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Debito e/o colpa?

Penso che tutti ricordino questa espressione: “rimetti a noi i nostri debiti”. Forse pochi sanno che nella lingua tedesca esiste uno solo termine (“Schuld”) per entrambi i significati: il debito e/o la colpa.

Oggi, Diario europeo, ha l’obiettivo di fare un breve affresco su alcuni fondamenti culturali (il pensiero, la filosofia, la teologia “politica” in questo caso) che stanno dietro a precise concezioni dell’economia e anche a precise impostazioni e comportamenti di politica economica; e, in generale, dello “spirito” (Geist) che popoli e culture mettono alla base dei loro specifici modi di intendere (e attendere) le relazioni e/o le integrazioni, tra culture e tra Stati. Anche quella europea.

Lo facciamo presentando al lettori e alle lettrici due libri: “Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo”, di Elena Stimilli, ed. Quodlibet, 2011, e “Il capitalismo divino. Colloquio su denaro, consumo, arte e distruzione”, di Marc Jongen (a cura di); edizione italiana a cura di Stefano Franchini; postfazione di Paolo Perticari. ed, Mimesis, 2011.

Il primo è una ricerca molto impegnativa, densa e documentata, sulle “radici di un fenomeno che investe l’esistenza e di ciascuno tanto dal punto di vista individuale che da quello collettivo: l’essere in difetto, in colpa, in debito”.

Per dare conto, con la brevità necessaria di un “Diario”, della indagine di Elena Stimilli, parto da quelli che a me sembrano costituire i due poli (e anche le due chiavi) dello studio.

Il primo: “Numerose sono state le interpretazioni che hanno adottato un paradigma ‘sacrificale’ come chiave di lettura privilegiata dell’epoca moderna e delle sue forme di potere. La rinuncia di parte delle libertà individuali per la conservazione della vita è stata individuata all’origine della costituzione dello stato nazionale.” (ivi, p. 9). In questo polo vige il “principio di realtà” : spesso si è visto nella civiltà moderna una sorta di compenso in cambio del prezzo pagato per la repressione delle libertà individuali.

Il secondo polo: “Un’istanza di prestazione tende sempre più a prendere il posto del principio di realtà e l’adeguazione assoluta dei desideri alla logica competitiva del profitto si impone come condizione dell’affermazione di sé” (ivi, p.10). Il grande Lacan chiama questo vissuto: “discorso del capitalista”. E la Stimilli osserva che “nell’epoca della globalizzazione (la nostra) il potere ha assunto la forma dell’economia”.

Tutta la ricerca di Elena Stimilli tende a ricostruire le basi analitiche e concettuali (filosofiche, economiche e teologiche) tra questi due poli o chiavi della costruzione sia di un Pensiero, sia delle Formazioni sociali.

I passaggi sono quelli noti anche al grande pubblico e quelli noti prevalentemente agli studiosi.

Noto è lo studio di Max Weber, quando (“L’etica protestante e lo spirito del capitalismo” – 1905) egli – andando oltre i suoi predecessori Werner Sombart o Lujo Brentano – individua la premessa storica dello spirito capitalistico non negli ebrei ma nel calvinismo, che cerca nel “mondo” e nella stessa attività economica i “segni” della grazia. Di qui il singolare rapporto che vede quella forma religiosa e la mentalità economica del capitalismo che si presenta, agli occhi di Weber come qualcosa di “unico”, proprio per la peculiare razionalità a cui dà vita nell’economia capitalistica: l’accumulazione che diviene, qui, un fine in sé (cfr. pp.249-50). Precisa e chiarisce Stimilli: “In questa ricerca non solo proverò a dimostrare un’attualità della tesi di Weber che esuli dalla sua possibile affinità con il modello sacrificale; ma soprattutto cercherò di indagare i fondamenti antropologici della pratica ascetica, con particolare attenzione all’ascetismo cristiano, nella convinzione che un simile percorso possa portare un contributo anche per una lettura del presente” (p. 10).

Non può mancare in questa indagine la lettura del famoso frammento giovanile di Walter Benjamin (intorno al 1921) intitolato: “Il capitalismo come religione”. Stimilli riporta per intero il brano (compreso gli appunti allegati dove Benjamin parla pure dell’arte “confrontando le immagini dei santi di diverse religioni da un lato e l’ornamento delle banconote di diversi Stati dall’altro”). Noi ci limitiamo ad alcuni passaggi: “Nel capitalismo si deve vedere una religione, vale a dire che il capitalismo serve essenzialmente all’appagamento di quelle stesse preoccupazioni, di quelle pene e inquietudini a cui un tempo davano risposta le cosiddette religioni”. Continua un po’ oltre. “Tre tratti al presente sono riconoscibili in questa struttura religiosa del capitalismo: (stiamo molto riassumendo) 1) il capitalismo è una religione cultuale, forse la più estrema mai esistita (…); 2) la durata permanente del culto…qui non c’è nessun giorno feriale, nessun giorno che non sia giorno di festa nel senso terribile del dispiegamento di tutte le pompe sacrali, dell’estremo impegno dell’adorante. 3) in terzo luogo è generatore di colpa, indebitante (verschuldenden). Il capitalismo con ogni probabilità è il primo caso di culto che non redime il peccato (entsuhnenden), ma generatore di colpa (verschuldenden” (ivi, p. 177). Si noti il termine “schuld” usato sia per colpa che per debito.
Venendo più vicino ai nostri giorni, altri autori hanno analizzato il collegamento tra economia e religione/fede cristiana. Il riferimento è al filosofo-teologo laico, Giorgio Agamben che ha intrapreso una approfondita indagine sulle radici cristiane dell’economia e della “governabilità” moderna (cfr. “Il regno e la gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo”, Neri Pozza, Milano 2007). “Il paradigma teologico della trinità e la elaborazione patristica (primi secoli dell’era cristiana) della ‘economia della salvezza’ vengono da lui individuati all’origine dell’attuale governo economico degli uomini e del mondo” (ivi, p. 13). Naturalmente, la lettura di Paolo e delle sue lettere sono centrali nella indagine di Giorgio Agamben; si veda il suo bellissimo testo: “Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai romani”, Bollati Boringhieri, Torino 2000): trascrizioni ed elaborazioni da una serie di seminari post universitari (1998-1999), tra Parigi, Verona, Evanston, Berkeley): per “restituire alle Lettere di Paolo il loro rango di testo messianico fondamentale dell’Occidente” (ivi, p. 9). Nella sua analisi, Agamben collega Paolo a Benjamin, nelle cui tesi “Sul concetto della storia “ (uno degli ultimi scritti di Walter Benjamin, quasi un testamento) egli rintraccia diversi passi – assimilati senza essere citati- dalle Lettere di san Paolo. A tale proposito non si può dimenticare l’insegnamento fondamentale di Jakob Taubes, con le sue “Lezioni” dal 23 al 27 febbraio 1987, tenute alla Evangelische Studiengemeinschft di Heidelberg, ora pubblicate in: “La teologia politica di san Paolo”, Adelphi, Milano 1997).

Il secondo testo (soprattutto, l’evento!) che vogliamo brevemente presentare è un “Simposio” svoltosi in Germania nel luglio del 2005 e pubblicato dall’editore tedesco nel 2007; in Italia nel 2011.
Presentando e introducendo con un apposito saggio (16 febbraio 2011) il volume ai lettori italiani, Stefano Franchini (università di Bologna) scrive: “dobbiamo innanzitutto avvertire il lettore italiano circa l’importanza che, in questa occasione, rivestono le date” (ivi, p. 7). (E qui certamente i lettori e le lettrici accentueranno la loro attenzione!). Il “Simposio” ha avuto luogo, infatti, appena prima che scoppiasse (nell’agosto del 2007), nel cuore della finanza mondiale – gll Stati Uniti- il caos economico della crisi sistemica ancora oggi in corso: il 12 settembre 2007, la Northern Rock Bank rivelò alla Banca d’Inghilterra il proprio stato di decozione finanziaria: seguì il panico dei risparmiatori e la corsa agli sportelli, fino al 22 febbraio 2008, quando la Rock Bank fu nazionalizzata e il suo debito entrò a far parte del debito pubblico inglese. E’ in quell’istante che la crisi finanziaria entrò ufficialmente in Europa. In seguito il 15 settembre del 2008, con la bancarotta della Lehman Brothers, il dominio globale della crisi bancaria iniziò ovunque a esercitare i suo effetti travolgenti (cfr. p. 7-8).

Ascoltiamo, ora, dalla registrazione orale, alcuni passaggi dell’apertura del simposio: “Il capitalismo divino, colloquio su denaro, consumo, arte e distruzione” , tenutosi il 14 luglio 2005, con inizio alle ore 20.
“Signore e signori (è Marc Jongen che apre), un cordialissimo benvenuto al simposio intitolato “Il capitalismo divino”, che la Staatliche Hochschule di Karlsruhe presenta stasera (…) Alcuni dei presenti si chiederanno se non sia meglio dire: “il capitalismo diabolico” (….). Con il nostro titolo non vogliamo proporre un’apologia del capitalismo. Quest’ultimo non ne ha certo bisogno, poiché questa apologia si verifica, semplicemente e senza tanti discorsi, in occasione di ogni bonifico bancario (…). Per andare al nocciolo della questione, la tesi di Benjamin afferma che il capitalismo non è solo scaturito da una mentalità religiosa – come ha illustrato Max Weber, in termini ormai classici, nel suo celebre studio “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo – ma è esso stesso, da cima a fondo un fenomeno religioso. (…) Vogliamo dunque discutere le seguenti questioni: a) se il capitalismo sia effettivamente un “oppio dei popoli”, per dirla con Kar Marx, ancora più efficace di quanto lo sia stato la religione; b) come esso trasformi gli esseri umani, quali strutture sociali e caratteriali produca; c) e infine se sia davvero così privo di alternative, come suggerisce l’utilizzo dell’aggettivo “divino” (. ….). Alla mia destra , Jochen Horisch, professore di Letteratura tedesca e analisi dei media all’università di Mannheim; accanto a lui, Thomas Macho, professore di scienza della cultura alla Humboldt-Universitat di Berlino; seguono: Boris Groys, professore di filosofia e scienza dell’arte a Karlsruhe, Peter Sloterdijk, professore di filosofia e rettore della medesima Hochschule (e autore di, “Il mondo dentro il capitale”, una trilogia nella quale Sloterdijk ha descritto una sorta di metamorfosi di Dio; il titolo originale era: “Nell’interno mondano del capitale”, pubblicato in Italia dalla Meltemi, Roma 2006); e infine Peter Weibel, artista e teorico e non da ultimo professore del Centro per l’arte e le tecnologie mediatiche (ZKM)”.

Abbiamo voluto soffermarci su questo parterre di prim’ordine per dare il senso vero e concreto della profondità e risonanza che in Germania, questo tipo di indagine ha nella cultura in generale e nell’ambiente sociale. Non, quindi, discorsi di qualche economista deluso, ma “pensiero autentico”. A prescindere dalla condivisione o meno che di esso si possa avere. Scrive molto sinteticamente ed efficacemente, Paolo Perticari, nella sua Postfazione: “Di fronte a un mondo che costruisce ogni giorno nuove forme di disperazione, e dunque alla smisurata complessità che è la cifra della Crisi globale, la grande filosofia tedesca torna, dopo Kant, Hagel, Fichte e Shelling, dopo Marx d Weber, dopo Adorno e Benjamin, dopo Blumenberg, Schmitt e Taubes (…)”. (E anche la nostra memoria non può, con un lampo, non tornare ai libri di filosofia e agli studi giovanili!).

Ora, Diario, però, vorrebbe tentare di trarre da queste informazioni e approfondimenti, qualche “lezione” sui diversi versanti del dibattito/conflitto politico europeo.

Evochiamo subito la magica parola “Flessibilità”; poi, quelle di “Debito sovrano”. Lo facciamo in modo schematico per ridurre il più possibile l’ampiezza del “Diario” odierno.

La “flessibilità”, è la prassi, invocata e praticata, di governo dei bilanci pubblici degli Stati membri della Unione tesa a ‘bilanciare’ la crescita (occupazione e investimenti) con la stabilità dei conti pubblici. Tenendo nello sfondo la riflessione culturale sopra riassunta, sono almeno due gli approcci che si confrontano, anche aspramente ogni giorno. Uno è questo: flessibilità come “incentivo”, per guadagnare tempo e fare riforme che consentano quelle trasformazioni di sistema finalizzate a “fare integrazione” dei sistemi economici-istituzionali-sociali della Unione. La parola chiave è “convergenza” (si legge nel Preambolo del Trattato: “Decisi a conseguire il rafforzamento e la convergenza delle proprie economie…”). E nel background culturale non scatta la visione “sacrificale”, bensì quella del “successo”. L’altro è questo: flessibilità come “concessione”, remissione di una colpa. La parola chiave è “solidarietà” concessa, bonariamente o pesantemente. A volte anche come forma di ricatto: tenerti buono e sottomesso su altri negoziati e/o interessi. Va da sé che questa la si può invocare e concedere una-tantum. Di per sé, questo approccio non crea “più integrazione”; è soltanto un’attesa di ravvedimento. Come? Attraverso pratiche di “rinuncia”, “tagli”, “privazioni”: che possono manifestarsi anche con forme di indebolimento politico nel consesso generale dell’Unione.

Anche di fronte ai “Debiti sovrani” (il debito pubblico degli Stati; l’Unione europea, come tale non ha un Debito pubblico!) vale la stessa sequenza sopra ricostruita. Se esso è una “colpa” da cui emendarsi, vale soltanto l’approccio “sacrificale”: sacrifici di ordine sociale e altri per ripagare il debito. E’ l’approccio “religioso”, a cui si contrappone l’approccio “governista-laico”: un mix di prassi (rigore, consolidamento nel tempo, ecc.). La parola chiave, anche qui, è “convergenza”, non la domanda (la supplica) di “solidarietà”.

Sia nel caso della flessibilità che del governo del debito, la Storia offre numerose e diverse soluzioni. Oltre che alla molteplicità delle teorie economiche bisogna sempre ricorrere alle tradizioni e ai contesti culturali per capire perché non si fanno determinati percorsi e se ne fanno altri.

Le tappe della costruzione degli Stati Uniti, ad esempio, hanno visto, prima la costituzione di un debito comune e solo dopo aver istituito il Debito Federale, fu istituita una moneta comune e fu avanzata la proposta dal ministro del Tesoro, Hamilton, di una Banca centrale (che fu però istituita solo più di cento anni dopo, nel 1913). Il fatto di avere un solo debito rafforzò molto i poteri del nuovo stato federale.

Le tappe della storia dell’Unione Europea sono, come è noto, in ordine inverso: è stata creata una moneta comune (e una banca centrale), prima e senza (ancora oggi) il Debito Europeo Comune. L’escamotage del pareggio di bilancio inserito nelle Costituzioni dei singoli Stati membri come garanzia che questi ultimi tengano i conti in ordine non è risolutivo, senza che l’Unione abbia un debito comune né capacità di spesa e di tassazione (cfr. La Voce info).

In questi giorni è stato reso pubblico un rapporto sulla “Sostenibilità delle finanze pubbliche” in Germania, al 2055. Uno studio riservato al ministro delle finanze. Vengono delineati due scenari, sulla base dell’andamento di due variabili: il tasso di natalità (basso) e l’aspettativa di vita (sempre più lunga) e il flusso di migranti (auspicato in crescita).Il primo scenario (il più cupo) evidenzia la necessità di una correzione del debito sovrano (di uno stato che si gloria di averlo azzerato) pari a circa 110 miliardi di euro. Il secondo (meno cupo) di circa 35 miliardi.
Da queste contraddizioni è urgente uscire. E si può farlo: con più Europa, non disfacendo l’incompiuta che c’è. Colpisce molto negativamente che per reimpostare questo impianto nessuna Istituzione assuma una iniziativa vera e compiuta, fino in fondo: non il Consiglio europeo (cioè i Governi e/o gli Stati), non la Commissione e neppure – e ciò particolarmente rattrista – il Parlamento. Soltanto il Comitato economico e sociale europeo ha – da qualche anno- perseguito la strada di analisi e pareri su queste cruciali problematiche (si vedano, ad esempio, i Pareri del consigliere italiano Carmelo Cedrone: eesc.europa.eu).

Un’ultima notazione, per concludere sul tema da dove siamo partiti.

I lettori e le lettrici di Diario europeo, ricorderanno quanta discussione e anche un vero conflitto ideologico e politico, si ebbe al momento della redazione del Trattato sull’Unione europea, a proposito dell’inserimento nel Preambolo del rimando esplicito alle “radici cristiane o giudaico-cristiane dell’Europa”.

L’equilibrio fu trovato nella attuale espressione: “eredità culturali, religiose ed umanistiche dell’Europa”.

Alla luce della ricostruzione sopra effettuata, possiamo affermare che la resistenza alle pressioni confessionali sia stata molto saggia e lungimirante.

Nel suo breve frammento – “Kapitalismus als Religion” – Walter Benjamin ci ha lasciato questo duro e urticante monito: “In Occidente, il capitalismo – come dev’essere dimostrato non solo nel caso del calvinismo, ma anche degli altri orientamenti cristiani ortodossi – si è sviluppato parassitariamente sul cristianesimo, tanto che, alla fine, la storia di quest’ultimo è in sostanza quella del suo parassita”.




Europa e Gran Bretagna

Giovedì e Venerdì prossimi (18 e 19 febbraio) si riunirà il Consiglio Europeo.
Due punti cruciali all’ordine del giorno: Immigrazioni e Regno Unito.
Di immigrazione e Schengen abbiamo lungamente trattato nel precedente “Diario” (n. 18 del 5 febbraio). Affrontiamo ora alcuni aspetti del complicato rapporto tra Unione Europea e Gran Bretagna. Di cosa si tratta? A seguito della discussione già tenuta nel Consiglio europeo del dicembre 2015 sul prossimo (giugno 2016?) referendum circa la permanenza o l’uscita del Regno Unito dall’UE, il Consiglio europeo, su richiesta del primo ministro inglese – David Cameron – si è assunto in gravoso compito di discutere delle relazioni reciproche, con riferimento a quattro ambiti di interesse: competitività, governance economica, sovranità, sicurezza sociale dei cittadini europei residenti nel Regno Unito. A partire dal dicembre 2015, Donald Tusk (presidente del Consiglio Europeo) ha dunque negoziato con il governo inglese intorno ai quattro temi sopra elencati; e Il 2 febbraio scorso 2016 ha reso pubblico una bozza di intesa concernente le quattro problematiche , che potrebbe rappresentare la base di un compromesso tra Gran Bretagna e gli altri i 27 Stati membri. Nella riunione del Consiglio europeo prossimo i capi di stato e di governo dei 28 Paesi membri dovrebbero condividere, dunque, riforme specifiche per consentire al Regno Unito si restare nella UE.

Prima di delineare per sommi capi gli elementi del compromesso, però, è assolutamente indispensabile soffermarsi sugli antefatti, politici e istituzionali.

Gli antefatti politici. Il primo ministro inglese (eletto nel 2010), aveva dovuto registrare nelle elezioni del 2014 per il Parlamento europeo una sonora sconfitta elettorale da parte del partito populista e anti europeo – UKIP ( di cui i lettori e le lettrici conoscono probabilmente il nome del suo esponente, Nigel Farage). Spaventato da questo inatteso (per lui!) successo degli anti-europei e (non bisogna mai dimenticarlo) anche indebolito dal tiepido appoggio europeista del suo stesso partito conservatore, pensò bene (meglio: pensò male) di arginare l’ondata degli antieuropeisti, rincorrendoli sul loro terreno e nel corso della campagna elettorale delle elezioni politiche inglesi del 2015 – annunciò un referendum sulla permanenza o meno della Gran Bretagna nell’Unione europea, da indire entro il 2017.. Ammettendo implicitamente che Nigel Farage e gli anti-europei inglesi avessero una qualche buona ragione, a base della loro opzione strategica: l’uscita dall’Unione. Non ha investito, quindi, nel delineare e approfondire una forte politica europea del suo Paese, evidenziando e sottolineando, ad esempio, i vantaggi per il Regno Unito della partecipazione al Mercato unico europeo. Non ha neppure provato ad aprire un confronto duro e serrato nel suo stesso partito. Né bisogna, poi, dimenticare che la Scozia ( con la quale l’Inghilterra ha, come è noto, vinto per un soffio un referendum indipendentista) è decisamente filoeuropeista. L’antefatto politico, pertanto, evidenzia una assai discutibile – e finora perdente- strategia politica del Governo e della sua maggioranza che non ha non ha mai affrontato – su un terreno solido e ben documentato – lo storico scetticismo britannico, oscillando (ma su questo aspetto non dissimile fu la politica di Blair e del blairismo) tra opportunismo (i noti e indiscutibili vantaggi di partecipare al vasto mercato unico: finanza e servizi) e doppiezze. Non si dimentichi, peraltro, che la Gran Bretagna è fuori dall’Euro e fuori da Schengen; gli inglesi, pertanto, non possono attribuire all’Europa, le responsabilità delle loro difficoltà interne (ad esempio, l’impoverimento delle periferie urbane e il declino dello stato sociale, sul quale da tempo non investe). La piattaforma elaborata dal governo di Cameron e presentata alla Unione, risente con tutta evidenza di questa duplice caratteristica: tirare al massimo la corda per poter arginare le pulsioni anti-europeistiche, ataviche e recenti e, nello steso tempo, non rompere con l’Unione in modo da non perdere i vantaggi della integrazione dei mercati. Né va sottovalutata la circostanza, alquanto antipatica, che nel cosiddetto negoziato su un nuovo quadro di relazioni tra Gran Bretagna e Unione europea, il capo del governo tiene i suoi colleghi membri della UE sotto una sorta di ricatto: se mi fate delle concessioni adeguate io ( con il mio governo) mi schiero per il NO all’uscita dall’Unione, altrimenti, come minimo , resto spettatore passivo. Quante amare lezioni si potrebbero trarre da questa vicenda!

Diario europeo preferisce, invece, analizzare meglio i vari contesti; cominciando con ascoltare la lezione di un “grande un vecchio” della storia della unità europea: Etienne Davignon, ex vicepresidente della Commissione presieduta da J:Delors ed ex capo dello staff di Paul-Henri Spaak, uno dei padri fondatori del Trattato di Roma. Ha detto recentemente in una intervista a “Le Soir”: ”Se certi paesi ritengono di non volere più l’Europa è un loro diritto: ma ne devono accettare le conseguenze. L’aspetto più ambiguo della questione Brexit (uscita della Gran Bretagna dall’Unione) non è che i britannici chiedano una serie di cose ma che contemporaneamente chiedano di esercitare un controllo su quello che fanno gli altri: è intollerabile”. E aggiunge: “che cosa comporterebbe la separazione della Gran Bretagna? Economicamente non cambia nulla che il regno Unito – mai entrato nell’euro- sia dentro o fuori. Ma è vero invece che quando qualcuno abbandona una struttura che non è un’alleanza ma una “integrazione”, questo delinea un fallimento. Poco importa di chi è la colpa.” (vedasi:la Repubblica, 29 gennaio 2016).

Ecco delineato il cuore del problema. Due debolezze sono a confronto: una Gran Bretagna alle prese con i suoi specifici conflitti ideologico-culturali e sociali, che scarica il tutto su una Unione Europea perennemente a metà del guado di un processo di integrazione mai compiuto; sul cui percorso di completamento annaspa e non riesce a trovare una strategia comune e condivisa. Si chiede Etienne Davignon: “ La domanda è: dovremmo ripensare a un nuovo giuramento? Io credo che sia arrivato il momento di farlo”.

E, invece, cosa accadrà? Avverrà quello che ogni giorno e ogni settimana rappresenta il dramma di “questa” Europa unita che naviga restando a metà del guado. La Unione farà concessioni sul versante dei diritti della cittadinanza europea, per consentire alla Gran Bretagna di poter superare la prova del Referendum anti-Europa. E poi? Poi si vedrà! È la conseguenza della politica del giorno per giorno!

Ma c’è dell’altro. Questo negoziato mette a dura prova il profilo istituzionale della Unione europea. Vediamo come e perché.

I lettori e le lettrici di Diario europeo hanno già potuto acquisire una certa dimestichezza con il modello istituzionale e decisionale della Unione (“La rivoluzione democratica”, 21 dicembre 2015).
Richiamo, pertanto, soltanto un aspetto relativo ai poteri e alla funzione del Consiglio Europeo. “IL Consiglio Europeo dà all’Unione gli impulsi necessari al suo sviluppo e ne definisce gli orientamenti e le priorità politiche generali. Non esercita funzioni legislative” (art. 15, comma 1 del Trattato sull’Unione europea). Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo (ed ex premier del governo polacco), Matteo Renzi, Angela Merkel, Francois Hollande, ecc. ecc. – naturalmente, David Cameron – .non sono in quella sede legislatori e non possono cambiare la legislazione che fonda e regola la Unione europea. Cambiare, ad esempio, le norme sui benefici ai lavoratori comunitari, definire norme su una più accentuata sovranità dei parlamenti nazionali (rispetto al quadro giuridico europeo attuale) è di competenza del Parlamento in co-decisione con il Consiglio (attenzione: non il Consiglio europeo).

Alcuni analisti hanno opportunamente sottolineato che: il Regno Unito – a seguito dell’accordo in discussione – potrà bloccare 130 mila assegni familiari ed altri benefici sociali concessi dal sistema britannico di welfare a cittadini dell’Unione residenti in Gran Bretagna (ed applicare lo stesso trattamento a futuri migranti). Questa soluzione implicherà la modifica di precise Norme europee che riguardano la libera circolazione dei cittadini e lavoratori europei (modifica che la Commissione europea dovrebbe impegnarsi a proporre al Parlamento e al Consiglio; ed il Consiglio e il Parlamento dovrebbero adottare, con la procedura della co-decisione legislativa). In questa fase, quindi, il Parlamento – co/legislatore – non è istituzionalmente coinvolto.

In effetti, però. il Parlamento europeo si è auto-coinvolto nel negoziato. E’ ufficiale che “d’intesa con il presidente del PE Martin Schultz- tre esponenti parlamentari: Elmar Brok, Guy Verhofstadt e Roberto Gualtieri, presidente della importante Commissione “Affari economici e Monetari” del Parlamento, partecipano al negoziato e stanno dando il loro contributo a finalizzare un’intesa che contribuisca ad assicurare la permanenza di Londra nell’Unione e valorizzi, nel rispetto dei trattati, il principio dell’integrazione differenziata” (vedasi Lettera a “La Repubblica” del 14 febbraio scorso, del deputato R. Gualtieri).

Colpisce questo formale riconoscimento di una sorta di co-decisione tra il parlamento stesso e il Consiglio europeo: ambedue, però, in una configurazione giuridico-istituzionale non aderente al dettato del Trattato.

Ancora qualche informazione sugli argomenti del negoziato.
Per quanto concerne la competitività, il progetto di compromesso (unitamente a una dichiarazione più dettagliata del Consiglio europeo e a un progetto di dichiarazione della Commissione) enuncia l’impegno a intensificare gli sforzi volti a rafforzare la competitività, unitamente all’impegno di monitorare periodicamente i progressi compiuti nella semplificazione della legislazione e nella riduzione degli oneri per le imprese affinché si riduca la burocrazia. Ottime intenzioni, che, peraltro, riguarda anche gli altri stati membri (salvo verifiche nel dettaglio e in coerenza con le situazioni dei singoli stati); ma, a quanto pare, questi progressi nella integrazione del mercato unico non costituisce il cuore del confronto referendario.

Sugli aspetti istituzionali e d insieme politico-strategici, invece, concedere che Londra non è e non sarà mai” vincolata alla clausola di una integrazione politica” è certamente, di per sé, una ferita al processo di integrazione europea. Va detto anche che non è nella disponibilità del Consiglio europeo cambiare il Trattato, dove si afferma: “Decisi a segnare una nuova tappa nel processo di integrazione europea (…)”; e “ Decisi a portare avanti il processo di creazione di un’unione sempre più stretta fra i popoli dell’Europa” (cfr. Preambolo del TUE). Affermazioni (certo: non sono Norme!) sottoscritte (cito dalla lista dei firmatari) anche da.” Sua Maestà La Regina del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord” (Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007 ed entrato in vigore il 1 dicembre 2009).

IL testo provvisorio dell’ Accordo – quasi mettendo le mani avanti – afferma, tra l’altro: “I riferimenti a un’unione sempre più stretta fra i popoli sono compatibili con i diversi percorsi di integrazione a disposizione dei diversi Stati membri e non obbligano tutti gli Stati membri a puntare ad una destinazione comune. I trattati consentono un’evoluzione verso un più profondo livello di integrazione tra gli Stati membri che condividono una tale visione del loro futuro comune, senza che ciò valga per altri Stati membri”.

Dunque – sembra voler dire il Consiglio europeo – la nuova Intesa con il Regno unito non lede la attuale configurazione politico-istituzionale della Unione; è dentro il quadro della “integrazione differenziata” alla quale il deputato R. Gualtieri fa riferimento nella Lettera sopra citata. Nello stesso tempo – aggiunge “Diario europeo” – dà un segnale di debole unità (anzi, la certifica) sia all’interno sia all’esterno della Europa unita.

Non siamo, dunque, davanti ad una pagina storica della costruzione dell’Unità europea. Una pagina che si apra al futuro. Servirà, almeno, ad evitare la sconfitta di Cameron, del suo governo e della sua maggioranza (neppure molto leale con il suo premier) al prossimo referendum? Ci sono persino dubbi a tale proposito: all’indomani della diffusione della bozza di accordo, nella prima settimana di febbraio, è stato registrato un balzo in avanti (addirittura) dei favorevoli all’uscita, 45% contro il 36 favorevoli a restare.

Ma facciamo un passo avanti, nell’analisi. Vedremo, nei prossimi mesi, come si configurerà – in termini giuridico-istituzionali – la nuova intesa . Se essa, cioè, possa – oltre che segnare un grado specifico di “integrazione differenziata” con il Regno Unito – nello stesso tempo, configurare anche una spinta per accelerare la stagione di una profonda riconsiderazione del processo di Unità europea che tenga insieme i due Poli: quello che sceglie e prosegue nella la integrazione sempre più stretta, dando vita a una vera e propria Unione politica e quella essenzialmente incentrata nella integrazione dei mercati e dei servizi finanziari. La bozza di testo dell’Accordo, rappresenta a tale proposito una sorta di ufficiale certificazione di una duplice polarità del processo di integrazione (peraltro già riscontrabile nei numerosi – spesso sconosciuti ai popoli d’Europa- Protocolli e allegati ai Trattati). Lo stesso deputato R. Gualtieri, nella sua Lettera sopra citata, aggiunge: “ al tempo stesso rilanciando la necessità di una maggiore integrazione dell’area euro”.

Il capitolo del diverso grado di integrazione di “questa” Unità europea (peraltro non del tutto estraneo nelle ricorrenti manifestazioni di instabilità della posizione economica e monetaria dell’Unione) ogni tanto si apre e si chiude, senza mai giungere ad un vero approfondimento nei diversi suoi aspetti: giuridici, istituzionali e politici e al livello dei Trattati. Eterogenesi dei fini, dunque? Il Consiglio Europeo, accettando questo tipo di negoziato, indirettamente “certifica” l’avvio di quella cosiddetta “Europa a due velocità” , che di tanto in tanto viene evocata? Vedremo nei prossimi giorni.

In realtà un impulso serio e, si spera efficace, continua ad arrivare dalla BCE e dal suo presidente Mario Draghi, che non cessa di “invitare i Governi a muovere nuovi passi, decisivi, nell’integrazione dell’eurozona (i paesi e gli stati membri che hanno adottato la moneta unica). Il livello di divisione tra Paesi della UE è elevato, le crisi sono multiple e le forse centrifughe in crescita: il suo obiettivo è approfondire i legami nell’area euro e completarne l’architettura, anche attraverso nuovi livelli istituzionali. Ma per farlo non basta la tecnica, nemmeno quella dei banchieri centrali: serve la spinta (e l’intelligenza e la perspicacia, aggiungiamo noi) della politica che sembra essere andata persa” (Danilo Taino, Corriere della sera del 5 febbraio 2016).

E’ – con altre parole e altri percorsi analitici – la domanda che si (e ci) poneva prima Etienne Davignon: “dovremmo ripensare a un nuovo giuramento? “. Risponde (e Diario europeo con lui): “Io credo che sia arrivato il momento di farlo”.

Ma il tempo stringe! Non si potrà restare per lungo tempo in mezzo al guado. I popoli d’Europa attendono, pertanto, che il Parlamento europeo – questo Parlamento, non il prossimo – trovi la modalità giusta di affrontare un largo e approfondito dibattito sulle prospettive dell’Unione e sulle innovazioni necessarie – anche al livello dei Trattati – per un nuovo modello istituzionale e di governance. Non le serve molto coinvolgersi nella pratica del giorno per giorno. Lo faccia nel modo più solenne possibile: quasi a consegnare nelle mani del prossimo Parlamento (sia configurato nella duplice forma di una Assemblea costituente e Assemblea legislativa, sia come unica Assemblea con la duplice finalità) la missione risolutiva di una nuova Europa unita.




“Nessun vento è favorevole, a chi non sa la direzione da prendere”

E’ urgente tornare su “ Schengen”. “Diario” è già intervenuto qualche tempo fa sul tema (domenica, 29 novembre 2015). Prima ancora che si arrivasse allo snodo attuale: Schengen sì/Schengen no.
E dopo queste interminabili settimane di incipiente follia, il 18 e 19 febbraio prossimi, il Consiglio europeo (i capi di stato e di governo dei 28 Paesi membri) si riunirà con all’ordine del giorno due punti cruciali:
1. Immigrazioni e Schengen
2. La domanda della Gran Bretagna di ridiscutere alcune fondamentali questioni della sua appartenenza all’Unione, per arginare il rischio “BREXIT” (prossimo referendum sulla uscita dalla UE).
Due temi apparentemente lontani. Certamente indipendenti l’uno dall’altro. Ma certamente ambedue rispondenti allo “spirito del tempo”.
(I sonnambuli)
Sento l’esigenza, però, di evocare, prima, un altro periodo della storia europea: l’estate 1914. Non spaventatevi: sono solo cento anni. Re, imperatori, ministri, ambasciatori, generali: chi aveva le leve del potere era come un ‘sonnambulo’, apparentemente vigile ma non in grado di comprendere una situazione di fragilità e frammentarietà: dilaniata da ideologie in lotta e dalle contese politiche. Così un solo atto terroristico, compiuto da Gavrilo Princip ai danni dell’arciduca, ha un esito fatale: il crollo di quattro grandi imperi, la morte di milioni di persone e la fine di un’intera civiltà.
L’atmosfera è stata mirabilmente ricostruita da un libro recente: “I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla grande guerra”, di Clark Christopher.
Il libro, l’atmosfera e la preoccupazione furono evocati recentemente anche nei palazzi silenziosi e felpati di questa Unione europea, nel dicembre del 2013. Ascoltiamo come e da chi.

“Verrà il momento in cui sbanderemo, come i sonnambuli d’Europa nell’estate 1914”. Lo ha detto Angela Merkel, la cancelliera del governo tedesco, ai suoi colleghi capi di governo, nel corso della riunione del Consiglio europeo, all’inizio del 2013: erano – allora- alle prese con la crisi finanziaria, piombata nel cuore dell’Unione, e calata in una Unione economica e monetaria ancora molto incompleta. Citava, la Cancelliera, proprio il libro dello storico Christopher Clark sulla Grande guerra ( tradotto in Italia dall’editore Laterza). I sonnambuli descritti da Clark sono i governi che scivolarono nella guerra presentendo il cataclisma, simulando allarmi, ma senza far nulla per scongiurarla.

(Schengen)

Ciò che non sono riuscite (fino ad ora!) a fare le forze non razionali dei mercati finanziari sul campo di “battaglia” della Unione economica e monetaria incompleta, riusciranno a fare i sonnambuli d’Europa? (I capi di governo o di Stato, i partiti politici presenti nel Parlamento europeo, i responsabili delle Istituzioni dell’Unione, ecc. ecc.).
Sette Paesi membri della Unione e/o di Schengen (Germania, Austria, Svezia, Francia, Norvegia, Croazia) – via via da settembre a febbraio – hanno effettuato e stanno effettuando sospensioni al sistema europeo di libera circolazione nei e tra i territori degli stati aderenti all’ Accordo Schengen (nel suo complesso: 26 stati europei, di cui 22 membri della UE).
Non solo. Alla Grecia – in evidente difficoltà a registrare la straordinaria ondata che solo in questo mese di febbraio ha portato sul suo territorio già 45 mila rifugiati e nei dodici mesi dell’anno scorso ben 850 mila (poco meno degli entrati in Germania che ha cinque volte gli abitanti della Grecia) – è stato intimato di mettersi in regola su tutte le procedure del caso, in tre mesi, altrimenti sarà espulsa dal sistema Schengen! I muri – di mattoni o di filo spinato – ormai non si contano.

Ma a cosa servirebbe continuare ad aggiungere “grida di dolore”? Proviamo a guardare negli occhi il mostro!
“Il mondo in cui è sorto Schengen non esiste più. La domanda dovrebbe essere: come si fa a non gettare via il bambino (terribile evocazione di un detto – osserva Diario europeo- in un contesto in cui realmente centinaia di bambini sono gettati via) insieme all’acqua sporca; a salvare il salvabile di Schengen, come andrebbe fatto per ragioni economiche ma anche simboliche – ristabilire le frontiere interne, infatti, significherebbe la fine dell’integrazione europea; ad adattarlo però ai tempi?” (così, Angelo Panebianco, in Corriere della sera 27-1-2016).

La domanda potrebbe – anzi dovrebbe – essere anche rilanciata ed applicata in tutti gli snodi cruciali nei quali questa Europa unita – incompleta e a metà del guado – si imbatte quasi quotidianamente.
Perché, si domanda infatti il cittadino europeo, difronte alle difficoltà e/o alla forza della corrente che spinge chi per troppo tempo resta fermo a metà o quasi del guado, sempre si cede alla tentazione di tornare indietro e non invece si decide di accelerare il passo che ti porta fuori dalla corrente?
Fuori di metafora: cosa ci si guadagnerebbe a sopprimere Schengen? Nulla! Tutti i problemi che ora pressano l’Unione resteranno lì inesorabilmente. Non solo: è stato anche calcolato il costo della soppressione del sistema – circa cento miliardi di euro. Sarebbe una efficace spinta alla crescita dell’Europa. Per poi, fare cosa?
Alle classi dirigenti elette dai popoli d’Europa al governo dei Paesi membri della Unione, perché risulta più adeguato togliere ciò che c’è e non invece aggiungere ciò che manca?
Sono i loro popoli a chiedere questo? Se ritengono di non aver altro da offrire al futuro dei loro popoli, ne prendano atto e leggano e applichino l’articolo 50 del Trattato sull’Unione Europea: “Ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione”.
Se vogliono ancora investire sul futuro, allora devono alacremente dedicarsi a fare ciò che non ancora si è voluto fare fino ad ora: completare Schengen, con la messa in comune della gestione delle frontiere esterne. Integralmente! In fretta! “ I controlli alle frontiere esterne sono un Bene Pubblico Europeo, e tocca all’Unione, non ai singoli Stati, occuparsene.” (A. Panebianco).
Ne seguirebbe (e in fretta) la costituzione di un corpo di Polizia Europea di Frontiera. Ed altro ancora (vedasi Diario europeo del 29 novembre 2015).
Come si costruisce ( o completa) questa Unità europea se non facendo ora, in fretta, questi passi ulteriori e coerenti?
Diario europeo attende, dunque, che la cancelliera Angela Merkel torni a ripetere ai suoi colleghi: verrà il momento in cui sbanderemo, come i sonnambuli d’Europa nell’estate 1914.
Un monito, naturalmente, che riguarda anche il suo paese e la sua altissima funzione.

Le classi dirigenti di questa Unione devono assumersi fino in fondo le proprie responsabilità. Ora. Subito. Altrimenti la storia si incaricherà di condannarle.
Le anticipazioni rispetto al punto sulle Immigrazioni, di cui al prossimo Consiglio Europeo sono queste: presentazione e discussione di un piano organico per superare “Dublino” (l’obbligo del paese, dove approda l’immigrato, di accoglierlo, registrarlo e dargli asilo) con le linee – di massima e generali – del nuovo sistema. ( La Commissione e il suo presidente J. C .Juncher avevano ricevuto tale incarico già da molti mesi). Per, poi, presentare al Consiglio di metà Marzo, precise nuove regole e approvarle. Si spera. (Con analoga in-flessibilità usata in altre determinazioni e direzioni).

Nel frattempo, già qualche mese fa, la stessa Commissione e il Consiglio (i ministri degli Interni) avevano approvato – a maggioranza – un piano di ricollocazione, dall’Italia e dalla Grecia verso gli altri Paesi membri, di 160 mila rifugiati. Ma il piano è fallito per la mancata volontà di applicarlo da parte di diversi Paesi membri dell’Unione (dopo una formale decisione del Consiglio!). Nel frattempo – ancora- la Commissione ha aperto una procedura di infrazione (per la incompleta attivazione degli hotspot ) contro l’Italia (alla quale non si era dato respiro con la ricollocazione dei rifugiati presenti nel suo territorio). Della intimazione alla Grecia, abbiamo sopra già detto. Del piano di aiuti alla Turchia – al fine di alleggerire la pressione sulla rotta balcanica (quella che porta verso i Paesi membri dell’UE del nord Europa) – i lettori e le lettrici sanno tutto. Come pure, spero che sappiano che un analogo piano di aiuti non è mai stato concepito per l’Italia, al fine di alleggerire la pressione alla quale, per anni, ha dovuto far fronte con i propri mezzi finanziari (contabilizzati nelle spese di bilancio nazionale alla pari delle altre spese). E per orra ci fermiamo qui.

Del secondo punto all’ordine del giorno del prossimo Consiglio Europeo – BREXIT- Diario europeo si occuperà nel prossimo numero 19.




Europa e Germania

Domani, 29 gennaio, a Berlino, si incontrano la Cancelliera della Repubblica federale tedesca – Frau Angela Merkel e il presidente del consiglio dei ministri della Repubblica italiana – Sig. Matteo Renzi. Non è la prima volta che i due si incontrano. Ma gli antefatti che hanno preceduto questo incontro e che, in parte, lo hanno reso necessario (o l’hanno accelerato) rendono utile riportare alla memoria antefatti più lontani, che appartengono ormai alla storia. Per non dimenticare.

Nove novembre 1989. Ore 19 circa. “Adesso, da subito”. In tedesco: ab sofort!

(Mi piacerebbe che chi sta leggendo provasse a chiedersi quanti anni aveva a quella data; e dove si trovasse fisicamente; o, se non ancora nati/e, quanti anni ancora dovevano passare. La giovane Angela Merkel, ad esempio, aveva 35 anni e risiedeva nella Repubblica Democratica Tedesca; al di là del muro, avremmo detto noi abitanti da questa altra parte. Il ragazzo Matteo Renzi, 14 anni).

A Berlino era in corso una conferenza stampa tenuta da Herr Gunter Schabowski, portavoce del governo comunista della RDT. C’erano state in quelle settimane molte manifestazioni di piazza, in diverse città della Germania comunista: Lipsia, Dresda, Magdeburgo e Berlino (est, naturalmente, al di là del muro). Ad essere precisi, i manifestanti non chiedevano esplicitamente la fine del regime: solo il superamento di quello Stato che controllava “le vite degli altri”. “Noi siamo il popolo-Wir sind das Volk”: risuonava nelle piazze. Il partito era in riunione permanente: lo scontro tra i falchi e i rinnovatori continuava da giorni. Finalmente, il Politburo aveva inviato di fronte ai giornalisti di tutto il mondo un oscuro burocrate per leggere qualche paginetta dalle quali si comunicava che alcune riforme erano state decise; fra queste le autorizzazioni a viaggiare ed uscire dalla repubblica, per tutti, senza condizioni. Verso le sette, la lettura del burocrate era terminata. Chi l’avrebbe mai detto che un giornalista avrebbe fatto la fatidica (e imprevista) domanda: “Da quando entreranno in vigore le nuove disposizioni”? Gunter Schabowski guarda dalla parte da cui provene la voce…e incrocia il viso del giornalista italiano, Riccardo Ehrman, corrispondente dell’ANSA. Resta un poco perplesso, torna a dare un’occhiata ai suoi maledetti fogli, dove non c’è la risposta. E azzarda: “Per quanto ne so, ab sofort-da subito”. Erano le sette di sera del 9 novembre 1989. In una mezzora la notizia viene data anche dalle due televisioni di regime. L’accurata regia del partito comunista che avrebbe voluto gradualmente, nei giorni successivi, avviare alcune riforme, concedere le autorizzazioni agli espatri e intensificare una intesa con la Repubblica federale di Bon (i contatti erano già in corso) per una sorta di confederazione tra i due Stati (con la successiva adesione della RDT anche alla Comunità europea, ma non alla NATO), salta d’un sol colpo. Migliaia di persone si recano alle porte, presidiate e chiuse lungo il muro. Le guardie, ignare, non sanno che fare. Avevano ricevuto però, nei giorni precedenti, l’ordine tassativo di non usare le armi. Aprono le porte. E inizia una nuova storia. Non solo per la Germania dell’Est. E non solo per la Germania tutta, che si riunifica nel giro di soli 11 mesi ( il 3 ottobre 1990).

( Frau Angela, uscita dal suo lavoro di ricercatrice a Berlino non aveva voluto saltare la sua settimanale seduta di sauna. “Sono uscita – ha raccontato in seguito- verso le 22.30, forse le 23. Mi sono trovata davanti ad un mare di gente. Semplicemente mi unii alla gente. Ero sola, ma mi unii a loro. Non lo dimenticherò mai”).

Molto altro in verità c’è da ricordare.

“Le grandi crisi hanno una lunga preistoria e la preistoria dell’attuale crisi europea, di quella politica come di quella monetaria, risale all’anno epocale 1989-90: ancora una volta è alla caduta del muro di Berlino che dobbiamo tornare”. Angelo Bolaffi, ( Cuore tedesco, Donzelli 2013 ), da cui prendo questa valutazione dello storico Heinrich Winkler, aggiunge: “La caduta del muro di Berlino rappresenta uno spartiacque geopolitico e geo-spirituale della vicenda del Novecento”.

La successiva riunificazione accelerata fu il risultato anche di uno sforzo e della solidarietà politico-strategica e anche economica dell’Europa unita di allora. Ecco un’altra verità da non dimenticare.

Ma perché, dunque, parliamo ( lo fanno ormai tutti gli storici e gli analisti) di quella data come della “preistoria dell’attuale crisi europea”?

Il dato politico-strategico è che “questa” unità europea era stata pensata , configurata, accettata (anche dal popolo tedesco!) e avviata, escludendo “il rovinoso miraggio della riunificazione” (sono parole di Altiero Spinelli, nel saggio: “Tedeschi al bivio”, in: “ La Germania e l’unità europea”, a cura di Sergio Pistone, Napoli 1978). “ La divisione del Paese – precisa Angelo Bolaffi – si era nel tempo trasformata in una sorta di postulato della ragion pratica del popolo tedesco. In una vera e propria Costituzione materiale a fondamento dell’esistenza di due Germanie. Addirittura un presupposto della possibilità di avviare il progetto di costruzione di quella unione europea annunciato da Robert Schuman nel 1950.”
La Germania e la costruzione dell’unità europea, a partire dai cruciali undici mesi – novembre 1989/ottobre 1990- hanno “ingoiato” (ma non “digerito”) una tale mole di storia e con una velocità tale da non consentire né ai tedeschi né agli europei – classi dirigenti e popoli – di elaborare una completa e adeguata strategia all’altezza dello “spartiacque geopolitico e geo-spirituale della vicenda del Novecento”. Questo è il punto!

E siamo, tutto sommato, ancora lì: ecco l’altro punto cruciale.
Sotto le macerie del muro di Berlino sono rimasti sepolti: la vergogna di una dittatura comunista, che costituiva una macchia nelle eredità culturali e umanistiche dell’Europa, la drammatica vicenda umana e il dolore di tanti caduti (europei) in fuga dall’est all’ovest sotto i colpi di una polizia cieca e ottusa e il sistema politico, economico e militare specifico della guerra fredda nel continente europeo e nell’occidente.

Quelle macerie, però, una volta che la polvere si è posata e con essa anche gli entusiasmi e la festa, hanno svelato: la “sorpresa” di una intera classe dirigente impreparata; il disegno strategico di unità europea (il sogno europeo originario degli anni Cinquanta: fine delle guerre fratricide, la pace, l’unita a piccoli e progressivi passi) fondata consapevolmente su una condivisa e permanente divisione della Germania.
Stando così la situazione, al biennio 1989-1990, doveva seguire una grande operazione strategica, “stop and go”: ma così non è stata.

C’era , in effetti, una lezione, da apprendere sia dalle classi dirigenti dei Paesi membri dell’Unione, sia dalla società civile europea (partiti politici, compresi): l’unità europea che continuava la sua costruzione dopo la riunificazione della Germania – con il primo fondamentale passo del nuovo Trattato di Maastricht (1992) e poi con quello di Lisbona (2007) – era lontanissima dalla Comunità europea dei Trattati di Roma. E che conseguentemente bisognava ripensare e riformulare a fondo la forma istituzionale e le infrastrutture portanti della Unità, sia per governare al suo interno l’ulteriore e non previsto sviluppo, sia per confrontarsi adeguatamente con il mondo esterno. Nelle forme istituzionali e della ‘governance’, nella politica, nel governo dell’economia, nella stabilità sociale , nella strategia per il futuro.

E’ mancata sia nella Germania stessa sia nell’Europa unita la consapevolezza che “dopo il 1989, la semantica del discorso europeo era radicalmente cambiata: un mutamento di paradigma il cui abbozzo è anche nel Trattato di Maastricht (1992). L’Europa unita non era più (solo) una risposta alle tragedie del passato ma una proposta strategica per affrontare le sfide del futuro.

Sono tantissimi – come sappiamo – i cambiamenti prodotti, a partire da quel biennio: nei tessuti sociali ed economici, nelle forme e negli assetti istituzionali della Germania, dei paesi europei e della Europa unita!
E tuttavia viene ancora oggi – e a ragione- affermato che “la Germania rimane un paese fragile e non vuole essere il Paese egemone in Europa” (vedasi: Hans Kundnami, “L’Europa secondo Berlino. Il paradosso della potenza tedesca”, Lemonnier, ottobre 2015).
Tedeschi ancora al bivio, potremmo dire, evocando Spinelli, di alcuni decenni fa.

In questa incompiuta elaborazione – politica e strategica – sta il “riemergere in termini economici della questione tedesca con patenti analogie col passato” (Hans Kundnami).

Di cosa si tratta?

La prima volta che si affaccia nel cuore dell’Europa la “questione tedesca” è nel 1871, quando con la sconfitta della Francia e la unificazione della Germania viene proclamato il Reich, nel cuore del continente. La “questione tedesca”, allora, consisteva in questo: “il Reich era troppo grande per l’equilibrio di potenza, ma troppo piccolo per raggiungere l’egemonia assoluta (…) e dal 1971 al 1945 ha creato instabilità in Europa” (…) E’ solo dopo la tragedia vissuta nel 1945 che il Paese – o per lo meno la Repubblica federale – si è collocata stabilmente a Ovest, abbracciandone la ‘normalità’ (…) Nella prima fase post 1990, impegnata a sostenere il costo finanziario della riunificazione, la Germania era divenuta economicamente più debole e identificava i propri interessi con quelli della UE e della NATO. Ma negli ultimi dieci anni, con l’economia nazionale in ripresa (anche per merito di riforme socioeconomiche interne di cui le va dato il merito) s’ è mostrata maggiormente propensa a imporre le proprie scelte agli altri. La sua economia è troppo grande per essere contenuta nell’UE (ad esempio il surplus della bilancia commerciale) e per ciascuno dei suoi vicini – come la Francia- è impossibile insidiare tale ‘colosso’, come lo ha definito nel 2010 Jurgen Habermas (che era stato contrario esplicitamente alla riunificazione energicamente guidata da Kohl) . La questione tedesca sembra essere dunque riapparsa in termini geo-economici”(Hans Kundnami). Per completezza è giusto ricordare che il gruppo dirigente tedesco di allora – Helmut Kohl, in primis – era consapevole di tale problema strategico (disse: “l’addio al marco tedesco è il segnale definitivo; è l’irreversibile ancoraggio della Germania all’Europa”; esprimendo contemporaneamente la consapevolezza che “l’Unione politica è la controparte dell’Unione Economica e Monetaria”), ma la sua – forse prematura – uscita di scena e la sordità di paesi decisivi come la Francia – sempre ipersensibile alla cessione di quote di sovranità nazionali – lasciarono incompiuta la trasformazione della forma e dello stadio di Europa Unita allora raggiunta.

Il resto è sufficientemente noto: la esplosione della crisi finanziaria (2008) e la impreparazione del sistema- Euro a farvi fronte. Nel corso del 2012 – nel mezzo del massimo rischio Euro – si riaprì, per un breve momento la grande questione strategica e Berlino sembrò disposta a raggiungere il compromesso con il resto dell’Europa: responsabilità per il debito altrui (cioè, la mutualizzazione dei debiti sovrani e creazione di un solo debito pubblico europeo), in cambio dell’Unione politica. “Nella seconda parte del 2012 si è discusso a lungo proprio dell’Unione politica – afferma Kundnami – che avrebbe necessitato della modifica dei Trattati europei e di un referendum da indire in Germania, in base all’articolo 146 della Legge Fondamentale, come invocato da Jurgen Habermas nel 1990. Ma non era chiaro se nazioni come la Francia avrebbero accettato l’accordo e se i tedeschi lo avrebbero approvato alle urne. Così all’inizio del 2013 Berlino abbandonò l’idea (…) In Europa il problema della potenza tedesca rimaneva irrisolto” (Hans Kundnami, ivi p. 99).

Forse ai lettori e alle lettrici potrà apparire noiosa e faticosa questa ricostruzione della storia recente; addirittura eccessiva di fronte a scontri su “dettagli”, come quello sui gasdotti tra Russia e Unione europea, o quella dello “zero virgola” ( flessibilità) o della priorità della rotta balcanica rispetto a quella mediterranea e quindi della rapida erogazione dei miliardi alla Turchia per attenuare la pressione dei rifugiati, ecc. ecc.

Ma non è così. Non vale, quindi, la raccomandazione (pure generosa) dello stimato Joschka Fischer: “non attaccate e indebolite Merkel; dopo di lei potrebbero venire cancellieri più duri e meno europeisti”. Non è questo il tema. Europa è il tema! E la Germania è il tema: scelga il suo destino! Un grande tedesco vivente – filosofo e costituzionalista – come Jurgen Habermas afferma senza mezzi termini: “la nuova ostinazione tedesca ha radici profonde; già con la riunificazione era cambiata la prospettiva di una Germania diventata grande e concentrata su suoi problemi. Il mutamento del modo di pensare che si è affermato dopo Kohl è stato molto rilevante” (“Questa Europa è in crisi”, Laterza 2012). E allora?

Allora con lucidità e determinazione, senza nervosismi e con continui sforzi tesi a ricostruire i contesti strategici e le ragioni della storia – ogni giorno – c’è il compito di salvaguardare “questa” Unità raggiunta, dai pericoli incombenti (in queste ore, addirittura la cancellazione di Schengen!) e continuare e fare passi in avanti. Fare passi in avanti: Europa, infatti imploderà se, quando, perché sta ferma!

Gli incontri tra premier – al di là e oltre le riunioni nelle sedi istituzionali previste dai Trattati – è bene che avvengano, dunque, nel quadro di reciproche consapevolezze anche di natura strategica, dentro le quali calare le “agende” dei rispettivi Paesi e dei rispettivi popoli. Forse, allora, anche i contenziosi sui vari e molteplici “dossier” acquistano dignità politica e trovano sbocchi soddisfacenti o meno insoddisfacenti.

Ed ecco un incompleto pro-memoria tra Germania-Europa-Italia:
a) i “piccoli” dossier già sul tavolo: finanziamento Turchia (dentro o fuori il patto di stabilità?) l’approvvigionamento energetico per Europa (questo è il tema; e non un supposto attacco dell’Italia al North Stream), la flessibilità del Patto di stabilità e crescita (principio e realtà), Unione bancaria (completarla con la garanzia comune dei depositi), una forma di Assicurazione europea contro la disoccupazione,…
b) i grandi dossier: completamento della UEM (è urgente: i modi e le tappe sono tutti- ormai- studiati, notissimi e fattibili); la riforma del sistema “Dublino” sul diritto di asilo (domani è già tardi!) con la conseguente politica comune delle immigrazioni; politica comune di difesa e sicurezza, ….
c) la prospettiva: l’UNIONE POLITICA (un metodo e un percorso condivisi e definiti, non fra dieci anni ma domani: per onorare il 60° anniversario del Trattato di Roma).




“Europa e Italia”

Nel linguaggio banale degli anchormen televisivi ( e a volte anche di importanti quotidiani) si usano queste parole: “bacchettate da Bruxelles”, “guerra tra Italia e Germania”, “grande gelo tra Roma e Bruxelles”, ecc. In questi giorni le abbiamo udite spesso. Nei prossimi, continueremo a sentirle.

Cosa sta accadendo tra Italia e Unione europea?

Dando a Cesare quello che gli appartiene, Diario europeo cede la parola ad un importante columnist: “Ciò che divide Roma da Bruxelles non è una questione di galateo, ma un episodio di lotta politica. E’ come tale va giudicato. Juncker non è uno sprovveduto, è un alto papavero europeo da un quarto di secolo, non può nascondersi dietro una questione di lesa maestà quando un Governo attacca la Commissione” (Antonio Polito, Corriere della sera 16 gennaio 2016). Ben detto.

La lotta politica è il normale modo di esercitare la democrazia nelle e tra le Istituzioni e nelle società europee dell’Unione, che – dopo anni di consolidata pratica democratica – non dovrebbe aver bisogno di approcci felpati tipici delle diplomazie internazionali. L’Unione è il “cortile di casa” del dibattito (scontro, incontro, mediazioni, intese, accordi) tra pari. Dinanzi e difronte ai popoli d’Europa. Se queste pratiche non sono ben percepite e comprese è perché il modello istituzionale di questa Europa unita presenta molti elementi di opacità e di contorti procedimenti. Si aggiunge, nei rispettivi Paesi membri (Italia compresa), la lotta politica ai Governi in carica: tra noncuranza dei precisi termini delle questioni, ignoranza grave delle regole, delle funzioni – e persino del nome- delle Istituzioni dell’Unione e la miseria delle strumentalizzazioni di corto respiro.

“Lo stesso Juncker, aggiunge Polito, è un politico legittimato da un voto, essendo stato candidato come presidente della Commissione dai popolari europei, vincitori alle urne”.

Non proprio. Le cose non stanno esattamente così. E forse lo stile da “premier” (come eletto a quella responsabilità direttamente dagli elettori europei) che Juncker dà alla sua presidenza deriva proprio da questo equivoco.

Raccontiamo i fatti: prima di procedere alle ultime elezioni politiche del Parlamento europeo, i capi dei più importanti Gruppi politici del PE, concordarono di “presentare” agli elettori alcuni esponenti dei partiti politici in competizione elettorale per il Parlamento “come futuri presidenti della Commissione europea”. A tal fine ciascun partito procedette ad una sorta di congresso interno per designare il rispettivo candidato futuro a presidente della Commissione. Il partito popolare scelse il primo ministro lussemburghese Jean Claude Juncker, il partito socialista europeo scelse il tedesco Martin Schulz, già presidente del Parlamento Europeo uscente. E così via, gli altri partiti. In realtà alcuni di questi e altri politici erano – di fatto- candidati al Parlamento europeo. E furono eletti parlamentari. Il primo partito del PE risultò il partito popolare, il secondo risultò il partito socialista europeo. “I membri del Parlamento europeo – dice il Trattato – sono eletti a suffragio universale diretto, libero e segreto”. Gli elettori hanno eletto direttamente soltanto i candidati al Parlamento europeo e non i futuri aspiranti alla presidenza della Commissione (sia che fossero candidati anche al parlamento sia che non lo fossero).
Il Trattato sull’Unione europea stabilisce quanto segue: “Tenuto conto delle elezioni del Parlamento europeo, e dopo aver effettuato le consultazioni appropriate, il Consiglio europeo, deliberando a maggioranza qualificata, propone al Parlamento europeo un candidato alla carica di presidente della Commissione. Tale candidato è eletto dal Parlamento europeo a maggioranza dei membri che lo compongono” (art.17, comma 7).

Il presidente della Commissione, quindi, viene prima scelto, con una votazione ad hoc all’interno del Consiglio europeo, dai capi di stato o di governo dei Paesi membri dell’Unione ; dal Consiglio viene, poi, proposto al Parlamento che lo elegge (noi diremmo: gli dà la fiducia) presidente della Commissione. Ai termini del Trattato il Consiglio (cioè i capi di Stato dei Paesi membri) avrebbe potuto trovare una intesa su un nome diverso dai candidati annunciati come futuri presidenti della Commissione; sempre tenendo conto degli equilibri politici prodotti dai risultati elettorali, e proporre al Parlamento europeo qualsiasi altro politico di un Paese membro. Subito dopo le elezioni, infatti, e prima della decisione del Consiglio europeo, molti esponenti politici (ad es. Angela Merkel, membro del Consiglio europeo, per la Germania) si espressero contro questo automatismo. Il marchingegno, inventato per la prima volta dai Partiti europei, ha prodotto – a mio modo di analizzare la attuale configurazione del modello istituzionale e di governance dell’Unione – una serie di equivoci e anche errori strategici: far credere agli elettori che stavano eleggendo il presidente della Commissione, rafforzare questa figura e indirettamente la Commissione tutta di fronte al Parlamento stesso (di cui non è un vero e proprio “Esecutivo”, ma quasi un “alter ego”), indebolire ulteriormente il Parlamento stesso (che come è noto non ha nel Trattato la prerogativa di “fare le leggi”), dare al presidente e a tutta la Commissione una forza politica (non istituzionale) maggiore di prima, rispetto ai singoli (o almeno ad una parte) capi dei Governi. Con quali risultati?
La vera coraggiosa innovazione politica, istituzionale, democratica che i Gruppi politici del Parlamento uscente avrebbero potuto e dovuto produrre, sarebbe stata quella di presentarsi agli elettori dicendo: “state eleggendo un Parlamento che la prima cosa che farà sarà quella di cambiare il Trattato e riprendersi il potere di fare le leggi e incaricare (dare la fiducia o toglierla) un governo-esecutivo (la ex Commissione) di governare e di rispondere al Parlamento stesso.

Diario europeo ha chiamato questa, la “rivoluzione democratica”.

Il “consenso popolare europeo” non è la somma algebrica (+/-) dei consensi elettorali dei singoli governi dei Paesi membri. Quel consenso europeo sta (è depositato) nel Parlamento europeo. Quando il presidente della Commissione si incontra, discute, confligge con un capo di governo di un Paese membro non sta “regolando” una lotta politica alla pari. Il primo deve rispondere ai suoi due “padroni”: il Consiglio europeo e il Parlamento europeo. Il secondo deve rispondere al suo popolo! E, inoltre, può ricordare ( come membro del Consiglio europeo ) al presidente della Commissione di essere stato eletto anche da lui (in nome dell’Italia), sulla base di un programma, e che ora ha l’obbligo di attuare. Nessuna lesa maestà, dunque. Soltanto confronto – anche aspro, ma sempre democratico (nessun “vilipendio”) – politico e su questioni politiche.

“Questa” Europa unita – non essendo compiutamente federale e neppure confederale – vive una sorta di “tragedia della democrazia rappresentativa”. Nessuno può “bacchettare” nessuno! Tutti sono dentro un equilibrio instabile, di fronte al giudizio instabile di diversi centri/fonti del potere istituzionale: diversi popoli, diversi stati, diverse maggioranze parlamentari. E’ in questa situazione che nascono e prosperano i “populismi”. Se lo ricordino i vari “bacchettatori” improvvisati.

E, intanto, il “Trattato sull’Unione europea”(art. 17, comma 8) sta lì a ricordare al Sig. Jean Claude Jiuncker che: “ La Commissione è responsabile collettivamente dinanzi al Parlamento europeo. Il Parlamento europeo può votare una mozione di censura della Commissione secondo le modalità di cui all’art. 234 del “Trattato di funzionamento dell’Unione europea”. Questo articolo 234 del TFUE, dice: “ Se la mozione di censura è approvata a maggioranza di due terzi dei voti, i membri della Commissione si dimettono collettivamente dalle loro funzioni”. Non è ancora accaduto. Potrebbe accadere!

Il Gruppo dell’Alleanza progressista dei Socialisti e dei democratici al Parlamento europeo (S&D) – seconda forza al parlamento con 191 deputati – nella sua riunione del 13 gennaio scorso – capogruppo l’italiano Gianni Pittella e presidente il bulgaro Sergei Stanishev – ha annunciato al presidente della Commissione un pacchetto di problemi irrisolti su cui intende riconsiderare la “fiducia” accordatagli all’inizio del suo mandato: il piano Juncker di investimenti (tanto strombazzato e non ancora reale), l’approfondimento della flessibilità nella politica economica e finanziaria, una urgente agenda sociale europea in grado di far ripartire l’occupazione (soprattutto nei Paesi membri dove sono avvenute riforme storiche del mercato del lavoro), la applicazione vera dell’agenda europea delle migrazioni, con: il ricollocamento dei migranti nei diversi paesi membri come deciso dal Consiglio e mai attuato e la proposta di riforma del diritto di asilo (Dublino); infine, una nuova politica degli aiuti di stato, il rilancio della industria europea e la sua difesa dalla concorrenza cinese.

Ed ecco, infine, alcune date da non dimenticare: il 29 gennaio, il presidente del Consiglio Matteo Renzi incontrerà a Berlino la Cancelliera Angela Merkel (anche qui: nessuna lesa maestà, ma la messa fuoco di una corretta e coerente politica energetica dell’Unione). A febbraio, a Roma –ospiti del ministro degli esteri italiano, Paolo Gentiloni – si incontreranno i ministri degli esteri dei 6 paesi fondatori della Unione, per il rilancio della integrazione europea. Fine febbraio, a Roma, incontro del presidente della Commissione J.C. Juncker con il presidente Matteo Renzi.




Affinché populista non sia un insulto ma una categoria politica

Diario europeo torna all’attenzione dei suoi lettori e delle sue lettrici dopo qualche settimana, prendendo e dando una pausa festiva e restando in assidua attenzione e ascolto del ritmo pulsante e degli eventi positivi o negativi della costruzione europea.

Cominciamo, dunque, da un fatto che ai più è sembrato minore:

Mercoledì, 6 gennaio
“ In una località di collina al confine tra Polonia e Slovacchia, il premier ungherese Viktor Orbàn ha fatto visita in gran segreto all’uomo forte che sta dietro al nuovo esecutivo polacco, ossia Jaroslaw Kaczinsky. Un incontro durato sei ore che ha gettato le basi di un coordinamento fra i due leader nazional-conservatori dell’Europa orientale. I due uomini e i loro partiti hanno molto in comune: euroscettici, patriottici, filo-cattolici e anti-immigrati. Ma soprattutto condividono una concezione del tutto sui generis della democrazia: tanto che a Bruxelles c’è chi teme che l’asse Budapest-Varsavia rappresenti una minaccia ai valori europei e l’avanguardia di un nuovo fronte autoritario che viene dall’Est”.

Così informava “Corriere della Sera”, venerdì 8 gennaio (a firma di Luigi Ippolito, capo redattore degli esteri).

La notizia e il fatto non erano, poi, tanto segreti e tanto meno erano e sono insignificanti. Ci permettono, tra l’altro, di completare il quadro politico-istituzionale di questa Unione europea, che Diario europeo viene delineando da qualche tempo. E anche approfondirlo.

“Società nazionali e società europea: elezioni in Francia e negli altri Paesi membri”, “Per un sano populismo europeo”, “Rivoluzione democratica”: questi tre ultimi diari (10, 13, 21 dicembre) e l’incontro in collina al confine tra Polonia e Slovacchia ci consentono ora di prendere di petto la questione del “populismo euroscettico”, senza timore di essere fraintesi e liberi da approcci sbrigativi e/o ideologici.

Quali sono le componenti, diversificate e intrecciate, del quadro?

Procediamo con calma, selezionando fatti ed elementi, senza cedere a fuorvianti semplificazioni.

Sulla collina di confine tra Polonia e Slovacchia si sono incontrati, delineando (così sembra profilarsi) una intesa politico-strategica, il capo di Governo di uno Stato membro, l’Ungheria (Viktor Orbàn; anche capo di Fidesz, partito conservatore, populista e nazionalista, che a livello europeo è ancora membro del partito “Popolare europeo”, primo partito nel Parlamento europeo, stesso partito del presidente della Commissione, J.C. Juncker e di Angela Merkel, ad esempio) e il capo del partito fondamentale del Governo di un altro Stato membro – che detiene attualmente la presidenza del Consiglio europeo nella persona di Donald Tusk – paese strategico per dimensioni e collocazione, la Polonia (Jaroslaw Kaczynski, ex primo ministro e presidente del partito “Diritto e Giustizia”, partito conservatore, euroscettico, nazionalista e populista, che a livello europeo aderisce al partito “Alleanza dei Conservatori e Riformisti europei” e nel Parlamento europeo è membro del gruppo “Conservatori e Riformisti europei”, che per gran parte vota come vota il gruppo dei Popolari europei).

Ambedue i partiti fanno riferimento al cristianesimo-cattolicesimo dell’Est Europa. Ad esempio, Kaczynski è stato capo della Cancelleria della Presidenza della Repubblica all’epoca di Lech Walesa, da cui ora lo divide pressoché tutto.

Questi due esponenti politici e anche istituzionali europei, per quanto attiene alla concezione della “Democrazia”, ritengono non più adatta la forma della “democrazia liberale occidentale” ed esprimono il fumoso concetto di volersi “liberare dei dogmi”; non quelli religiosi, ma quelli della civiltà giuridica e politica europea.

Per quanto attiene, infine, alla visione europeista (c’è bisogno di aggiungere: grosso modo? Facciamolo per estremo scrupolo) sono sulle stesse posizioni di: Front national di Marine Le Pen, Francia; Ukip di Nigel Farage, Gran Bretagna; Movimento 5 stelle, Italia; Partito del popolo danese, Danimarca; Veri finlandesi, Finlandia, Podemos, Spagna, ecc. ecc. E’ sempre molto complicato fare una lista di questo tipo! Ad esempio: non possiamo più mettere in essa l’attuale Syriza, di Alexis Tsipras.

Abbiamo fatto soltanto un piccolo elenco e messo forzatamente insieme fenomeni e realtà diversificate. Lo abbiamo fatto per chiamare in causa i diversi Soggetti responsabili (nel senso di: abili a dare risposte; in questo caso: le Istituzioni della UE, il Partito popolare europeo, la Conferenza dei vescovi della Chiesa cattolica europea e altri simili Organismi delle Chiese europee, le società civili dei Paesi europei ). E anche per porci delle domande importanti e strategiche: populismo ed euroscetticismo costituiscono uno stesso fenomeno? Governi (e quindi anche le relative maggioranze parlamentari, elette dal voto dei popoli), vedi Polonia e Ungheria e partiti politici (maggioritari o quasi, vedi il FN e la Francia) costituiscono una stessa realtà? Cosa li differenzia, oltre che un evidente profilo istituzionale? Movimenti politici e sociali (organizzati stabilmente o soltanto di opinione) meritano una stessa strategia di reazione?

Di fronte ad una galassia diversificata per genere e per pensiero politico e strategie, Diario europeo ritiene che la scelta essenziale e di fondo sia quella di: distinguere, distinguere, distinguere. E impostare analisi e risposte mirate e specifiche.

Penso, innanzitutto, che sia nel giusto chi chiede di non chiamare più populista chi è deluso dall’Europa. Euroscetticismo non è automaticamente populismo; anche se, spesso, le forme contemporanee di populismo sono tendenzialmente euroscettiche e nazionaliste (con un abuso della parola “patriottismo”). Questa è la prima – forse la fondamentale – distinzione da fare. Chi manifesta questa delusione merita analisi e risposte politiche (cioè: riforme e strategie conseguenti e coerenti). Anche urgenti. Anche fondamentali (“Rivoluzione democratica”, scriveva Diario europeo).

La seconda distinzione riguarda i singoli Paesi membri della Unione. E’ dovere degli operatori della Informazione, dei protagonisti della Cultura e della Politica ricordare il peso della Storia che sta dietro gli approdi (si spera e si deve lavorare affinché non siano statici o finali) politici di singoli Stati membri.

Ricordava in questi giorni Sergio Romano: “i maestri delle scuole polacche non hanno mai smesso di ricordare agli alunni che la loro patria nel corso della storia è stata tradita, umiliata, crocifissa. Il clero cattolico ha recitato la sua parte facendo della Polonia il baluardo della fede di Roma contro quella di Bisanzio” e ricordava a tale proposito anche il recente peso del pontificato di Giovanni Paolo II in questa specifica direzione.

La terza distinzione riguarda gruppi di Paesi e la loro adesione a questa Unione europea (più che al progetto di unità europea). E’ il caso dei paesi di quella che un tempo chiamavamo Europa dell’Est. “Allargandosi verso Est, l’UE aveva ritenuto che l’attrazione di un modello vincente di libertà e tolleranza avrebbe permesso di unificare il continente sulla base di principi condivisi.
Abbiamo probabilmente avuto troppa fretta e sottovalutato una divisione che la fine delle ideologie aveva cancellato solo in parte” (Antonio Armellini, Corriere della sera 2.1.2016).

Le distinzioni sono politicamente e istituzionalmente necessarie ed utili anche ai fini delle diverse e diversificate reazioni da approntare.

Ad esempio: domani – 13 gennaio – il collegio dei Commissari si riunirà per valutare se la riforma della Corte costituzionale varata dal nuovo governo e dal parlamento della Polonia mina le basi comuni della appartenenza all’Unione (separazione o non dei poteri, indipendenza o controllo statale della informazione pubblica, ecc.). Si tratta dell’avvio di una procedura europea definita nel marzo del 2014, per rendere operativo il Trattato della UE (art.7: sospensione dei diritti di voto dei rappresentanti di uno Stato membro se si rileva che lo stesso abbia manipolato il fondamentale articolo 2 del Trattato).

Eccolo: “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”.

Sarebbe un evento politico di primaria grandezza se nei prossimi giorni – come novità strategica che ridarà respiro e dignità a questa nostra Europa unita, stancamente unita – tutte le televisioni e i dibattiti e la Rete informassero i cittadini e le cittadine italiani-e ed europei-e – senza pregiudizi! -che una simile procedura è in corso, suscitando un sano, forte, grande dibattito nella opinione pubblica su cosa è Europa e cosa comporta esserne parte. Come si può costatare siamo ben oltre “lo zero virgola”!

Rileggiamolo, con calma, attentamente, parola per parola questo articolo 2, e chiediamoci: le pratiche relative alle migrazioni, i fatti di Colonia e di tante altre città nella notte di Capodanno, i comizi e i programmi elettorali dei partiti, ecc. ecc. risultano compatibili?

Ecco uno dei modi per cambiare questa Europa che ci delude: prendere sul serio il Trattato che la fonda e la regge. E, finalmente, “populista” non sarà più un insulto ma una categoria politica su cui misurarsi, con serietà e fondatezza.

Fare oggetto del dibattito politico e dello scontro “valoriale” culturale e politico, pezzi del Trattato – Costituzione che già ora regge il nostro stare insieme in questa Unione, servirà agli europei a dare un nuovo senso (significato e direzione) alla scelta europea e alle critiche legittime e doverose a questa Europa che ci delude, ai migranti che arrivano e/o da anni attraversano o vivono nel territorio della Unione, a comprendere dove sono arrivati e come e se restarci.

Post scriptum: “Ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione” (articolo 50 del Trattato sull’Unione europea).




Una rivoluzione democratica

Nel precedente “Diario europeo” abbiamo rilevato, non senza amarezza, che c’è malessere nella Unione. Tanto malessere. Le forze centrifughe sembrano prevalere sulle forze centripete. Nel dibattito (e nei fatti) dei giorni successivi abbiamo dovuto registrare, purtroppo, molte conferme.

Prendo dal dibattito sui quotidiani due esempi della consapevolezza del malessere e dei rischi conseguenti di due autorevoli politologi.

Scrive Angelo Panebianco:

“Chi pensa che se prevalesse la disgregazione dell’Unione ci troveremmo a buttar via non solo l’acqua sporca (il tanto che non va) ma anche il bambino (i benefici) dovrebbe capire che se non si cambia subito registro è finita”.

Scrive Angelo Bolaffi:

“Gli europei potrebbero uno di questi giorni scoprire di aver superato il punto di non ritorno verso uno storico fallimento. Un fallimento che appare tanto più paradossale in quanto i governi dei singoli paesi pensano di trovare soluzioni nazionali a sfide che sono essi stessi a definire globali; condannando in tal modo i loro stessi paesi e l’intera Europa a un declino irreversibile”.

I due “Angelo” – su due (i primi due) quotidiani dell’Italia – usano parole (si può dire?) ugualmente drammatiche: “disgregazione”, “è finita”, “punto di non ritorno”, “storico fallimento”, “declino irreversibile”.

Le “forze centrifughe”, in questi giorni, si sono ancora di più manifestate.

Il nuovo primo ministro della Polonia – Sig.ra Beata Szyldo (paese membro il cui l’ex primo ministro – Donald Tusk – è ora Presidente del Consiglio europeo!) ha fatto togliere la bandiera dell’Unione Europea dalla sala nella quale ha tenuto la conferenza stampa, e intende procedere a riforme che ledono principi di democrazia e libertà. Mentre scrivo ci sono a Varsavia manifestazioni e l’ex presidente Walesa parla di pericolo di “guerra civile”. In Danimarca, dopo i fatti di Parigi, un referendun ha detto no ad una più stretta collaborazione delle polizie dei paesi membri europei, e rifiuta di accogliere la quota di migranti la cui redistribuzione da Italia e Grecia è stata decisa, già due mesi fa, dal Consiglio dei ministri europei; un ministro in carica, intanto, propone al parlamento una nuova legge per requisire al migrante che entra in Danimarca tutto ciò che possiede come forma di risarcimento delle spese che il suo paese affronterà nell’accoglierlo. I Francesi (cittadini europei) hanno dato al partito del Fronte Popolare – avverso alla integrazione europea – il primato elettorale. La Gran Bretagna ha indetto un referendum per ridiscutere la sua appartenenza all’Unione. Nell’ultimo Consiglio europeo si sono registrate dissonanze di grande rilievo tra Italia e Francia rispetto alle politiche di approvvigionamento energetico e alla inadeguata attuazione della recente Unione Bancaria (con riferimento alla istituzione della Assicurazione europea dei depositi, strettamente connessa con la “unione bancaria”). La lista potrebbe continuare.

Ma noi dobbiamo tornare al cuore di “questa” Europa in crisi. Esso sta nel modello di “governance” e nell’impianto istituzionale adottato. Per illustrarlo, farò uso di un percorso schematico, onde evitare che ci si perda per strada e per consentire ai lettori e alle lettrici di toccare con mano lo stato reale del “governo europeo” :
A) I soggetti fondanti questa Unità Europea sono due: gli Stati e i Popoli.
B) Il funzionamento dell’Unione si fonda sulla democrazia rappresentativa (cfr. art. 10 del Trattato sull’Unione Europea-TUE).
C) I parlamenti nazionali (rappresentanti eletti da cittadini di ciascun Paese membro) contribuiscono attivamente al buon funzionamento dell’Unione (art. 12 TUE).
D) Il Parlamento europeo (composto da rappresentanti eletti da cittadini di tutti i Paesi membri dell’Unione) esercita, congiuntamente alla Commissione (che ha il diritto esclusivo di proposta) la funzione legislativa e la funzione di bilancio (art. 14 TUE). Quindi il Parlamento NON ha l’iniziativa del processo legislativo e quando legifera lo deve fare sempre in accordo con il Consiglio.
E) Il Consiglio europeo (i capi di Stato e/o di Governo) dà all’Unione gli impulsi necessari al suo sviluppo e ne definisce gli orientamenti e le priorità politiche generali. Non esercita funzioni legislative (art. 15 TUE). (Sono i famosi vertici dai quali – mentre il Parlamento tace e aspetta…il suo turno- i popoli d’Europa, che hanno eletto i membri del Parlamento, apprendono cosa gli Stati intendono consentire a Europa di fare o non fare).
F) IL Consiglio (un rappresentante di ciascun Governo, a livello ministeriale, degli Stati) esercita, congiuntamente al Parlamento, la funzione legislativa e la funzione di bilancio.
G) La Commissione (un presidente designato- non eletto- dai Governi degli Stati, più tanti Commissari designati – non eletti – dai Governi degli Stati: l’uno e gli altri sono confermati da un voto del Parlamento) promuove l’interesse generale dell’Unione e adotta le iniziative appropriate a tal fine (art. 17 TUE. (Cioè: ha il diritto/dovere di proporre tutte le Norme , le Leggi e i Regolamenti e inviarli al Parlamento e al Consiglio. (Con tutta evidenza lo fa recependo Accordi del Consiglio europeo (punto E di sopra) o della maggioranza di esso; oppure non prende l’iniziativa, quando constata che i capi di Stato non raggiungono Accordi soddisfacenti l’insieme di essi o di quelli che sono considerati “maggiori”).

E’ precisamente questo modello di Governo (salvo l’estrema sinteticità e anche qualche approssimazione semplificativa che ho dovuto usare per non abusare della pazienza di chi legge) – definito dagli esperti “metodo intergovernativo”- a generare nei Popoli d’Europa una complicata (anche difficile a configurare e definire) reazione che spazia – pericolosamente – dallo sconforto, alla delusione, alla rabbia, all’opposizione frontale, all’anti-europeismo.

La democrazia delle istituzioni europee rischia di essere o diventare una democrazia senza popolo!

Nello stesso tempo, rivela anche una tendenziale incapacità del “Format” a prevenire le crisi (sociali, economiche, politiche e via via strategiche) e/o a rilanciare processi e percorsi politici e ideali necessari e urgenti, per motivare continuamente il sentimento collettivo e identitario (identità europea: dell’insieme, cioè, che si aggiunge a quella dei singoli popoli).

L’insieme di queste due situazioni – perdurando nel tempo – creano una possibilità concreta del tipo: “se non si cambia subito registro è finita” (Angelo Panebianco); e “ un declino irreversibile” (Angelo Bolaffi).

Che fare?
1. Non serve riaprire la “querelle”: modello federale o modello confederale? E’ una interminabile e anche ideologica discussione. Il modello di Unità europea è e resterà sempre “atipico”: non completamente federale e non completamente confederale.
2. L’obiettivo strategico che dobbiamo darci, va rintracciato in questa domanda e risposta di Jurgen Habermas: “Cosa vogliamo intendere per democrazia? Autodeterminazione democratica significa che i destinatari di leggi cogenti ne sono allo stesso tempo gli autori”.
3. Ne consegue la necessità di non frapporre nulla e nessuno alla Istituzione specifica dei “Popoli d’Europa”: il Parlamento eletto con suffragio universale dai Popoli d’Europa.
4. Il Parlamento, perciò deve (ed è persino una ovvietà) riacquistare la iniziativa legislativa, in prima persona.
5. Ma/E, considerando che i Soggetti fondanti “questa” Unione europea sono due (Popoli d’Europa e Stati d’Europa), dobbiamo articolare il Parlamento in due Camere: la Camera dei Popoli e la Camera degli Stati (potremmo chiamarla “Senato”: dove gli Stati hanno la funzione che oggi viene svolta nel Consiglio europeo). Di pari dignità e con funzioni diverse.
6. La Commissione (attuale) dovrà cambiare nome e diventare un vero e proprio Esecutivo – Governo dell’Unione – che ottiene la “fiducia” delle due Camere oppure la “sfiducia” e viene sostituita (senza attendere la scadenza dei cinque, lunghi anni di mandato parlamentare) e che segna – a tutti gli effetti- la vita pulsante dell’Unione.
7. All’interno di questa configurazione istituzionale – nuova, semplice e riconoscibile (da tutti i Popoli d’Europa e anche dagli Stati del mondo) – gli Stati membri che hanno adottato la stessa moneta (Euro) devono configurarsi come una “Cooperazione rafforzata” (già prevista dall’art. 20 dell’attuale Trattato), assumendo tutte le specifiche conseguenze di questa scelta.

Perché chiamo questa trasformazione del modello istituzionale una “rivoluzione democratica”? Per due ordini di ragioni:
a) Perché i Popoli d’Europa potranno identificare immediatamente il luogo e il soggetto a cui dirigere le sue aspettative e le sue rivolte. Ogni giorno. Su ogni problema della convivenza e della convergenza comuni.
b) Perché è questo stesso Parlamento l’autore e il protagonista della trasformazione del modello istituzionale. Senza il permesso degli Stati nazionali, membri di questa Unione (i quali non sono dissimili dal re del primo costituzionalismo del XIX secolo), i Rappresentanti eletti dei Popoli d’Europa – in forza della elezione senza vincolo di mandato – formulano una nuova configurazione istituzionale, assumendo in prima persona la iniziativa di fare le Leggi; e, in primis, approvando una “Costituzione dell’Unione”, snella e profonda, che inizi con le parole: “ NOI, POPOLI d’EUROPA……”; da sottoporre a successivo Referendum confermativo da parte dei Popoli d’Europa. Uno stop and go!!!




Per un sano populismo europeo

I popoli d’Europa, nel creare tra loro un’unione sempre più stretta, hanno deciso di condividere un futuro di pace fondato su valori comuni

(Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea – 7 dicembre 2000, Nizza)

Decisi a portare avanti il processo di creazione di un’unione sempre più stretta fra i popoli dell’Europa…

(Trattato sull’Unione europea – 13 dicembre 2007, Lisbona; entrato in vigore il 1 dicembre 2009).

A parte la circostanza, casuale, che questi eventi fondanti (Nizza-Lisbona) avvengono sempre in dicembre, Diario europeo desidera sottolineare l’uso ricorrente della terminologia “ POPOLI d’EUROPA”.

I cittadini partecipano, quindi, in modo duplice alla costituzione dell’Unione: una volta come appartenenti ad uno dei “popoli” dei rispettivi Stati membri, un’altra come cittadini della futura Unione. Sembrerebbe, pertanto, che la fondazione democratica dell’attuale Unione europea sia ben solida e inequivocabile. Sembrerebbe!

Nel precedente “Diario”, riflettendo sulle elezioni nei Paesi membri, ci siamo chiesti: l’Unione Europea in quanto tale ha qualcosa su cui interrogarsi, su cui riflettere, da comprendere, da mettere in campo? Nel pensiero che ha di se stessa, nel suo disegno strategico?.

Se – solennemente – il PARLAMENTO EUROPEO si convocasse (in forza della sua insita e costitutiva forza espressiva dei “Popoli d’Europa”, che precede e sovrasta i Governi e gli Stati membri e smettendo per una volta di dipendere dalle logiche di partito, movimenti, paesi, lingue, ecc. ecc.) per discutere (i Parlamenti son soggetti e luoghi dove si “parla”, come e in quanto “POPOLI”), per PARLARE di “Europa COME comunità di destino”? Dando la parola-ovviamente – a ciascun/na deputato/a (anche chi non volesse prenderla, dovrebbe alzarsi e dichiarare: “Non ho nulla da dire”). Chiamando tutti gli strumenti di comunicazione ad essere permanentemente collegati a registrare e trasmettere questa solenne “presa di parola”. Anche rischiando – senza infingimenti e senza rete – una tremenda cacofonia di voci e di sentimenti. E se, avendo registrato che la dissonanza è giunta ad un limite estremo – prima di AUTO sciogliersi – mettendo gli Stati (e i loro governi) membri, di fronte alle loro responsabilità ( “rispondere di qualcosa a Qualcuno”), convocasse i “POPOLI d’Europa” a rispondere a questa semplice e ri-fondante domanda: “VUOI, TU, L’EUROPA UNITA”? …affermando nello stesso tempo che si riterrà auto-convocato fino a quando i “POPOLI” non hanno dato la loro risposta: tutti i popoli dei 28 Stati membri, nello stesso giorno, nelle stesse ore (salvo i diversi fusi orari).

SI/NO. (punto)

“Diario europeo” si misura, volta a volta, con specifici problemi; cercando soluzioni, perché è consapevole che: se non porti almeno una soluzione, fai parte anche tu del problema. Ma, è anche consapevole che c’è malessere nella Unione. Tanto malessere. Le forze centrifughe sembrano prevalere sulle forze centripete. I cosiddetti “ populismi” sono molteplici e di numerose fatture.

È urgente agire. Agire. Il metodo “Monet” (un passo alla volta, affrontando e risolvendo un problema alla volta, quando si presenta) non è più adatto.

È una rivoluzione democratica, quella di cui Europa ha necessità ed urgenza. Ci sono le forme, anche istituzionali, che possono essere messe in campo. Ci torneremo nel prossimo “Diario”. L’utopia positiva che abbiamo sopra evocato è un sano, corretto, responsabile POPULISMO COSTITUZIONALE.




Società nazionali e società europea: elezioni in Francia e negli atri Paesi membri

Quando in un Paese membro si tengono importanti e rilevanti elezioni, l’Unione Europea in quanto tale ha qualcosa su cui interrogarsi, su cui riflettere, da comprendere, da mettere in campo? Nel pensiero che ha di se stessa, nel suo disegno strategico e nelle sue politiche? Ecco la domanda che si pone, oggi, “Diario europeo”.

In Francia, domenica scorsa il primo turno e nella prossima domenica 13 dicembre il ballottaggio: elezioni regionali, con evidenti valenze politiche. Domenica 20 dicembre, elezioni politiche in Spagna. E così via.

Cominciamo col chiederci cosa intendiamo con: “Unione europea in quanto tale”.

Se Europa, infatti, fosse soltanto una “macchina” amministrativa o una sorta di elenco della spesa o anche, e soltanto, un insieme di Regole, la riflessione potrebbe finire qui; prima di iniziare.

Ma Europa è: “ispirandosi alle eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa”. Ed è: “ Desiderando intensificare la solidarietà tra i loro popoli, rispettando la storia, la cultura e le tradizioni”. Ed è anche: “Decisi ad istituire una cittadinanza comune ai cittadini dei loro paesi”. E anche: “Decisi a portare avanti il processo di creazione di un’unione sempre più stretta fra i popoli dell’Europa”.

Europa, quindi, è una Comunità di destino. Dunque, di fronte al pronunciamento delle Democrazie nei propri Stati membri e dei popoli dei Paesi membri, DEVE interrogarsi, riflettere, studiare, analizzare e pensare se e come modificare la “offerta” politica e, persino, il suo stesso “modo di essere Unione”.

Scrive Jurgen Habermas : “Con la richiesta che le persone imparino a distinguere fra il ruolo di appartenere a un ‘popolo europeo’ e quello di ‘cittadino dell’Unione’, veniamo a toccare la questione centrale circa il giusto concetto costituzionale per questa insolita comunità federale. Per questo non è sufficiente l’informazione in negativo che l’Unione non si possa definire né come Confederazione di Stati né come uno Stato federale. (…)Con la introduzione della cittadinanza dell’Unione, con l’esplicito rinvio a un interesse europeo per il bene comune e con il riconoscimento dell’Unione come personalità giuridica, i Trattati sono diventati il fondamento di una comunità dotata di una Costituzione politica”.

Certo: è assolutamente necessario e prioritario che le Istituzioni della UE (e i suoi dirigenti eletti dai popoli europei e/o designati dagli Stati membri) VIVANO conseguentemente questi profili politici e istituzionali. Forse non è ancora così!!

E, tanto per fare un semplice esempio: è assolutamente irrilevante che un presidente del Parlamento (eletto dai cittadini e dalle cittadine dell’Unione) si limiti a “dichiarare” e/o a commentare ad un giornale questi “eventi” politico-strategici. DEVE fare di più: chiedere all’Assemblea parlamentare – non per stigmatizzare la scelta libera e, si spera, consapevole di una parte rilevante dei cittadini europei della Francia – per interrogarsi su cosa chiedono questi elettori ed elettrici? Successivamente: chi fa cosa (Francia e/o Europa). Così si costruisce una comunità di destino!

L’Unione ha diritto istituzionale a porre queste domande dinanzi alla cittadinanza europea dei 28 Stati membri: sia per le ragioni sopra ricordate sia a nome e per conto dei popoli degli altri Paesi membri.

Nel “programma” del Front National ci sono scritte cose di questo genere: ritorno della pensione a 60 anni, la nazionalizzazione delle imprese che operano su un mercato globale di cui la Francia è parte, l’uscita dall’euro e/o dall’Unione europea, e altre “amenità”. Nello stesso tempo risulta evidente che esso si cala in una situazione di: operai e ceti medi impoveriti, immigrati di prima generazione non ancora inseriti nelle dinamiche del sistema economico e sociale, giovani disoccupati (francesi, anche quando sono immigrati, di seconda e terza generazione), pensionati insicuri e spauriti. Certo: un programma ed un’offerta politico-sociale fraudolenti, che pretende di saper leggere – meglio dei partiti tradizionali – la crisi della classi popolari europee. E,forse, ci riesce!

Europa non ha nulla da dire? (e non per obiettare e/o fare la lezione sulla insostenibilità di questi programmi: il compito di costruire una diversa offerta politica spetta agli altri partiti della Francia!)

Lo specifico compito di Europa sta nell’individuare quelle politiche e quelle riforme che spostano a livello europeo la risposta comune a questioni politico-sociali-strategiche, liberando le società nazionali (dei membri) di quella pressione socio-politica che non può trovare – su quel piano- una risposta adeguata. Questo deve fare Europa, senza attendere che queste risposte vengano dai Governi degli Stati membri. Siala Difesa comune (per risparmiare risorse per la sicurezza), sia parti del Welfare (una assicurazione europea contro la disoccupazione nei periodi di recessione renderebbe possibile una svolta verso un sistema europeo di Welfare; e una simile assicurazione creerebbe una identità condivisa e spazzerebbe via le querelles pseudo identitarie prima dai salotti degli intellettuali e poi via via anche dalle piazze e dalle periferie delle nostre città).

E’ urgente prendere sul serio – costruendo in fretta, e con la meticolosità che sappiamo essere una caratteristica degli staff europei, due/tre short list di riforme e politiche da spostare al livello europeo e anche di quelle che possono tornare a livello delle società nazionali e degli Stati, con precisi calcoli di costi/benefici – lo slogan (minaccia/opportunità) della campagna del Governo di Gran Bretagna per il suo prossimo referendum sull’appartenenza all’Unione: “Europa quando necessario, nazionale quando possibile”. E’ una sfida che bisogna assolutamente raccogliere! Lo deve raccogliere il Parlamento europeo. Lo deve raccogliere la Commissione europea. Lo deve raccogliere il presidente del Consiglio europeo (il cui mestiere non è propriamente quello di spedire le convocazioni – di tanto in tanto – dei capi di Stato o di Governo dei Paesi membri).

Europa, non mandare a chiedere per chi suona la campana; essa suona per te!

 




Schengen, uno spazio di libertà e responsabilità

Il precedente Diario – reagendo ad uno dei “rintocchi” di campana per Europa, dopo i fatti di Parigi, quella che suona per la Difesa Comune Europea- aveva fatto il punto su questa strategica sfida per l’Unione. Intanto gli eventi hanno continuato ad accadere. In sostanza l’appello solenne della Francia all’articolo 42 (comma 7, aiuti ad uno stato membro) del TUE si è tradotto in una intensa trattiva bilaterale con singoli Paesi membri, partner nella/della Unione. Ma perché non si è seguita la procedura del comma 4, dello stesso articolo: “Le decisioni relative alla politica di sicurezza e di difesa comune, comprese quelle inerenti all’avvio di una missione di cui al presente articolo, sono adottate dal Consiglio che delibera all’unanimità su proposta dell’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza o su iniziativa di uno stato membro” ? Bastava una intesa tra l’Alto Rappresentante, Sig.ra Federica Mogherini e il ministro della difesa dello stato del Lussemburgo (stato che in questo semestre detiene la Presidenza del Consiglio) e procedere alla convocazione del Consiglio. Non è stato fatto. Perché?….misteri di una Governance europea confusa e impacciata.
****
Ora, però, Diario europeo vuole reagire al secondo “rintocco” della campana che suona per Europa: la circolazione dei cittadini europei dentro i confini della Unione e attraverso le suw frontiere esterne; e l’accesso dei non europei al territorio dell’Unione europea: lo Spazio Schengen.
Il Lussemburgo è un piccolo Stato membro dell’Unione. Schengen è una piccola cittadina di questo Stato.
Nel 1985, il 14 giugno, cinque Stati: Belgio-Olanda-Lussemburgo-Francia- Germania Ovest firmarono, a Shengen, un Accordo: “Consapevoli che l’unione sempre più stretta fra i popoli degli Stati membri delle Comunità europee deve trovare la propria espressione nella libertà di attraversamento delle frontiere interne da parte di tutti i cittadini degli Stati membri e nella libera circolazione delle merci e dei servizi”.
Nel 1990 – cinque anni dopo- il 19 giugno, gli stessi Stati hanno dato seguito all’Accordo tramite una apposita Covenzione nella quale :
“Avendo deciso di dare attuazione alla volontà manifestata in tale accordo (…); Considerando che il Trattato che istituisce le Comunità europee, completato dall’Atto Unico europeo, prevede che il mercato interno comporta uno spazio interno senza frontiere e considerando che il fine perseguito dalle Parti contraenti coincide con questo obiettivo, senza pregiudicare le misure che saranno adottate in applicazione delle disposizioni del trattato”,
convengono – cioè sottoscrivono- (su) una serie di “definizioni” e di “strumenti” che diventano da allora – per quegli Stati – le base giuridiche alle quali si conformano tutti i controlli di frontiera.
L’Italia aderisce nel 1990.
Nel 1992, questa “Convenzione” entra a pieno titolo nel Trattato di Maastricht e successivamente vengono recepiti nel Trattato di Amsterdam (1997).
Una “Decisione del Consiglio” del 20 maggio 1999, infine, dà completa attuazione del processo giuridico; la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee (22 settembre 2000) conclude il percorso.
Abbiamo fatto questa ricostruzione per dare il senso che lo Spazio Schengen non è – come dire – una modifica alle regole del traffico. E’ una delle tappe significative della Integrazione europea. Una tappa, peraltro, incompleta. Rimasta tale, e perciò ora – nel vortice degli attacchi della criminalità sovranazionale e del terrorismo – entra in crisi.
Attualmente lo Spazio Schengen include 26 Stati europei (22 membri della UE, più altri come la Norvegia. La Svizzera, ecc. per adesione diretta, altri come il Vaticano e la Repubblica di S. Marino per via degli Accordi con l’Italia).
Nella strumentazione inclusa, sono previste anche modalità di scambio delle Informazioni. Modalità incomplete e non cogenti. Non un “sistema”.
E’ necessario integrare queste note, aggiungendo che nel 1 luglio 1999, diventa operativa Europol (abbreviazione di (EN) European Police Office, Ufficio di Polizia Europeo), l’agenzia finalizzata alla lotta al crimine nell’Unione europea.
A prima vista, questo insieme di strumenti e impegni dà una impressione di salda e completa capacità dell’Unione nel controllo di tutte la manifestazioni criminose e di pericolo per i cittadini e le cittadine dell’Unione. Ma le cose non stanno così, se si apprende, ad esempio, dalla semplice lettura della stampa quotidiana che attualmente solo 5 paesi informano in modo costante Europol sui “casi” di terrorismo!
Questa situazione e l’urto drammatico dei fatti di Parigi, hanno spinto i ministri di Giustizia e degli Affari Interni -Consiglio GAI – dei Paesi membri, nella riunione del 20 novembre , a procedere ad una urgente riforma del codice Schengen e a chiedere alla Commissione di preparare urgentemente la bozza della Decisione da presentare il prossimo 3-4 dicembre, al Consiglio G.A.I.
Dunque, le nuove “regole” dovranno essere varate a breve; ma già sono state rese note le intese tra gli Stati membri della Unione, raggiunte nel Consiglio di novembre. In estrema sintesi, entro la fine dell’anno, la Commissione sottoporrà al Consiglio e al Parlamento una serie di proposte di riforma del Sistema Schengen:
• La creazione di una Passenger name record (PNR) europeo (tutti passeggeri anche dei voli interni saranno registrati in un archivio e messi a disposizione di tutti i Servizi dei Paesi membri);
• Sarà rafforzato il controllo sistematico ai confini esterni, anche sui cittadini europei che godono della libertà di movimento; i non europei (migranti ecc.) saranno registrati e fotosegnalati. I dettagli saranno precisati: “gli stati membri si impegnano ad attuare immediatamente i necessari sistematici e coordinati controlli alle frontiere esterne, compresi gli individui che godono del diritto di libertà di movimento”.
• Da gennaio Europol lancerà il Centro europeo antiterrorismo (Ectc) nel quale dovrebbero confluire tutte le informazioni sensibili e elementi utili (gli Stati membri “dovranno” o “potranno” inviarli al Centro? Anche su questi aspetti, non secondari, occorre fare chiarezza. “Serve che non ci si limiti a registrare chi arriva, ma che si facciano verifiche sulle basi di dati nazionali ed europee, e che tale consultazione dei dati sia obbligatoria”, ha spiegato un diplomatico francese: “Questo implica che questa base di dati sia alimentata in tempo reale da tutti i paesi di Schengen, con le informazioni sulle persone che entrano, in particolare i sospettati di terrorismo”. Non si parla di mettere in comune le Intelligence, per farne un solo sistema europeo, ma la obbligatorietà ne costituirebbe già una premessa.
Diario Europeo non è aduso a spericolate (di per se stesso superficiali) altisonanti dichiarazioni. Constatiamo un rilevante (forse non ancora definitivo) gelo delle tendenze, aspirazioni “federaliste”. Alcuni intellettuali, anche di lunga tradizione federalista e di “sinistra”, hanno promosso, in questi giorni, una sorta di “fronte unito delle forze sovraniste”. Ricordano che grandi giuristi hanno lasciato scritto che: “Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione” (Carl Schmitt). Grandi economisti hanno detto: “la difesa è più importante dell’opulenza” (Adam Smith, nella Ricchezza delle nazioni). Ecc. ecc.
Eppure, mai come ora è necessario che menti più attente e razionali facciano sentire la loro voce, per “non buttare il bambino con l’acqua sporca” – se non disturba troppo questa intrusione nei discorsi “politici” di un fraseggio popolare.
Si può anche accettare la massima “Europa quando necessario, nazionale quando possibile” (Gran Bretagna). Appunto: se Europa (le istituzioni attuali, i Trattati vigenti, le opinioni pubbliche responsabili) si muove con rapidità, tempismo e lungimiranza, tanta “acqua sporca” – dove nuotano non solo il crimine e il terrore ma anche le paure e, quindi, i pensieri cupi del ritorno indietro – può essere prosciugata. Europa è necessaria. Tre sono i punti essenziali, tutti di ordine strettamente comunitario:
• La cooperazione – obbligatoria – tra le polizie e i servizi di intelligence
• La protezione – senza isterismi e sistematica – delle frontiere esterne alla UE
• La politica estera e di sicurezza della UE (ancora, troppo a lungo, a livello embrionale).