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Stanlio e Ollio  (Stan & Ollie)

di Jon S. Baird. Con Steve CooganJohn C. ReillyNina AriandaShirley HendersonDanny Huston  USA, Gran Bretagna 2002

Siamo ad Hollywwod nel 1937. Stan Laurel (Coogan) e Oliver Hardy (Reilly) sono all’apice del successo ma Stan morde il freno: è convinto che il loro produttore, Hal Roach (Huston), li sfrutti e che lui – vero creatore delle gag del duo – dovrebbe avere un ruolo creativo più evidente; così, poiché il suo contratto è in scadenza, durante la lavorazione de I fanciulli del West, lo affronta con decisione, mentre Oliver è molto più prudente perché, pur guadagnando molto, le donne e le scommesse lo depauperano costantemente.  Hal non sente ragioni ma, quando Laurel conclude un vantaggioso accordo per loro due con la 20th Century Fox, il pavido Hardy non si presenta alla firma del contratto. 16 anni dopo, i due sono in Inghilterra per una tournee teatrale ma il loro impresario inglese, Bernard Delfont, poco convinto delle loro possibilità di raccogliere ancora pubblico, li fa recitare in teatrini minori e li alloggia in squallidi alberghetti. Dopo una serie di recite a teatri semivuoti, Delfont tenta la carta di promuovere il loro spettacolo con interviste e presenze a manifestazioni popolari. E’ un trionfo. Il pubblico inglese, finalmente avvertito della loro presenza sulle scene, affolla i teatri, tantoché a Londra si apre per loro il prestigioso Lyceum Theatre, che esaurisce i posti disponibili con due settimane di prenotazioni. Ora i due sono felici; hanno ritrovato il loro pubblico e alloggiano al Savoy, dove li raggiungono le loro mogli, Lucille Hardy (Henderson) e Ida Laurel (Arianda).  Lo scopo principale della massacrante tournee (sono entrambi anziani e, anche a causa di antichi problemi di alcolismo, malandati), però, è quello di incontrare il produttore inglese Harold Miffin, per conclude l’accordo per un film comico su Robin Hood, alla cui sceneggiatura Laurel lavora continuamente. Miffin è però irraggiungibile e, quando Stan, rotti gli indugi, va da lui e, dopo una lunga anticamera, fa irruzione nel suo ufficio – tra le proteste della receptionist (Stephanie Hyam) – trova solo la responsabile di produzione (Susy Kane) che gli comunica seccamente che il film non si farà.  Lui non ha il coraggio di dirlo all’amico ma ad un party in loro onore, loro (anche un po’ insufflati dalle mogli che si sopportano poco) cominciano a litigare: Oliver ha saputo che Stan è ancora offeso del suo comportamento di 16 anni prima – e soprattutto che lui abbia girato il film Zenobia con Harry Langdon (Richard Cant) come partner – e, a sua volta, lo rimprovera di essere arido, dedito solo al lavoro e di non volergli bene. Continuano ad esibirsi, senza rivolgersi la parola fuori dal palcoscenico sino a che, durante la premiazione in un concorso di bellezza, Oliver ha un attacco di cuore. L’amico lo soccorre e lo porta in albergo e qui il medico (Roger Ringrose) che lo visita lo diffida dal continuare a recitare: il suo cuore è troppo affaticato. Lui decide di ritirarsi e lo comunica, con dolore, a Stan. Questi vorrebbe, a sua volta, interrompere gli spettacoli ma Delfont lo convince a continuare con un comico inglese, Nobby Cook (John Henshaw), che ha un buon successo. Lui accetta ma la sera del debutto, il direttore del teatro (Tony Sedgwick) è costretto a restituire i soldi dei biglietti: Laurel non se la sente di andare avanti senza Hardy. Mentre prepara le valigie, entra in stanza Oliver che gli comunica che, a dispetto delle prescrizioni mediche, ha deciso di riprendere la tournee, che, come da contratto, prosegue in Irlanda.  Sul traghetto Stan trova il coraggio di dirgli che il film non si farà più ma Oliver lo rassicura: la aveva capito benissimo. Ora sono a Dublino e Oliver è assai provato ma non rinuncia, a sorpresa, a chiudere lo show con il mitico balletto de I fanciulli del west, At the ball, that’s all.

 

Osvaldo Soriano, nel suo Triste, solitario, y final aveva sottolineato la tristezza del loro declino e alluso sottilmente ad un loro relazione. Il film di Baird – e lo script di Jeff Pope (Philomena) ispirata al libro biografico di A.J.Mariott Laurel & Hardy – The british tour – anch’esso pervaso di malinconia non riprende del tutto il tema ma la litigata con i toni di due vecchi amanti, l’uno risentito per un vecchio tradimento (il film “dell’elefante”, cioè Zenobia) e l’altro che gli rinfaccia di non averlo mai davvero amato, e, soprattutto, la tenerissimo zoomata che riprende Stan entrato nel letto dell’amico malato per scaldargli le mani raccontano qualcosa di assai simile all’amore. Stanlio & Ollio erano, va ricordato, quanto di più simile a due melanconici clown il cinema abbia mai presentato; le loro gag erano divertentissime ma anche crudeli: in almeno due film Ollio (I diavoli volanti) o tutti e due (Ronda di notte) muoiono e, comunque, erano maltrattati, spesso con violenza invalidante, da un mondo che non accettava il loro essere infantili, inadeguati, in una parola “diversi”. Il film è ben attento a non caricaturare i due personaggi ma, pur raccontando il declino, i tic e la grandezza di due artisti (grazie anche alla eccezionale bravura di Coogan e Reilly), ha continui rimandi alle loro trovate: il baule che cade dalle scale come il pianoforte de La scala musicale, le gag di Stan per intrattenere la receptionist del produttore inglese e le due mogli, impressionantemente ricalcate su Mae Bush e Dorothy Christy, le attrici che impersonano mogli virago de I figli del deserto. Stanlio e Ollio è uno dei migliori film biografici sulla vita di comici (i precedenti su Chaplin e Buster Keaton, ad esempio, erano molto più freddi ed illustrativi) e merita il buon successo che sta avendo. Notazione finale: mi ha intenerito sentire, durante la proiezione, un bambino ridere di gusto ad una delle loro gag. La loro comicità è davvero eterna.

Antonio Ferraro

 

 

 

 

 

 




Noi (Us)

di Jordan Peele. Con Lupita Nyong’oWinston DukeElisabeth MossTim HeideckerYahya Abdul-Mateen II

La bambina di colore Adelaide (Madison Curry) è in vacanza a Santa Cruz in California con i genitori Russell (Abdul-Maten II) e Rayne (Anna Diop); una sera al Luna Park, mentre il padre sta giocando a “caccia la talpa” e la madre è in bagno, lei entra in una casa degli specchi e all’improvviso le appare, minaccioso, il suo doppio. Lo shock la renderà afasica per qualche tempo e anche ora che è adulta (Nyong’o) ha un idiosincrasia per quei luoghi; perciò quando il marito Gabe Wilson (Duke) propone a lei e ai loro due figli – l’adolescente Zora (Shahadi Wright Joseph) e il piccolo e nevrotico Jason (Evan Alex) – di andare in vacanza proprio a Santa Cruz, lei cerca di opporsi ma, per affetto verso i suoi che sono entusiasti, accetta. E’ lì in vacanza anche la famiglia wasp Tyler – Josh (Heidecker), collega e amico di Gabe, con il quale è anche in costante competizione, Kitty (Moss) moglie e madre insoddisfatta ed alcolista e le loro gemelle Becca (Cali Sheldon) e Lindsey (Noelle Sheldon) – con la qual passano la prima giornata di mare. La sera, tornati nella loro villetta, notano in giardino quattro figure immobili che, quando Gabe esce per farli andar via, si rivelano dei loro doppi armati di grosse forbici, che prima lo aggrediscono, poi entrano a forza nella casa. Solo Red, la sosia di Adelaide parla (gli altri emettono suoni gutturali) e, dopo aver ammanettato Adelaide, spiega che lei, Abraham (doppio di Gabe), Umbrae (Zora) e Pluto (Jason) sono loro ombre, costrette ad una vita di buio e miseria e che ora sono qui per prendere il loro posto. Pluto, che è piromane, vuole giocare con Jason che riesce a chiuderlo in cantina, mentre Adelaide, approfittando dell’assenza di Red che è andata a liberare il figlio, si libera e la attera con un legno; Gabe, che Abraham aveva portato al largo in motoscafo per annegarlo, riesce ad ucciderlo e a tornare a terra con una gamba rotta. Anche Zora è riuscita a scappare ed arriva nella villa dei Wilson per scoprire che sono stati trucidati dai loro doppelganger. Arrivano anche gli altri familiari e riescono ad uccidere le ombre dei Wilson e a scappare con la loro auto. Scoprono che tutta la zona è stata messa a ferro e fuoco dai doppi che ora stanno formando una lunga catena umana. Arrivati in paese trovano Pluto che, dopo aver incendiato la loro macchina, si prepara a dar loro fuoco ma Jason, facendosi imitare, fa in modo che, camminando all’indietro, perisca nell’incendio. Red rapisce il ragazzo e Adelaide la insegue fino ai sotterranei della Casa degli Specchi….

Il comico Jordan Peele fa di nuovo centro: dopo Scappa-Get out che, a fronte di un budget di $4.500.000, ha incassato $252.000.000, Noi-US, costato 5 milioni ne ha già raccolti, in pochi giorni, oltre 170.000.000. I due film hanno molti punti in comune e sono horror atipici: i due plot lo sono ma l’andamento, più che puntare sulla suspense, ha un retrogusto ironico; c’è la giusta quantità di sangue e di morti ma siamo lontani dallo splatter dei film di genere delle ultime generazioni; i protagonisti sono afroamericani della classe media. Proprio quest’ultima caratteristica ha dato il destro a gran parte della critica a focalizzare l’attenzione su di una sorta di messaggio sociale che Peele lancerebbe con le sue opere; in questo, va detto, c’è del vero; lui stesso, richiamandosi a La notte dei morti viventi di Romero, si attribuisce l’ispirazione ad un disagio permanente dei neri, ancora in qualche modo emarginati negli Stati Uniti (e l’Us del titolo è anche un acronimo per United States). Peele, inoltre era noto per la sua imitazione di Obama, rappresentato come un nero-bianco arruolato nel sistema. Non si spiega, però, un successo mondiale solo con una critica di sistema; a suo tempo L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel era stato interpretato come un segnale della paura dell’occidente verso l’inquietante e minaccioso universo comunista ma il film era – a prescindere – un capolavoro e tale è rimasto. I doppelganger degli Wilson in Noi saranno pure dei neri emarginati che presentano il conto ai loro fratelli integrati ma questa sola interpretazione (che è certamente una delle corde dell’ispirazione di Peele) annullerebbe gran parte del plot: anche i bianchissimi vicini hanno i loro doppi e la catena delle ombre è assolutamente multirazziale. Quello che fa di Noi un ottimo film e del regista una bella conferma è la capacità di trarre emozioni da piccoli segnali: una giostra che vortica sopra la testa della bambina sola sulla spiaggia, il primo piano della scala mobile che porta all’infernale dormitorio delle ombre sono due firme d’autore che segnano il film ben al di là degli inevitabili ammazzamenti. E’ probabile che – pur in seguito all’enorme successo commerciale di Scappa – Peele, pur potendo chiedere budget importanti abbia preferito mantenersi in un budget basso che gli consentisse di mantenere uno stile efficace proprio perché minimalista (anche a costo – ma in un horror questo è ordinaria amministrazione – di dare una spiegazione molto sommaria agli eventi). La piccola sorpresa finale, poi, è genialmente inquietante.

 

 




Scappo a Casa

di Enrico Lando. Con Aldo BaglioJacky IdoBenjamin StenderAngela FinocchiaroDino Longo

Michele (Baglio) è un meccanico bravissimo nel suo lavoro, scapolo, donnaiolo e razzista. Un giorno il suo collega Pasquale (Rocco Barbaro), che doveva partire per una fantastica vacanza sessuale a Budapest, ha un incidente e lui gli prende biglietto e prenotazioni e, a bordo della rombante Porsche rossa di un cliente, parte gasatissimo. Dopo una notte brava con tre bellissime escort (Mariia Pogrebiank, Claudia Motta, Flora Garai), mentre torna in albergo, viene derubato di macchina, telefono, soldi e documenti e quando, sconvolto, chiede aiuto è scambiato per un tunisino e portato ad un centro di accoglienza per migranti irregolari. Qui l’assistente sociale Agota (Lana Vlady), che non crede al suo proclamarsi italiano ma lo vuole aiutare, gli consiglia di far amicizia con il medico nigeriano Mugambi (Ido) che vuole scappare in Italia. Questi lo respinge ma Michele assiste al suo colloquio con il malconcio Umar (Hassani Shapi) che sta dandogli l’indirizzo di una stanza d’albergo in Slovenia, nella cui cassaforte sono custoditi i documenti necessari per espatriare; mentre Mugambi si allontana per prendere dell’acqua, lui riesce ad avere la combinazione prima che Umar esali l’ultimo respiro. Ora Mugambi lo deve portare con se e di notte fuggono insieme a Jamilah (Awa Ly), suo marito (Thierno Thiam) e allo zoppo Jamba (Mapunzo Betani); durante la fuga, vengono presi a fucilate dal contadino cieco Pavelic (Mario Pupella) e dal figlio Bojan (Stender) e il padre – pur non vedente – lo becca al sedere. Curandolo, il nigeriano gli dà un infuso che, oltre a guarirlo, gli fa rivelare la combinazione, dandogli inoltre la permanente impressione di essere nero di pelle. Mugambi, ottenuto quello che voleva, se ne va nella notte e gli altri tre trovano un passaggio per la Svezia. Rimasto solo, Michele ottiene un passaggio da Ursula (Finocchiaro) che sembra concupirlo; in realtà lei è il dirigente di un piccolo commissariato di paese e lo arresta; in cella trova Mugambi e gli rivela che la “combinazione” che l’altro pensava di avergli estorto era solo il suo codice fiscale. Ursula è in combutta con una fattoria alla quale fornisce i migranti irregolari che arresta e la stessa sorte tocca a loro due. Qui Michele conosce la bella Babelle (Fatou N’Diaye) e se ne innamora; lei è sempre sul chi vive e lo tiene a distanza ma una sera lui, dopo aver rimesso in sesto un vecchio camioncino abbandonato, la salva dalle pesanti avances di Seidovic (Longo) – il figlio di Ursula – e scappa con lei e Mugambi. Dopo varie peripezie, arrivano separatamente all’albergo gestito da Mrs. Wang (Jonathan Guerrero) e sarà Babelle, vestita da uomo, a scappare con i documenti. Un tafferuglio alla frontiera …

Scappo a casa avrebbe dovuto essere il film di lancio di Aldo come comico solista (anche se sembra che il trio – dopo un periodo di crisi e di minor successo – riprenderà a collaborare). L’operazione era complicata già sulla carta: in genere i componenti delle coppie o terzetti comici da soli non hanno lo stesso seguito; chiedendo scusa per l’abissale dislivello ma, ad esempio, anche l’immenso Groucho Marx e il bravissimo Oliver Hardy hanno avuto una sorte simile. Questo film ha poi altri handicap: nonostante la regia di Enrico Lando – che aveva portato ad un successo non scontato in partenza I Soliti Idioti (Mandelli e Biggio), Pio e Amedeo (Amici come noi) e Herbert Ballerina (Quel bravo ragazzo) – la sceneggiatura, per la quale lo stesso Baglio è accompagnato dai collaudati Bariletti e Bertacca, fa acqua da tutte le parti, con vari buchi di racconto coperti da frettolosi dialoghi (vedi la scena al fiume); il solo Baglio porta il peso della parte comica, contornato da attori anche bravi ma serissimi. Il vero, pesantissimo problema del film è poi la maledizione del politically correct: non si può immaginare di costruire una commedia sulle già non larghissime spalle di Aldo, soffocandola con luoghi comuni, birignao buonistici e discorsetti edificanti. Anche il più esilarante dei comici schianterebbe al suolo. E il pubblico con lui. Aleggia, minaccioso e tremendo, lo spirito del meraviglioso Alberto Sordi de Il moralista: “Scusi commissario ma che dice la legge? Tratta delle bianche! Queste so’ negre: o cambiate la legge o me rilasciate!” Scusaci Alberto, aveva ragione Moretti: non ti meritiamo!




Escape Room

di Adam Robitel. Con Deborah Ann WollTyler LabineTaylor RussellLogan MillerNik Dodani  USA 2019

Zoey Davis (Rusell) è una brillante studentessa di fisica ma è traumaticamente chiusa in se stessa così da non riuscire a rispondere al proprio insegnante (Cornelius Geaney jr.) pur essendo preparatissima e da rifiutare l’invito a passare il Natale (lei è orfana) dalla famiglia della sua roommate (Jessica Sutton). Jason Walker (Jay Ellis) è un rampante broker finanziario e si vanta con il suo ammirato assistente (Russell Crous) perché aspetta un invito e un regalo da un ricco investitore al quale ha fatto guadagnare parecchi soldi. Ben Miller (Miller) è un magazziniere nerd che non riesce nemmeno a farsi promuovere cassiere perché il suo capo (Bart Fouche) lo considera troppo imbranato per stare a contatto con i clienti. Tutti e tre ricevono in regalo un cubo nero dall’interno del quale, dopo averlo manipolato, compare un invito personalizzato della società Minos ad un gioco di ruolo con in palio un premio di 10.000 dollari. Vanno così alla sede e vengono indirizzati dal concierge (Vere Tindale) in una stanza dove trovano altri tre giocatori: la bella e disinvolta Amanda Harper (Woll), con la schiena segnata da profonde cicatrici, il ruvido camionista Mike Nolan (Labine) e il giovanissimo appassionato di giochi Danny Khan (Dodani), che spiega agli altri le regole della Escape Room: un gioco basato sui videogames nel quale bisogna, di volta in volta, trovare il meccanismo per uscire dalla stanza nella quale si è rinchiusi. Mentre parlano, la sala d’aspetto comincia a surriscaldarsi: il gioco è cominciato ed è mortale. I partecipanti passano avventurosamente dall’anticamera infuocata ad un lago ghiacciato e ad una sala da biliardo capovolta; giunti ad una corsia d’ospedale si accorgono che contiene i letti e le cartelle cliniche dei precedenti incidenti nei quali erano stati gli unici sopravvissuti: Zoey aveva perso i genitori in un cappottamento dell’auto di famiglia, Jason era naufragato nel gelido oceano con il suo caro amico, Gabe (Adam Robitel), che era morto tra i flutti, Ben aveva avuto la famiglia decimata da una fuga di gas, Amanda, combattendo in Iraq, era stata colpita assieme ai suoi compagni da un rudimentale ordigno incendiario e Mike, trasportando con altri camionisti un carico pericoloso, si era salvato a stento. I giocatori rimasti in vita capiscono di essere intrappolati da qualcuno che ha studiato le loro storie e vuole nuovamente mettere alla prova le loro possibilità di sopravvivenza. Il gioco continua a mietere vittime, mentre si passa ad una stanza psichedelica e ad un vorace salotto vittoriano. Si salvano in due e riusciranno anche a sopraffare il Game Master (Yorick van Wageningen) ma…

Escape room, come spesso capita agli horror, è un piccolo caso produttivo: costato 9 milioni di $ ne ha finora incassati più di 100 (metà in patria e metà nei mercati stranieri). La regia è di buon servizio (Robitel ha diretto il quarto episodio di Insidious) ed il cast è composta da noti attori di serie di recente successo: Lost in space (Taylor Russell), True blood e Daredevil (Deborah Ann Woll), The walking dead (Lgan Miller), The game (Jay Ellis), Atypical (Nik Dodani). La sceneggiatura di Bargi F. Shut e Maria Melnik (anche loro con alle spalle un solido curriculum di serial televisivi) è ben calibrata ed ha vari creditori, come è normale in un prodotto di genere. E’ facile ravvisarvi gli echi dell’allora avveniristico (è del 1997) Cube – Il cubo e di The game per quanto riguarda la partecipazione ad un gioco di ruolo che si rivela pericoloso; così come la caccia all’uomo organizzata da ricchi corrotti ha avuto varie declinazioni – basti pensare al classico Conte Zaroff – Partita pericolosa (1932) dei creatori di King Kong Cooper e Schoedsack o a Senza tregua con Van Damme – così come l’idea di  un gruppo di sopravvissuti che si trovano a riaffrontare la morte era al centro dei vari episodi di Final destination. Tutto però è cominciato con il capolavoro di Agatha Christie 10 piccoli indiani – il romanzo giallo più venduto dalla storia, che ha avuto svariate edizioni cinematografiche e televisive ed ha ispirato vari altri film (Invito a cena con delitto, Incubo finale, Detox, Identità, Nella mente del serial killer) – nel quale dieci colpevoli di omicidio che l’hanno fatta franca vengono invitati su di un isola e uccisi da un misterioso giustiziere (nella successiva versione teatrali due personaggi – in realtà realmente innocenti – si salvavano, come in questo film). Escape room non è un capolavoro ma, come abbiamo detto, è ben costruito ed è uno degli esempi di come il cinema possa trarre linfa vitale dal mondo dei games. La preparazione di un disastro aereo nei tiolo di coda promette un sequel.

Antonio Ferraro




Captain Marvel

di Anna BodenRyan Fleck. Con Brie LarsonSamuel L. JacksonBen MendelsohnDjimon HounsouLee Pace USA 2019

Anno terrestre 1995; ad Hala, la capitale del pianeta dei Kree, Vers (Larson), soldatessa della Starforce dotata di superpoteri, è duramente  allenata dal comandante Yon-Rogg (Jude Law); i Kree sono governati dalla Suprema Intelligenza ,un’entità incorporea nella quale ognuno proietta il proprio ideale, e lei vi vede una donna (Annette Bening) alla quale non sa dare un’identità, poiché ha perso la memoria e – salvo sprazzi di ricordi (in particolare di un incidente aereo) – ha consapevolezza solo degli ultimi 5 anni di addestramento militare. Dopo un incontro con la Suprema Intelligenza, che le ricorda che i poteri le sono stati dati per difendere i Kree, lei parte, con Yon-Rogg, Korath (Honsou) e Minn-Erva (Gemma Chan), per una missione contro gli Skrull – i nemici dei Kree in grado di mutarsi in chiunque altro – e viene catturata e sottoposta ad un interrogatorio/ lavaggio del cervello, nel quale Talos (Mendelsohn) cerca di scoprire dove sia nascosto un motore a velocità della luce, che ha a che vedere con il suo passato. Vers riesce a liberarsi e, dopo un duro scontro con le guardie Skrull, precipita sul pianeta nel quale dovrebbe essere il motore: la Terra. La caduta rovinosa e il suo strano abbigliamento fanno intervenire Nick Fury (Jackson), ufficiale dello SHIELD, accompagnato dal suo braccio destro Phil Coulson (Clark Gregg), che non crede al suo allarme su di una prossima invasione aliena, salvo ricredersi quando la vede combattere in metropolitana con una feroce vecchietta/Skrull (Marylin Brett). La accompagna allora alla base militare Pegasus, per cercare informazioni sul motore e qui Vers scopre di essere stata una pilota dell’aviazione americana e di aver collaborato con la dottoressa Wendy Larson (l’immagine che lei attribuiva alla Suprema Intelligenza) e con la sua amica d’infanzia Maria Rambeau (Lashana Lynch). Le loro ricerche – nella quali scoprono che la dottoressa è morta in un incidente aereo –  sono interrotte da Talos, che ha preso le sembianze (Mendelsohn) del capo di Fury. Aiutati da Coulson, riescono a fuggire, impadronendosi di un piccolo jet; nella fuga Fury porta con se il gatto Goose appartenuto alla Larson, che sembra essersi particolarmente attaccato a lui. Arrivano da Maria che ora vive isolata con la figlia Monica (Akira Akbar) e che, superato lo shock di vederla viva, le rivela che il suo nome è Carol Danvers e che tutti la credevano morta nell’incidente che aveva ucciso la Lawson. Poco dopo arriva Talos, che dopo una brava lotta, dice loro di non avere intenzioni bellicose ma di voler solo cercare una casa sicura per la propria famiglia e per i superstiti Skrull tiranneggiati dai Kree; a supporto del racconto tira fuori una scatola nera che aveva preso mentre era nelle spoglie del capo dello SHIELD. Sappiamo così che la Lawson – il cui vero nome era Mar-Vell – era una scienziata militare Kree, che aveva disertato dopo aver capito le intenzioni imperialistiche dei Kree, che, durante il volo di prova dell’aereo con il motore più veloce della luce pilotato da Carol, Yon-Rogg, che l’aveva abbattuto, l’aveva uccisa e che Carol, per non far cadere nelle sue mani il potente meccanismo lo aveva fatto esplodere, acquisendo nel contraccolpo i suoi poteri; mentre era  svenuta, Yon-Rogg le aveva cancellato la memoria e aveva deciso di darle una identità Kree e di addestrarla come arma al servizio dell’espansionismo Kree. Ora Carol, Talos, Maria e Fury – con l’inseparabile gatto Goose vanno nel laboratorio spaziale di Mar-Vell/Lawson a prendere il Tesseract (il potente nucleo dal quale era nato il motore); qui trovano alcuni Skrull nascosti – tra i quali la mogie e i figli di Talos – e vengono raggiunti dai Kree. Nell scontro, Fury e Maria – dopo che Goose (che è in realtà un potente alieno) ha inghiottito il Tesseract – portano in salvo gli Skrull, mentre Carol viene catturata ma – dopo un drammatico confronto con la Suprema Intelligenza – capisce che i Kree le hanno inserito nella nuca un meccanismo che consente loro di controllare i suoi superpoteri; se lo strappa e vola sulla Terra. Qui – dopo aver sconfitto il potentissimo Ronan l’Accusatore (Pace) e rispedito Yon-Rogg ad Hala; decide – su consiglio di Fury che porta con se Goose con il Tesseract, nonostante il gatto gli abbia cavato inavvertitamente un occhio – di continuare a vegliare sulla pace con il nome di Capitan Marvel (in ricordo della scienziata). Fury – che ha avuto da Carol un cercapersone spaziale per contattarla ovunque lei sia – è divenuto capo dello SHIELD e avvia il progetto Avengers. Nei titoli di coda, Steve Rogers (Chris Evans), Natasha Romanoff (Scarlett Johansson), Bruce Banner (Mark Ruffalo) e James Rhodes (Don Cheadle), gli Avengers superstiti dopo le vicende di Avengers:Infinity War, si domandano a chi Nick abbia inviato un messaggio prima di scomparire.

Captain Marvel è il ventunesimo film della saga Disney/Marvel e (così come aveva già intuito il geniale Stan Lee nel 1967) gioca la carta della supereroina con un occhio ad un audience femminile in qualche modo post-femminista. Il film, va detto, non è dei più memorabili del ciclo: i registi e sceneggiatori Anna Boden e Ryan Fleck, marito e moglie, non riescono a trovare l’equilibrio tra epica ed ironia che è la chiave della originalità della Marvel. Lo si era già visto in Black Panther rivolto ad un pubblico afro-americano: è come se il cambio di etnia o di genere del protagonista costringesse ad una particolare seriosità. Era forse così negli anni ’60 quando la Marvel sperimentava coraggiosamente nuove strade di marketing ma oggi abbiamo mille esempi di sarcastica auto-ironia di autori e commedianti di ogni genere ed etnia. Tant’è: ci dobbiamo accontentare dei siparietti comici di Samuel Jackson con parrucca e ringiovanito dagli effetti speciali. Siamo lontani dagli ottimi momenti di cinema rappresentati dal tempestoso The Avengers di Joss Whedon e dallo scespiriano Thor di Kenneth Branagh ma comunque, in una settimana che vede l’uscita in pompa magna di film di Signorine Snob e politicanti in parziale disarmo, Captain America è cinema vero e la trovata della produzione di concludere ogni film con un richiamo al prossimo evento della saga rimane geniale.

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Domani è un altro Giorno

di Simone Spada. Con Valerio MastandreaMarco GialliniAnna FerzettiAndrea ArcangeliJessica Cressy   Italia 2019

Tommaso (Mastandrea) vive e lavora da anni in Canada, e, pur essendo terrorizzato dagli aerei, saluta la moglie (Alessandra Carrillo), bacia i figli (Caterina Spada e Giordano Mastandrea) e vola a Roma per raggiungere l’amico Giuliano (Giallini), attore di successo, ora malato terminale. Il suo scopo è quello di convincerlo a recedere dal proposito di interrompere le invasive cure per lasciare che la malattia segua il proprio inevitabile decorso. Giuliano è, come sempre, ironico ed estemporaneo: il metodico Tommaso si trova ad acquistare per lui un pacchetto di erba in pieno giorno in un parco pubblico da una disinvolta pusher (Marta Bulgherini), a giocare a rimpiattino per eludere una giovane attrice, Caterina (Barbara Ronchi), che – innamorata e un po’ esaltata – vuole alleviargli gli ultimi momenti di vita e a trattare come in un suk arabo il prezzo di una cassa da morto con un imbarazzato impiegato delle pompe funebri (Fabrizio Sabatucci). Lo scopo del suo viaggio è presto dimenticato: Giuliano è irremovibile e il colloquio con l’oncologo (Stefano Fregni), al quale assiste, chiarisce che le cure non avrebbero altro scopo che quello di allontanare un po’ la fine; questo addolora la sorella di Giuliano, Paola (Anna Ferzetti), che contava su di lui per fra “ragionare” il fratello. L’estroverso Giuliano vuole solo un po’ di compagnia (e, visto che c’è, qualcuno che paghi i conti delle sue trovate) e così Tommaso si trova ad essere testimone di una calma ma dura sfuriata di Giuliano a due colleghi (Paolo Giovannucci e Paola Squitieri) che, imbarazzati, lo evitavano, della riappacificazione, invece, con l’amico (Blas Roca Rey) che in passato si era separato dalla moglie perché li aveva scoperti amanti, della surreale lettura dei tarocchi, nella quale il cartomante (Pietro De Silva) gli predice “un lungo viaggio”. La preoccupazione più pressante per Giuliano è trovare una sistemazione per l’adorato ed anziano cane Pato (Nike); prova a lasciarlo ad una coppia (Pietro Ragusa e Elena Lietti), che sembra ben disposta ma che il giorno dopo glielo restituisce: il loro figlio adottivo (che ha da poco perso i genitori) teme che possa morire troppo presto. I due se ne vanno per un giorno a Barcellona a trovare il figlio di Giuliano, Leo (Andrea Arcangeli), che studia e vive lì con la fidanzata Sophie (Cressy); lui non ha il coraggio di dire al ragazzo la verità ma la sua ex-moglie (Fabrizia Sacchi) gli rivelerà che il figlio sapeva tutto. Giuliano- dopo anni di televisione – è felice di recitare con gigionesco successo ne “Le relazioni pericolose” ma anche questa gioia gli viene tolta dal direttore del teatro (Renato Scarpa), che – preoccupato dalle reazioni del pubblico alla notizia della   malattia – lo sostituisce con l’incapace Filippo Buttafuoco (Ivan Talarico). La decisone di Giuliano si fa più drastica e, dopo una notte di litigi e di sesso con Paola, Tommaso torna con al guinzaglio il cane Pato, che Giuliano (come probabilmente aveva deciso sin dall’inizio) gli consegna al check-in.

Domani è un altro giorno è, come è noto, il remake dello spagnolo Truman – Un vero amico è per sempre e gli sceneggiatori Ciarrapico e Vendruscolo ne ripercorrono con sostanziale fedeltà il filo narrativo ma il risultato è un film tutto nuovo e sorprendente: là dove gli ottimi Ricardo Darin e Javier Camara davano una prova magistrale di recitazione, Giallini e Mastandrea incarnano per intero il film e le sua emozioni: sfrontato e impudico il primo, trattenuto e commosso il secondo sono la prova che la grande commedia italiani con i suoi “mostri” (Sordi, Tognazzi, Manfredi, Mastroianni) non è morta. Il merito è in gran parte del produttore Maurizio Tedesco – proprio lui, grazie a Mastandrea, aveva lanciato Giallini ne “L’odore della notte” di Calligari (“Ah Little me stoni “Cuore matto”!) – che ha cominciato con Dino Risi e si vede: Domani è un altro giorno richiama le atmosfere dei titoli migliori del Maestro, Il gaucho e Il giovedì. Qualche decennio fa la Milano Libri tradusse con successo un collana di libri dell’americana Pyramid, che disegnava una storia del cinema in chiave divistica; quello che la rendeva interessante era il punto di vista che la caratterizzava: i film erano visti come filiazioni della politica editoriale delle produzioni. Questo era sicuramente vero per le major statunitensi ma, in realtà, è stato vero anche da noi: i film di Dino De Laurentis (poi di suo nipote Aurelio), Goffredo Lombardo, Franco Cristaldi, Fulvio Lucisano, Luciano Martino (per citare i più noti) avevano – al di là degli autori – una loro precisa connotazione. Ora, salvo lodevoli eccezioni (Cattleya e Tadue ad esempio) il produttore è spesso poco più di un tramite tra varie fonti – perlopiù pubbliche – di finanziamento. Ben venga il ritorno a campo pieno di un produttore della vecchia, solida scuola che, in questo caso, servendosi di una buona regia di servizio, ha intuito le possibilità che il recupero del film spagnolo (correttissimo ma, almeno per noi, freddino) offriva: qui ci si commuove davvero e – con le giuste cadenze – si cede a liberatorie risate (il colloquio a gesti tra Giuliano – sorpreso e un po’ seccato con l‘amico che è andato a letto con la sorella – e Tommaso nella hall dell’albergo è da antologia).

Antonio Ferraro




Il Corriere – The Mule

Èdi Clint Eastwood. Con Clint EastwoodBradley CooperLaurence FishburneMichael PeñaDianne Wiest USA 2018

2002, Pearl, Illinois; l’ottantenne Earl Stone (Eastwood) coltiva emerocallidi (splendidi fiori che durano solo un giorno) e le vende con sistemi antichi: ha vecchi amici che glieli ordinano, gira tutta l’America con un vecchio pickup per farle conoscere e alle fiere regala i bulbi ai visitatori ma non tiene conto di internet e di come le modalità commerciali siano cambiate. E’ sempre stato talmente concentrato sul suo lavoro che ha perso la famiglia: la figlia Iris (Allison Eastwood) non gli parla da quando non si è presentato al suo matrimonio e la ex-moglie Mary (West) è ancora ferita per le sue assenze e i suoi tradimenti; solo la nipote Ginny (Taissa Formiga) gli vuole bene e ha conservato tutte le sue cartoline. Proprio da lei si presenta – dopo il fallimento e il conseguente sfratto – con un bel mazzo fiori il giorno in cui festeggia il fidanzamento. Quando, però, la moglie e la figlia vedono il pickup con i suoi mobili lo accusano di essere lì solo perché ha bisogno di un tetto; lui, ferito, fa per andarsene quando un giovane invitato (Cesar De Leòn) gli si avvicina e gli chiede come guidi; alla risposta che ha attraversato 41 Stati e non ha mai preso una multa, gli lascia un biglietto da visita e lo invita a contattarlo per un lavoro. Earl si trova così a fare il suo primo viaggio come corriere della droga, per conto di un cartello messicano: ha un valigia piena di coca sul retro e va tranquillamente al motel che gli è stato indicato. Quando esce dalla stanza la valigia non c’è più e nel cassetto portadocumenti c’è una busta gonfia di dollari. Earl con il ricavato riapre l’azienda ma, intanto, sta fallendo il bar dove i vecchi paesani (lui tra i primi) andavano a bere, a ballare e a rimorchiare e allora decide di fare un scendo viaggio per racimolare i 25.000 dollari che servono a riaprire. Ci prende gusto e, viaggio dopo viaggio, si compra un pick up nuovo, diventa l’idolo dei compaesani e aiuta la nipote a terminare gli studi (la figlia continua detestarlo ma Mary lo guarda con occhi leggermente diversi). Intanto alla DEA (l’Agenzia federale antidroga) locale è arrivato un nuovo brillante agente, Colin Bates (Cooper), per stroncare il sempre crescente traffico di stupefacenti nella zona; l’Agente Speciale (Fishburne), a capo della sezione, gli affianca il suo uomo migliore, Trevino (Pena) e i due arruolano, ricattandolo, come infiltrato lo spacciatore Luis (Eugene Cordero). Vengono così a sapere che c’è un nuovo corriere, che il Cartello chiama Tata che trasporta indisturbato milioni di droga. Earl si è fatto un nome ma il capo del cartello Laton (Andy Garcia), che ha qualche perplessità su quel vecchio che fa un ottimo lavoro ma non rispetta i tempi, fa deviazioni e, talora, si ferma a dormire o a fare l’amore con qualche prostituta, gli affianca il suo braccio destro Julio (Ignacio Serricchio), che lo dovrà seguire in macchina per tutto il percorso. Earl finge di sottostare al minaccioso comando del giovane gangster di rispettare la tabella di marcia ma, quasi a sfidarlo, si ferma ad aiutare un automobilista (Kareem J Grimes) in difficoltà e fa sosta in un baracchino per una birra e un panino. Julio è esasperato ma quando, in Texas, un agente (Alan Heckner) lo ferma, lui interviene e con quattro chiacchere e un regalino lo rabbonisce. Ora Laton, entusiasmato dai suoi risultati lo vuole conoscere e lo invita ad una festa, alla fine della quale – dopo aver inutilmente dato paterni consigli ad Julio – si apparta con due ragazze (Almendra Fuentes e Mia Rio). Di lì a poco, però, le cose precipitano: l”umano” Laton viene ucciso e sostituito dal feroce Gustavo (Clifton Collins jr.), la DEA centrale mette alle strette l’agenzia perché vuole risultati concreti e, durante, l’ultimo viaggio, Mary ha un aggravamento delle già precarie condizioni di salute. La fine è nota alle cronache (la storia di base è reale): Earl, rimasto vedovo, viene arrestato ma ritrova l’affetto della famiglia (che, in un quasi casuale incontro, lui aveva indicato a Bates come il valore primario della vita).

E’ tornato Clint! 10 anni dopo il meraviglioso “Gran Torino”, eccolo recitare in un suo film (la parentesi del non eccelso “Di nuovo in gioco” non vale: era un favore al suo ex braccio destro Robert Lorenz al suo debutto nella regia). D’altronde poteva lasciarsi sfuggire l’occasione di impersonare l’impunito vecchietto, scoperto in un intervista del New York Times all’agente della Dea Jeff Moore (nel film Colin Bates), che a novant’anni era diventato un efficiente corriere del Cartello di El Chapo? Non poteva ed eccolo regalare rughe, grande recitazione “in levare”, genialità registica e stupenda scorrettezza politica – apostrofa con un cordiale “Ciao lesbica” una mascolina biker (Becky Altringer), ferma i ringraziamenti formali della famiglia di colore in panne con un “Mi fa piacere aiutare i negri” per aggiungere un sorridente “No” alla loro replica “Siamo tutti persone”, offre un panino di maiale a Julio al suo braccio destro Rico (Victor Rasuk), dicendo: ”Voglio farlo conoscere a voi mangiafagioli”- al curiosissimo personaggio. E’ un aggiornamento easy del risentito e generoso Walt Kowalski di Grande Torino, con un piacere quasi sadomasochista nel raccontare con tenerezza e improntitudine – lui ora 89enne – la vecchiaia (anche quando è a letto con due ragazze, scherza sul rischio di una crisi cardiaca). Più passa il tempo e meno appare corretto il paragone di Eastwood con Sergio Leone (che semmai lo ha in parte ispirato nei suoi primi western da regista); I suoi film richiamano sempre più il grande cinema maturo di John Ford, da Sentieri selvaggi a Il grande sentiero. Per geniale che sia Eastwood (e lo è parecchio) il modello sarebbe irraggiungibile se non fosse che quando dirige se stesso è come avere – in una sola persona – Ford e John Wayne, serviti, inoltre, da un cast di grandissimo livello. È parecchio.  Antonio Ferraro




Il primo Re

di Matteo Rovere. Con Alessandro BorghiAlessio LapiceFabrizio RongioneMassimiliano RossiTania Garribba  Italia, Belgio 2019

I pastori Romolo (Lapice) e Remo (Borghi) vengono travolti dalla piena del Tevere e trascinati esanimi vicino al villaggio di Alba. Gli abitanti li catturano e insieme ad altri prigionieri li portano al centro delle capanne dove la vestale Satnei (Garribba) ordina che, a due a due, gli ostaggi combattano a morte fra di loro, acciocché il perdente sia offerto in sacrificio alla Triplice Dea. Viene selezionato anche Romolo che dovrebbe combattere contro Tefarie ma Remo chiede di sostituirlo e così, dopo che questi si è finto morto, i due combattono gli armigeri, liberano i prigionieri e scappano portando con loro la vestale. Nello scontro, Romolo è stato ferito gravemente ma quando, per sfuggire ai guerrieri di Alba, i fuggitivi decidono di attraversare il bosco dei feroci Velienses, Remo rifiuta di lasciarlo a terra e se lo fa legare addosso per portarlo con se. Tefarie convince gli altri che il ferito – che ha toccato Satnei – sia maledetto e che solo uccidendolo potranno salvarsi. Remo lo affronta e lo uccide ferocemente, proclamandosi capo degli spaventati compagni. Una notte, per sfamare e dissetare lo stremato fratello, Remo decide di andare a caccia e chiede alla vestale, in cambio della promessa di proteggerla, di vegliare su Romolo. Cai (Vincenzo Pirrotta) e Mamercus (Fiorenzo Mattu) – d’accordo con gli altri – provano ad ucciderlo ma Satnei lo circonda col fuoco sacro sino a che l’arrivo di Remo, che ha catturato un cervo, li ferma e ne consolida la preminenza; Remo, a questo punto, li invita a stare uniti sotto il suo comando: così, dice, potranno soggiogare tutti i villaggi intorno al Tevere, che sono divisi e sparpagliati. La prima battaglia contro i Velienses rivela il loro valore e l’efficacia della strategia di Remo. Così, poco dopo, sconfiggono le Teste di Lupo e si impadroniscono del loro villaggio, dove il vecchio re (Rongione) dà a Romolo la sua capanna, mentre Romolo, ancora malconcio, viene curato dalla vestale. Quella notte c’è una festa funebre per i guerrieri morti e a Satnei viene chiesto un aruspicio e lei, esaminando, le interiora di un agnello, dice che da un fratricidio sorgerà una città che formerà un immenso impero. Tutti sollecitano Remo ad uccidere il fratello ferito – compreso lo stesso Romolo – ma lui rifiuta e, preso da furore, incendia alcune capanne, spegne il fuoco sacro e trascina la vestale nel bosco, lasciandola legata e in balia delle fiere. Poco dopo, pentito, va a cercarla ma è tardi e lei, prima di morire, gli dice che entrambi sono stati guidati da un disegno degli dei. L’indomani Remo parte con i suoi e Romolo, già in grado d camminare, riesce miracolosamente a riaccendere il fuoco e, acclamato re dai superstiti del villaggio (per lo più donne e ragazzi) decide di armare tutti coloro in grado di combattere e di raggiungere gli altri. Remo ed i suoi sono stati aggraditi dai cavalieri di Alba e stanno soccombendo ma l’arrivo di Romolo cambia le sorti del combattimento. Ora i fratelli sono uno di fronte all’altro e Remo cerca di convincere l’altro a seguirlo in un destino di conquiste senza regole e senza divinità, mentre Romolo capisce di aver avuto la missione di fondare una città che, accogliendo chi voglia avere una sorte diversa e sottomettendo le popolazioni vicine, sia – nei secoli – al centro di un impero. Lo scontro tra i fratelli finisce come la storia insegna.

 

Matteo Rovere, che produce e dirige, è uno dei cineasti più brillanti della nuova generazione: ha diretto il notevole Veloce come il vento (uno dei pochissimi film drammatici italiani di questi anni ad aver ottenuto buoni incassi) e ha prodotto l’intelligente serie cinematografica Smetto quando voglio. Ora, con Il primo re, ha compiuto un’operazione coraggiosa sia dal punto vista produttivo – il film è costato più di 8 milioni ed è completamente fuori dagli schemi di commedia o di film di denuncia sociale che coprono la totalità (o quasi) della nostra produzione, scegliendo inoltre di far parlare i personaggi in un latino aulico, ricostruito dai classicisti della Sapienza – che da quello autoriale, rifacendosi ai non facili modelli di  La passione di Cristo e Apocalypto di Mel Gibson, di Revenant di Alejandro Inarritu, de Il nuovo mondo di Terrence Malick e, forse soprattutto, del glaciale Valhalla rising di Nicolas Refn. Giustamente, il sapiente critico Michele Anselmi invita a non lasciarsi andare a paragoni goliardici con Romolo e Remo di Sergio Corbucci con i forzuti Steve Reeves e Gordon Scott e Ornella Vanoni o Remo e Romolo – Storia di due figli di una lupa di Castellacci e Pingitore con Enrico Montesano, Pippo Franco e Gabriella Ferri; gli diamo retta e ci asteniamo anche da paragoni con 300 di Zack Snider (anche se la frase “Tremate: questa è Roma” ricorda parecchio il “Questa è Sparta” di Leonida/Gerard Butler) ma qualcosa ne Il primo re non ci convince; è tutto molto curato, gli attori sono molto ben scelti, la fotografia di Daniele Ciprì è perfetta ma, alla fine, nel film non ci entri (e non è un problema di lingua: il protolatino è forse una scelta un po’ snob ma non è distraente). Può darsi che lo penalizzi proprio un eccesso di perfezionismo: gli attori raccontano, ad esempio, di mesi di riprese nei disagi e la sporcizia del bosco. Detto questo, rimane e fa piacere ribadirlo, il rispetto per un tentativo intelligente e di buona qualità di tentare strade nuove per il nostro morente, morentissimo cinema.