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Maker, semplici hobbisti o pionieri della rivoluzione?

stampantiStampa 3D, crowdfunding e tecnologia aperta: ecco gli ingredienti della III rivoluzione industriale
C’è chi la tecnologia la usa e basta e chi invece la smonta per guardarci dentro e capire come funziona. La prima categoria è ancora più consistente della seconda, eppure, anche se veniamo da un periodo dove, soprattutto nel tech, hanno prevalso le più sfrenate tendenze consumistiche, alcuni affermano che entro pochi anni sarà normale fabbricarsi i propri oggetti personali attraverso strumenti come le stampanti 3D, invece che comprali pronti all’uso. Dietro a quest’idea non ci sono solo pochi visionari, ma un intero movimento: il Movimento dei Maker, la cui missione è quella di aprire i cancelli della terza rivoluzione industriale attraverso la democratizzazione dei mezzi di produzione in chiave fai-da-te e l’applicazione di pratiche nate nel web al mondo fatto di atomi degli oggetti fisici.
Ma che cos’è, esattamente, il Maker Movement? Come tutti i movimenti è estremamente eterogeneo: ci sono gli appassionati di robotica, chi preferisce i sistemi di home automation, ci sono i designer, gli smanettatori di hardware opensource come Arduino e Raspberry Pi, ma troviamo anche ingegneri, hacker, amanti dei droni e professori universitari. Ma l’elemento che ricopre il ruolo di simbolo della sottocultura dei maker è la stampante 3D. Epicentro del terremoto del DIY in chiave tecnologica è la vicenda di MakerBot, il primo dispositivo opensource in grado di stampare oggetti tridimensionali, sviluppato con il supporto di una comunità molto attiva e venduto ad un prezzo abbordabile. Se negli anni ’70 per fondare una garage band bastavano poco più di una chitarra elettrica e un amplificatore, oggi per aprire un maker space bastano poco più di un computer portatile e una stampante 3D. In entrambi i casi quello che conta sono creatività e dedizione. Il primo prodotto di MakerBot si chiama Thing-O-Matic e, in effetti, condivide una certa estetica con alcuni degli strumenti musicali cari alla tradizione rock.

Chris Anderson, co-fondatore ed ex-direttore di Wired, ha recentemente abbandonato la rivista per dedicarsi a tempo pieno alla sua attività di maker lavorando all’azienda di droni opensource di cui è cofondatore, 3D Robotics. Ha scritto uno dei testi chiave per capire questo mondo, Maker. Il ritorno dei produttori, pubblicato nel 2012, in cui ci spiega come “negli ultimi dieci anni abbiamo scoperto nuovi modi per creare, inventare e lavorare insieme sul web. Nei prossimi anni ciò che abbiamo imparato verrà applicato al mondo reale”. Secondo Anderson i maker si riconoscono dalle seguenti caratteristiche. Innanzitutto si tratta di persone che utilizzano strumenti di progettazione digitale per creare nuovi prodotti e prototipi con una filosofia DIY (Do It Yourself). Secondariamente un vero maker non lavora da solo, ma in team, che può essere offline (il maker space), ma anche online, attraverso l’utilizzo di forum, blog e piattaforme specifiche (come Adafruit o Make Shed). Di norma poi i progetti vengono condivisi su internet, rendendo possibile agli altri membri della comunità di contribuire. Il DIY diventa così DIWO (Do It With Others). I progetti dei maker, tuttavia, non sono fatti per rimanere nei confini del makerspace. Il modo in cui i prototipi vengono progettati permette di poterli inserire direttamente in produzione: chiunque, se lo desidera, dovrebbe poter mandare il progetto a un service per crearne lotti più o meno grossi.
Anderson impersona alla perfezione il ruolo di araldo dell’incombente terza rivoluzione industriale. Anche grazie a personaggi come lui, il Movimento dei Maker si sta conquistando sempre più spazio sui mezzi di comunicazione. In questi giorni si è tenuto il CES 2014 e il movimento dei maker ha ricevuto l’attenzione che meritava. Dal nuovo modello di MakerBot in grado di stampare oggetti di grande volume fino alla stampante 3D in grado di sfornare caramelle in affascinanti forme geometriche, le sorprese non sono infatti mancate.
L’innovazione, nel mondo dei maker, è anche sociale e un esempio è Kickstarter. La filosofia dei maker applica il modello di sviluppo e condivisione dei contenuti digitali al mondo reale. Il problema è che, mentre è possibile distribuire i bit praticamente gratis, produrre e distribuire gli atomi da un luogo all’altro del mondo fisico ha dei costi che non sono comprimibili. Questo inconveniente può essere aggirato grazie a siti come Kickstarter. Nel 2013 i suoi numeri sono stati davvero notevoli: 3 milioni di persone provenienti da 214 paesi hanno aderito al finanziamento di progetti per un totale di 480 milioni di dollari raccolti. Tra i successi dell’anno ci sono stati lo smartwatch Pebble, il dispositivo per la realtà virtuale Oculus Rift e la prima consolle di gaming indipendente Ouija. Tra le curiosità si possono anche trovare un overcraft a forma di DeLorean e un dispositivo per pilotare aereoplanini di carta attraverso il proprio smartphone (quest’ultimo progetto ha sfondato l’obiettivo iniziale di 50.000$ raggiungendo quasi il milione). Tramite questa piattaforma di crowdfunding, infatti, usando le parole di Chris Anderson, “è possibile rimuovere collettivamente una delle più grandi barriere dell’innovazione promossa dalle piccole imprese: il capitale di investimento iniziale”. Secondo l’ex-caporedattore di Wired, Kickstarter risolve tre grandi problemi per chi vuole tentare la strada dell’imprenditoria. Innanzitutto i ricavi possono essere anticipati nel momento in cui sono davvero necessari. Secondariamente, Kickstarter trasforma la clientela in una community online. Se qualcuno finanzia un prodotto che non esiste ancora, probabilmente sarà anche interessato a seguirne lo sviluppo e a capire in che modo viene utilizzato da altri, che probabilmente condividono almeno in parte i suoi stessi interessi. Infine “Kickstarter fornisce il servizio forse più importante di una società che viene appena fondata: la ricerca di mercato. Se un progetto non raggiunge il target di finanziamento, probabilmente avrebbe fatto fiasco dopo l’entrata in commercio”.

L’importanza della comunità prende forma tramite concetti come l’educazione tra pari. Poiché i maker difficilmente lavorano da soli, ma più spesso, invece, si raggruppano in più o meno piccole comunità di persone che condividono vari progetti, viene incoraggiato un modello di apprendimento condiviso. È la cosiddetta peer education, che ribalta la concezione gerarchica dell’educazione che vede una ferma distinzione tra chi impara e chi insegna. Attraverso internet, la condivisione di progetti opensource ed eventi come le Maker Faire, le varie comunità sparse nel mondo possono condividere informazioni, guide e consigli. La sottocultura dei maker può davvero diventare un modello di educazione aperta. Pensando anche ai bambini, si tratta di nuove e potenzialmente rivoluzionarie possibilità di apprendimento.
Il mondo che ci aspetta sarà fatto di dispositivi interconnessi. Ognuno di noi avrà un network fisico di device a cui sarà collegato: non solo computer e telefono, ma anche il sistema di automazione domestica con tutti i suoi sensori e attuatori, i dispositivi di tracking indossabili e, magari, anche la propria automobile intelligente. Da noi stessi alle città che abitiamo, che diventeranno sempre più smart, saremo circondati da chip e macchine intelligenti che captano e raccolgono dati senza interruzione. Chi meglio dei maker può costruire questo futuro? Il loro spirito collaborativo e la propensione a condividere possono davvero funzionare come garanzia della trasparenza di questi dispositivi.
Mai come oggi la tecnologia dà forma alla nostra quotidianità. Eppure il processo può essere invertito. Noi stessi possiamo tornare a dare forma alla tecnologia. Un eroe contemporaneo come Steve Jobs capì che il suo desiderio era quello di costruire computer quando si accorse che il mondo era fatto da oggetti, e che gli oggetti sono fatti da persone che non sono poi così diverse dalle altre persone che quegli oggetti li usano e basta: “Il fatto che attraverso l’esplorazione e l’apprendimento uno potesse comprendere oggetti appartenenti al proprio ambiente che sembravano molto complessi dava un enorme senso di fiducia in se stessi”. L’ambiente esterno e gli oggetti che lo vanno a comporre sono qualcosa che l’uomo si è sempre trovato a manipolare e modificare: forse essere dei maker è semplicemente insito nella nostra più profonda natura.
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EUROPA CREATIVA (2014-2020)

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LA RIVOLUZIONE DEL DIGITAL MANUFACTURING

digitalIntervista a Stefano Micelli, nuovo direttore della Fondazione Nordest. «Basta deprimersi, la manifattura può ancora fare la differenza»
«Il Nord Est non esiste più». Quando Stefano Micelli, professore di Economia e gestione delle imprese all’Università Ca’ Foscari di Venezia, mette in fila queste sei fatidiche parole, chi scrive ha un sobbalzo. Detta così, asciutta, dal neo direttore scientifico di una Fondazione che ha nel «Nord Est», la sua ragione sociale, la sentenza ha l’effetto di una secchiata gelida. Lui coglie lo smarrimento all’altro capo della cornetta e subito postilla: «Beninteso, il Nord Est continua a vivere come comunità, come modello sociale ed economico, come storia imprenditoriale, ma non esiste più come realtà che “è” solo in quanto relativa ad un “altrove”, Roma per lo più ma anche Milano. Il nostro orizzonte non può finire lì. Non siamo più il “Nord Est d’Italia”, siamo “parte del mondo” e la scacchiera globale è il luogo in cui siamo chiamati a giocare la sfida più grande di questo 2014. Solo così ci salveremo».
Professore, che Veneto ci siamo lasciati alle spalle nel 2013? «Un Veneto duramente azzoppato dalla crisi, che ha perso il 10% del suo Pil, il 25% della sua produzione industriale, di cui un 10% circa del tutto irrecuperabile perché riferito ad imprese irrimediabilmente chiuse, decine di migliaia di posti di lavoro. Ma non dobbiamo deprimerci oltre il necessario e più che all’Italia, che pure tra mille difficoltà quest’anno segnerà un record assoluto nell’export, dobbiamo guardare alla realtà internazionale che offre spunti assai più interessanti. Nei Paesi emergenti si cresce a tassi altissimi e per la prima volta la bilancia commerciale con i Paesi economicamente avanzati e tornata in positivo, si pensi alla Cina che “compra” sempre più italiano. Da lì si deve ripartire».

Come? La suggestione del «Terzo Veneto» fondato sul terziario è ancora realistica? «Qualità, valore aggiunto, sostenibilità sono già entrati nel nostro orizzonte culturale quotidiano ma va sciolto l’equivoco su cui si è sempre fondata l’idea del “Terzo Veneto”, quello per cui l’investimento sui servizi deve comportare necessariamente l’abbandono della manifattura. Non è così. C’è chi parla di una terza rivoluzione industriale, quella del digital manufacturing, che impone il superamento di alcuni steccati a cominciare da quello tra industria e servizi. A Venezia c’è un’azienda di stampanti 3D che è in grado di produrre nell’arco di una giornata gioielli su misura, a piacimento del cliente. Al mattino li disegnano, al pomeriggio producono gli stampi in plastica, a sera realizzano il pezzo nel distretto orafo di Vicenza. È manifattura questa? O è servizio? Le specializzazioni che hanno reso grande il Veneto, la sartorialità, il su misura, le serie limitate, il design di qualità, non vanno abbandonate ma innovate».

L’economia del fare si deve «saldare» a quella digitale? «Sì. Solo così riusciremo a coinvolgere i giovani e a creare posti di lavoro veri, reali, unendo l’occupazione alla ripresa».

Gli incubatori, pubblici e privati, non dovrebbero servire esattamente a questo? «Molti incubatori scontano il fatto di aver investito su start-up di derivazione accademico-scientifica che poco hanno a che fare con il “saper fare”, tentando di replicare qui esperienze che magari hanno funzionato altrove, ma con ben altri budget e masse critiche. E questo anche a causa delle difficoltà di alcuni ambienti della ricerca nel riconoscere il valore dell’artigianato. Un caso positivo è quello di H-Farm, che ha ritarato i suoi obiettivi e modernizzato i suoi investimenti con risultati positivi ad esempio nelle collaborazioni con Came o Bottega Veneta. Non aver creato prima questi ponti ci è costato carissimo».

In tal senso il celebre Politecnico veneto, da più parti invocato, potrebbe aiutare? «È il progetto più importante su cui investire per creare un capitale umano all’altezza delle sfide che ci attendono. Beninteso: il politecnico non sarebbe in antitesi rispetto all’attuale offerta formativa ma a completamento di quest’ultima e gli atenei veneti farebbero bene a prendere sul serio la svolta imposta da Confindustria, che su questo argomento, dopo che per anni ci si è concentrati su Fisco, infrastrutture e burocrazia, ha davvero cambiato passo con l’ultima presidenza».

Che rapporti vanno instaurati con gli investitori stranieri? «Il Veneto è già un’eccellenza internazionale e l’interesse di Louis Vuitton per le nostre imprese ne è un esempio. I capitali stranieri sono un’opportunità straordinaria per crescere sui mercati e internazionalizzare; ma non dobbiamo diventare terra di conquista. Non possiamo ridurci a fare i terzisti del lusso».

E i mercati stranieri come si conquistano dalla provincia vicentina o trevigiana? «Con una nuova narrazione. I nostri prodotti vanno raccontati a cinesi, indiani, africani ricreando quelle suggestioni che fecero la nostra fortuna con americani e tedeschi, anche grazie al cinema. L’agroalimentare, la moda, il design sono un’idea, prima che un prodotto, e i consumatori, soprattutto i più giovani, devono esserne coinvolti e travolti, non più attraverso il grande schermo ma attraverso la Rete. Pensiamo solo alle fashion blogger o all’uso di Instagram nel campo della moda…».

La politica che ruolo gioca in questa partita? «Siamo abituati ad una politica che per lo più redistribuisce la ricchezza, in base alle priorità concertate con le forze sociali. Un ruolo che nello scenario globale ha perso gran parte del suo significato, pensiamo solo alla web tax e alle difficoltà nel trattenere qui parte dei proventi realizzati dalle multinazionali del digitale. La politica deve dare una spinta propulsiva e promozionale al territorio, ma l’impresa farebbe bene a smetterla di guardare ad essa per concentrarsi maggiormente piuttosto su ciò che può far da sé, con movimenti trasversali ai partiti. Il progetto “Innovarea” di Alberto Baban o il sostegno finanziario pensato da Renzo Rosso per la sua filiera vanno esattamente in questa direzione. Il rinascimento manifatturiero non lo fa la politica».

E alla «sua» Fondazione Nord Est che ruolo riserva? «Vuole essere protagonista di questa nuova sfida. Dopo esserci dati da fare in questi anni per accreditare il modello Nord Est agli occhi dell’Italia, non possiamo più limitarci a fotografare e monitorare l’esistente. Dobbiamo elaborare proposte ed essere in grado di indicare una via d’uscita dalla crisi».

Marco Bonet
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La befana a Corviale

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La befana è arrivata fino a Corviale grazie all’impegno delle numerose associazioni che operano da anni sul territorio garantendo alla cittadinanza servizi di assistenza sociale.

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calzette gratis per tutti i bambini, spettacoli, per vivere tutti insieme nel proprio quartiere un giorno di festa e solidarietà

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Ivan Selloni




Allarme web, gli umani sono in minoranza: il 60% del traffico online generato dai robot

robotUn’analisi della società specializzata Incapsula conferma il sorpasso di marzo: meno di quattro utenti su dieci di internet sono persone in carne e ossa. Gli altri? Programmi automatizzati per funzioni legittime, come motori di ricerca, o intenti maligni fra cui furto di dati e cyber attacchi. E la crescita non sembra arrestarsi
SORPRESA. Il web non è in mano agli umani ma a un’altra specie, a volte invasiva e pericolosa, e senz’altro meno nota al navigatore medio. Quella dei bot, abbreviazione per “robot”, ma non veri e propri androidi: piuttosto, programmi e funzioni automatizzate che svolgono su internet i compiti più disparati, buoni e cattivi: dalle scansioni dei motori di ricerca alle duplicazioni maligne di dati personali fino agli attacchi più devastanti. A certificare il sorpasso, di cui si era già avuto un primo segnale lo scorso marzo, è Incapsula, una società specializzata statunitense che della lotta ai robot della Rete ha fatto il suo core business.

Secondo una colossale indagine il 61,5 per cento del traffico sul World Wide Web è dunque da attribuirsi a entità non umane. Insomma, non arriva da ricerche, letture, navigazioni, download e forum – tutte queste attività si fermano al 38,5 per cento – ma da azioni automatizzate. Il cuore della ricerca è costituito dall’analisi di quasi un miliardo e mezzo di visite di bot a 20mila siti internet di 249 Paesi del mondo negli ultimi novanta giorni. Dai blog personali ai negozi elettronici, dai portali governativi ai siti delle big company passando per quelli di istituzioni finanziarie e forum: per quanto scivolosa sia questa posizione, da Incapsula sostengono che la selezione sia rappresentativa del mare magnum di internet. Rispetto all’ultima rilevazione il traffico prodotto dai bot ha subito un’impennata del 21 per cento fino a toccare appunto la maggioranza assoluta di quello complessivo. “La maggior parte di questa crescita è da attribuire all’incremento di visite da parte dei cosiddetti bot buoni – raccontano da Incapsula – vale a dire agenti certificati di software così come motori di ricerca, la cui presenza è cresciuta dal 20 al 31 per cento negli ultimi dodici mesi”.
di SIMONE COSIMI
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Vivere bene entro i limiti del nostro pianeta

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programma generale di azione dell_UE in materia di ambiente fino al 2020




La mappa delle risorse e degli obiettivi dell’11° Municipio

conf-municipi-icoConferenza Urbanistica Cittadina

L’Assessorato alla Trasformazione Urbana ha deciso di convocare una conferenza urbanistica cittadina nella quale discutere del futuro del territorio della nostra città e delle opportunità che la rigenerazione urbana offre nella costruzione di un nuovo modello di città.

Il dialogo con la città si è interrotto negli anni passati e insieme è cresciuta la sfiducia nei confronti dell’amministrazione comunale. Per ricostruire questo rapporto è necessario parlare con trasparenza e costruire momenti di partecipazione nei quali riallacciare il filo del dialogo tra urbanistica e società, affrontare senza ipocrisie le numerose criticità esistenti e definire insieme gli obiettivi d’interesse pubblico degli interventi urbanistici. La rigenerazione urbana non consiste, banalmente, in una trasformazione fisica e funzionale dei luoghi. Piuttosto significa cogliere nuove opportunità per rispondere ai fabbisogni delle famiglie e delle imprese e favorire relazioni sociali più eque, ridurre le disuguaglianze e le distanze tra i quartieri, dare alla città di Roma il rango di Capitale e di metropoli internazionale.

La conferenza urbanistica cittadina, che si terrà alla fine del 2014, è preceduta da 15 conferenze urbanistiche municipali che si concluderanno in autunno dello stesso anno. Nel primo incontro, alla presenza dell’Assessore Caudo, verrà illustrato lo stato di attuazione delle previsioni del piano regolatore, evidenziando le opportunità di rigenerazione e le questioni aperte in ambito urbanistico.

Dopo il primo incontro, con la collaborazione di ciascun Municipio, si avvierà un’attività laboratoriale, della durata di due mesi e aperta al contributo di associazioni e comitati presenti sul territorio, con la quale intendiamo venire in contatto con la conoscenza e progettualità diffusa. L’attività del laboratorio è finalizzata alla costruzione di una “carta dei valori” di ciascun Municipio, nella quale sono evidenziate le qualità territoriali che devono essere conservate e messe in valore, gli obiettivi pubblici che si intendono perseguire e le priorità relative all’attuazione degli interventi. In parallelo si procederà ad una raccolta e schedatura delle proposte già esistenti riguardanti servizi, attrezzature, viabilità, piste ciclabili, parchi, giardini e simili.

Gli esiti del lavoro saranno tradotti nella Conferenza Urbanistica cittadina che raccoglierà le indicazioni emerse durante il percorso di ascolto e lavoro con i singoli municipi.

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Corviale al Maxxi

Corviale sbarca al Maxxi! Infatti il museo d’arte contemporanea dedica al nostro quartiere uno spazio espositivo all’interno della mostra “Non basta ricordare” della Collezione Maxxi Arte e Architettura curata dal direttore artistico Hou Hanru.

La mostra, visitabile fino al 28 settembre, intende “mettere in dialogo l’arte e l’architettura per creare un contesto culturale in cui sia possibile creare uno scambio innovativo sul significato della creazione contemporanea e la democrazia”: trasformare il museo da un semplice spazio espositivo dove ricordare il passato a un luogo pubblico dove le persone possono interagire con le opere esposte in modo dinamico ricostruendo così continui significati che aiutino la comprensione del momento storico presente.

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Corviale è stato inserito nella sezione “Politica, realtà, idee e ideologie” come esempio di sperimentazione architettonica unita ad una visione ideologica dello spazio pubblico.
I visitatori possono studiare disegni e progetti dell’architetto Mario Fiorentino per approfondire l’aspetto architettonico del Serpentone e conoscere la storia del quartiere ricostruita dagli stessi abitanti per capirne i cambiamenti nel tempo e la percezione esterna di chi ci abita oggi.

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Proprio la partecipazione attiva della cittadinanza coordinata dall’associazione CorvialeDomani rende questa mostra uno spazio pubblico dove architetti, urbanisti, artisti e semplici cittadini possono comunicare senza barriere per studiare il proprio quartiere e progettare cambiamenti urbanistici in linea con le trasformazioni sociali in atto.

Poiché costruire un quartiere non può essere esclusivamente materia di tecnici e specialisti ma deve diventare un processo continuo di scambio tra diverse visioni e modi di vivere la città.

Ivan Selloni