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Appartenenza europea (1)

“Diario europeo”  è stato pensato  per intervenire  su fatti e dibattiti riguardanti “Europa”,  con un approccio prevalentemente legato alla quotidianità. Prevalentemente, non esclusivamente.

Rincorrere il quotidiano senza  collocarsi in una prospettiva e in un processo  ci fa correre seriamente il rischio di restare impantanati.

D’altra parte, il confronto  quotidiano sulle problematiche europee,  di tanto in tanto  (e  anche con una certa intensità) insiste su tematiche “valoriali”. (Ho usato le virgolette e fra poco dirò perché).

Poi, sommerse dal quotidiano che preme  sull’agenda politica, quelle analisi e riflessioni tornano sotto traccia; e la polemica sulle emergenze oscura  il senso (significato e direzione), la grandezza e la sfida della integrazione europea.

Per chi scrive è un bene che quel dibattito non si smarrisca e non si perda d’animo.

“Diario europeo”, perciò, vuole avere anche un respiro medio/lungo; e mentre cerca di interloquire con l’agenda quotidiana (fatti,  idee e politiche), intende mantenere aperta una (la) riflessione sulle  cosiddette tematiche valoriali. Lo farà usando sempre il titolo di questo intervento odierno (“Appartenenza europea”) con l’aggiunta di un numero, che ricorderà ai/alle lettori/lettrici la continuità di una riflessione  di fondo a cui cercheremo di  partecipare con intelligenza e  misura.

Sopra,  usando l’aggettivo  valoriali  ho manifestato l’esigenza di metterlo tra  virgolette. Mi spiego e contemporaneamente  mi introduco  nella  riflessione sull’appartenenza europea.

Molto spesso, nel dibattito pubblico su Europa –  che si colloca e si costruisce dentro la temperie di sommovimenti internazionali  che  mettono in discussione  certezze che ci sembravano acquisite –   sentiamo usare  espressioni di questo tipo : “dobbiamo tornare ai nostri valori”.

Nel Preambolo al Trattato sull’Unione Europea,  sono scritte queste parole molto sobrie : ispirandosi alle eredità culturali, religiose ed umanistiche dell’Europa.

Sappiamo tutti che queste parole (sobrie)  sono state il risultato di una discussione, molto seria e a volte aspra,  sia tra i Capi di Stato (che dovevano siglare il Trattato, in rappresentanza dei rispettivi paesi , popoli e culture  di EUROPA), sia nella società civile (stampa, media, movimenti, intellettuali,  persone…) dei diversi  Paesi membri dell’Unione.

Nel dibattito quotidiano –  veloce,  troppo veloce, sovrabbondante, sbrigativo, appassionato e approssimato (e a volte anche distorto e anche  spiacevole) – questo richiamo sobrio e  – a suo modo – solenne alle eredità viene sintetizzato con una unica parola: valori.

Sintetizzato e  anche ghettizzato in  questa  parolina magica, il dibattito che vorrebbe essere includente e totalizzante (nel senso che coinvolge tutti, e a nel profondo delle proprie convinzioni),  forse proprio per questa sua tendenza all’unico e al totale – rischia di essere  respingente. Come un pugno nello stomaco o una mano che  tappa la bocca e spegne il pensiero.

Consapevole  di questo rischio, tutte le volte che posso la sostituisco con altre parole (se non altro per evitare sempre di dover  mettere le virgolette). Sfuggo, così facendo, alle mie responsabilità di cittadino e di persona consapevole?

Vediamo.  Per sostituire il termine “valori”, uso spesso  termini come: consapevolezze e responsabilità. E declino, anche io  – senza infingimenti e senza nascondermi –  le mie appartenenze.

Queste  tre  parole  (consapevolezza, responsabilità, appartenenza) mi  ricordano permanentemente la presenza   e   l’esistenza  dell’altro da me;  e di valori e di eredità  molteplici. Altre consapevolezze, altre responsabilità, altre appartenenze.

Queste tre   parole  obbligano  differenti  mondi  ad una consapevole  limitatezza  dei rispettivi  valori e appartenenze.

Questo approccio non è  una resa  (tanto meno una sottomissione ) ad ogni vento e/o ad ogni avventura (culturale, di pensiero e di fedi).

È, al contrario, un terreno – il solo terreno universalmente generatore di frutti –  per  coltivare impegno   e memoria,  progetto e eredità.  Nell’unica modalità possibile e accettabile, nel modo umano.

L’abbiamo presa troppo da lontano? Leggiamo qualche titolo di articolo, con i rispettivi  autori dal dibattito pubblico di questi giorni (cito dal più recente e vado un pochino indietro, ma di poco).

“ Il legame spirituale che manca in Europa” (Giuseppe  Galasso). “ Per un’insurrezione spirituale” (Enrique Vila-Matas).”Verso la disintegrazione europea, Nord e Sud remano all’opposto” (Wolfang Streeck). “ La tecnica unirà l’Europa” (Emanuele Severino). “La lunga marcia dei neoliberali per governare il mondo” (Luciano Gallino). “Scontro di civiltà- Possiamo evitare un’altra Lepanto? ” (Luigi Bonanate). “ L’eredità greca in tre puntate: L’Europa è un’agorà-Inventori della tragedia-Riflettere per vivere meglio”(Glen Most). “Per un’Europa della cultura” (Pier Luigi Sacco). “”La legittimazione dell’Unione “ (Andrea Manzella). “Società a confronto, Noi e l’Islam” (Ernesto Galli della Loggia). “La UE deve sconfiggere il rischio disintegrazione” (Antonio Armellini). “L’occasione perduta  dell’Europa” [1](Maurizio Ferrera).“Noi  e la crisi in Asia, i meriti che ha l’Europa” (Antonio Politi).  I titoli sono tutti  chiaramente evocativi.

Oggi ci fermiamo qui. “Diario europeo”, anche trattando questi temi, intende mantenere la brevità di una rapida lettura. Intanto ognuno -a potrà cercare , se possibile,  questi testi e  notizie sui loro autori:  eccetto l’ultimo, nessuno è giornalista; bensì : politologo, filosofo, storico, costituzionalista, ecc. Partecipano al dibattito pubblico come tutti noi. I giornali che per brevità non ho citato singolarmente sono quelli più diffusi (dati ufficiali): la Repubblica, Corriere della sera / La lettura,  Il sole-24 ore.

 (Continua)

L’autore ha recentemente pubblicato: EUROPA, ragazzi e ragazze riscriviamo il sogno europeo – Marotta&Cafiero, Napoli, 2014

[1] Sottolineo che questo è il titolo dell’articolo-editoriale – Corriere della sera 8 ottobre (oggi, mentre chiudo il “Diario”)- che a pag. 29 continua ma con un titolo diverso: “L’occasione perduta da Merkel  e Hollande”. Siccome i due diversi titoli (volutamente o risultato di una svista?) evidenziano proprio il cuore del problema – l’autore di “Diario europeo” preferisce il secondo titolo- Torneremo su questi aspetti nelle successive puntate..




Benvenuti ma non troppo

Domani 15 ottobre e dopodomani 16, a Bruxelles si terrà la riunione del Consiglio Europeo (la istituzione della Unione nella quale sono presenti i capi di Stato e di Governo dei 28 paesi membri della E.E.). Il Consiglio Europeo affronterà ancora una volta il tema delle Migrazioni.

Diario europeo vuole oggi dedicare la sue poche righe a questo strategico e grave problema.

Lo farà con l’occhio puntato alla più dura attualità: le decisioni che le Istituzioni europee vanno prendendo, settimana dopo settimana. Sia queste decisioni  sia il flusso umano  (attenzione, di questo si tratta: parliamo e vediamo persone, non numeri, non cose) ogni giorno entrano nelle nostre case con la Tv e ciascuno può documentarsi attraverso il web o i giornali. Diario europeo senza abbandonare l’attualità deve comunque misurarsi con una sfida più grande. Perciò comincia dando ai lettori e alle lettrici poche citazioni  per meditare e vivere il quotidiano in un ambito di storia e umanità.

In Europa oggi l’arrivo dei migranti pare più grave e urgente di un possibile ritorno alla guerra fredda” (Franco Venturini, firma tradizionale di Corriere della sera).

“Da ormai un quarto di secolo, migrante è uno dei termini più gettonati nel dibattito politico e mediatico (…) Le categorie con cui definiamo i migranti non esistono in natura, ma riflettono scelte di tipo politico-giuridico, atteggiamenti e vissuti della popolazione, sentimenti custoditi dalla memoria collettiva, percezioni riguardo il grado di distanza sociale tra i diversi gruppi: essi sono costituzionalmente non neutrali, ma rinviano sempre ad una certa idea di confine che, a sua volta, regola la dinamica inclusione/esclusione…” (Laura Zanfrini, sociologa).

I firmatari dell’attuale Trattato sull’Unione Europea, scrissero a suo tempo: “decisi a istituire una cittadinanza comune ai cittadini dei loro paesi” (Preambolo del T.U.E).

“La cittadinanza esige la non uniformità né omogeneità, ma uguaglianza e pari dignità. In realtà chi chiede oggi la cittadinanza non universale ma selettiva e diseguale, propugna una sorta di uscita a ritroso dalla modernità, verso un feudalesimo delle disuguaglianze, verso nuove servitù. E, al contrario, la lotta per la cittadinanza degli stranieri residenti, può essere un’occasione per riaprire una stagione di partecipazione politica anche per chi la cittadinanza già ce l’ha, ma non ne fa un buon uso. Non sono solo gli stranieri, ma tutto il Paese ad averne bisogno.” (Carlo Galli, Abbiccì della cronaca politica).

“L’ordine giuridico è a base statale e non contempla un’identità politica al di fuori dello stato: nemmeno quello europeo, che pure ha l’ambizione di essere sovranazionale. Eppure questi migranti rivendicano una dignità di parola politica e avanzano una richiesta di protagonismo autonomo nel nome di se stessi come essere umani: reclamano una utopia a tutt’oggi, ovvero una cittadinanza cosmopolitica. […] E questa l’importante novità che emerge dai recenti movimenti biblici di migranti senza stato. La loro è una sfida importante alle forze progressiste e democratiche dell’Europa: poiché indubbiamente le esigenze del tutto ragionevoli di regolare i flussi migratori devono potersi combinare a un progetto continentale che riconosca una dignità di cittadinanza ai migranti.” (Nadia Urbinati, La mutazione antiegualitaria – Intervista sullo stato della democrazia).

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Chiediamoci allora: l’emigrante che abita le nostre città, che “cittadino” e? L’interrogativo apre una problematica molto impegnativa: quella della configurazione dello stato nazionale o, detto in altro modo, della democrazia “oltre” lo spazio nazionale.  Quindi andiamo molto al di la del problema dell’accoglienza dei migranti. E’ tuttavia importante confrontarsi con  questa dinamica giuridica e sociale, cercando una risposta a questa specifica domanda: quale cittadinanza e possibile al di fuori dello spazio statale?

L’autore ha recentemente pubblicato: EUROPA, ragazzi e ragazze riscriviamo il sogno europeo – Marotta&Cafiero, Napoli, 2014




Volkswagen, una parabola dell’Europa?

Wolfsburg, settembre 25-28/2015.

Si sono io lo scienziato tedesco che solo per caso, studiando e testando di versi modelli di auto in nome del rigore scientifico e del diritto dell’opinione pubblica mondiale all’informazione, ho scoperto il caso dei trucchi montati coi software su alcuni modelli Volkswagen”.

E’ Peter Mock che parla, “Il ragazzo prodigio tipico figlio della nuova Berlino unita[1]”.

Sbaglia e anche di molto, il “banchiere” (Jens Weidmann, presidente della Bundesbank): “questo scandalo ha compromesso il made in Germany, ed è importante che si chiarisca rapidamente”.

No, è ben di più. A ricordaglielo è proprio il suo conterraneo, nuovo capo della Volkswagen, Matthias Mueller: “solo con umiltà e trasparenza torneremo forti”. Umiltà, Herr Weidmann!

Il cittadino normale del ventottesimo paese membro dell’Unione si sta chiedendo: con quale autorevolezza, civile e morale e, persino, professionale ora ai tavoli dei permanenti negoziati dell’Unione e nell’Unione, la Germania, paese membro e leader di Europa siederà; e chiederà – come è giusto che avvenga, e vale per ciascuno dei 28 verso gli altri membri – coerenza, trasparenza, convergenza? Impegno e sacrifici.

“Lo scandalo è destinato ad avere ripercussioni gravissime per l’azienda della Germania. Tuttavia non va considerato solo un brutto affare tedesco. Il caso presenta alcuni aspetti trascurati che ci riguardano direttamente e dovrebbero suscitare e interrogativi e incrinare certezze”[2].

Una parabola dell’Europa? Certamente una parabola per l’Europa.

Nella Volkswagen lo Stato (la Bassa Sassonia) è azionista con il 20 per cento e con una golden share che gli concede di influire sul controllo. In Germania vige, dai tempi della sua uscita dalla tragica era del nazismo e dalla guerra, un sistema di relazioni industriali (Mitbestimmung[3]) interessante e spesso invidiato, che porta i lavoratori e il sindacato a forme di co-gestione/co-determinazione di molti processi e fatti aziendali.

Siccome non stiamo di fronte ad un “errore”, ma ad un sistema tecnologico e di politica (competizione e concorrenza) industriale, tutti i soggetti sono in campo e tutti sono chiamati a rispondere: la proprietà (privata e pubblica), l’impresa/management, il sindacato.

Solo pochi anni fa il gruppo Volkswagen, ad esempio, era stato al centro di una spericolata scalata lanciata dalla Porsche.

Facciamo anche qualche passo indietro. Dentro il governo ( e la governance) della Unione: la Commissione, 13 gennaio 2003.

Il Commissario all’industria Gunter Verheugen convoca il Gruppo di alto livello “Cars 21”. “Al suo fianco, l’amministratore delegato di Volkswagen Bernd Pischetsrieder (all’epoca anche presidente dell’associazione europea). In quel comitato sedevano anche sindacalisti, politici e altri industriali, anche Sergio Marchionne. Ma lo schieramento tedesco era il più compatto. La direttiva chiave sulle emissioni di anidride carbonica e di ossido d’ azoto del 2007 matura in questo contesto”. La trattativa procederà tra i frenanti e i disponibili a norme esigenti. “Alla fine le soglie furono fissate, ma i controlli reali furono affidate alle autorità nazionali. Una scelta su cui pesò, di nuovo, la pressione delle case tedesche”[4] . Di recente, abbiamo assistito allo stesso schema politico, sulla Unione bancaria.

Non è una questione di supremazie o egoismi: è la questione delle Politiche europee, in questo caso quella industriale. E’ la questione del deficit di integrazione europea; che non si fa solo sul fronte dei bilanci e della moneta. E’ il modello di integrazione europea che siamo riusciti a costruire a mostrare tutte le sue deficienze.

Torniamo a Peter Mock. Lavora alla Icct (International council on clean transportation), Ong ecologista. Competente ed autorevole. “All’inizio, racconta a Manager Magazin, ci eravamo posti l’obiettivo di provare che le auto tedesche nelle versioni offerte alla clientela americana sono più pulite rispetto Agli stessi modelli nelle varianti vendute per il mercato europeo, perché le norme americane sono più severe”.

E così, oltre che confermare che la severità (anche nei controlli) degli americani è più alta e affidabile, abbiamo scoperto la frode. La frode verso milioni di consumatori. Ed ecco un altro – strategico fronte – della questione Volkswagen: il rapporto, impari e sempre perdente, tra consumatore e grandi aziende. Un altro campo dove soltanto con più Europa e più integrata sarà possibile agire in un mercato sovranazionale controllabile e controllato. E’ la grande questione del capitalismo e le regole.

E torniamo alla Germania, ascoltando uno scrittore tedesco, ottimo conoscitore del suo popolo e della sua anima. “L’anima tedesca è in crisi, perché scopre all’improvviso che un simbolo decennale del suo successo di Paese risorto nel dopoguerra dalle macerie, democrazia solida e aperta al mondo è fondata sull’inganno. L’anima tedesca è in crisi, perché questo inganno fa a pezzi l’immagine di credibilità che a fatica il Paese si era ricostruito.”[5]

Sia chiaro, di questa credibilità l’Europa ha bisogno. Non riusciremo mai a costruire più Europa rallegrandoci o speculando sugli incidenti o anche sulle pecche degli altri; ma neppure chiudendo gli occhi o sospendendo il pensiero. L’Unione è fatta di eguali: tutti ai nastri di partenza, permanentemente. Volkswagen, una parabola per Europa.

L’autore ha recentemente pubblicato: EUROPA, ragazzi e ragazze riscriviamo il sogno europeo – Marotta&Cafiero, Napoli, 2014

 [1] Andrea Tarquini, intervista a la Repubblica, 25 settembre 2015.

[2] Alessandro Penati, “Stato azionista, regole e finanza spericolata, flop del modello Europa”, la Repubblica 27 settembre 2015

[3] La Mitbestimmung, spesso è tradotta co-gestione; ma co-determinazione è più corretta. Non implica, infatti, che i lavoratori/il sindacato attuino una vera e propria cogestione dell’impresa, ma che l’azienda debba avere il loro consenso in determinati momenti. In pratica questo avviene attraverso “i consigli di impresa” (Betnebsrat) e la presenza di una rappresentanza dei lavoratori nelle istanze dirigenziali delle società/imprese/aziende.

[4] Giuseppe Sarcina, “la lobby tedesca e la conquista di Bruxelles”, in Corriere della sera 25 settembre 2015.

[5] Peter Schneider, “Noi tedeschi in crisi di identità”, in la Repubblica 26 settembre 2015.




3 ottobre 1990 – 9 novembre 1989, due date cruciali nella storia geopolitica, con l’Europa al centro.

La prima, venticinque anni fa, 3 ottobre 1990, a Berlino, una Germania in festa celebrava la sua riunificazione. In meno di un anno, il fiume della storia ha travolto convinzioni e convenzioni, accordi e trattati.

La seconda, ventisei anni fa, 9 novembre 1989, a Berlino si sgretolava quel muro della vergogna, di fronte al quale John Fitzgerald Kennedy, presidente degli Stati Unti d’America, lesse il 26 giugno 1963, un celebre discorso: “Duemila anni fa il maggiore orgoglio era di poter dire civis romanus sum, oggi, nel mondo, il grido di orgoglio che si solleva è: Ich bin ein Berliner”.

In mezzo, dodici mesi cruciali di colpi di scena, trattative febbrili, accelerazioni e errori colossali.

Il primo di questi errori è racchiusa in una sola parola: Ab sofort (da subito). La pronunciò pochi minuti dopo le sette di sera del 9 novembre 1989, herr Gunter Schabowski, portavoce del governo comunista della Germania dell’est, in risposta ad una domanda del giornalista italiano Riccardo Ehrman, nel corso di una conferenza stampa convocata per annunciare al mondo alcune decisioni del regime per dare una risposta alle grandi manifestazioni di piazza di quei giorni. Il giornalista chiedeva quando sarebbe entrato in vigore il provvedimento del governo di liberalizzazione dei passaporti e di libertà di espatrio. Il dirigente comunista, colto di sorpresa, reagì di getto: “per quanto ne so, da subito”.

Era vero che tutto era stato ormai deciso, ma doveva ancora essere calendarizzato.

Dopo poche ore, quelle parole rilanciate dalle due televisioni della Germania dell’Est, portarono migliaia di tedeschi alle diverse porte presidiate lungo il muro, cogliendo di sorpresa i soldati, ma anche i massimi dirigenti persino della Germania dell’Ovest. E attraversarono in massa.

Era solo l’inizio di una serie di colpi di scena che avrebbero condotto alla riunificazione del due Germanie, soltanto dodici mesi dopo, il 3 ottobre 1990.

Contro la voglia o la volontà di quasi tutti i capi dei Governi europei, l’ultima a cedere fu la Signora Margaret Thatcher – la notte del 2 ottobre – per invito (“ordine”) degli Stati Uniti d’America.

Mentre migliaia di giovani scavalcavano il muro squarciato e irrompevano da una parte all’altra, un solo sentimento aveva cittadinanza nei cuori e nelle menti di milioni di persone presenti o spettatori televisivi: libertà, fine della guerra fredda, e persino “fine della storia”, come scrisse qualche frettoloso intellettuale (Francis Fukuyama, 1992).

Complessivamente, forse, sfuggiva la portata dell’evento: si aveva chiara consapevolezza, e con giusta soddisfazione, della fine di un regime comunista, chiuso e illiberale e di uno stato di polizia (mirabilmente reso dal film, Le vite degli altri, nel 2006).

Ma la situazione era ripiena di molte altre sfide, che producevano una inattesa, grande spinta alla storia.

Queste consapevolezze sono utili e necessarie per capire l’origine della attuale crisi europea; manifestatasi, poi, con forza quando anche l’Europa è stata investita dalla crisi finanziaria ed economica, originatasi negli Stati Uniti e che ha trovato la costruzione europea, fino ad allora realizzata, impreparata.

Anche gli europeisti più convinti e padri del processo di integrazione europea avevano, a suo tempo, esplicitato l’esigenza di “condannare apertamente il rovinoso miraggio della riunificazione” (così Altiero Spinelli, in: Tedeschi al bivioLa Germania e l’unità europea, a cura di S. Pistone,1978). Nel 1990 si manifestò persino la contrarietà di massimi esponenti dell’intellighenzia tedesca (Jurgen Habermas, Gunter Grass erano tra questi). E questa circostanza spiega sufficientemente la complessità della situazione politica e geo-politica che si profilava.

La storia faceva uno sberleffo alla impreparazione dell’intera classe dirigente della politica europea.

Ricapitoliamo.

Sotto le macerie del muro di Berlino sono rimasti sepolti: la vergogna di una dittatura comunista, che costituiva una macchia nelle eredità culturali e umanistiche dell’Europa, la drammatica vicenda umana e il dolore di tanti caduti in fuga dall’Est all’Ovest sotto i colpi di una polizia cieca e ottusa e il sistema politico, economico e militare specifico della guerra fredda.

Quelle macerie, però , una volta che la polvere si è posata e con essa anche gli entusiasmi e la festa, hanno svelato: la “sorpresa” di una intera classe dirigente che, a sua volta, ci sorprende; la impreparazione sia dei governi sia degli apparati (le mitiche “cancellerie”) degli Stati che inquieta; il disegno strategico di unità europea (il sogno europeo originario degli anni cinquanta: fine delle guerre fratricide, la pace, l’unità a piccoli e progressivi passi) fondata consapevolmente su una condivisa e permanente divisione della Germania. Forse non si poteva pretendere di più dai fondatori di un sogno, degno veramente di questo termine, all’indomani di un’immensa sciagura: le due guerre mondiali.

Il crollo di un muro e la riunificazione delle due Germanie hanno definito, pertanto, il nuovo appuntamento con la storia dell’era contemporanea.

E’ una   lezione, non ancora ben acquisita sia dalle classi dirigenti dei Paesi membri dell’Unione, sia da diversi movimenti e organizzazioni della società civile europea. L’Unione europea che continua la sua costruzione dopo la riunificazione della Germania – con il primo passo del nuovo Trattato di Maastricht (1992) e poi con quello di Lisbona (2007) – è lontanissima dalla Comunità europea dei Trattati di Roma (1957)

L’Europa, dopo il 1989-1990, non è più soltanto la risposta alle tragedie del passato ma è – deve essere – una proposta strategica per affrontare le sfide del futuro.(Angelo Bolaffi).

Oggi, più di ieri o dell’altro ieri, è proprio la Germania a dover sempre di più e sempre meglio – nei suoi dirigenti e nella sua popolazione – essere consapevole della responsabilità grande che ha, di fronte a tutti gli altri paesi e altri popoli d’Europa.

È chiamata non ad essere solidale, ma ad essere responsabile: rispondere, cioè, a qualcuno (i paesi dell’Europa unita) di qualcosa (la sua riguadagnata unità, con il consenso e anche l’aiuto dei paesi europei)

(L’autore dell’articolo ha pubblicato, nel maggio 2014, EUROPA – ragazzi e ragazze riscriviamo il sogno europeo, Marotta&Cafiero).