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Manifesto delle città metropolitane

metropoli

Un Manifesto delle città metropolitane, che potrebbero essere motore di crescita per il Paese. Il documento è il risultato del lavoro della Rete delle associazioni industriali metropolitane, un network di 10 realtà confindustriali.

Il Manifesto per le città metropolitane è un documento di lavoro con le priorità e le aspettative del mondo produttivo. Le Città metropolitane – si legge nel documento – sono il motore delle economie nazionali, fondamentali per le prospettive di sviluppo del sistema industriale, come dimostrato dalle esperienze europee di Barcellona, Lione, Monaco, Stoccolma, Amsterdam. Il Manifesto è frutto dell’impegno del territorio, nato dal lavoro della rete delle Associazioni industriali metropolitane di Confindustria, un network costituito da dieci associazioni confindustriali: Assolombarda; Confindustria Bari e Barletta-Andria-Trani; Confindustria Firenze; Confindustria Genova; Confindustria Reggio Calabria; Confindustria Venezia; Unindustria Bologna; Unindustria – Unione degli industriali e delle imprese di Roma, Frosinone, Latina, Rieti e Viterbo; Unione industriali della Provincia di Napoli e Unione industriali Torino

Aree metropolitane motore delle economie nazionali

Le aree metropolitane – si legge nel Manifesto – sono il motore delle economie nazionali e hanno un ruolo sempre più rilevante negli scenari economici, sociali e istituzionali. È necessaria una geografia amministrativa coerente con la geografia economica e sociale del territorio. Nelle aree metropolitane si concentra gran parte di popolazione, prodotto interno lordo, gettito fiscale e investimenti pubblici. La frammentazione dell’organizzazione territoriale e amministrativa al loro interno è un problema di interesse nazionale che deve essere superato. Questo visto che la scala più efficiente per attrarre investimenti è quella metropolitana.

Una volta costituite le Città metropolitane possono svolgere meglio alcune funzioni fondamentali: migliorare la produzione e la regolazione di beni e servizi pubblici locali; realizzare una maggiore dimensione delle economie di scala, costruire politiche urbane più integrate e una pianificazione solidale del territorio, aumentare gli investimenti pubblici e ridurre la loro duplicazione; esercitare il potere unitario nella negoziazione di accordi con le amministrazioni periferiche per la realizzazione di interventi di interesse nazionale, quali infrastrutture e trasporti.

Correggere il ddl in Parlamento

È all’esame del Parlamento l’iniziativa del Governo assunta con il ddl “Disposizioni su città metropolitane, sulle Province, sulle unioni e fusioni di Comuni”, che istituisce direttamente le città metropolitane, senza prevedere il rinvio alla volontarietà dell’iniziativa da parte degli enti locali interessati. Il ddl, già approvato dalla Camera e ora in discussione al Senato, non raggiunge l’obiettivo di snellire la burocrazia – si legge nel Manifesto – e rischia di trasformare le aree metropolitane in un ulteriore livello politico e amministrativo. La cornice legislativa risulta, infatti, per alcuni aspetti ancora inadeguata , in particolare dove prevede la possibilità di istituire ulteriori città metropolitane rispetto a quelle previste dal progetto originario.

Si rischia così di snaturare il concetto stesso di Città metropolitana, che diventerebbe una semplice variante della Provincia invece che un’istituzione speciale di governo destinata a caratterizzare le maggiori aree urbane del paese. Questo potrebbe creare gravi difficoltà nell’individuare politiche che possano caratterizzare in modo differenziato le più importanti realtà urbane, a partire dal Pon (Programma operativo nazionale) di utilizzo dei fondi strutturali europei per le città metropolitane previsto per il periodo 2014-2020. La Città metropolitana non deve creare un ulteriore livello politico e amministrativo aggravando la complessità e la frammentarietà del contesto istituzionale che le imprese italiane fronteggiano ogni giorno.

Le priorità del mondo produttivo

La Città metropolitana dovrà mettere in moto strumenti di programmazione e pianificazione strategica, capaci di individuare risorse, tempi, soggetti e modalità attuative, valorizzando la progettualità locale e delineando una visione condivisa delle vocazioni e delle prospettive di sviluppo dei territori. Dovrà accorciare – si legge nel Manifesto – i tempi della decisione pubblica; raggiungere una maggiore efficienza tecnico-amministrativa.

Dovrà attivarsi per lo sviluppo metropolitano e locale, realizzando interventi incisivi per la competitività del territorio e il sostegno delle imprese su temi strategici come: il marketing territoriale e l’attrazione degli investimenti; la realizzazione degli obiettivi dell’Agenda digitale; l’accompagnamento alla localizzazione di nuove imprese; la realizzazione di aree produttive e poli tecnologici attrezzati; le politiche attive di lavoro, formazione e ricerca; la valorizzazione di tutte le opportunità finanziarie, collegate alle Politiche europee per la ricerca, l’innovazione, lo sviluppo, la coesione territoriale e sociale. La costituzione delle Città metropolitane è una condizione essenziale per non perdere queste grandi opportunità e sviluppare iniziative in un’ottica di smart city e smart community che rappresentano il futuro dell’organizzazione degli enti locali.

Gli impegni delle Associazioni industriali metropolitane di Confindustria

Le Associazioni industriali metropolitane di Confindustria – anche alla luce dei principi del “partenariato rafforzato” previsti dal Codice di condotta europeo sul Partenariato – si impegnano affinché: le Città metropolitane diventino protagoniste di una nuova politica nazionale per le aree urbane, intesa come asse fondamentale della politica industriale del Paese, catalizzatori di progetti e interventi provenienti dagli enti di governo locale, ma anche dalle Regioni, dallo Stato e soprattutto dall’Unione europea; si valorizzi la straordinaria ricchezza in termini di offerta rappresentata dalle diverse peculiarità delle Città metropolitane italiane per lo sviluppo sostenibile del Paese.

Ricchezza che, sulla traccia del modello collaborativo sviluppato dalla rete delle Associazioni industriali metropolitane, occorre valorizzare in termini di complementarietà, geografie funzionali e in un’ottica di competitività internazionale. L’auspicio è che le Città metropolitane italiane vengano avviate contemporaneamente e con tempestività.

di Nicoletta Cottone

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Terzo Rapporto Annuale del Consorzio Tiberina

tiberinaPER UN FUTURO SOSTENIBILE

DELLA TIBERINA

Coesione territoriale e sviluppo endogeno

fra tradizione e innovazione

Indice

Capitolo 1 – Note introduttive

Capitolo 2 – Gli elementi quantitatvi e la metaprogettazione

Capitolo 3 – La progettazione del Distretto Biologico: una svolta ecologica nella gestione del territorio

Capitolo 4 – La progettazione del Distretto Culturale: un’identità da far conoscere

Capitolo 5 – La progettazione del Distretto Tecnologico: verso una Silicon Valley della new-soft-green economy

Capitolo 6 – Il Consorzio Tiberina “come rete” e “nelle reti”

Capitoli 7 – Note conclusive

Appendice – Aggiornamenti sulle informazioni riportate nel Primo e secondo Rapporto

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Indice e Cap.1

Cap.2

Cap. 3 e 4

Cap. 5

Cap.6 e 7

Appendice




Cuore, mani, testa e rete: 7 consigli per diventare buoni artigiani digitali

Foto 2 Meme“Chi lavora con le sue mani è un lavoratore. Chi lavora con le sue mani e la sua testa è un artigiano. Chi lavora con le sue mani e la sua testa ed il suo cuore è un artista”. Così diceva Francesco d’Assisi. Oggi alle mani, alla testa, al cuore potremmo aggiungere anche la rete. E tutto il potenziale che ne consegue.

In questi ultimi tre anni ho conosciuto di persona oppure online centinaia di questi nuovi artigiani. Li ho intervistati, poi ho raccontato le loro storie su wwworkers.it.Vivono e lavorano nel nord come nel sud-Italia e operano nei più disparati settori merceologici. Tutti loro raccontano storie di passione, di cura maniacale per i dettagli, di lavoro continuo, di determinazione.

Storie di lavoro artigiano, di qualità delle materie prime, di creazioni uniche, di vero “made in Italy”. E storie di lavoro in rete, grazie al potenziale espresso dalle nuove tecnologie. Perché il nuovo artigiano digitale è colui che riesce a mettere a sistema il ruolo delle reti, interpretando Internet agorà e non solo come vetrina per presentare i propri prodotti e servizi, la rete come luogo privilegiato di confronto con una community anche alto-spendente.

Ecco la generazione degli artigiani digitali. Grazie alle nuove tecnologie vendono, dialogano con i propri clienti, si posizionano verso nuovi pubblici e mercati, portano il made in Italy all’estero. Una ricerca promossa dal Craft Council e ripresa anche dall’edizione online del Guardian ha fotografato questi professionisti. L’identikit tracciato dall’istituto londinese non lascia spazio ad equivoci: la rete, e in particolare i social network, permettono di vendere di più e meglio. Facebook, Twitter, Pinterest, Google Plus consentono a tanti artigiani di raccontare in modo innovativo il proprio lavoro e di costruire una rete di relazioni sociali (qui la ricerca completa).

Vendere online, posizionare il proprio brand, intercettare nuovi pubblici anche in mobilità grazie a smartphone e tablet. Ecco i vantaggi iniettati dal web. “La nostra ricerca suggerisce come i social rivestano oggi un ruolo fondamentale nell’evoluzione del mestiere. La relazione che si instaura con nuovi clienti e partner commerciali diventa strategica”, ha raccontato Karen Yair del Crafts Council al Guardian. Social network come potenziale per valorizzare un mercato interno spesso dormiente e rafforzare l’esportazione. “Si supera l’isolamento delle piccole realtà e si arriva direttamente al cliente finale”.

Al posto di tutelare-difendere-secretare occorre narrare storie, uscire allo scoperto, dialogare. E non è un cambio da poco. Si tratta di una rivoluzione copernicana, un cambio di paradigma. Però occorre spiegarlo ai geniali artigiani nostrani: perché mentre creano le loro opere spesso in laboratori chiusi e botteghe blindate, una nuova generazione di professionisti (che arriva anche da fuori Italia) impara ad usare oltre che la testa, il cuore e le mani, anche la rete. Quella rete ancora troppo sconosciuta che resta un valore aggiunto di pochi.

 

Eppure è quella rete che consente di scalare mercati, incrementare fatturato, creare sinergie e alleanze con le nuove reti di impresa, allargare la base clienti,. Internazionalizzare il proprio prodotto o servizio e più in generale competere.

Foto 1 ElaLo ha capito Ela Siromascenko, arrivata dalla Romania e che oggi è a tutti gli effettiun’artigiana digitale. Fa prodotti unici, aumenta la sua visibilità, ha un laboratorio che è una stanza con una connessione sempre attiva col resto del mondo. L’ha raccontata Elisa Di Battista sul suo blog Laureatiartigiani.it.

Ela Siromascenko a ventinove anni ha deciso di trasferirsi in Italia perché innamorata del nostro Paese. Dopo una laurea in marketing, un master in relazioni pubbliche, un dottorato di ricerca in scienze della comunicazione e dopo otto mesi da Visiting PhD Student all’Università di Milano ha aperto una sartoria che esporta soprattutto all’estero, grazie al digitale. L’ha chiamata Eloncha, ed è un negozio online su Etsy, la più grande bottega artigiana al mondo. Così ha dichiarato Ela a Laureatiartigiani.it: “Al momento l’80% delle mie vendite viene dal negozio su Etsy. Essendo situato su una piattaforma con oltre 20 milioni di utenti e oltre un milione di negozi è fondamentale avere una buona indicizzazione. Un’altra fetta di vendite la ottengo pubblicizzando il mio lavoro su Facebook”.

Il quartiere generale di Elochka si trova in una delle stanze dell’appartamento dove vivo col mio fidanzato. Abbiamo una stanza come atelier: ho un tavolo grande per il taglio, tre macchine da cucire tra cui una industriale, il tavolo del computer e della stampante, il manichino, l’asse da stiro e pure due faretti per la fotografia e le scatole delle buste per la spedizione”.

Eccola allora una nuova generazione di artigiani digitalizzati che rispetto alle botteghe blindate sceglie di abbracciare la rete. Con costanza, con passione, con tanto studio.

Ela è autodidatta, ma la rete le ha dato una mano. E la laurea è stato un valore aggiunto. “Al giorno d’oggi non basta più solo saper fare delle cose belle e di qualità, bisogna essere capace di farsi vedere e posizionarsi in un mercato competitivo”. Come ho già scritto sul mio blog del Fatto Quotidiano, Ela racconta un’altra Italia che magari non impugna il forcone e ragiona su come fare concretamente qualcosa, un’Italia che arriva sempre di più da lontano con un bagaglio culturale e di energia, che spera e costruisce, che lotta contro mille pratiche burocratiche e un sistema di comunicazione nel quale il modello positivo non fa notizia, non fa breccia.

Di Ela abbiamo parlato a Ferrara alcune settimane fa, nell’ambito del Meme. E proprio Ela è stata ricordata da Stefano Micelli, docente della Cà Foscari a Venezia e autore di quello che è diventato il testo cult: “Futuro Artigiano”, edito da Marsilio.

“Il vecchio mondo non tornerà più ma in fondo è il vecchio mondo con occhi nuovi. Perché il vecchio mondo è franato e occorre ricostruire un immaginario. Oggi viviamo questo dualismo fortissimo tra l’economia della conoscenza, rappresentata dai brevetti, dalle tutele, dal copyright, rispetto all’economia del fare dei Paesi in via di sviluppo”.

Per Micelli non può più esistere questa scissione, non ce la possiamo permettere, e stiamo perdendo tempo prezioso. “In cinque anni abbiamo perso il 25% della capacità manifatturiera , il comparto edilizio è franato del 38% e nel segmento automotive consumiamo con nel 1976 e produciamo le stesse cose del 1956. Non possiamo perciò riferirci a mondi passati che sono franati”. Occorre una discontinuità, e questa è data dalla narrazione, da un immaginario differente. I makers, o gli artigiani digitali, sono narratori in quanto hanno un capitalee possono proporre la cultura del racconto. “Occorre narrare, svelare i prodotti, renderli interessanti, occorre progettare un mondo diverso”..

Non solo ti racconto una storia, ma ti coinvolgo in un processo: ecco allora cheaccanto al maker c’è il maker-hub, una piattaforma digitale di co-creazione. Le idee esistevano anche in passato, oggi però vengono condivise”, afferma Stefano Maffei del Politecnico di Milano, evidenziando come esistano due elementi che connotano i cosiddetti makers: l’idea di progetto e l’idea del fare. “E il tutto è legato nel nostro caso ad una tradizione centenaria, anche se negli ultimi anni sono gli americani ad averci fatto riscoprire questa passione del fare. Comunque in tutto questo c’è il background della nostra cultura manifatturiera. In questo le merci nuove – prodotte da imprenditori o attuatori diversi – sono in un mercato nuovo”.

L’artigiano storyteller diventa un nuovo interprete del made in Italy, e questoscenario significa prodotto interno lordo. “Non si tratta di fare il pubblicitario, si tratta di ripensare il rapporto tra cultura e manifattura. Il vero binomio tra questi due elementi è proprio nello storytelling, anche attraverso le nuove piazze di socializzazione e le nuove dinamiche di dialogo”, precisa Micelli. Così diventa importante interagire, dialogare sulle varie reti sociali, presidiando la community.

Si può procedere per gradi, senza preoccuparsi di comprendere tutto sin dall’inizio, alfabetizzandosi nel percorso (è questo il consiglio del Craft Council). E’ preferibile adottare un “tone of voice” diretto, autentico, informale ma competente. Si può iniziare ad intercettare i pubblici con una fanpage su Facebook e imparando a raccontare il proprio lavoro, le materie prime che ne sono alla base, la cura dei dettagli e la ricerca dei prodotti.

Si può fare con testi, foto e qualora si riesca anche con brevi video. Non occorrono grandi rivoluzioni, si può procedere per gradi, con pochi messaggi alla settimana, ma opera però con costanza. E poi è fondamentale andare oltre la rete, con incontri dal vivo come barcamp con artigiani o corsi di formazione in bottega. In questo modo si rafforza la community, ascoltandola e coinvolgendola in prima persona. Perché ascolto e gratificazione sono alla base del successo in rete. E il consentire di incontrarsi di persona incrementa la fiducia. Le migliori community nascono in rete, ma si rafforzano fuori, perché ancora oggi niente è più potente di una stretta di mano.

Ecco però sette passi, sette consigli che ho raccolto proprio dalle testimonianze dei wwworkers artigiani digitalizzati.

Passo 1: costruisci una storia in rete. Racconta la tua attività in prima persona con informazioni sulla tua azienda e sui tuoi prodotti. Punta sul sito web, sui social network e su app consultabili da smartphone e tablet

Passo 2: valorizza la tua community. Crea una relazione costante e intercetta il tuo pubblico attraverso parole chiave. Dialoga con community verticali interessate ai tuoi prodotti

Passo 3: ascolta e dai il feedback. Rispondi in modo appropriato e in breve tempo. Cerca il confronto e richiedi il feedback sull’esperienza di navigazione (usabilità della piattaforma) e di acquisto

Passo 4: fai un patto tra vecchi e nuovi modelli. Continua a portare avanti l’attività classica, ma integra anche con la rete.

Passo 5: punta sulla rete, e credici fino in fondo. Costruisci una relazione di medio-lungo termine. In rete il risultato lo misuri nel tempo, così ha senso costruire una strategia di lungo periodo

Passo 6: affidati ai professionisti. Ad ognuno il suo mestiere. Se hai risorse daallocare, cerca professionisti dedicati per gestire le conversazioni e le vendite, provando comunque a presidiare il segmento.

Passo 7: dimostra coraggio. Pensa alla vetrina online come integrazione della tua vetrina fisica: punta con coraggio sulle foto e su descrizioni multilingua dei prodotti

Foto 3 English CutSaper fare e saper comunicare. È ciò che afferma anche Hugh MacLeod, pubblicitario e anima di English Cut, vetrina della storica sartoria inglese che si racconta attraverso un blog costantemente aggiornato. Sono i nuovi “global microbrand”, così li ha definiti MacLeod, ovvero piccole grandi imprese artigiane narrate sul web. Un modo per riannodare i fili di una rete che oggi più che mai coniuga innovazione e tradizione.

GIAMPAOLO COLLETTI

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Comunicato > Convegno “Ricostruire la città”

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Si è svolto a Corviale il secondo convegno annuale della Società dei Territorialisti/e dedicato al tema “Ricostruire la città” al quale hanno partecipato alcune tra le più significative esperienze di riappropriazione dello spazio pubblico romano: Il Teatro Valle Occuapto, Porto Fluviale, Officine Zero, Nuovo Cinema Palazzo, Zappata Romana. Il convegno è stato fortemente voluto dall’associazione CorvialeDomani con l’intento di creare una sinergia tra tutte l’associazioni che lavorano per la riappropriazione del bene comune e per un nuovo modello di urbanizzazione. La giornata è servita per far capire a tutti che Corvialedomani è al centro di questo processo di cittadinanza attiva che da tempo coinvolge la città di Roma. L’associazione inoltre ha organizzato una visita guidata nel quartiere a studenti e professori di università americane per far conoscere Corviale a studiosi di urbanistica e architettura di livello internazionale.

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“Non conoscevo Corviale e vedo che qui c’è una grande voglia di progettualità nel ridefinire il rapporto tra spazio urbano e rurale – dichiara il presidente della Società dei Territorialisti Alberto Magnaghi – mentre l’urbanizzazione attuale della città purtroppo tende a non seguire progetti chiari ma solo logiche speculative.”

Corviale Domani Onlus




Le banche dati che ci obbligano a essere intelligenti

intelligenzaCome accadde secoli fa con la stampa, gli archivi elettronici permetteranno un progresso del sapere. Il nostro apparato cognitivo può liberarsi dall’obbligo di ricordare e dedicarsi all’invenzione
Da quando siamo uomini, abitiamo in uno spazio polarizzato attorno a luoghi di concentrazione, case, villaggi e tesori diversi; in particolare, il luogo stesso in cui vivo e al quale riferisco il mio indirizzo. Viviamo in questo spazio perché costruire lo forma, abitare lo consolida e pensare consiste nel riprodurlo.

Lo spazio immagazzina, l’individuo pensa: stesso processo. Non saremmo potuti sopravvivere senza queste concentrazioni che condizionavano la vita, l’individuo, il collettivo, le pratiche e la teoria; non ci smettevamo, instancabilmente, di inventarne di nuove sotto tutti i rapporti. Ed ecco che i computer portano a compimento questo segmento dell’ominizzazione. Perché se queste macchine possono essere definite universali, meritano tale titolo sotto la rubrica, appunto, della concentrazione. Che bisogno abbiamo di riunire libri, segni, beni, studenti, case o mestieri dal momento che il computer lo fa? Il problema generale dell’immagazzinamento che cercavamo di risolvere e sul quale lavoravamo follemente fin dalla nostra origine ha trovato soluzione, non solo reale ma virtuale: ogni questione di questo tipo trova molteplici risposte possibili, secondo le sue condizioni e costrizioni. Le reti rendono desueta la concentrazione attuale, voglio dire un ammasso qualsiasi qui e ora.

La rapidità delle comunicazioni concentra virtualmente ovunque, ad libitum, tutto o parte del connesso disponibile. Al contrario delle antiche tecnologie, le nuove macchine sostituiscono con trasmissioni rapide la funzione del conservare. Non immagazziniamo più cose, bensì relazioni.

Le reti sostituiscono la concentrazione con la distribuzione. Da quando disponiamo, su una postazione portatile o sul telefonino, di tutti i possibili accessi ai beni o alle persone, abbiamo meno bisogno di costellazioni espresse. Perché anfiteatri, classi, riunioni e colloqui in un dato luogo, e perché una sede sociale, dal momento che lezioni e colloqui possono tenersi a distanza? Gli esempi culminano in quello dell’indirizzo. In tutto il corso della storia è stato riferito a un luogo, di abitazione o di lavoro, mentre oggi l’indirizzo di posta elettronica o il numero di telefono cellulare non indicano più un determinato luogo: un codice o una cifra, pura e semplice, basta. Quando tutti i punti del mondo godono di una sorta di equivalenza, la coppia qui e ora entra in crisi. Heidegger, filosofo oggi assai letto nel mondo, nel chiamare esserci l’esistenza umana, designa un modo di abitare o di pensare in via di estinzione. Il concetto teologico di ubiquità – la capacità divina di essere ovunque – descrive meglio le nostre possibilità rispetto al funebre qui giace.

Un altro modo di interpretare il gesto di immagazzinare: depositare informazione su pergamena, carta stampata o supporto elettronico significa costruire una memoria. I nostri antenati assomigliavano agli attori di oggi che sono in grado di recitare a memoria migliaia di versi o di sostenere altrettante repliche. Simili eroismi superano ormai la nostra capacità. Man mano che costruiamo memorie performanti, perdiamo la nostra, quella che i filosofi chiamavano una facoltà. Possiamo davvero dire: perdere? Niente affatto, perché il corpo deposita, a poco a poco, quell’antica facoltà nei supporti mutevoli; cervicale e soggettiva, essa si oggettivizza e si collettivizza. Una stele di pietra, un rotolo di papiro, una pagina di carta: ecco memorie materiali, in grado di dare sollievo alla nostra memoria corporea. Era vero per le biblioteche, lo è ancora di più per la rete, memoria globale ed enciclopedia collettiva dell’umanità.

Secoli fa cantastorie, aedi, gli apostoli di Gesù, gli interlocutori di un dialogo di Platone, anche uno studente della Sorbona medievale, potevano ripetere a distanza di anni, senza omettere una sillaba, i discorsi di un maestro o di un oratore uditi da giovani. Al riparo dagli errori di copisti troppo interventisti, la tradizione orale tracciava una via più sicura rispetto alla trasmissione scritta. I nostri predecessori coltivavano dunque la loro memoria e disponevano di sottili strategie mnemotecniche. Man mano che prendevamo note o
leggevamo stampati, non tanto abbiamo perso quella facoltà quanto l’abbiamo depositata nei libri e nelle pagine. Così come la ruota fu ispirata dal corpo, dalle caviglie e dalle rotule in rotazione nella marcia, allo stesso modo l’immagazzinamento dell’informazione prese le mosse da funzioni cognitive antiche. Al contrario degli animali, bloccati in un organismo senza “secrezione” di questo tipo, noi non cessiamo di riversare le nostre prestazioni corporee in strumenti prodotti a partire da esse. Perdiamo la memoria perché ne costruiamo di multiple.

Ci uniamo qui ai piagnoni antichi e moderni, i cui discorsi e testi deplorano la perdita dell’oralità, della memoria, della concettualizzazione e di tante altre cose preziose per i nostri avi. In realtà la perdita della memoria, nell’epoca che seguì quella in cui si declamavano a mente i poemi di Omero, liberò le funzioni cognitive dal carico impietoso di milioni di versi; apparve allora, nella sua semplicità astratta, la geometria, figlia della Scrittura. Allo stesso modo nel Rinascimento una perdita ancora più importante sollevò i saggi dallo schiacciante obbligo della documentazione, che allora si chiamava dossografia, e li riportò bruscamente alla nuda osservazione che fece nascere le scienze sperimentali, figlie della stampa. A bilancio, i vantaggi prevalgono in maniera preponderante sui pregiudizi, poiché in tali circostanze nacquero due altri mondi, che permisero di comprendere questo. Sapere consiste allora non più nel ricordare, ma nell’oggettivare la memoria, nel depositarla negli oggetti, nel farla scivolare dal corpo agli artefatti, lasciando la testa libera per mille scoperte. Ho impiegato molto a capire che cosa volesse dire Rabelais, quando i professori mi obbligavano a dissertare sulla celebre frase: Preferite una testa ben fatta a una testa piena.

Prima di poter allineare i libri nella loro libreria, Montaigne e i suoi antenati dotti dovevano imparare a memoria l’Iliade e Plutarco, l’Eneidee Tacito, se volevano averli a disposizione per meditare. L’autore degli Essais li cita ormai ricordandosi solo del loro posto sugli scaffali per consultarli: quanta economia! All’improvviso la pedagogia, che quel Rinascimento auspica, vuoterà la testa un tempo piena, e ne modellerà la forma senza preoccuparsi del contenuto, ormai inutile in quanto disponibile nei libri. Liberata della memoria, una “testa ben fatta” si volgerà ai fatti del mondo e della società per osservarli. Rabelais, in quella frase, in realtà, loda l’invenzione della stampa e ne trae lezioni educative. Decisamente, bisogna riscrivere
Pantagruel o gli Essais.

Come vecchi cadenti, i bambini di oggi non ricordano neppure la trasmissione vista ieri sera in televisione. Quale scienza immensa promuoverà quest’altra perdita di memoria? Questo sapere recente si può già apprenderlo o almeno visitarlo sulla rete, come il nuovo oblio l’ha già modellato. Sì, l’enciclopedia, la cui rete mondiale gronda informazioni singolari, ha appena cambiato paradigma, sotto l’effetto della nuova liberazione. Il nostro apparato cognitivo si libera anche di tutti i possibili ricordi per lasciare spazio all’invenzione. Eccoci dunque consegnati, nudi, a un destino temibile: liberi da ogni citazione, liberati dallo schiacciante obbligo delle note a piè di pagina, eccoci ridotti a diventare intelligenti!

Come nel Rinascimento, giungono una nuova scienza e una nuova cultura, i cui grandi racconti producono un’altra cognizione che li riproduce a loro volta arricchiti. Questo cambiamento d’intelletto ha avuto luogo più volte nella storia, ad esempio quando arrivarono i modelli astratti della geometria o gli esperimenti in fisica, quando appunto cambiavano le tecnologie. Così la storia della filosofia e la storia stessa, tributarie della storia della conoscenza, seguono quella dei supporti.
di MICHEL SERRES
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Smart City, Torino vara il masterplan con 45 azioni

smart-cityLe linee di indirizzo sui temi della mobilità, dell’energia, dell’inclusione sociale, dell’ambiente, della qualità e degli stili di vita
ia libera dal Consiglio comunale di Torino alla delibera di approvazione del masterplan “Torino smart city”, denominato “Smile – smart inclusion Life Health and Energy”.

Con la delibera, la Città assume gli assi strategici del masterplan “come linea di indirizzo e visione dello sviluppo di future progettualità a livello europeo, nazionale e regionale, legate ai temi della Smart city”.

45 azioni

Frutto della collaborazione con 66 diverse istituzioni del territorio, il masterplan si compone di 45 punti sui temi della mobilità, dell’energia, dell’inclusione sociale, dell’ambiente, della qualità e degli stili di vita. Le 45 azioni proposte rappresentano le potenzialità da sviluppare nei prossimi anni, proposte dalla Città e dagli altri enti locali coinvolti nel progetto.

“Smile – ha sottolineato l’assessore Enzo Lavolta, che ha presentato la deliberazione – è la possibilità concreta di rendere operativi gli sforzi che l’intero sistema locale porta avanti nell’ambito dell’innovazione tecnologica e sociale attraverso l’accesso a importanti risorse ulteriori alle risorse pubbliche attualmente a disposizione dell’Amministrazione”.

“E’ un patrimonio straordinario che suscita interesse e aspettative tra gli operatori del mondo economico sociale e culturale della nostra città”, ha commentato Piero Fassino intervenendo in aula prima del voto. “I programmi smart cities – ha continuato il sindaco – sono l’occasione per un salto di qualità nell’organizzazione della vita della nostra città. Smart city è un modo diverso di pensare la città in tutte le sue dimensioni, non solo per il valore aggiunto in termini tecnologici, ma anche per la significativa valenza sociale”.

Con il bando Miur partiti 11 progetti

Nel 2013, grazie al progetto Smart city, sono stati attivati 14 progetti europei per un valore di 3,5 milioni di euro, attraverso il bando MIUR Smartcities and Communities sono partiti 11 progetti di giovani under 30 per 7 milioni di euro nella sezione dell’innovazione sociale oltre a 6 progetti di ricerca per 100 milioni. Da ricordare ancora il bando cluster tecnologici di cui è diventato capofila Torino Wireless. (fonte: Ufficio stampa Consiglio comunale di Torino)
www.casaeclima.com
master plan Torino smart city




evento




Edgar Schein: il primato della cultura organizzativa

organizzazioneProfessore emerito di management alla Sloan School Of Management del Massachusetts Institute of Technology, Edgar Schein (1928-vivente) ha di fatto inventato il concetto di cultura organizzativa. Scrive Schein:

La cultura è importante perché è un insieme di forze potenti, nascoste e spesso inconsce, che determinano il nostro comportamento individuale e collettivo, i modi della percezione, lo schema del pensiero e i valori. La cultura organizzativa in particolare è importante perché gli elementi culturali determinano strategie, obiettivi e modi di agire. I valori e lo schema di pensiero di leader e dirigenti sono in parte determinati dal loro bagaglio culturale e dalle loro esperienze comuni. Se si vuole rendere una organizzazione più efficiente ed efficace, allora si deve comprendere il ruolo giocato dalla cultura nella vita organizzativa.
Potrebbe sembrare una dimensione da studiosi e poco concreta, ma – osserva Schein – che se una persona passa la maggior parte della sua vita facendo un certo lavoro, in una certa organizzazione, assorbe parecchi temi culturali condivisi dagli altri nell’ambiente di lavoro o nell’organizzazione. Pertanto la chiave per capire se esiste o meno una cultura è cercare la presenza di esperienze comuni e di un comune bagaglio culturale.

Vedremo, di qui a poco, che per Schein la cultura di un’organizzazione è “ciò che ella ha assimilato come unità sociale nel corso della sua storia”, ed egli la definisce composta di artefatti, valori e postulati nascosti. La metafora è quella di un frutto di pesca con gli artefatti come buccia, i valori come polpa, e gli assunti di base come nocciolo.

Il concetto di cultura organizzativa
La tesi fondamentale di Schein (1984; 1986) è che l’analisi di un’organizzazione consiste essenzialmente nello studiare la sua cultura. Questo perché la cultura è l’elemento più importante di un’organizzazione, ciò che consente di spiegarne la struttura, le scelte strategiche, il reclutamento e la condotta dei singoli individui. Inoltre siccome la cultura è in larga parte creata e gestita dai leader dell’organizzazione, cultura e leadership possono essere viste come le due facce della stessa medaglia. È possibile, scrive Schein, che l’unico compito realmente importante dei leader consista nel creare e gestire la cultura d’azienda e che di conseguenza l’unico talento che i leader devono possedere sia quello di saper gestire la cultura (1990).

Dal punto di vista delle definizioni formali del concetto, scrive Edgar Schein che:

la cultura organizzativa è l’insieme coerente di assunti fondamentali che un dato gruppo ha inventato, scoperto o sviluppato imparando ad affrontare i suoi problemi di adattamento esterno e di integrazione interna, e che hanno funzionato abbastanza bene da poter essere considerati validi, e perciò tali da poter essere insegnati ai nuovi membri come il modo corretto di percepire, pensare e sentire in relazione a quei problemi.
Trattasi di una definizione complessa, che sintetizza in poche righe il pensiero di Schein. Tre sono gli aspetti principali della definizione.

Il primo sta nel concetto di cultura inteso come un insieme di assunti fondamentali. Con questa espressione Schein intende affermare che la conoscenza di una cultura organizzativa procede attraverso un’analisi che si sviluppa a diversi livelli di profondità. Al livello più superficiale ci sono gli artefatti, ossia i prodotti immediatamente osservabili di una data organizzazione: la sua architettura, l’arredamento, la tecnologia, ma anche il modo di comportarsi dei suoi membri come il gergo, l’abbigliamento, la mimica, i simboli, i rituali.

Per definizione tutti gli artefatti sono visibili, ma non per questo facilmente decifrabili. Al contrario, proprio l’arte di decifrare il senso degli artefatti costituisce il primo banco di prova di una analisi organizzativa.

Così, ad esempio, che scopi si prefigge una determinata architettura? Favorisce la socialità tra i membri o rispecchia la volontà di mantenere delle barriere gerarchiche? L’abbigliamento delle persone segue le loro libere preferenze, oppure con divise e simboli di grado manifesta l’appartenenza ad una organizzazione? Esistono dei rituali e con quali scopi? Esistono gerghi specialistici, più o meno esclusivi e non comprensibili da persone esterne?

Per Schein l’osservazione attenta degli artefatti è il primo passo dell’analisi organizzativa. Si raccolgono le prime impressioni, si formulano le ipotesi di lavoro, si prepara il terreno per passare a un secondo e più approfondito livello di analisi.

Al secondo livello si trovano quelli che Schein definisce i valori espliciti dell’organizzazione. Siamo nella sfera dei discorsi manifesti e accettati che vengono spesso creati e fatti circolare dalla leadership con l’intento di rafforzare il senso di appartenenza e solidarietà, di individuare i pericoli e i nemici esterni, di chiarire e legittimare le scelte dell’organizzazione, di creare consenso tra i membri. Spetta al ricercatore compiere un’attenta ricognizione di quei discorsi, sia scritti che orali (colloqui, interviste), esaminare la loro evoluzione nel tempo e il grado delle loro corrispondenze con gli artefatti.

Ma la ricerca non finisce qui. Bisogna scendere a un terzo livello ancora più profondo, quello che Schein chiama degli assunti di base. Sono queste le convinzioni profonde e inespresse, date talmente per scontate da non attrarre l’attenzione e di cui spesso i membri non sono nemmeno del tutto consapevoli. Ma è proprio questo il livello più importante per capire l’anima dell’organizzazione, le motivazioni profonde delle azioni dei suoi membri e il modo in cui questi sono stati selezionati e plasmati. Fare emergere gli assunti fondamentali di un’organizzazione è il compito più difficile, ma è qui che si gioca il valore della ricerca, la sua possibilità di andare oltre la banale descrizione di cose che già si sanno.

Schein dà alcune indicazioni su come scoprire questi assunti. Essi riguardano i campi universali dell’esperienza umana, come il rapporto con la natura, la percezione del tempo, la natura dell’uomo, le attività umane e le relazioni tra le persone.

Il rapporto con la natura può essere di dominanza e di sfruttamento, oppure di rispetto e di armonia. Dello scorrere del tempo si può avere una concezione ciclica, di continui ritorni su se stesso (concezione tipica dei mondi rurali e arcaici) oppure si può avere una concezione lineare, di un tempo che non torma indietro. La concezione del tempo può a sua volta essere connessa all’idea di progresso. Quanto alla natura dell’uomo, esistono concezioni pessimiste della natura umana in quanto marchiata dal peccato originale, ed esistono concezioni ottimiste che vedono l’uomo come un essere capace di perfezionarsi indefinitamente. Vi sono infine concezioni democratiche oppure autoritarie dei rapporti umani, di gruppo o individualiste, competitive o solidariste, maschiliste o paritarie tra i sessi. Dall’insieme di questi assunti discende la risposta a domande importanti come: qual è il modo di impostare i rapporti tra essere umani, di distribuire potere e amore? La vita è cooperativa o competitiva? Che cosa è il lavoro e che cosa è il gioco? L’ordine sociale va mantenuto ricorrendo alla gerarchia e al controllo oppure costruendo rapporti basati sulla fiducia, sulla delega di responsabilità e sull’eguaglianza?

Gli assunti di base si possono variamente combinare tra di loro dando luogo a sistemi di convinzioni articolati e complessi. A seconda di tali combinazioni cambia profondamente il modo di lavorare, di comunicare, di valutare il proprio operato e quello degli altri. I sistemi di convinzioni devono però sempre soddisfare il requisito fondamentale della coerenza interna, e questa riguarda tanto la combinazione degli assunti tra di loro quanto il rapporto tra questi ultimi e i livelli dei valori espliciti e degli artefatti. Tale coerenza è importante in quanto contribuisce ad assicurare il coordinamento tra i diversi membri e le diverse unità organizzative.

La formazione di una cultura organizzativa
Ma come si formano gli assunti fondamentali di un’organizzazione? Per Schein la cultura si forma sempre in un gruppo e arriviamo così al secondo punto della definizione che egli dà di cultura. Il gruppo è formato da persone che sono state insieme il tempo sufficiente per avere condiviso problemi significativi, averli affrontati, avere osservato gli effetti delle soluzioni tentate e avere trasmesso quelle soluzioni ai nuovi arrivati. Quanto più il gruppo è omogeneo e stabile con esperienze lunghe e intense, tanto più forte e articolata è la sua cultura. Viceversa, se il gruppo è composto da persone con scarse esperienze comuni e che non hanno mai affrontato insieme problemi difficili, la sua cultura è debole, precaria e poco differenziata. In sintesi, per sviluppare una cultura comune il gruppo deve avere una storia comune.

Tutto ciò equivale a dire che una cultura non è fatta di idee astratte ma di risposte a problemi concreti che occorreva risolvere, inventando o scoprendo soluzioni che poi diventano oggetto di apprendimento da parte dei nuovi membri del gruppo. La validità delle risposte non è data soltanto dalla loro efficacia nel risolvere i problemi pratici, ma anche dal grado in cui riducono l’ansia dei membri. L’ansia nasce in ambienti sconosciuti o ostili, quando non si riesce a percepire un ordine o una coerenza interna. Si spiegano così gli aspetti ritualistici e simbolici sempre presenti in una cultura organizzativa: le danze propiziatorie prima della battuta di caccia in una tribù primitiva, ma anche le ricorrenti cerimonie rituali in una grande impresa moderna tuffata nel vortice della concorrenza.

Schein distingue poi due grandi categorie di problemi: quelli riguardanti l’adattamento del gruppo all’ambiente esterno e quelli riguardanti l’integrazione interna. I problemi del primo tipo riguardano gli obiettivi, le strategie e i mezzi per realizzare gli obiettivi e la valutazione delle prestazioni. Su questi problemi occorre un consenso minimo pena la dissoluzione del gruppo. Ma i problemi possono cambiare man mano che l’organizzazione li affronta e passa a un’altra fase della vita. Schein fa l’esempio di un’azienda che appena fondata si pone il compito di vincere sul mercato tutti gli altri concorrenti, ma in una fase successiva trova conveniente sviluppare una propria nicchia di mercato o addirittura si adatta a diventare un partner senza pretese in un settore oligopolistico pur di sopravvivere.

I problemi di integrazione riguardano invece la capacità del gruppo interno all’organizzazione di funzionare come gruppo. Anche qui c’è un’esigenza di consenso, che riguarda i criteri per includere ed escludere i membri, per distribuire il potere, per sviluppare amicizia, confidenza e affetto, per stabilire premi e punizioni. Soprattutto occorre il consenso sull’ideologia, ovvero sul sistema dei discorsi con cui attribuire significato e ridurre l’ansia dei membri di fronte a eventi inspiegabili o traumatici.

Tutti questi problemi hanno delle specificità che riflettono la storia dell’organizzazione e l’ambiente in cui si opera. Per affrontarli, l’organizzazione sviluppa degli assunti che secondo la definizione data da Schein devono funzionare abbastanza bene da poter essere considerati validi. Quegli assunti formano la cultura dell’organizzazione. È una cultura in formazione perenne, perché è sempre in atto qualche tipo di apprendimento circa il modo di porsi in rapporto con l’ambiente e di gestire gli affari interni. Si crea così una tensione tra l’esigenza di conservare il patrimonio degli assunti formatisi con l’esperienza precedente e l’esigenza di verificarli e adattarli alle nuove esigenze che li sfidano. La tensione tra conservazione e innovazione è presente in ogni cultura organizzativa. Spetta alla leadership gestire quella tensione in modo lungimirante e accorto. Un buon leader sa che la cultura organizzativa non può essere pietrificata in qualcosa di immutabile, né trasformata in modo troppo rapido e disinvolto.

Infine la cultura (ed è questo il terzo aspetto della definizione) non è solo un patrimonio condiviso dai membri già presenti nell’organizzazione, essa richiede di essere trasmessa ai nuovi membri in modo da garantire la sopravvivenza del gruppo. L’operazione è semplice se fatta a persone giovani, non ancora formate. Ma è complicata quando i nuovi membri, soprattutto se introdotti ai livelli alti dell’organizzazione, portano con sé il contributo di idee e valori già acquisiti in altre esperienze. In questi casi è possibile che l’ingresso dei nuovi membri provochi dei cambiamenti nella cultura dell’organizzazione. Si pone allora il problema di studiare i processi di adattamento reciproco tra la cultura preesistente dell’organizzazione e i cambiamenti apportati dai nuovi membri. Schein non dà una risposta preventiva al problema, perché si tratta di dinamiche da studiare empiricamente caso per caso.

Schein ammonisce che non è facile studiare la cultura, data la sua natura pervasiva che permea ogni aspetto dei rapporti umani. Non basta intervistare i fondatori o i leader sui valori e sugli obiettivi dell’organizzazione, perché in questo caso si rimarrebbe solo al livello manifesto. L’analisi deve estendersi:

ai processi di socializzazione dei nuovi membri, ossia a come la cultura organizzativa viene trasmessa, recepita e adattata;
alle risposte date ad eventi critici nella storia delle organizzazioni, e questo perché quelle risposte costituiscono un patrimonio di ricordi che concorrono a formare l’identità collettiva dell’organizzazione;
alle anomalie o ai tratti osservati man mano che la ricerca procede. Una cultura organizzativa può essere meglio messa a fuoco se si esaminano le irregolarità, le devianze e le tensioni latenti che in essa si producono.
Va, infine, tenuto presente che tutti questi elementi vanno ricondotti al modo in cui viene esercitata la leadership: leadership e cultura, ripete Schein, non sono che due aspetti di una stessa realtà, studiando la leadership di un’organizzazione si studia la sua cultura e viceversa.

Conclusioni
Quando all’inizio degli anni ottanta del secolo scorso prese corpo la proposta di Edgar Schein di dedicare attenzione al tema della cultura organizzativa, nessuno avrebbe mai pensato alla sua rapida diffusione e al fatto che sarebbe stata poi condivisa in tutta la letteratura successiva, tanto da potersi ritenere ormai assodato il fatto che proprio questa cultura rappresenta una variabile strategica di tutte le organizzazioni.

Quale lezione trarre, allora, dal pensiero di Schein? La prima, e più importante, è che un leader che voglia portare al successo un’organizzazione deve necessariamente sviluppare una visione duale: attento alle azioni e decisioni che portano al miglioramento delle performance aziendali e, nello stesso tempo, attento alle implicazioni che tali azioni e decisioni avranno sulla cultura aziendale. Ma di questi due aspetti, forse, l’area su cui i leader attuali dovranno maggiormente concentrare i propri sforzi è il secondo: saper governare il mondo del simbolico per creare consapevolmente una cultura orientata al successo.

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Giuseppe Pompella

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