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Compromessi Sposi

di Francesco Miccichè. Con Vincenzo SalemmeDiego AbatantuonoDino AbbresciaRosita CelentanoElda Alvigini Italia 2019

Gaetano De Rosa (Salemme), sindaco cinquestelle di Gaeta, separato dalla moglie Mia (Alvigini), scopre, allarmato, dalle pubblicazioni che la figlia ventenne Ilenia (Grace Ambrose), fashion blogger che vive a Roma con la madre, sta per sposare il coetaneo Riccardo (Lorenzo Zurzolo), milanese con ambizioni musicali. Anche il padre del ragazzo, l’imprenditore Diego Loperfido (Abatantuono), quando la figlia Claudia (Valeria Bilello) gli dà la notizia, si preoccupa parecchio: lui – anche se il maschio è preso dalla musica, mentre la sorella lavora duramente in azienda – da bravo maschilista ha deciso che Riccardo gli succederà alla guida della fabbrica e un matrimonio prematuro non rientra in questo quadro; anche la moglie Amelia (Celentano), piena di prestigiosi cognomi, è contrariata da queste nozze “miste”. I Loperfido arrivano a Gaeta insieme ai due amici di Riccardo, Matteo (Federico Riccardo Rossi) e Francesco (Francesco Buttironi), preceduti da Mia, Ilenia e le sue due amiche Carolina (Carolina Rey) e Ilaria (Irene De Matteis) e al primo incontro i due padri si ricordano di aver già avuto un aspro diverbio un anno prima (inoltre, l’intransigente Gaetano ha bloccato il progetto della costruzione di un faraonico albergo, per il quale Diego  aveva ottenuto l’autorizzazione dalla precedente giunta). Da quel momento i due padri decidono, ciascuno per proprio cont, di far saltare il matrimonio: Gaetano incarica prima l’ispettore della Asl (Fabrizio Nardi) di far chiudere l’albergo dove dovrà aver luogo la cerimonia ma invano e, poi, convince Primo (Lorenzo Sarcinelli), suo assistente ed ex-fidanzato di Ilenia, di sedurla, mentre Diego si offre di pagare i debiti di Tito (Abbrescia) in cambio dell’organizzazione di un addio al celibato con escort. I maneggi dei due, dopo vari equivoci, vanno a buon fine, complici involontari il Comandante dei Carabineri (Sergio Friscia), il proprietario del trenino del Luna Park (Pasquale Palma) e la nevroticissima wedding-planner Michela (Susy Laude) ma può non trionfare l’amore?

Due giovani si amano e decidono di sposarsi ma le famiglie si oppongono ma, quando non finisce tragicamente (vedi Giulietta e Romeo), potranno coronare il loro sogno. Questa – per dirla con Borges (Storia universale dell’infamia) è la “storia particolareggiata e totale” di buona parte delle commedie da Aristofane a Plauto, passando per Molière, Shakespeare appunto, Goldoni, Donizetti, Rossini per poi arrivare al cinema: come non ricordare I prepotenti con Taranto e Fabrizi, Padri e figli di Monicelli, Amore e chiacchere di Blasetti, fino ai vari Matrimoni a.. del penultimo Boldi. L’ispirazione (o, meglio, l’aspirazione) di Compromessi sposi viene da Totò, Fabrizi e i giovani d’oggi e I Tartassati ma non ne sfiora nemmeno il livello. Siamo, se mai, ad un Boldi più patinato ma non necessariamente più divertente. I film di Totò e Fabrizi raccontavano un Italia reale, un mondo nella cui necessaria deformazione comica ci si riconosceva. A Miccichè, dopo i non certo smaglianti successi Loro chi? e Ricchi di fantasia, viene affidata un ulteriore commedia (?) e lui lascia che Salemme e, soprattutto, Abatantuono inanellino i loro ripetitivi tic recitativi, mettendosi al servizio di una sceneggiatura pedissequa e a patchwork (c’è perfino un finale appoggiato mollemente e improvvidamente su Mamma Mia!). Gli incassi – ma ormai a chi decide nel nostro cinema il dettaglio non sembra interessare – sono nella modesta media di tante (troppe) commedie messe su tanto per fare. Unica nota positiva le belle prove della Alvigini e della Laude, caratteriste di razza.

 




Maria Regina di Scozia (Mary Queen of Scots)

di Josie Rourke. Con Saoirse RonanMargot RobbieJack LowdenJoe AlwynDavid Tennant Gran Bretagna 2018

     1651. La cattolica Maria Stuart (Ronan) torna in Scozia per occupare il trono che le spetta accompagnata dalle sue dame e dall’adorato musico italiano omosessuale David Rizio (Ismael Cruz Cordova) e scortata dal fedele Lord Bothwell (Martin Compston). La accoglie il fratellastro James, Conte di Moray (James McArdle), fino ad allora reggente della corona. I primi atti del suo governo (concedere libertà religiosa ai sudditi) fanno uscire dal Consiglio della Corona John Knox (Tennant) – la potente guida dei protestanti scozzesi, che si impegnerà ad infangarla nelle sue ascoltatissime prediche – e preoccupano il Segretario di Stato Lord Maitland (Ian Hart), sino a quel momento gestore del governo del paese, che comincia a tramare contro la sovrana. Intanto a Londra Elisabetta I (Robbie) teme che Maria, sua consanguinea, possa – in quanto diretta discendere dagli Stuart – spodestarla ma non accetta le sollecitazioni del suo Primo Consigliere William Cecil (Guy Pearce) a sposarsi e a mettere al mondo un erede (Maria appena arrivata al trono le ha subito proposto un’alleanza, chiedendole di garantirle la successione, nel caso lei, Elisabetta, non avesse figli): lei è paga del rapporto con il giovane Robert Dudley (Alwyn), che, per ragioni di rango nobiliare, non ha nessuna possibilità di sposare. Cecil le propone allora di inviare a Maria come ambasciatore il fidato Lord Randolph (Adrian Lester) per proporle un accordo basato sul matrimonio con un Lord inglese di fiducia di Elisabetta. Maria accoglie con gentilezza il messo e sembra disposta ad accettare l’accordo. Cecil allora dichiara il proprio piano: sarà proprio Dudley il marito prescelto (chi più di lui può garantire fedeltà alla sua amata regina?). Elisabetta – provata dal vaiolo che ha contratto – pur disperata, accetta la proposta ma, quando Dudley si presenta alla corte di Scozia, Maria lo respinge, rompendo clamorosamente con Londra. Poco dopo, accetta di sposare Henry Darnley (Lowden), figlio del Conte di Lennox (Brendan Coyle), cattolico inglese con solide ramificazioni nella nobiltà scozzese. Questo ulteriore colpo di testa della sorella, convince James a lasciare la corte e – con l’aiuto di armi inglesi e di Knox – a capitanare una sommossa. Le truppe di Maria, guidate da Bothwell, sconfiggono gli insorti e lei impedisce che il fratellastro sia ucciso. Il matrimonio, invece, si rivela un fallimento: Dudley è un ubriacone ed è diventato l’amante di Rizzo; Maria, in un frettoloso rapporto sessuale, riesce a farsi mettere incinta e a garantire così un erede che possa unificare sotto di sé Inghilterra e Scozia. Maitland, Knox e il padre di Dudley mettono a punto una nuova congiura: far apparire la affettuosa consuetudine di Maria con Rizzo come una storia d’amore e dichiararla indegna del trono; costringono Dudley a firmare il loro patto e, insieme a lui, trucidano Rizzo sotto gli occhi della regina, che subito dopo relegano nelle sue stanze. Dudley, a quel punto, si dà arie da re ma viene, a sua volta, ucciso. Ora il Consiglio impone a Maria di sposare Bothwell e lei – fidando nella sua consolidata fedeltà – accetta ma anche quest’ultimo si era schierato con i congiurati. Disperata, affida a James il figlio appena nato, chiedendogli di reggere per lui il trono e parte sul barcone di un pescatore (John Stahl) per l’Inghilterra. Qui incontra Elisabetta e le chiede aiuto: lei le promette solo di rispettare il suo erede ma la imprigiona per vent’anni, alla fine dei quali, venuta in possesso di documenti che comproverebbero sue manovre per ucciderla, la fa giustiziare. Il figlio di Maria, James I (Andrew Rothney) sarà il primo re di Inghilterra e Scozia.

Il primo film su Maria, The execution of Mary, Queen of Scots, è del 1895; da sempre, infatti, il cinema (e poi la televisione) è stato affascinato dalla storia delle due sorellastre regine e rivali: Katharine Hepburn, Zara Leander, Vanessa Readgreve, Annie Girardot, Joan Sutherland e Samantha Morton sono le più note tra le decine di attrici che hanno interpretato il ruolo della regina cattolica, così come Sarah Bernhardt, Flora Robson (3 volte), Bette Davis, Jean Simmons, Agnes Moorehead, Glenda Jackson, Miranda Richardson, Judy Dench e due volte ciascuna Vanessa Redgrave e  Cate Blanchett hanno vestito i panni di Elisabetta I. Questo nuovo film è tratto dal libro di John Guy Queen of Scots – The true life of Mary Stuart ma, soprattutto, è sceneggiato da Beau Willimon, l’autore di House of cards ed ha la sua forza  (e il suo limite) nel raccontare la storia come un insieme di intrighi, convinzioni etico-politiche e sentimenti equiparabili ai nostri tempi: le due rivali dichiarano le loro difficoltà a regnare in un mondo di uomini con accenti femministi e Maria si pone nei confronti dell’omosessualità dell’amato musico e della libertà di religione su posizioni e con toni di una liberal di questi tempi. A questi accettabili ma vistosi anacronismi, si aggiungono alcune forzature della regista. Lei ha alle spalle una bella carriera teatrale ma è al suo primo film e non sembra avvedersi che alcune forzature, che il palcoscenico accoglie tranquillamente, sullo schermo appaiono dissonanti: la scelta di far interpretare Lord Randolph – così come altri cortigiani  vistosamente multietnici – da un attore di colore è stilisticamente fuorviante (è vero che Branagh aveva fatto qualcosa di simile in Molto rumore per nulla, così come Reynolds in Robin Hood – Principe dei ladri ma il primo film è un giocoso girotondo sulla commedia più allegra di Shakespeare e nel secondo, peraltro opera di pura fantasia, il personaggio di Morgan Freeman è un valoroso ex-nemico di Robin, conosciuto durante le Crociate). E proprio la teatralità è il pregio e il difetto maggiore di Maria Regina di Scozia: splendidi costumi (di Alexandra Byrne), scenografie (James Merifield) adeguatamente cupe, bellissime riprese della aspra natura scozzese (John Mathieson) ed ottimi attori (anche se l’australiana Robbie – altrove bravissima – appare un po’ sfocata) ma più verbosità che colpi di scena; per non parlare nella scena clou – assolutamente inventata dagli autori – dell’incontro tra le due protagoniste, che diventa un quasi affannoso espediente teatrale con quel loro ricercarsi attraverso pesantemente simbolici veli.




Non ci resta che il crimine

di Massimiliano Bruno. Con Alessandro GassmannMarco GialliniEdoardo LeoGianmarco TognazziIlenia Pastorelli Italia 2019

Moreno (Giallini), Sebastiano (Gassmann) e Giuseppe (Tognazzi), sono tre sfigati: il primo, costantemente in ritardo con l’assegno di mantenimento alla moglie (Sara Baccarini), coinvolge sempre gli altri due – un fessacchiotto succube della moglie ed un commercialista, che lavora per uno stipendio bassissimo nello studio del suocero (Antonello Fassari) – in imprese improbabili nelle quali “i soldi si fanno con la pala!”. L’ultima trovata è quella di vestirsi da duri degli anni ’80, con tanto di scacciacani, e per guidare i turisti in un tour nei luoghi delle imprese della Banda della Magliana, delle cui gesta Moreno è un fanatico esperto. Arrivati a Trastevere, un vigile (Maurizio Lops) li multa di 1.000 euro per divieto di sosta ed esercizio commerciale abusivo. Alla scena assiste, divertito, Gianfranco (Massimiliano Bruno) – loro vecchia vittima dei tempi della scuola: lo avevano soprannominato “Ventosa” perché li seguiva ovunque e lo bullizzavano – che è diventato ricco e, per mortificarli, offre loro di pagare la multa in cambio di un giro del tour. Arrivano al bar che era stato uno dei quartieri generali della Banda e, mentre Gianfranco prende il caffè, i tre, come ai tempi della scuola, scappano nel retro; qui si inoltrano in oscuri cunicoli e all’uscita si trovano in pieni festeggiamenti per una vittoria dell’Italia ai mondiali del 1982. Spaventati, rientrano nel bar ma trovano “Renatino” De Pedis (Leo) e i suoi che seguono una partita in televisione; fanno per andarsene ma Giuseppe (che sa a memoria centinaia di risultati di calcio) si lascia sfuggire una frase che anticipa l’azione sul teleschermo; i banditi si allarmano e li minacciano con le pistole ma i tre biascicano una scusa e riescono ad andarsene. Per strada, ormai rassegnati ad essere prigionieri del passato, decidono di sfruttare l’abilità di Giuseppe e, con 500.000 lire che Moreno aveva acquistato su eBay per rendere più realistico il tour, scommettono sui risultati dei mondiali con l’allibratore Fariseo (Marco Conidi); vincono 10 milioni con i quali si danno a spese pazze, finendo la serata in un locale notturno. Qui Sebastiano viene circuito dalla spogliarellista Sabrina (Pastorelli), che, leccandogli un dito, gli ingoia per sbaglio la fede; quando lui se ne accorge e va nel suo camerino, lei si innamora della sua ingenuità (lui le regala un lassativo che aveva comprato per la moglie per frale recuperare l’anello), mentre il coreografo del locale (Fabio Ferri), la mette in guardia ricordandole che è la donna del pericoloso Renatino. I tre fanno bisboccia, scolando con le entraineuse varie bottiglie di champagne e trovandosi con un conto di svariati milioni. Quando chiedono di parlare con il proprietario, si trovano davanti De Pedis, che sequestra Giuseppe e dice agli altri due che lo ammazzerà se entro la fine della partita dell’Italia dell’indomani non porteranno il dovuto. Nella disperazione, Sebastiano va a casa di Sabrina per recuperare almeno la fede e la ragazza lo corteggia pesantemente ma Renatino, che si era fatto accompagnare da Giuseppe per sorvegliarla, vede che non è sola e fa irruzione; Sebastiano, non visto, scappa e i due fidanzati fanno pace ma il boss ha un tarlo di gelosia. L’indomani Moreno ricordando che nella basilica di Sant’Apollinare è nascosto il tesoro della Banda va con Sebastiano – che tranquillizza sul pericolo di essere scoperti, perché i testi recitano che di lì a poco il Sorcio (Federico Galante) farà una soffiata e farà arrestare tutta la banda –   a prelevare i soldi per pagare il debito, mentre Giuseppe, nel tentativo di salvarsi la pelle, fa vincere parecchi milioni a Renatino, che scommette sul risultato della partita e sui gol con Fariseo. I due amici arrivano in tempo con i soldi ma succede che la canzone “Cuore, sole, amore”, che Sabrina canticchia, avendola sentita da Sebastiano, viene intonata anche dal Sorcio (che, a sua volta, l’aveva sentita da Sebastiano): Renatino si convince che è lui l’amante della sua donna e l’ammazza. Subito dopo decide di tenersi Giuseppe, rinchiudendo gli altri due, per fare soldi con il Totonero. Questa svolta rispetto alla storia, provocherà una scissione anticipata della banda guidata dell’insofferente Bove (Emanuel Bevilacqua) e coinvolgerà i tre malcapitati in una rapina. Tra sparatorie, fughe e finte morti, i tre amici verranno salvati da Gianfranco e, rafforzati dall’esperienza, potranno chiudere i loro conti in sospeso ma…

Massimiliano Bruno è uno dei pochissimi veri autori di commedie di questi ultimi anni, che hanno visto un’epidemia di pseudo-commedie all’italiana, scritte, dirette e interpretate da pensosi ed inadeguati autori ed attori, che, smessa – almeno apparentemente – la noiosa divisa engagè, si prodigano in improbabili farsette con morale “de sinistra” d’ordinanza, distruggendo quel poco di credibilità commerciale rimasta al nostro cinema. Bruno, dimenticando titoli meno riusciti (e, soprattutto, l’inutile Gli ultimi saranno ultimi), ha dimostrato con Nessuno mi può giudicare e Viva l’Italia di saper trovare spunti originali e talvolta anche politacally uncorrect (che è sempre una boccata di ossigeno, rispetto alla fanghiglia di conformismo nella quale siamo invischiati). L’idea di Non ci resta che il crimine viene da lontano: tanto per restare in casa nostra, pensiamo a O.K. Nerone di Mario Soldati del 1951, nel quale Walter Chiari e Carlo Campanini, dopo una botta in testa, si trovano nell’antica Roma alle prese con il dispotico imperatore (era Gino Cervi, mica il pur simpatico Edoardo Leo). La trovata però è sviluppata con buon mestiere (Bruno ha una bella storia di scrittura, spesso in collaborazione con Brizzi) e il cast funziona: i protagonisti sono in buona sintonia e i caratteristi – merito sicuramente della casting Giordani ma anche della solida esperienza teatrale di Bruno – sono azzeccatissimi. La Pastorelli, infine, sembra essere – dopo Elisabetta Rocchetti (la più spontanea e la meno fortunata) e l’onnipresente Micaela Ramazzotti – la nuova, inevitabile (perche?) coatta del cinema italiano. I primi incassi sono buoni per un film che – dopo vari inciampi – sembra averci fatto ritrovare il produttore Lucisano dei tempi migliori.




La casa delle bambole – Ghostland

 di Pascal Laugier. Con Crystal ReedTaylor HicksonRob ArcherEmilia JonesAdam Hurtig Francia, Canada 2018

La nevrotica adolescente Beth (Jones), ammiratrice di Lovecraft (a lui si ispira nello scrivere racconti gotici), con la sorella Vera (Hickson) e la madre Pauline (Mylène Farmer) sono in viaggio per andare a prendere possesso di una casa che una zia ha lasciato loro in eredità. Nel tragitto sono superate da un camion dei gelati, cui Vera (in piena ribellione adolescenziale) fa un gestaccio. Arrivati alla villa isolata, la trovano arredata pesantemente e piena di inquietanti bambole. Vanno a dormire un po’ in subbuglio; poco dopo il furgone dei gelati si ferma davanti alla casa e ne scendono un uomo agghiacciante (Kevin Power) con una parrucca nera e vestito come una strega punk e un laido grassone (Archer) claudicante. I due le aggrediscono e, mentre Vera e la madre si difendono come possono, Beth, nascosta, assiste alla scena paralizzata dal terrore. Pauline alla fine, pur ferita, accoltella la strega e Vera colpisce il grassone; sollecitata dalla madre, Beth scappa. Anni dopo Beth (Reed), ora adulta e diventata una scrittrice di best seller horror, vive una vita serena con il marito (Hurtig) e il figlio (Denis Cozzi), quando le arriva una telefonata allarmata dalla madre: lei, nonostante tutto, è rimasta nella casa del fattaccio ad accudire Vera che dopo quella notte è impazzita e che – di qui la telefonata – ha una nuova crisi. Beth – pur nel pieno della promozione del suo ultimo successo, che è ispirato ai fatti di quella notte – si precipita nella casa e trova la sorella in condizioni pietose e auto-reclusa in cantina e la madre che si fa forza come può. Di lì a poco tornano, forse fantasmi, la strega ed il grassone e l’incubo ricomincia (o non era mai finito?).

Lovecraft è, insieme a Poe (a cui si è ispirato per i primi racconti), il maggior autore di horror della tradizione statunitense. Stephen King lo considera un maestro è tutto il genere gotico moderno gli è debitore. A differenza di Poe, le cui opere sono state trasposte sullo schermo dal geniale Roger Corman in capolavori (La maschera della morte rossa, Il pozzo e il pendolo, I vivi e i morti, Sepolto vivo, La tomba di Ligeia, I racconti del terrore, I magni del terrore), Lovecraft ha ispirato, oltre a La città dei mostri (sempre un Corman notevole – peraltro tratto anche da una poesia di Poe – ma non il migliore), decine di film (Re-animator, Necronomicon, Chtulu, La fattoria maledetta, La morte dall’occhio di cristallo, tra i più noti) ma nessun titolo realmente memorabile, se non tra gli appassionati. In realtà, i suoi racconti – nei quali, a differenza dello psicologico Edgar Allan che l’orrore lo faceva nascere dalla condizione umana, era centrale l’elemento demoniaco o fantasmatico – hanno influenzato il filone riconducibile a La casa: un’abitazione sinistra che, colpita da una maledizione, distrugge chi vi dimora. Laugier è uno specialista (ha girato solo horror, tra i quali i notevoli Saint-Ange e Martyrs) e per questo film dichiara un debito di ispirazione a Tobe Hooper ai suoi Non aprite quella porta – in effetti il grassone deve molto a Leatherface (ma un po’ anche al buffo Sloth dei Goonies) – oltre, ovviamente, rifarsi a Lovecraft, che non solo ispira le opere di Beth ma appare in carne ed ossa (o quasi) quale saggio deus ex-machina. In conclusione, La casa delle bambole – Ghostland è un film riuscito a metà: un buon cast, con la bella intuizione di usare la famosa cantautrice Mylène Farmer (soprannominata l’Ange Rouge per la sua trasgressività), scenografie (di Gordon Wilding) di grande effetto, bei dialoghi ma paura quasi zero, con un viavai tra passato e presente, immaginazione e realtà, rimozione e angoscia un po’ meccanico e senza (qui ci vuole) quel senso lovecraftiano del male che lo avrebbe reso speciale.

 




Bohemian Rhapsody

di Bryan Singer. Con Rami MalekLucy Boynton, Gwilym Lee, Ben HardyJoseph MazzelloAidan Gillen Gran Bretagna, USA 2018.

A Londra nel 1970, alla fine di un concerto degli Smile, il bassista e cantante Tim Staffel (Jack Roth), se ne va e ai due musicisti restanti – il chitarrista Brian May (Lee) e il batterista Roger Taylor (Hardy) – si presenta Farrokh “Freddie” Bulsara (lui è Parsi e la sua famiglia zoroastriana è fuggita dalle persecuzioni mussulmane), che si offre come frontman. La sua improvvisata esibizione li convince e lui – seguito poco dopo dal bassista John Deacon (Mazzello) – entra nel gruppo, che assume il nome The Queen, e lui cambia il proprio cognome in Mercury. Dopo un po’ di concerti di routine, la band decide di vendere il furgone, mettere insieme i risparmi e incidere un disco. La demo incuriosisce il potente agente Ray Foster (Make Meyers), che li prende in agenzia, affidandoli al manager John Reid (Gillen). Cominciano i primi album e i primi successi, mentre Freddie si sposa con l’amatissima Mary Austin (Boynton). 4 anni dopo, i Queen, spinti dalla costante ricerca di nuove sonorità di Mercury, incidono l’album A night at the Opera, che contiene il complesso ed eccentrico Bohemian Rapsody: Freddie è convinto che vuole che questo brano debba essere il singolo di lancio dell’LP ma Foster è contrarissimo: il pezzo – oltre ad essere fuori dai canoni del rock –  dura 6 minuti e le radio non lo trasmetterebbero. Mercury non demorde e su questo si consuma la rottura con l’agenzia. Ora i Queen, rappresentati da Reid, entrano nella scuderia EMI e –anche grazie al brano incriminato – hanno un successo enorme. Mary è abituata alle sue lunghe assenze, dovute ai trionfali concerti nel mondo, ma comincia a sentire che in lui sta venendo fuori qualcosa: Freddy ha costanti e ripetuti incontri omosessuali e, quando, messo alle strette, confessa, dichiarandosi bisessuale, lei gli dice con chiarezza: “No! Sei gay!” e, con dolore, lo lascia. Per lui comincia un periodo di eccessi da tutti i punti di vista, nei quali lo accompagna Paul (Allen Leech), il mellifluo braccio destro di Reid, che gli altri Queen mal sopportano. Una sera Reid gli propone un vantaggiosissimo contratto da solista e lui, furioso, non solo rifiuta ma licenzia l’agente, affidando l’incarico all’avvocato della band Jim “Miami” Beach (Tom Hollander). Ora Freddie è completamente gestito dal Paul, che è il suo amante e che – dopo aver preso le distanze dalle proposta di Reid – riesce a fargli firmare l’impegno per due album da solista e a staccarlo dagli altri della band, nascondendogli, inoltre, le continue, preoccupate telefonate di Mary – che ha un nuovo compagno, David (Max Bennett) ma che gli vuole sempre bene – e anche i messaggi di Miami, che lo invita a partecipare, con i Queen, al Live Aid di Bob Geldorf (Dermot Murphy). Mary rompe gli indugi e lo va a trovare e, quando Freddie si rende conto dell’isolamento al quale lo stava riducendo Paul, lo scaccia di casa. Prega poi Miami di organizzare un incontro con May, Taylor e Deacon, durante il quale, dopo essersi scusato con loro, li convince a partecipare insieme all’evento di Geldorf. Mentre fervono le prove, gli viene diagnosticata l’AIDS; lui lo comunica ai membri della band, va a cercare un cameriere gentile che aveva amato, Jim Hutton (Aaaron McCusker), e con lui va dai suoi genitori (Ace Bhatti e Meneka Das), riconciliandoli con la propria eccentricità ed omosessualità. Il concerto è un trionfo e l’esibizione dei Queen registra il picco più alto di ascolto mondiale.

Le biografie di musicisti sono un capitolo importante della storia del cinema, non a caso il primo film sonoro accreditato è Il cantante di Jazz del 1927 sulla vita di Al Jolson, interpretato da lui stesso. Dopo di che Benny Goodman (Il re del jazz), George Gershwin(Rapsodia in blu), Glenn Miller (La storia di Glenn Miller), Cole Porter (Notte e dì), Rodgers e Hart (Parole e musica), Charlie Parker (Bird), The Four Season (Jersey Boys), Liberace (Dietro i candelabri), i Doors (The Doors), Brian Wilson (Love and Mercy), Johnny Cash (Quando l’amore brucia l’anima) , Ray Charles (Ray), i Sex Pistols (Sid and Nancy) Janis Joplin (The Rose) e John Lennon (Nowhere boy), per citarne solo alcuni, sono stati celebrati da film, spesso di bel successo popolare. Poteva mancare un omaggio ad una delle ultime grandi star del pop come Freddie Mercury? E così Bryan Singer (I soliti sospetti, X Men), dopo varie vicissitudini produttive, di scrittura e di ricerca del protagonista (doveva essere Sacha Baron Cohen ma ci sono state delle incomprensioni), sceglie l’emergente Malek (Mr. Robot, Papillon) e dà il via ad uno dei maggiori successi tra i biopic musicali (secondo solo, negli Stati Uniti agli incassi di Straight Outta Compton del 2015 sul gruppo rap N.W.A.). Boemiean Rapsody ha avuto anche critiche negative: da un lato, sono stati sottolineate vistose licenze temporali: tra tutte, l’aids nella realtà gli era stato diagnosticato due anni dopo il Live Aid; (di contro, del concerto vengono riprodotti con cura maniacale anche gli oggetti presenti sul palco); si è considerato il ruolo di May e Taylor quali produttori esecutivo un ostacolo per una narrazione meno agiografica; i dentoni (oggettivamente imbarazzanti) del trucco di Malek sono stati visti come un segnale di riproduzione quasi caricaturale del divo. Non sembra così importante tutto questo: è un omaggio ad una rockstar e ad una band mitica ed ha – Dio (o chi per lui) e renda merito a Singer – tutte le sane ingenuità di ogni musical: quando Fred Astaire sembra volare danzando a metà di un dialogo con Ginger Rogers o quando (in Accadde a Brooklyn) Frank Sinatra e Kathryn Grayson improvvisano Là ci darem la mano dal Don Giovanni di Mozart non ci importa di sapere quante prove e fatica abbia richiesto quell’esibizione, ce la godiamo e lasciamo che ce la presentino come una naturale esplosione di artisticità. Singer si è preso una pausa rilassata (sempre per mantenere la metafora) da assassini e mutanti e a noi sta bene così.

 




Morto tra una settimana (o ti ridiamo i soldi) (Dead in a week: or your money back)

di Tom Edmunds. Con Tom WilkinsonAneurin BarnardFreya MavorChristopher EcclestonMarion Bailey  Gran Bretagna 2017

William Morrisson (Barnard) è un giovane scrittore senza successo e la sua vita è stata segnata da una tragedia: a 10 anni (Harry Collett) ha visto i suoi genitori (Keir Charles e Emma Campbell-Jones) morire schiacciati da un pianoforte. Ora è sul parapetto di un ponte sul Tamigi deciso – ma un po’ spaventato – a buttarsi di sotto (è il suo decimo – o settimo: i primi tre erano solo esperimenti – tentativo di suicidio), quando arriva uno sconosciuto, Leslie O’Neil (Wilkinson), che gli offre i suoi servizi nel caso anche questa volta non morisse, lasciandogli un biglietto da visita. Alla fine il ragazzo si lancia ma cade su di un battello. Il direttore (Tim Steed) della piscina comunale, nella quale lavora come bagnino, lo licenzia: un bagnino con tendenze suicide non dà proprio il massimo di sicurezze e, arrivato a casa, trova la solita pila di lettere di diniego degli editori; decide così di chiamare Leslie, che gli dà appuntamento in un bar periferico. Davanti ad una tazza di tè, viene firmato il contratto: al prezzo di 2.000 sterline, il killer (lui preferisce definirsi “una clinica ambulante per l’eutanasia”) lo farà fuori con un colpo d’arma da fuoco (William avrebbe preferito essere investito mentre salvava eroicamente un bambino ma costava troppo); se entro una settimana il contratto non venisse onorato, i soldi verrebbero restituiti. Leslie è anziano e negli ultimi tempi ha avuto pochi incarichi, rischiando di essere messo in pensione (e lui ama il proprio lavoro) dall’Associazione Assassini per la quale lavora; questo accordo gli consente di essere nel plafond di lavoro previsto; è quindi di ottimo umore quando va a depositare il contratto dalla segretaria dell’Associazione (Cecilia Noble). Poco dopo, a casa, la moglie Penny (Bailey) lo accoglie festosa, proponendogli una lunga crociera ma lui la delude un po’ dicendole che vuole continuare a lavorare; la delusione le passa subito perché è tutta presa dalla confezione di un cuscino con il quale parteciperà alla Fiera del Ricamo del quartiere. Al rassegnato e sostanzialmente sollevato William arriva una telefonata: è Ellie Adams (Mavor), redattrice di una importante casa editrice che si è entusiasmata del suo manoscritto e gli dà appuntamento per il giorno dopo a pranzo in un ristorante alla moda. Lui chiede a Leslie di non ucciderlo prima dell’appuntamento e questi, apparentemente, acconsente ma – temendo che una svolta positiva nella carriera di scrittore lo possa indurre a voler vivere – lo segue e, durante il pranzo – nel quale William scopre in Ellie un’anima gemella (anche lei ha assistito alla morte per incidente dei genitori ed ha avuto velleità suicide) – appostato su un tetto, spara, uccidendo per sbaglio il cafonissimo capo (Nigel Lindsay) di Ellie. I due ragazzi si nascondono sotto il tavolino e William le racconta del contratto. Il giorno dopo Ellie va a casa sua per lavorare sul libro e, mentre lui oppone un flebile resistenza (in fondo, dovrebbe morire di lì a poco), arriva Leslie; loro cercano di convincerlo a lasciar perdere ma lui non vuole certo perdere il lavoro; i ragazzi riescono a scappare con l’auto ma vengono fermati da una pattuglia per accertamenti; arriva Leslie, spara e colpisce un poliziotto (Parth Takerar); Ellie prende la moto della polizia e porta William nella sua casa di campagna, dove poco dopo fanno l’amore. Leslie viene convocato dal capo dell’Associazione, Harvey (Eccleston) che gli comunica che, dopo i guai che ha combinato, l’incarico passa al più giovane e spietato Ivan (Velibor Topic) e che lui, con tanto di orologio d’oro in regalo, è in pensione. Leslie non ci sta e….

Nel 1879 usciva il romanzo Le tribolazioni di un cinese in Cina nel quale Jules Verne immaginava un ricco cinese che, caduto in disgrazia e incapace di suicidarsi, incarica un suo amico di ucciderlo in cambio di una sontuosa ricompensa; quando una sua speculazione, a sorpresa, va a buon fine, il protagonista avrà un gran daffare per evitare di essere ammazzato dall’avido e caparbio sicario. Questa storia, una delle più umoristiche dello scrittore francese, ha ispirato vari film. Uno solo, L’uomo di Homg Kong di Philippe De Broca del 1965, però, dichiara, sin dal titolo originale la provenienza, mentre Omicidio a pagamento diretto nel 1957 da Maurice Regamey (che ha consolidato il personaggio paperinesco – tenero, iracondo e pasticcione – di Louis De Funès), l’ironicamente cupo Ho affittato un killer (1990) di Aki Kaurismaki e questo sono, evidentemente solo ispirati al plot di Verne. Il giovane sceneggiatore Tom Edmunds, qui alla sua prima regia, dichiara come fonti di ispirazione film drammatici come Leon, The American, Frank Costello, faccia d’angelo e soprattutto In Bruges – La coscienza dell’assassino, nei quali il sicario protagonista è in alle prese con un ultimo, definitivo incarico. Morto tra una settimana (o ti ridiamo i soldi) non è però un film drammatico, anzi, tanto che, come aveva fatto Kaurismaki, parte con un’esplicita citazione di quel gioiello di umorismo nero che è La signora omicidi (1965) di Alexander MacKendrick; inoltre, a dirla tutta, il Leslie di Wilkinson ha molti punti in comune con il raffinato killer Hawkins, cui dà vita Alastair Sim in Assassino di fiducia di Robert Day nel 1956. Magari quest’ultimo film, Edmunds non lo ha visto ma quello che è certo è che Morto tra una settimana è un perfetto esempio di scrittura nel solco della miglior tradizione inglese del genere. La regia e il montaggio non fanno gridare alla scoperta di un genio del cinema ma la scrittura e le interpretazioni (il cast è semplicemente perfetto) sono divertentissime.




Widows – Eredità Criminale

di Steve McQueen (II). Con Viola DavisMichelle RodriguezElizabeth DebickiCynthia ErivoColin Farrell Gran Bretagna 2018

Harry Rawilngs (Liam Neeson) – un ladro con un’esistenza agiata ed apparentemente irreprensibile – insieme a Florek (John Bernrhal), Carlos (Manule Gracia-Rulfo) e Jimmy (Coburn Goss) ha appena rapinato due milioni di dollari ma lui, i suoi complici e i soldi sono andati distrutti in uno scontro con la polizia. Subito dopo la cerimonia funebre, Veronica (Davis), la sua vedova, riceve la minacciosa visita del gangster Jamal Manning (Brian Tyree Henry): quei due milioni erano suoi e gli servivano per affrontare la campagna elettorale distrettuale contro la potente famiglia Mulligan, per cui ora lei ha pochi giorni per rifondergli, pena la morte, l’intera somma.

Elizabeth Debicki

Elizabeth Debicki

Anche Linda (Rodriguez) e Alice (Debicki) – le mogli di Carlos e Florek – non se la passano bene: la prima perde il negozio di vestiti, con il quale viveva, per i debiti di gioco del marito e la seconda, senza più l’appoggio del manesco ma prodigo marito, viene costretta dall’avida madre, Agnieska (Jacki Weaver), a prostituirsi. Intanto Jack Mulligan (Farrell), pur in disaccordo con i metodi del padre, Tom (Robert Duvall), affronta una battaglia elettorale complicata con sondaggi preoccupanti, scandali incombenti e fuga di importanti gestori di pacchetti di voti che si spostano verso l’avversario, come l’ambiguo reverendo Wheeler (John Michael Hill). Veronica trova in una cassetta di sicurezza l’agenda del marito, che riporta tutti i particolari della sua attività criminale e la descrizione di una rapina che si preparava a mettere a segno. Incontra Linda ed Alice e propone loro di attuare il colpo, che prevede un bottino di cinque milioni, in modo da pagare Jamal e dividersi un milione a testa. Le due donne accettano e si mettono al lavoro: procurano facilmente le pistole e Alice, facendo perdere la testa ad un famoso architetto suo cliente, David (Lukas Haas), riesce ad individuare il luogo da rapinare: è la villa dei Mulligan (i 5 milioni son il

Michelle Rodriguez

Michelle Rodriguez

Cynthia Erivo

Cynthia Erivo

frutto di una grossa tangente edilizia). Manning, intanto, fa tallonare Veronica dal violento fratello Jatemme (Daniel Kaluuya), che – per avere notizie delle intenzioni della donna – tortura il vecchio amico di Harry, Bobby (Kevin J. O’Connor) e uccide il loro fedele autista Bash (Garret Dillahunt). Veronica è spaventata ma decisa e si rende conto che serve un’autista per il colpo; va da Amanda (Carrie Coon), la vedova di Jimmy, per proporglielo ma, mentre è in casa sua, l’abbaiare del cagnetto che porta sempre con se le fa intuire che Harry non è morto ed è nascosto lì. Sconvolta, se ne va e accetta che il furgone del colpo sia guidato da Belle (Erivo), una tostissima parrucchiera, che, per mantenere la famiglia, fa spesso la babysitter per Linda. Dopo un sopralluogo dai Mulligan, le quattro donne mettono a segno il colpo; Tom, però, le sorprende e sta per ucciderle ma Veronica spara per prima. All’uscita le aspetta, pistola in pugno, Jatemme che se ne va con il furgone e i soldi ma…

Il film è tratto da una serie inglese di successo degli anni ’80, Widows, scritta dalla prestigiosa Lynda La Plante (autrice anche del famoso serial Prime Suspect), che rappresentava una grande novità dal puto di vista televisivo: una storia di rapina con protagoniste delle donne. Al cinema si era già visto: dal polàr Rififì tra le donne di Alex Joffe del ’59 al pop grottesco Faster, Pussycat! Kill! Kill! di Russ Meyer (’65), fino ai recenti Grindhouse – A prova di morte (2007), gioco di modernariato di Quentin Tarantino e Robert Rodriguez e il corposo Ocean’s 8, con il quale nel 2018 Gary Ross proseguiva la serie degli Ocean’s. Widows, però, a ben vedere prima che un heist movie è un film di Steve McQueen: non sono tanto la messa in atto del colpo e i suoi sottofinali ad essere al centro del racconto, quanto la dolorosa determinazione delle donne – non confortate neppure da un briciolo di solidarietà reciproca (non sono amiche e, salvo, un lieve sorriso finale tra Veronica ed Alice, mai lo saranno) – a essere il centro emozionale del plot. Anche la inevitabile ed endemica corruzione della politica fa solo da sfondo ad un racconto sorprendentemente intimista (aiutato non solo dalla bravura delle attrici ma anche dalle efficaci scenografie di Adam Stockhausen), che, pur nei limiti di un film di genere, ci riporta – dopo il corretto e solido 12 anni schiavo – alle angosciate rarefazioni di Shame.

(Antonio Ferraro)




The Reunion (Aterträffen)


di Anna Odell. Con Anna OdellAnders Berg, Robert Fransson, Rikard Svensson, Niklas Engdahl, Minna Treutiger, Sanna Krepper.  Svezia 2013

Un gruppo di ex-compagni di scuola organizza una cena per ritrovarsi dopo vent’anni. Quando sono tutti a tavola, con un po’ di ritardo arriva Anna (Odell) che, alla fine del brindisi di Anders (Berg) pieno di retorica sui felici e formativi anni della scuola, si alza e ricorda come tutti loro, isolandola e ridicolizzandola, le avessero reso quegli anni un vero inferno, convincendola di essere brutta e inferiore; il goliardico Robban (Robert) cerca di buttarla sul leggero ma lei non ci sta e si rivolge a Rikard (Svensso), il bello della classe, e al protervo Nille (Engdahl) per rammentare come il primo durante una gita la avesse corteggiata per poi schernirla davanti a tutti mentre il secondo era solito dirle: ”Sei brutta. Perché non ti ammazzi?”. Ne ha anche per le ragazze: Minna (Treutiger) parlava con lei ma solo quando non c’era la sua amica del cuore Sanna (Krepper), altrimenti la ignorava completamente. La cena si interrompe e Rikard scommette che riuscirà di nuovo a farle credere di esserne innamorato. In effetti, apparentemente, la sua corte sembra rabbonirla ma, subito dopo, Anna va da Minna a chiederle conto del suo comportamento di allora; la ragazza scoppia a piangere e tutti gli altri, dopo averla spintonata, la caricano a forza su di un taxi. Ora siamo negli studi della produzione, dove la Odell sta lavorando al film e apprendiamo che le scene che abbiamo visto sono una finzione girata con attori; in realtà, lei alla festa non era stata invitata e ora sta cercando i suoi compagni per mostrar loro la scena e filmarne le reazioni. I pochi che raggiunge sono imbarazzati ma gentili, solo Malle (Malin Vulcano), colei che materialmente non le ha inviato l’invito, raggiunta sul lavoro le dice brutalmente che lei non era gradita. Comunque pacificata dall’aver messo su pellicola le sue frustrazioni, Anna sale su un tetto a godersi il panorama di Stoccolma con il suo aiuto-regista Erik (Erik Ehn).

Formalmente questo è il primo film della Odell ma, in realtà il suo saggio di fine corso del 2009, Okänd, kvinna 2009-349701, nel quale aveva inscenato un crollo nervoso e un tentativo di suicidio per essere internata in una clinica psichiatrica pubblica e mostrarne le carenze, era diventato un caso: lei ne aveva ricavato una piccola condanna per uso improprio di struttura pubblica e per resistenza alla polizia ma anche una certa notorietà e l’apprezzamento dell’intellighenzia svedese. Con La riunione lei si conferma – in qualche modo – erede del Situazionismo degli anni ’60 (il movimento di sinistra che con sortite provocatorie si proponeva di mostrare le falle della società), facendo anche scuola. Pochi anni più tardi (The reunion è del 2013), infatti, Robert Ostlund, dopo aver vinto nel 2017 la Palma d’Oro a Cannes, era stato candidato all’Oscar con The square, storia del direttore di una galleria d’arte moderna con varie opere di ispirazione post-situazionista; in particolare il nerboruto protagonista di una scultura vivente che picchia i partecipanti al suo vernissage ricorda da vicino la prima parte di questo film. Naturalmente il concept fa venire in mente uno dei capolavori del movimento Dogma, Festen (1988) del danese Thomas Vinteberg; però, al di là del modo assai diverso di effettuare le riprese, il film della Odell, pur non attraversato (come Festen) dal tragico tema dell’abuso familiare dei minori, ha una verità e una capacità di profondo coinvolgimento di rara efficacia. E’ certo un’opera sul bullismo ma, soprattutto, è il racconto della creatività che nasce e si stempera in una dolorosa e fecondissima solitudine (quella, nel contempo, universale ma anche peculiare del paese descritto da Erik Gandini nel suo La teoria svedese dell’amore). In Svezia The reunion ha vinto – cosa assai rara per un esordio – due premi Guldbagge (l’Oscar svedese). Non è facilissimo trovarlo ma, se potete, non perdetelo.