lo sfilacciamento dei rapporti sociali”
“Dai recenti fatti di San Basilio e del Trullo, dove è stato negato a due famiglie immigrate l’accesso all’abitazione di edilizia popolare loro assegnata, alla nuova manifestazione di sabato scorso: il dibattito cittadino continua a riaccendersi sul tema della casa mostrando come sia stretta la connessione con il sistema del welfare romano, il razzismo, il disagio sociale delle periferie, l’aumento della disoccupazione in un contesto politico di maggioranza e opposizione inconcludente”. Così, in una nota, Roberto Giordano, segretario della Cgil regionale. “Non apparteniamo alla squadra dei detrattori a prescindere – continua -. Crediamo anzi che la politica debba essere sempre protagonista ma siamo preoccupati per il sempre più evidente sfilacciamento dei rapporti sociali. Discutere di casa significa discutere del destino della città, dei quartieri e dei suoi abitanti. Chi ha manifestato sabato abita da più di dieci anni nei Caat, con un patrimonio che tra Ater e Comune di Roma ammonta a circa 73mila appartamenti e che totalizza il 47% del mercato degli affitti della Capitale”. “Nel patrimonio pubblico – precisa – vi sono molte rendite di posizione che non possono più essere tollerate e che vanno affrontate in maniera sistemica. Se si applicasse il Dgr 18 della Regione Lazio sull’emergenza abitativa e il nuovo Piano sociale di Roma, in fase di avvio, analizzando le criticità esistenti, si potrebbe davvero affrontare l’emergenza abitativa. Una maggiore mobilità del patrimonio Erp, la riforma degli enti gestori, la costituzione di un osservatorio e di un’agenzia per la casa, la rimodulazione degli alloggi: tutto ciò consentirebbe di evitare un nuovo consumo di suolo e ulteriori speculazioni. Naturalmente per fare questo ci vuole una regia politica, una politica appunto che torni a essere protagonista”.

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Noi cittadini di serie b, abbandonati dallo Stato

Le periferie romane in Parlamento: “Noi cittadini di serie b, abbandonati dallo Stato”
Una decina di comitati di quartiere sono stati ascoltati a Palazzo San Macuto dalla Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di sicurezza e sullo stato di degrado delle città
Abbandono, degrado, criminalità, ma anche problemi di salute e in alcuni casi addirittura assenza dei servizi essenziali come acqua potabile, fognature o illuminazione. Da Tor Bella Monaca a Castelverde, da Borghesiana al Parco degli Acquedotti passando per Corcolle e Don Bosco, i rappresentanti di una decina di comitati di quartiere della periferia romana sono stati invitati e ascoltati questa mattina a Palazzo San Macuto dalla Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di sicurezza e sullo stato di degrado delle città e delle loro periferie, presieduta da Andrea Causin (Area popolare-Ncd).

Tema centrale, senza dubbio, la sicurezza: “Troppo spesso siamo rimasti inascoltati in questi decenni – ha detto Riccardo Pulcinelli dell’Anacipe – nell’ultimo anno il numero di reati a Roma è diminuito del 15%, e allora ci domandiamo: perchè la percezione di sicurezza è ancora così bassa? Ci viene il dubbio che i cittadini, tra lentezza giudiziaria e burocrazia, hanno rinunciato a denunciare i reati. Oltretutto parliamo magari di Tor Bella Monaca e San Basilio, dove ci sono caserme e commissariati, e allora nella zona est dove la presenza delle forze dell’ordine è miraggio cosa dobbiamo pensare? In periferia il rapporto numerico forze dell’ordine/cittadini è vergognoso rispetto al centro. Percepiamo lo stato di abbandono in cui le istituzioni, soprattutto il Comune, ci hanno lasciato: enormi quartieri dormitorio dove vengono riversati immigrati e creati campi nomadi, senza mezzi pubblici adeguati, illuminazione a giorni alterni, parchi nel degrado. Zone in cui nascono veri e propri ghetti e zone franche”.

ECCO LE QUATTRO PERIFERIE PIU’ A RISCHIO DI ROMA

Andrea de Carolis, ex assessore della giunta M5S del VI municipio, esponente di Quartieri riuniti in evoluzione, parla di Roma est: “Noi non è che ci sentiamo, noi siamo abbandonati dallo Stato. Siamo ricchi di umanità, abbiamo la massima concentrazione di giovani, siamo pieni di bellezze naturali e archeologiche, da Villa Adriana alla necropoli dell’Osa, eppure siamo tagliati fuori da tutto. Ci siamo opposti all’ecomostro di Rocca Cencia perchè siamo già primi nei dati sulla diffusione del cancro da parte del dipartimento epidemiologico. C’è una condizione di illegalità diffusa, come nell’ex cava dell’Osa o nelle discariche di Lunghezza e Lunghezzina, siamo esposti ai veleni degli inceneritori. Ma noi ci siamo rivoltati contro questa Terra dei fuochi di Roma, ci siamo attrezzati per reagire e abbiamo proposto la creazione del parco nazionale dell’Agro romano: abbiamo avviato l’iter, ma ora vi chiediamo di aiutarci in questo percorso”.

C’è anche Matteo Gasbarri, dell’associazione Tor Più Bella: “Il municipio VI ha il dato di speranza di vita più basso di Roma, è una piazza di spaccio chiusa dove la droga si vende nei pianerottoli, nei palazzi, un caso unico. Solo tra febbraio e luglio 2016 sono state arrestate 200 persone nel raggio di 500 metri e i clan godono di consenso sociale, sostituendosi al welfare statale tramite la ‘retta’ per le persone meno abbienti”. Amedeo Del Vecchio, presidente di Valle Margherita e rappresentante dei consorzi di Valle Borghesiana: “Il toponimo Valle Borghesiana è bloccato per motivi di forma, perchè i lotti non sono di proprietà di chi li occupa ma sono di proprietà di malviventi riconducibili a Mafia Capitale e alla banda della Magliana. Noi non siamo solo abbandonati, ma dobbiamo combattere in prima linea incontrandoci con persone che, durante le riunioni, mettono la pistola sul tavolo”.

Per Francesco Giordano del Consorzio Osa “a Roma ci sono ancora interi quartieri senza acqua potabile a al buio, nonostante ci siano tutti i fondi necessari. Questo fa rabbrividire”. E ancora: Dario Piermarini, dell’Associazione per la rigenerazione di via Flavio Stilicone, ha spiegato che “nel VII municipio, un territorio grande come Bari, il filo conduttore sono la criminalità e il degrado”, mentre al Parco degli Acquedotti, ha raccontato Luciano Di Vico, dell’omonima associazione di volontari, “ci sono occupazioni abusive, spaccio, meretricio, furti e scippi grazie a barriere naturali incolte come arbusti, fusti e canne che diventano facile covo per persone poco rispettabili”. Da segnalare, infine, la proposta di Salvatore Codispoti, presidente dell’Unione borgate: “Proponiamo alla commissione un’assemblea in periferia dove siate voi a venire da noi per raccogliere le testimonianze dirette dei cittadini e rendervi conto con i vostri occhi della situazione che viviamo ogni giorno”.

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Periferie. Tor Sapienza a prova di accoglienza

Percorriamo il centro storico della borgata con Adriana Goni Mazzitelli, antropologa di origini uruguaiane, con un dottorato in Urbanistica all’Università Roma Tre, per la quale ha realizzato il volume ‘Vincere il confine’, ricerca frutto del lavoro di quasi cinque anni sul territorio. Quindici progetti che in forma capillare indicano i modi per recuperare spazi nel tentativo di capire le forme di convivenza e di dialogo possibili. Spesso le periferie vengono paragonate alle favelas: “Il problema è che qui non ci si occupa minimamente della cosiddette favelas – spiega – mentre da noi prendiamo atto che ci sono delle povertà strutturali e allora cerchiamo di attuare dei programmi per queste. Qui in fondo si ripetono tutte le condizioni tipiche delle favelas, dall’informalità nel lavoro alle diverse forme di precarietà. E’ una lotta tra poveri. Il 2014, con la rivolta per la gestione del centro immigrati, ha segnato uno spartiacque. Siamo di fronte ad una vera e propria banlieue”. Costeggiamo l’area militare del Sisde accanto a capannoni abbandonati e sporcizia: “Le catene della grande distribuzione si sono mangiate tutto il piccolo commercio – racconta Adriana – e anche la vita sociale di quartiere. C’era un carnevale tipico, lo spazio era molto più curato, ora sta diventando uno spazio più anonimo. Ci sono non luoghi diventati quasi esclusivamente di transito. Palazzi di nuova costruzione frutto di speculazione edilizia e che non si sono riusciti a vendere. Si rischia che questo diventi un cuore vuoto”.

Colate di cemento senza riqualificazione delle aree dismesse

“Si continua a creare volumi e non si riutilizzano gli spazi dismessi, spesso fabbriche o edifici scolastici. Siamo sotto infrazione europea per questo ma nessuno fa niente, si continua così”, lamenta Alfredino Di Fante, fondatore e segretario dell’Agenzia di quartiere Tor Sapienza, che rappresenta 23 associazioni sul territorio di cui molte onlus. Carlo Cellammare, docente di Urbanistica all’Università La Sapienza, che ci accompagna ad ogni tappa del nostro viaggio nelle periferie di Roma, insiste: “Potenzialmente ci potrebbero essere tante opportunità, sono territori dove si potrebbero insediare nuove attività senza dover andare ancora più lontano, fuori dalla città. Roma ha il grande problema di aree non riqualificate e che qui e altrove creano una sensazione di disagio e degrado”.

Un quartiere che deve ritrovare una integrazione tra sue parti sociali deve sempre ripartire dalle attività culturali. E’ un aspetto a cui tiene particolarmente la ricercatrice: “Gli anziani ci dicono che se non si ritrovano non possono risolvere i problemi di Tor Sapienza. Nel tempo i centri comunali si sono svuotati di risorse e non riescono per di più a lavorare in rete. Per esempio la biblioteca-teatro Quarticciolo è un centro bellissimo ma ormai insufficiente. Ormai ci basiamo solo sul volontariato”. E fa l’esempio virtuoso di Medellin, in Colombia, e di Torino, dove l’urbanistica sociale ha fatto passi avanti molto buoni.

Il volontariato cattolico e l’opera di prossimità

Nella parrocchia Santa Maria Immacolata e San Vincenzo de Paoli risuona con tenacia la testimonianza di Melania Nicoli, bresciana, qui da 35 anni, ex magistrato e presidente dell’associazione di volontariato “Vocators” (Volontariato cattolico Tor Sapienza) che tanto si spende per creare prossimità. Ci spiega come abbiano cominciato come propaggine della parrocchia a livello di carità immediata e in che modo dal 2000 sia cambiato completamente il tipo di approccio che veniva richiesto anche dall’insorgere di esigenze nuove. “C’è la zona tradizionale di Tor Sapienza e c’è la zona dei palazzoni”, descrive. “Io sono dell’avviso che noi non possiamo campare vicino a qualcuno che sta male ignorando il suo dolore. Abbiamo dovuto prendere atto che di là c’erano situazioni di maggior disagio ma anche di ricchezza umana, ci sono persone che vogliono stare con noi, che vogliono lavorare… non possiamo fare finta che non ci sono, e allora dobbiamo collaborare. Negli anni abbiamo realizzato una casa famiglia alla Rustica che accoglie mamme con i propri bambini, anche immigrati. In questa esperienza abbiamo avuto una risposta di straordinaria generosità da parte delle famiglie del centro della borgata. Abbiamo aperto uno sportello per problematiche legate alla coppia e alla genitorialità. In tre anni abbiamo 120-130 posizioni risolte. A inizio febbraio partirà, in collaborazione con l’associazione il Ponte, il funzionamento di uno sportello per famiglie con figli gravemente disabili”.

Razzismo?

Come la mettiamo con le accuse di razzismo che vi affibbiano?: “La gente dai cinquanta anni in su in questo momento è un po’ arrabbiata per la novità di compagine legata alla presenza di immigrati”, spiega ancora Melania. “Non c’è nessuna forma di discriminazione da parte nostra, anche se abbiamo registrato che gli episodi di vandalismo e ruberie sono aumentati molto proprio in coincidenza con la presenza più massiccia di immigrati, forse come ovunque. Ma io dico che per esempio la mia associazione ha trovato lavoro in questi anni a 640 badanti, tutte straniere. E’ che le regole devono essere comuni. Dobbiamo renderci conto che una vera integrazione si realizza nel tempo e, forse, dobbiamo realizzare che sono più maturi nell’accoglienza proprio coloro che vivono nella zona Tor Sapienza 2, nei palazzoni di via Morandi. Forse perché ‘obbligati’ a vivere gomito a gomito. Noi li vediamo invece ancora come qualcosa di molto diverso e allora dobbiamo camminare un po’. Bisogna continuare ad educare la gente. Noi ci impegniamo in questo. Magari hanno compassione di quelli che chiedono l’elemosina ma poi condannano. Dovremmo avere spazi di aggregazione per i giovani. Ripartire da lì. La sera non c’è nulla, neanche un bar aperto”.

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Versus. Il dibattito fra centro e periferia

Torna la rubrica “Versus” con un nuovo dialogo dedicato alle dinamiche tra centro e periferia. Vincenzo Trione e Andrea Bruciati tentano un’analisi dei limiti e delle opportunità che caratterizzano la vita culturale nelle grandi metropoli e nelle piccole realtà di provincia.

Per gran parte della storia dell’uomo il paradigma della “capitale culturale”, come laboratorio di idee e culla della creatività, ha conservato la sua validità: l’Atene di Pericle, la Roma imperiale, la Firenze dei Medici e del Rinascimento, la Parigi tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento sono solo alcuni tra gli esempi più noti. Poi, con la modernità, si è affacciata una tendenza alla svalutazione dello spazio, che la recente impennata tecnologica non ha fatto che accentuare. La rapidità dei trasporti, le potenzialità dei nuovi mezzi di comunicazione, la facilità con cui possono instaurarsi rapporti tra persone distanti hanno come ovvia conseguenza un profondo cambiamento di prospettiva, basato sulla stretta interconnessione tra locale e globale. Nonostante tutto, alcune città conservano un fascino magnetico e continuano a offrire, più di ogni altro luogo, spunti creativi e occasioni di crescita intellettuale. Per il terzo capitolo di Versus, dedicato al rapporto tra gli artisti e il territorio, intervengono Vincenzo Trione e Andrea Bruciati.

Per quanto nel mondo contemporaneo i confini tra i grandi centri e le periferie possano apparire sfumati, esistono ancora cifre identitarie connesse ai luoghi di appartenenza? In che modo esse condizionano, in positivo o in negativo, lo sviluppo culturale delle comunità?
Vincenzo Trione: Ritengo che l’antitesi tra centro e periferia vada ripensata e riarticolata. Oggi le grandi città si presentano come cantieri sempre aperti e in divenire. Sono cosmi che, al loro interno, ospitano microcosmi marginali di straordinaria vivacità. Ogni metropoli ha al suo interno sacche di “periferia”. Penso al mondo underground e agli spazi di aggregazione giovanile, che si muovono accanto e al di sotto delle realtà consolidate del mainstream, contrapponendosi talvolta ai sistemi di potere. In fondo è come se il corpo delle grandi città generasse al suo interno autentici anticorpi: è qui la ricchezza delle “cosmopoli”. Una simile molteplicità di sfaccettature non è riscontrabile nelle periferie.
Andrea Bruciati: Nella vulgata è solo il termine centro quello che assume una valenza positiva, ma già Alois Riegl ravvisava nell’arte tardoantica delle periferie un’azione proattiva e non derivativa rispetto ai canoni classici. In Italia non sussiste questo dualismo (non esistono reali sacche metropolitane) e parlerei piuttosto di Provincia (non a caso ci chiamiamo Paese). La storia della Penisola vive su questo network orizzontale diffuso, multipolare e articolato che si traduce in dinamismo creativo per sua natura “laterale” (il Made in Italy viene elaborato nei famosi distretti). Inoltre la interconnessione con il globale azzera le “difficoltà” logistiche e la Provincia può conformarsi quale laboratorio sociale per dei cambiamenti concreti e capillari sul tessuto delle comunità.
Giorgio Morandi e Vincenzo Agnetti, Differenza e ripetizione, Arteincentro, Castelbasso di Castellalto 2016
Giorgio Morandi e Vincenzo Agnetti, Differenza e ripetizione, Arteincentro, Castelbasso di Castellalto 2016

Cosa significa oggi, per chi si occupa di arte contemporanea, operare in un grande centro oppure in una zona periferica? In che misura sussistono i rischi della standardizzazione da un lato e dell’isolamento dall’altro?
V.T.: Ogni grande città è un sistema ramificato che consente di entrare in relazione con una pluralità di soggetti e istituzioni: dalle gallerie alle accademie, dai musei alle fondazioni. Le metropoli offrono una vasta rete di esperienze, che coniugano mainstream e ricerca. Non vedo rischi di omologazione, ma ampi spazi di libertà: ci si può adeguare al sistema dominante o sperimentare modelli alternativi. Le periferie? Rischiano di essere ambienti ristretti, pur se talvolta vivaci. Certo, esistono eccezioni, ma penso che nei grandi centri possano ritrovarsi gli stimoli giusti per chi si occupa di arte contemporanea. Al massimo, si può scegliere di lavorare in periferia dopo aver vissuto intensamente il rapporto con una grande città, per trovare occasioni di solitudine e di riflessione. Ma la provincia è troppo lontana dall’impero.
A.B.: Libertà di progettazione e ricerca sono alla base del mio lavoro e credo che la qualità risieda dove si ha cura e tempo da dedicare alla nostra visione. Nei grandi centri le aspettative sono sempre più pressanti perché l’importanza risiede nel soddisfare esigenze quasi essenzialmente quantitative, mentre a me piacciono le iniziative in dialogo e pertanto realizzate con passione e abnegazione. Trovo intellettualmente svilente rincorrere una filiera internazionale, di cui saremo pur sempre fotocopia o replica sbiadita, per assecondare appetiti di cassetta o il nostro narcisismo. Ritengo invece che l’isolamento si verifichi solo se non si è predisposto un terreno poroso e permeabile, centro o periferia che sia, dove preferisco al contrario costruire qualcosa di vivo, prezioso per la crescita culturale della comunità.
Jenny Holzer, New York 2005, 2005
Jenny Holzer, New York 2005, 2005

Il percorso di ricerca di alcuni artisti è strettamente legato ai luoghi in cui hanno scelto di vivere e operare. Ci sono lavori che testimoniano la storia e l’evoluzione di un territorio, che si nutrono delle sue atmosfere e riescono a coglierne l’essenza. In altri casi un intervento artistico può essere talmente efficace e d’impatto da produrre concreti cambiamenti nel tessuto dei centri urbani o delle periferie. Se vi chiedessi di sviluppare l’argomentazione per immagini, quali scegliereste e perché?
A.B.: Come operatore culturale credo nei progetti articolati, tanto più se reificati nel tempo come format, perché rappresentano uno stimolo concreto per il territorio. Io opero solo in questa prospettiva: manifestazione fieristica, museo, associazione culturale o azienda privata, fondamentale è la comunità come interlocutore, senza sottostare a facili populismi o pressioni di sorta. Alcuni episodi che ritengo particolarmente significativi vedono il coinvolgimento di un pubblico eterogeneo per una notte come in Painting as Performance, dove mi piace il relazionarsi con i giovani autori in tempo reale; un’esigenza che ad ArtVerona ho riproposto nel format atupertu, volto a un confronto diretto e informale con gli artisti negli stand. Trovo estremamente interessante poi quando si innesca una progettualità solida: quando ad esempio l’artista deve definire continuamente il suo linguaggio come in Moroso Concept, per un confronto del “prodotto arte” in evidente agonismo con il design, o in molte delle attività svolte per Monfalcone durante la mia direzione. Non da ultimo trovo un senso profondo del mio operare quando si tracciano nuove strade e così si ribaltano certi pregiudizi qualitativi, come quello fra centro e periferia. Quanto è avvenuto recentemente per arteincentro o nei collateral di ArtVerona va in questa direzione: ipotizzo una rilettura della storia dell’arte contemporanea secondo una prospettiva che dal presente si riflette sul passato, vivificandolo.
V.T.: Il rapporto tra gli artisti e lo spazio urbano può essere declinato sostanzialmente attraverso tre strategie. La prima è quella dell’idealizzazione: la città si fa spazio metafisico, disabitato e silente. In questo senso, esemplare il lavoro portato avanti dalla tradizione della fotografia oggettiva tedesca e ripreso in Italia, tra gli altri, da Gabriele Basilico. La seconda strategia coincide con un atteggiamento teso a recuperare frammenti, rovine e relitti dello spazio urbano, che vengono assemblati, quasi accatastati, all’interno di installazioni concepite come architetture instabili ed evocative. Il Merzbau di Kurt Schwitters è la matrice storica fondamentale di questo approccio, che accomuna artisti come Thomas Hirschhorn (penso a un’opera come Plan B), Jimmie Durham o Cildo Meireles. La terza strategia, infine, interpreta la città come una pelle sulla quale intervenire: simili a quinte, le facciate degli edifici accolgono lavori capaci di determinare radicali trasformazioni del territorio. Rientrano in questa categoria le proiezioni e le poesie luminose di Jenny Holzer, ma anche le iniziative ideate dall’attuale premier albanese Edi Rama, quando era sindaco di Tirana, che hanno completamente ridefinito l’immagine della capitale albanese. Nel medesimo orizzonte iscriverei le esperienze della Street Art: spesso i writer vengono demonizzati, mentre ritengo che abbiano una funzione civile ed estetica di straordinario rilievo.

L’Italia, nel panorama artistico contemporaneo, si può considerare centro o periferia?
A.B.: Siamo un Paese derivativo per responsabilità politiche che non avvalorano la nostra identità culturale. Solo costruendo progetti condivisi, con visione e coraggio, possiamo ritornare al centro del dibattito.
V.T.: Un Paese che non riesce a essere forte del suo stile unico e inconfondibile, inteso come combinazione tra senso inquieto della storia e capacità di inventare il nuovo. E, insieme, un Paese afflitto dal virus della replica di modelli estetici internazionali assimilati passivamente.

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