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Annabelle 3 (Annabelle Comes Home)

di Gary Dauberman. Con Mckenna GracePatrick WilsonVera FarmigaMadison IsemanKatie Sarife USA 2019

California, primi anni ’70. Gli esperti di occultismo e sensitivi Ed (Wilson) e Lorraine Warren (Farmiga) prendono in consegna la bambola Annabelle e, mentre la portano a casa, un incidente li costringe ad una deviazione, la loro macchina ha un improvviso guasto in una notte nebbiosa, delle inquietanti visoni minacciano Lorraine, mentre il marito, che stava riparando il guasto, viene quasi travolto da un camion fuori controllo. Giunti in casa la fanno benedire da padre Gordon (Steve Culter) e la chiudono a chiave in una teca della stanza nella quale tengono i reperti più pericolosi. Debbono partire per una nuova missione e affidano la loro figlia undicenne Judy (Grace) alla baby-sitter Mary Ellen (Iseman). A scuola la ragazzina continua a vedere un prete (Gary-7) che sembra invitarlo a seguirlo ed è bullizzata da un gruppo di coetanei, guidati da Anthony Rios (Luca Luhan), per le sue stranezze. Daniela (Sarife), sorella di Anthony e amica di Mary Ellen, convince quest’ultima – minacciandola di rivelare la sua cotta per Bob (Michael Cimino) – a portarla con se nella casa che vuole assolutamente visitare. Lei non è mossa solo da curiosità: un anno prima il suo adorato padre (Anthony Wemyss) era morto per un incidente in un auto guidata da lei e spera di incontrarne l’anima per pacificare i propri sensi di colpa. Mentre Judy e Mary Ellen sono andati a fare una commissione, lei trova le chiavi ed entra nella stanza proibita; vede Annabelle ed apre l’armadio ma, sentendo rientrare le altre due, chiude alla bell’e meglio. La sera, insieme al fattorino (Bill Kottkamp) che porta le pizze, arriva l’imbranato Bob per salutare Mary della quale anche lui è innamorato; lei è contenta ma non lo può far entrare (i Warren erano stati chiari nel raccomandarle di non ricevere ragazzi). Dopocena le tre ragazze cominciano a sentire strani rumori e Annabelle appare e scompare nei vari angoli della casa, per finire nel letto di Judy. Di lì a poco, Mary Ellen, che l’aveva sentita lamentarsi nel sonno, va nella sua camera e se la deve vedere con la Sposa Assassina, un’apparizione con un abito nuziale che rende violenta chi lo indossa. Bob, su consiglio del rider, si mette sotto le finestre e improvvisa una sgangherata serenata rock ma l’arrivo del feroce Cane Fantasma lo costringe a rifugiarsi nel pollaio. Daniela (che aveva preso nella stanza un medaglione che evocava i morti e vi aveva messo una foto di lei con il papà) vede il padre che si reca nella stanza dei cimeli e – dopo aver raccolto, terrorizzata, le monete che cadano dagli occhi dei cadaveri opera del Traghettatore –  lo segue ma lui, con il volto fracassato, la aggredisce dicendole: “Guarda cosa mi hai fatto!”, dopodiché la porta si chiude e gli oggetti mortali le si appressano minacciosi. Intanto Judy e Mary Ellen – che Bob ha salvato dalla Sposa con un colpo di chitarra -….

Tutto è cominciato nel 2013 con L’evocazione – The Conjuring ottimo horror prodotto e diretto da James Wan basato sulla storia vera dei coniugi Warner. Il successo del film ha creato una piccola factory di sequel e spin off; è stato subito imbarcato lo specialistico sceneggiatore (It, La Llorona) e regista Gary Dauberman e sono arrivati The Conjuring 2 – Il caso Enfield, The nun e i tre Annabelle. Tutti – anche questo, stando ai primi segnali – notevoli blockbuster e le ragioni sono varie: tutti sono ben prodotti, con budget contenuti ma sufficienti, l’ambientazione a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 nella provincia americana dà un tono di sotterranea repressione (che la religiosità, non bigotta ma forte, dei Warren sottolinea), le storie sono adrenaliniche – e ben interpretate – ma più shoccanti che sanguinolente e si vede che vengono, titolo dopo titolo, aggiornate alle reazioni del pubblico. In Annabelle 3 le emozioni arrivano, così come gli strilli e le risate per farsi coraggio dei ragazzi in sala ma, alla fine, non si fa male nessuno (o quasi). E’ una nuova frontiera del genere: il soft-horror (con un precedente illustre: Gli invasati di Robert Wise del ’63).




Sir – Cenerentola a Mumbai (Sir)

di Rohena Gera. Con Tillotama ShomeVivek GomberGeetanjali KulkarniRahul VohraDivya Seth Shah India, Francia 2018

Ratna (Shome) è una giovanissima vedova e, nel piccolo villaggio in cui vive, le si prospetta un’esistenza di stenti e isolamento. Decide di andare in città a fare la cameriera e va così a vivere dal giovane costruttore Ashwin (Gomber), che, a un passo dal matrimonio, ha appena lasciato la fidanzata che lo aveva tradito; la madre (Seth Shah) cerca invano di convincerlo a ripensarci mentre la altezzose sorella Nandita (Dilnaz Irani), convinta che con la servitù ci vogliano modi spicci, dà secche disposizioni a Ratna. Ashwin è stato in America (voleva diventare uno scrittore) e ha assunto molte caratteristiche occidentali: nel lavoro si impone al padre (Vohra), adottando criteri di costruzione più moderni ed ecologici e con Ratna e l’autista Raju (Akash Shina) è gentile ed educato. Ratna lavora sodo e riesce a mandare ogni mese dei soldi al paese perché la sorella Choti (Bhagyashree Pandit) possa studiare e fare una vita diversa dalla sua e ha un sogno: diventare stilista; con il permesso di Ashwin frequenta un corso di cucito e, quando lui le regala una macchina da cucire, per riconoscenza gli confezione una camicia come dono di compleanno. Ratna ha un’amica, Laxmi (Kulkami) anche lei cameriera, che l’accompagna nelle compere e, talora, le confida l’amarezza per come viene trattata dalla famiglia presso cui lavora. Una mattina Ratna, rientrando in casa, vede uscire dalla camera da letto di Ashwin una ragazza (Ahmareen Anjum) in un succinto abito da sera e ci rimane un po’ male. Con il suo Sir il rapporto è rispettoso ma cordiale: talora si confidano i rispettivi sogni e, una volta che lei era andata ad aiutare la sorella di Ashwin che dava un party, lui l’aveva difesa dagli insulti di quest’ultima perché, senza colpa, le aveva versato del vino sul vestito. Choti, a pochi mesi dal diploma, le comunica che lascia gli studi e che sta per sposarsi; lei cerca di dissuaderla ma invano: appena sposati si trasferiranno anche loro a Mumbai e la ragazza non vede l’ora di lasciare il paese. Ratna si impegna a confezionarle l’abito per le nozze ed entra, per prendere ispirazione, nell’elegante boutique della creatrice Sabina (Rashi Mal) che, vedendola povera, la fa scacciare. Ha avuto tempo, comunque, di guardare un abito e di copiarlo per la sorella. Durante la cerimonia lei, come vedova, si deve tenere in disparte e dopo pochissimi giorni torna al lavoro. Un giorno Ashwin che – ricambiato – si è innamorato, la bacia; lei risponde al bacio ma, riavutasi, gli spiega (mentre lui le chiede di non chiamarlo più “Sir” ma con il suo nome) che il loro amore, se dichiarato, li esporrebbe al ludibrio generale e che, per la famiglia di lui, lei sarebbe rimasta la serva da disprezzare Lascia il lavoro e va a viver nella modestissima casa di Choti. Dopo poco le arriva una telefonata di Sabina che, sollecitata da Ashwin, le chiede di vedere l’abito che ha confezionato per le nozze e, apprezzatane la fattura, la assume. Di lì a poco un’altra telefonata…

E’ naturale (e forse un po’ provinciale) di fronte al primo lungometraggio di un’autrice indiana pensare alla prima regista star di quel paese: Mira Nair. Certamente la Nair ha aperto la strada ma i loro percorsi sono diversi: entrambe (inevitabilmente) provenienti da famiglie benestanti, hanno in comune una attenzione all’occidentalizzazione dell’India progredita e uno sguardo attento sugli usi  sugli usi del proprio Paese ma, mentre la prima (che ora vive a New York) li racconta con una sorta di ironico distacco, la Gera – che viene da un lavoro di sceneggiatrice di film “bollywoodiani” (Un pizzico d’amore e di magia, Un padre per mio figlio) –   nelle sue prime due regie si pone in modo più critico: satireggia i tic delle donne indiane della classe media nel documentario What love got to do with it? e in Sir, sia pur in una cornice di storia d’amore, sottolinea la permanente divisone in caste di un Paese che, sulla carta, la avrebbe abbandonata da decenni. Lei, nelle interviste (in particolare a Cannes dove il film è stato ben accolto nella Semaine de la Critique) dichiara di essersi ispirata in parte al riflessivo Wong Kar Wai (e, in particolare, a In the mood for love) più che alla Nair; aggiunge di aver fortemente contrastato l’ipotesi della produzione di usare un’attrice bollywoodiana nota e ha avuto ragione: la espressiva Tillotama Shome rende tutte le sfaccettature di un personaggio complesso e ce ne fa emotivamente partecipi. Di lei e della regista sentiremo ancora parlare.

(Antonio Ferraro)




La bambola assassina (Child’s Play)

di Lars Klevberg. Con Aubrey PlazaBrian Tyree HenryGabriel Bateman  USA 2019

L’industria elettronica Kaslan, ha delocalizzato in Vietnam la costruzione del richiestissimo bambolotto tecnologico Buddy e qui un operaio, licenziato dal supervisore (Johnson Phan), prima di suicidarsi disabilita per vendetta tutte le funzioni di sicurezza del pupazzo sul quale stava lavorando. A Chicago, Karen Barclay (Plaza), commessa del reparto giocattoli in un grande magazzino della catena Zed-Mart, si è appena trasferita con il figlio Andy (Bateman) in un nuovo quartiere e lui soffre per l’assenza di amici e per la relazione della madre con il mellifluo Shane (David Lewis). Lei ha il suo daffare nel lavoro per contenere le richieste dei clienti che aspettano con ansia l’arrivo del nuovo modello di Buddy e, quando una signora ne restituisce uno, che ha strani difetti di fabbrica, lei – ricattando un sorvegliante (Amro Majzoub) – lo porta al figlio. Andy, lì per lì, è un po’ freddo ma quando il bambolotto comincia a parlare, dicendo di chiamarsi Cucky, gli promette eterna amicizia e, soprattutto, pronuncia vietatissime (nel modello corrente) parolacce, lui ne è conquistato. Chucky è molto protettivo con il suo nuovo amico: sentendolo ostile, spaventa Shane sbucando all’improvviso, lo aiuta a fare amicizia con due ragazzini del palazzo, Falyn (Beatrice Kitsos) e Pugg (Ty Consiglio) ma, quando il gatto di casa graffia Andy, lui gli stringe il collo e starebbe per finirlo se il ragazzo non glielo levasse di mano. Una sera, mentre Andy e i suoi nuovi amici guardano Non aprite quella porta, ridendo da perfetti adolescenti alle efferatezze, Chucky immagazzina informazioni e, armatosi di un coltellaccio da cucina, ammazza lo scontroso micio. Andy riesce a buttarne il corpo nello scarico del condominio, dopo di che chiude il bambolotto in un armadio. Lui riesce a uscire e continua a spaventare Shane, ripetendogli a cantilena le lagnanze di Andy. L’uomo affronta con rabbiosa aggressività nella sua stanza il ragazzo e lui, quando questi esce, sbotta che vorrebbe che scomparisse. Chucky segue Shane, scopre che vive con un’altra famiglia e, dopo averlo fatto cascare da una scala, lo fa a fette, comandando a distanza un tagliaerba.  Del caso è incaricato, insieme all’agente Willis (Nicole Anthony), il detective Mike Norris (Tyree Henry) – figlio di Doreen (Carlease Brurke), una simpatica vicina di Karen e Andy – che nota come dal cadavere sconciato sia stata asportata la faccia. E’ stato Chucky che la ha messa su di un cocomero e portata nella stanza del suo amico, per dimostrargli il suo affetto. Ora il ragazzo è terrorizzato e, insieme a Falyn e Pugg, lo disattiva e lo getta nello scarico; vorrebbe gettare anche il macabro cocomero ma, per l’arrivo della madre e del detective è costretto a coprirlo con carta regalo e a darlo a Doreen, con preghiera di aprirlo solo dopo due settimane (giorno del suo compleanno). L’indomani, con la scusa di voler gustare i suoi pranzetti, si fa invitare dalla donna e trova modo di gettare l’involto tra la spazzatura. Il laido custode del palazzo Gabe (Trent Redekop) trova il bambolotto e lo aggiusta con il risultato di essere maciullato da una sega elettrica guidata da Chucky. Ora Chucky – che è stato preso dal ragazzino Omar (Marlon Kazadi), è pazzo di gelosia e – manovrando un taxi senza pilota brevettato dalla Kaslan – uccide Doreen, rea di essere amica di Andy. Andy capisce tutto ma quando cerca di riprendersi Chucky per distruggerlo, Omar, Pugg e Falyn lo scacciano, credendolo un esaltato. Né gli va meglio a casa: la madre, che ha trovato il collare del gatto, lo accusa di avergli fatto del male e lo porta con se allo Zed-Mart, per tenerlo d’occhio mentre impazza la frenesia per l’arrivo di Buddy/2, che il signor Kaplan (Tim Matheson) in persona sta pubblicizzando da settimane. Qui arriva Mike che – sospettandolo autore degli omicidi – ammanetta Andy. Il finale vedrà Chucky – attraverso i suoi poteri di controllo – manovrare droni e bambole contro la polizia e i clienti, contrastato da Andy e i suoi amici che hanno capito la verità.

Nel 1988 lo sceneggiatore Don Martini aveva inventato il bambolotto Chucky, innocuo giocattolo elettronico nei cui meccanismi era entrato lo spirito di un serial killer. Il film che ne era stato tratto, La bambola assassina, diretto da Tom Holland (reduce del successo de L’ammazzavampiri) aveva registrato in tutto il mondo incassi record, tanto da generare 6 sequel – gli ultimi tre diretti da Don Martini – con alterne fortune (il più avvincente era stato La sposa di Chucky che immaginava l’anima della compagna del serial killer – a sua volta assassina seriale – trasferirsi in una bambola vestita da sposa e farne di tutti i colori insieme al fidanzato). Dopo essersi accoppiato, sdoppiato e clonato il bambolotto assassino aveva bisogno di una nuova vita ed ecco pronto il reboot (più o meno letteralmente: riavvio). Ora Chucky non è più posseduto da un anima dannata ma è – sulla falsariga di Io robot – un colposo difetto di fabbrica, in linea, in fondo, con lo spirito della serie che ha sempre avuto un sguardo (vedi La sposa di Chucky che rimandava a La moglie di Frankenstein) al mito di Frankenstein, al quale certamente pensava anche Asimov. Dirige il giovane norvegese Lars Klevberg, che si è fatto notare nel recentissimo horror Polaroid (versione lunga di un suo corto). Lui non ha le astuzie di genere di Tom Holland e la sua compassata anima nordica si fa talora intravvedere ma il risultato è gradevole: non si salta sulla sedia, né si prova colpevole empatia per il sanguinario Chucky ma si segue il buon ritmo del racconto.

 




I morti non muoiono (The Dead Don’t Die)

di Jim Jarmusch. Con Bill MurrayAdam DriverTilda SwintonChloë SevignySteve Buscemi USA 2019

Nel minuscolo paese Centreville, il Capo della Polizia Cliff Robertson (Murray) e il suo vice Ronnie Peterson (Driver) sono nel bosco per diffidare l’Eremita Bob (Tom Waits), che il possidente Frank Miller (Buscemi) ha accusato del furto di un suo pollo. Il vagabondo li accoglie con un rozzo e quasi innocuo fucile e, dopo una breve ramanzina, i due se ne tornano in ufficio. Lì c’è l’agente Mindy Morrison (Sevigny), che è un bel po’spaventata perché in una cella c’è il cadavere dell’ubriacona Mallory O’Brien (Carol Kane), che la stravagante impresaria delle pompe funebri Zelda Winston (Swinton) non ha ancora ritirato. I due agenti escono e il Capo va a dormire nella cella rimasta libera. L’indomani al bar del paese la barista Fern (Rosal Colon) sta servendo la colazione allo scorbutico Frank che non risparmia sarcasmo razzista al proprietario dell’emporio Hank Thompson (Danny Glover). Poco dopo nel negozietto di dvd e gadget vintage del nerd Bobby “Frodo” Wiggins (Caleb Landry Jones) arrivano, a bordo di una rombante Pontiac Le Mans del ’68, tre hipster, Jack (Austin Butler), Zack (Luka Sabbat) e Zoe (Selena Gomez), e lui – che si è subito innamorato della ragazza- li indirizza al motel di Danny Perkins (Larry Fessenden). Intanto, nel locale riformatorio, il recluso Geronimo (Jahi Winston) se la deve vedere con il duro custode (Kevin McCormck) perché sgattaiola nella sezione femminile a trovare le sue amiche Stella (Maya Delmont) e Olivia (Taliyah Whitaker). Ronnie e L’Eremita – Bob perché coglie i segni della natura e l’agente perché ha letto il copione (sic) – percepiscono un pericolo imminente e infatti dalle tombe vengono fuori due zombie (Iggy Pop e Sara Driver)  assetati di caffè che vanno al bar e – dopo aver sbranato Fern e la sua aiutante Posie (Rosie Perez) – ne portano via vari bricchi. L’indomani i tre poliziotti accorrono sulla scena del crimine e lanciano l’allarme: una o più bestie selvagge si aggira nei paraggi e si attivano per convincere tutti (o quasi: Cliff non avverte l’odioso Miller) a barricarsi in casa. La notte – sotto lo sguardo divertito dell’Eremita – dalle tombe escono zombie a frotte; uccidono Danny, Frank, i tre hipster e i custodi del riformatorio, consentendo ai tre ragazzi di fuggire. Ronnie e Bobby sanno cosa fare (“bisogna ammazzargli la testa”) e quest’ultimo si barrica con Hank nel suo negozio con fucili a pompa, asce e cesoie da giardino. Zelda, dopo essersi allenata nelle arti marziali, trucca di colori vivaci due cadaveri ma, quando questi cercano di alzarsi, tronca loro di netto la testa con la katana e, facendosi largo in quel modo tra i morti viventi, raggiunge l’Ufficio di Polizia, dove Murray ha decapitato Mallory che si era destata chiedendo dello chardonnay; qui convince i tre agenti a recarsi in pattuglia mentre lei si tiene in contatto radio con il comando centrale. Appreso che – probabilmente a causa dello spostamento dell’asse terrestre, dovuto all’inquinamento atmosferico – tutto il Paese (e forse il mondo) è assediato dai non-morti, prende la due posti di Ronnie e, tagliando la testa a vari zombie, va incontro ad una sorprendente salvezza. Ronnie, intanto, continua a ripetere che la faccenda si metterà male e i fatti gli daranno ragione.

Jarmush, dopo il delicato e poetico vampyr movie Solo gli amanti sopravvivono, ci riprova con gli zombie ma non gli va altrettanto bene: il film è stato accolto malissimo a Cannes e, oggettivamente, è poco più di un gioco cinefilo. Però va detto che l’audience della Croisette (probabilmente delusa nelle alte aspettative sulla ritrovata vena del regista che Solo gli amanti e, soprattutto, l’inteso Paterson avevano creato) è stata un po’ ingiusta: anche se è un divertissement lo è ad un piacevolissimo livello: le prodigiose inquadrature tipiche del genere negli anni ’50 e ’60 sono riprodotte miracolosamente bene e senza la pesantezza splatter del Rodriguez di Dal tramonto all’alba o di Grindhouse–Panet Terror, le musiche del gruppo del regista (che nasce musicista), gli SQURL, e la coinvolgente Dead men don’t die scritta e cantata da Sturgill Simpson danno un bel ritmo al racconto e infine non si può non amare il cast che vede volti storici (Tom Waits, Steve Buscemi, Sara Driver, Eszter Balint, Iggy Pop, Bill Murray, Chloe Sevigny, Rosie Perez) e nuovi (Adam Driver, Tilda Swinton)  dei film di Jarmush, insieme a vecchie glorie (Danny Glover, Carol Kane), ad attori emergenti (Caleb Landry Jones) e musicisti prestati al cinema (RZA, Selena Gomez), oltre a top model, tenniste  e lo stesso Sturgill Simpson nei ruoli di se stessi in versione zombie. E’ vero: è un’operazione di pura cinefilia (anche se alla fine la tirata anticapitalista dell’Eremita Bob cerca di dare un tono di serietà distopica al racconto) ma il livello è altissimo: la zampata del raffinato Jarmush si sente eccome! Basti pensare al nome del regista Samuel Fuller messo su di una tomba; pochi hanno colto l’allusione: lui non ha mai diretto horror ma ne ha interpretato nel 1987 uno, il dimenticatissimo (ma non da Jarmush) I vampiri di Salem’s Lot. Forse, invece, il gioco di uscire dalla finzione scenica per raccontare il dietro le quinte (i commenti di Driver che ha letto l’intero copione e la stizza di Murray che ha avuto solo le sue scene) come in Helzapoppin’ e nei vecchi Road to.. con Bob Hope e Bing Crosby è un poco disturbante ma non fino a guastare il divertimento.

 




American Animals

di Bart Layton. Con Evan PetersBarry KeoghanJared AbrahamsonBlake JennerAnn Dowd  USA 2018

2014, Lexington, Kentucky. Spencer Reinhard (Keoghan) è un brillante studente d’arte, lavora in un supermarket per pagarsi gli studi e ha un ottimo rapporto con il padre (Robert C. Treveiler), la madre (Jane McNeill) e la sorella (Dorothy Reynolds), suo unico, perdonabile, neo è l’amicizia con lo scapestrato Warren Lipka (Peters). Un giorno, con alcuni compagni di università, partecipa alla visita alla biblioteca della Transylvania University e la bibliotecaria Betty Jean Gooch (Dowd) mostra loro, tra gli altri, lo splendido Birds of America di John James Audubon e un’edizione rarissima dell’Origine della specie di Darwin. Nell’apprendere che valore del solo libro di Audubon si aggirava sui dodici milioni di $, Spencer comincia a fantasticare e, per gioco, condivide con l’amico il sogno di compiere una rapina nella biblioteca. Warren – che ha una borsa di studio per meriti sportivi e vive una situazione di disagio, a causa della recente separazione dei suoi (Gary Basaraba e Lara Grice) – comincia a prendere sul serio il progetto e, via via, coinvolge anche Spencer ad elaborare realmente il colpo. I due ragazzi studiano i vecchi film di gangster (Rapina a mano armata di Kubrik, Rififi di Dassin), Spencer disegna una pianta particolareggiata della Biblioteca e Warren si fa dare da un amico malavitoso (Anthony J. Police) il contatto per vendere i libri; vanno prima a New York e lì ottengono avventurosamente un indirizzo di Amsterdam. Spencer, a questo punto, starebbe per lasciare il progetto – deve studiare e non avrebbe modo di andare in Europa – ma Warren – che si è volutamente fatto espellere dal suo tutor (Bill Welton) – lo convince e parte per l’Olanda. Qui incontra il ricettatore Van Der Hoek (Udo Kier) che, con il suo braccio destro (Fedor Steer), non sembra prenderlo troppo sul serio ma, comunque, gli garantisce che pagherà il 20/30% del valore dei volumi se provvisti del certificato di autenticazione. Il piano si sta perfezionando ma sono necessari altri complici, Warren contatta Eric Borsuk (Abarhamson), uno studente di economia che vuole diventare un agente FBI specializzato in truffe finanziarie, e Chas Allen (Jenner), giovanissimo e ambizioso imprenditore, abilissimo nella guida veloce. Ora sono pronti e, dopo aver preso un appuntamento con la bibliotecaria, truccati da anziani vanno alla Transylvania ma mrs. Gooch è in riunione e con tutte le impiegate e loro debbono rinunciare. Warren propone di posticipare il colpo ma gli altri tre, spaventati dal pericolo di altri imprevisti, vorrebbero lasciar perdere; Spencer ed Eric, oltretutto, hanno per il giorno in cui si potrebbe fare il colpo importanti prove d’esame ma alla fine Warren convince loro e Chas ad andare avanti, accettando di essere lui quello che immobilizzerà la bibliotecaria. Così con Chas in auto, Spencer di vedetta e Eric fuori dalla porta della sala riservata, Warren entra e con un defribillatore cerca di far perdere i sensi alla Gooch; lei reagisce e ci vuole l’aiuto del recalcitrante Eric per bloccarla (lei per l’emozione si fa la pipì addosso); anche prendere i due enormi tomi è più complicato di quanto sembrasse e, nella fuga, sono costretti a lasciarli, tenendo solo altri volumi più piccoli comunque di un qualche valore Le loro ingenuità – Spencer ha, per esempio, lasciato i libri rubati e il suo vero numero di cellulare – li fanno agevolmente identificare ed arrestare, con una condanna a 7 anni di carcere.

Bart Layton è al suo secondo film e, di nuovo, racconta, in chiave semi-documentaristica le gesta di giovani criminali: il precedente, L’impostore, era incentrato sulla figura del camaleontico Frédéric Bourdin che, cambiando identità più di 500 volte, aveva raggirato servizi sociali e famiglie in tutto il mondo e, come questo, lui e gli altri protagonisti sono interpretati da attori ma compaiono anche di persona a raccontarsi. L’impostore – che aveva avuto vari riconoscimenti – era però una vera docu-fiction mentre American Animals ha la struttura di un film di finzione, con i veri quattro improvvisati rapinatori e la vera bibliotecaria, che intervallano con commenti la narrazione. Questa tecnica è, da qualche tempo, molto in uso ad Hollywood (basti pensare ai recenti Bling ring – con il quale American Animals ha qualche affinità – American Hustle o The wolf of Wall Street) e Layton la padroneggia bene, aggiungendovi di suo un vero coinvolgimento drammaturgico delle persone reali mentre negli altri casi citati ne vediamo, nei titolo di coda, il volto o poco più.   Del resto lui si rivela un ottimo regista di thriller che ha ben raccolto la lezione dei grandi autori del genere (oltre alla citazione dei classici su cui si preparano, i ragazzi per comunicare durante il colpo si danno nomi di colori come ne Il colpo della metropolitana del’74 di Joseph Sargent o ne Le iene del ’92 di Quentin Tarantino): il racconto dei due tentavi di rapina è molto serrato e ci fa palpitare per la sorte dei pavidi ed insicuri criminali dilettanti. Alla fine, come in una sorta di autocensura, qualche pentimento moralistico dei veri protagonisti appesantisce un po’ ma, probabilmente, è il risultato di un inevitabile accordo, con cui loro hanno concesso il diritto di raccontare la loro storia purché risultassero redenti. E’ giusto menzionare il merito della distribuzione Teodora del dotto cinefilo Vieri Razzini che aggiunge un piccolo gioiello alla sua library (dopo, tra molti altri, Irina Palm, Amour, Roma, La favorita e Green book). Quello di distributore non è un lavoro facile e comodo e farlo con questa competenza è indubbiamente lodevole.

 




Godzilla II – King of the Monsters

di Michael Dougherty. Con Kyle ChandlerVera FarmigaMillie Bobby BrownKen WatanabeZiyi Zhang USA 2019

Alla Monarch, la società incaricata di studiare e tenere sotto controllo le Orche (i mostri giganti) dopo la cattura di Godzilla, la direttrice, dott.ssa Emma Russell (Farmiga), entra nella zona blindata dove è ibernata la larva del mostro alato Motra e lo risveglia; quando il vermone sta per attaccarla, si precipita da lei la figlia adolescente Madison (Bobby Brown); le onde di un apparato ancora sperimentale si rivelano efficaci nel placarlo ma in quel momento  fa irruzione con i suoi armati il pirata Jonah Allan, che, dopo un rapido combattimento, porta con se le due donne. Poco dopo chiede, in cambio, della loro incolumità, l’accesso a tutte le centrali Monarch, nel quale sono tenute in cattività le Orche. La dottoressa Ilene Chen (Zang) e il dottor Sam Coleman (Thomas Middleditch) accompagnano il dottor Rick Stanton (Bradley Whitford) dal suo vecchio amico Mark Russell (Chandler), ex marito e compagno di lavoro di Emma che da quando Godzilla ha ucciso il loro figlioletto, dopo un periodo di alcolismo, si è allontanato da tutto, covando un odio feroce per il drago gigante. Russell lo porta nel laboratorio e qui il vecchio dottor Serizawa (Watanabe) gli spiega che l’unica possibilità di salvare Emma e Madison è risvegliare Godzilla e usarlo per fermare i piani di Allan, che intende vendere alle multinazionali le fenomenali energie che i mostri sprigionano. A Mark, che è l’unico che conosce Godzilla a fondo è può coglierne i segnali, viene chiesto di collaborare e lui accetta. Godzilla liberato si indirizza verso l’Antartide; qui è arrivato Allan con Emma e la figlia che libera King Ghidorah, un enorme drago a tre teste. Mentre l’operazione è in corso, la dottoressa Russell parla con l’equipe della Monarch, chiarendo che lei non è prigioniera ma sta collaborando con Allan, nella convinzione che solo i mostri potranno riequilibrare il mondo rovinato dalle insensate ferite inferte dall’uomo. Mark e gli scienziati, affiancati dalle truppe al comando del colonello Diane Foster (Aisha Hinds) e del suo braccio destro, l’eroico ufficiale Barnes (O’Shea Jackson jr., arrivano al Polo ma la battaglia tra loro e i pirati volge al peggio e King Ghidorah si inabissa. Di lì a poco viene disibernato anche lo pterodattilo Rodan. Intanto in pieno oceano infuria la battaglia tra Godzilla e King Ghidorah e quest’ultimo sembra avere la meglio, così viene inviato contro i mostri un potente missile atomico ma l’effetto che sortisce è quello di far inabissare Godzilla e di rendere ancora più forte il suo avversario. Nel covo di Allan, Madison è in forte tensione con la madre e cerca di convincerla che, accecata dal dolore per il figlio morto, si sta rendendo complice di un piano criminoso. Quando la madre libera tutte le Orche (mostri preistorici, insetti erettili giganti) provocando distruzioni e costringendo le popolazioni di varie città ad evacuare, la ragazzina riesce a fuggire per raggiungere la sede Monarch e cercare di limitare i danni. Intanto Chan, esperta di antiche leggende orientali, capisce che Gidorah è un extraterrestre arrivato secoli prima sul nostro pianeta per regnarvi e che le armi terrestri non possono distruggerlo; l’unica possibilità è quella di rintracciare Godzilla e di moltiplicarne la forza. Il mostro viene localizzato in una specie di città morta sottomarina – vestigia di un’antica civiltà – e Serizawa lo raggiunge e, sacrificando la propria vita, gli piazza una potente carica nucleare. Emma, minacciando con una pistola Allan, esce alla ricerca della figlia e, insieme a Mark, che è sceso a Terra con le truppe per guidare Godzilla, la trova. Mentre infuria la battaglia tra i mostri e, di nuovo, Godzilla sembra soccombere, Emma fa esplodere, morendo, una nuova carica. Il drago si rialza e fa a pezzi il mostro tricipite. Motra, Rodan e tutte le altre creature si inchinano al nuovo re.

In principio erano i giapponesi Kaiju Eiga (cinema di mostri) ed un maestro indiscusso, Ishiro (o Inishiro) Honda che nel 1954 dirige il primo Godzilla; il film ha tale successo che gli Stati Uniti lo acquistano e, per compiacere il pubblico americano di allora (non propriamente esterofilo), furono tagliate alcune scene, sostituite da altre girate dal regista Terry O. Morse con Raymond Burr nei panni di un giornalista. Dopo di allora il drago gigante è apparso in altri 33 film, alcuni dei quali del creatore Honda (Godzilla, Il trionfo di King Kong, Watang! Nel favoloso regno dei mostri, Ghidorah! Il mostro a tre teste, L’invasione degli astromostri, Gli eredi di King Kong). La cinematografia giapponese ha prodotto molti altri film con Godzilla spesso eroe di epiche battaglie contro tremende minacce alla Terra (talora anche contro o a fianco di King Kong) e Honda ha inventato altri Kaju come Rodan (Rodan il mostro alato), Mothra (Mothra), Magma (Gorath), Gotengo e Manda (Atragon), Varan (Daijkaiu Baran), Matango (Matango il mostro), Dogora (Dogora – Il mostro della grande palude). Nel 1998 Emmerich dirigeva il costosissimo remake americano di Godzilla e il Giappone rispose con la produzione Millennium che mise sul mercato 6 nuovi capitoli della saga e la Reboot che produsse 4 cartoni animati. Nel 2014 la produzione americana Legendary ebbe un buon successo con il Godzilla di Gareth Edwards e decise un creare la MonsterVerse, un franchise dedicato a Godzilla, Kong e altri mostri della tradizione giapponese, producendo nel 2017 Kong: Skull Island e ora questo (è annunciato il prossimo: Godzilla vs/ Kong). Il segno produttivo di queste nuove produzioni è quello di affidare la drammatizzazione ad effetti speciali sempre più invasivi, lasciando uno spazio limitato al racconto (un po’ come è successo nel porno che ha reso, via via, quasi inesistente la trama per inanellare una serie di, inevitabilmente ripetitivi, atti sessuali). Per Godzilla II – King of the Monsters, il più specializzato Edwads è stato sostituito da Dougherty, che mette in fila una serie di battaglie tra mostri, con i protagonisti umani che, poco più che comparse, vanno qua e là quasi a caso. Gli effetti sono magniloquenti ma il paragone con i corpaccioni di cartapesta, i mimi (il più noto era Haru Nakajima) che li muovevano e le geniali trovate registiche con cui Honda sopperiva al basso budget e alle scarse tecnologie dell’epoca è assolutamente impietoso per il ripetitivo e a tratti noioso film di Dougherty e non aiutano certo i pistolotti ecologisti che fanno di Godzilla una Greta in versione lucertolone (ma – chissà – in un prossimo sequel sarà ricevuto dal papa).




Dolor y Gloria

di Pedro Almodóvar. Con Antonio BanderasAsier EtxeandiaLeonardo SbaragliaNora NavasJulieta Serrano  Spagna 2019

Il famoso regista Salvador Mallo (Banderas) da qualche anno ha smesso di lavorare; ad una crisi creativa ed esistenziale si accompagnano vari malori (in parte, ma non solo, psicosomatici): ha forti dolori alle schiena, persistenti mal di testa e soffoca deglutendo. La Cineteca Nazionale ha appena restaurato Sabòr, un suo vecchio film che – per dissapori con l’interpretazione del protagonista Alberto Crespo (Etxeandia) – da allora non ha più voluto rivedere ma, quando gli viene proposto di presenziare alla proiezione insieme all’attore, lui accetta e va dall’amica attrice Zulema (Cecilia Roth) per farsene dare l’indirizzo. La prima accoglienza è ostile ma, via via, il loro rapporto si scioglie (in passato erano stati anche amanti) e quando Alberto fuma un crack di eroina, Salvador gli chiede di provarla, scoprendone le qualità lenitive. Sotto l’effetto della droga, Salvador ricorda la propria infanzia di bambino (Asier Flores) povero e molto versato nello studio e nel canto, che insieme al padre (Raùl Arévalo) e alla madre Jacinta (Penelope Cruz) si era trasferito dal paese a Paterna, dove si erano ritrovati a vivere in una grotta intonacata, che la volenterosa madre rende il più decorosa possibile, anche grazie all’aiuto del muratore analfabeta Eduardo (César Vicente), al quale in cambio Salvador insegna a leggere, scrivere e far di conto. Riaffiora anche il ricordo della dama di carità Beate (Susi Sanchez) che, sollecitata dalla madre che voleva che lui studiasse ma non poteva permettersi di mandarlo a scuola, era riuscita a farlo entrare in seminario, provocando la sua rabbia perché temeva lo facessero diventare prete. Salvador e Alberto ricominciano a frequentarsi e l’attore va spesso da lui a portargli la droga; un giorno, mentre il regista dorme, questi gli apre il computer e trova un racconto dal titolo Addiciòn (Dipendenza) e gli chiede di poterlo rappresentare a teatro ma Salvador rifiuta. Il giorno della proiezione di Sabòr, i due sono pronti ed eleganti ma Salvador non se la sente di affrontare il pubblico, così parla attraverso il telefono col presentatore (Julian Lopez) e con il pubblico e rivela la rabbia che aveva provato per l’interpretazione di Alberto, troppo drogato per rendere le sfumature del personaggio; questi si arrabbia e se ne va ma, poco dopo, Salvador, per farsi perdonare, gli dà il copione purché lo porti in scena firmandolo come suo (lui non se la sente di affrontare, anche solo indirettamente, le luci della ribalta). Il monologo ha successo e una sera arriva a teatro Federico (Sbaraglia), il vecchio amore di Salvador cui Addiciòn è dedicata; lui si riconosce perfettamente nel giovane drogato tanto amato e curato dall’allora esordiente regista e chiede ad Alberto i recapiti di Salvador. Va da lui in piena notte e i due vecchi amanti, bevendo tequila, si raccontano con affetto le rispettive vite. Federico, prima di andarsene gli propone di fare, per una volta ancora, l’amore ma lui con garbo rifiuta. La sua agente Mercedes (Navas) lo convince ad andare dal medico (Pedro Casablanc) che, oltre a dargli nuove cure per aiutarlo ad uscire e dalla dipendenza dall’eroina, gli prescrive una risonanza magnetica per accertare le cause – che potrebbero essere tumorali – della disfagia che lo fa soffocare. L’analisi accerta che si tratta solo di una calcificazione risolvibile con un semplice intervento. Salvador, che anche grazie a questa notizia sta riprendendo la forza di vivere, rivela a Mercedes di non aver mai superato la morte di sua madre che, in tarda età (Serrano), dopo avergli confessato la sua delusione per la sua vita sregolata e per il suo stare troppo poco con lei, gli aveva chiesto di essere portata al paese per chiudere la vita nel proprio letto ma la repentina morte in ospedale, non gli aveva consentito di mantenere neanche quella promessa. In una galleria di arte naif trova un acquerello che lo ritrae bambino e lui lo acquista, riconoscendolo come il disegno che gli aveva fatto Eduardo il giorno in cui era andato a casa sua e si era lavato, dopo aver montato le piastrelle della cucina; alla vista del corpo nudo del giovane, il piccolo Salvador era svenuto e si era svegliato febbricitante. L’operazione va a buon fine e Salvador ha deciso: scriverà e dirigerà un film, dal titolo El primero deseo (Il primo desiderio), ispirato a quel primo, decisivo turbamento d’amore.

“Il cinema della mia infanzia sapeva di pipì. Di gelsomino. E di brezza d’estate.” In questa frase c’è il senso profondo dell’ispirazione del film: Almodovar non fa Almodovar ma è Almodovar; il cinema non è più solo il regno di trasgressivi e melodrammatici sogni ma è anche la concretezza delle proiezioni in piazza su di un muro bianco, con Pedro e gli altri bambini che non volevano perdere nemmeno un istante delle emozioni di Natalie Wood in Splendore nell’erba o di Marilyn Monroe in Niagara per rispondere ad una banale necessità fisiologica. Queste ultime citazioni, come il video di Mina che canta Come sinfonia, sembrano essere rimandi alle fantasmagorie di Tacchi a spillo con le strepitose rivisitazioni di Un anno d’amore e di Piensa en mi o allo scatenarsi dei tre steward di Amanti passeggeri nell’interpretazione ultragay di I’m so excited o all’esplodere di Caetano Veloso con Cucurrucucù Paloma nel tenero dramma di Parla con lei ma non è così. Qui la musica ha la tradizionalissima funzione di accompagnamento e tutto è un racconto dolente e personalissimo di un autore in fuga dalla maniera e alla ricerca di sé. Anche Banderas (già ritrovato in La pelle che abito) non è più il simbolo della seduzione sottilmente perversa di Matador, de La legge del desiderio o di Legami ma l’alter ego perfetto del regista come – per dichiarazione dello stesso regista – Mastroianni con Fellini. A Cannes il film è stato accolto con pareri discordi: gli almodovariani duri e puri sono stati delusi, chi sa amare il cinema senza etichette lo ha saputo apprezzare. Il premio quale miglior attore a Banderas sembra essere – magari involontariamente – un compromesso tra le due scuole di pensiero: lui (certamente con la di gran lunga migliore interpretazione della sua carriera) è talmente Almodavar da far diventare il suo riconoscimento un premio al film e al regista. Se “l’amore non basta a salvare chi ami”, come ci dice il disperato e disilluso Salvador, un film sincero e potente può, per due ore, risarcirci di questa mancanza.

 

 




John Wick 3 – Parabellum (John Wick: Chapter 3)

di Chad Stahelski. Con Keanu ReevesHalle BerryIan McShaneAsia Kate DillonJerome Flynn USA 2019

Nel precedente episodio il superkiller John Wick (Reeves) era stato scomunicato dalla Grande Tavola (l’Organizzazione mondiale dell’eccellenza del crimine) per aver ucciso nel territorio neutrale dell’hotel Continental il capo-cupola Santino D’Antonio (Riccardo Scamarcio). Ora l’ora di tregua che il gestore dell’albergo Winston (McShane) gli aveva concesso sta per scadere, dopodiché partirà la taglia di 14 milioni di dollari che la Tavola ha messo sulla sua testa. Il tempo è scandito dall’asettica voce dell’Operatrice (Margaret Daly) e, per lui, dal vagabondo Tick Tock (Jason Mantzoukas) affiliato alla Bowery, la capillare rete di criminali vagabondi guidati dal King (Laurence Fishburne). Un disperato (Kristoffe Brodeur) cerca di ammazzarlo prima del tempo ma riesce solo a ferirlo; lui va a farsi curare dal Dottore (Randall Duk Kim), che lo rabbercia come può e, alla scadenza dell’ora di tregua, gli chiede di sparagli due colpi per giustificarsi con l’organizzazione. Lui va alla Biblioteca Centrale e alla bibliotecaria (Susan Blommaert) chiede un volume raro di fiabe russe; dentro il libro ci sono alcune monete d’oro, un crocifisso e un talismano; dopo averli presi, usa il grosso tomo per uccidere il gigantesco Ernest (Boban Marjonovic) che lo aggredisce. Fuori dalla biblioteca dovrà vedersela con una banda di assassini motociclisti; li uccide tutti e vola a Mosca. Nella capitale russa  va al Teatro del Balletto  dalla Direttrice (Anjelica Houston) che sta duramente addestrando una giovanissima ballerina-killer (Unity Phelan) e, ricordandole le proprie origini bielorusse, le consegna le monete e le mostra il crocifisso che gli dà diritto di assistenza. La Direttrice, a malincuore, gli fornisce un passaggio fino a Casablanca. Intanto al Continental arriva la Giudicatrice (Dillon), che comunica a Winston che, per aver concesso un’ora di tregua a Wick, dovrà entro una settimana lasciare l’albergo e, poi, si reca dal King e anche lui impone di dimettersi ma il capo dei vagabondi le ride in faccia. Wick, arrivato in Marocco, ammazza un po’ di killer e va da Sofia (Berry), ex ballerina divenuta un boss della Tavola e le dà il talismano, nel quale lei aveva impresso il proprio sangue quando, in passato, John le aveva salvato la figlia. Per saldare il debito, lo porta da Berrada (Flynn), il tramite al Grande Vecchio e questi, dopo aver generiche indicazioni, chiede a Sofia di lasciargli, in segno di obbedienza, uno dei due feroci cani che lei porta sempre con se, al suo rifiuto, spara all’animale e Sofia lo uccide, dopodiché, insieme a John, fa fuori tutti gli uomini di Berrada e lo accompagna nel deserto e lì lo lascia con un sorso d’acqua che ha sputato in una bottiglia. La Giudicatrice, intanto, va nel chiosco di Zero, il capo della più potente setta di assassini asiatici, che, dopo averle servito un pezzo di pericoloso pesce palla, si mette al suo servizio; insieme vanno prima dalla Direttrice, alla quale Zero recide le mani e poi dal re del Bowery, cui somministra sette tagli con la katana. Wick viene raccolto svenuto nel deserto e portato al cospetto del Grande Vecchio (Said Taghmaoui), che gli offre la salvezza se tornerà a servire la Grande Tavola e ucciderà Winston. Lui accetta e torna a New York e qui i due Shinobi (Cecep Arif Rahman e Yayan Ruhian) di Zero uccidono tutti quelli che lo vogliono ammazzare, mentre fugge da loro, due macchine lo investono sotto il Continental e, quando Zero sta per finirlo, lui posa la mano sui gradini dell’albergo e il concierge Charon (Lance Reddik) lo porta dentro e lo accompagna da Winston, che gli chiede se voglia ucciderlo. Lui nega – facendo infuriare la Giudicatrice –  e, fornendosi alla ricchissima armeria del Continental, affronta insieme a Charon le decine di sicari mandati dalla Tavola. Li uccidono tutti e lui, pur sfibrato dalla guerra e dai combattimenti con i due abilissimi Shinobi, ha la meglio anche su Zero. Ora Winston è pronto a trattare con la Giudicatrice e…

John Wick 3 – Parabellum è il terzo capitolo di una serie fortunata. Il primo episodio era divertente ma si capiva che era nato come una specie di gioco: era un comic-movie senza un comic (è stato ridotto a fumetto dopo il successo del film), il racconto poteva tranquillamente terminare lì, Reeves – dopo il successo di Matrix – non era più una vera garanzia di successo e Stahelski era alla sua prima regia. Gli incassi hanno indotto i produttori a serializzare il brand, lasciando un finale aperto nel secondo capitolo (che ha registrato una performance economica molto più interessante del precedente). Se il primo era poco più che un action di buon livello e il secondo un aggiustamento di tiro con qualche appesantimento (la poco credibile mafia nelle terme romane, le non chiarissime motivazioni di Wick, i combattimenti risolti, talora, alla bell’e meglio), questo è un film maturo, ricco e assai sfaccettato ed è, oltretutto, la prova che – al di là delle intenzioni commerciali – esiste un’estetica del cinema che deriva dai games: John Wick è un idea cinematografica ma, appunto, ha tutte le caratteristiche del gioco di successo, con in più alcune grandi idee di regia: Stahelski nasce stuntman esperto di arti marziali (ha esordito come controfigura di Brandon Lee ne Il Corvo), poi è stato coordinatore e coreografo di stunt e successivamente regista della seconda unità di colossal action (Capitan America – Civil war, Hunger Games, Ninja Assassin) e qui ha una rara maestria nel dirigere le sequenze di lotta, che si alternano come vere e proprie scene di sanguinoso balletto (per renderle più danzate agli espertissimi killer raramente viene concesso di uccidere l’avversario al primo colpo: lo stesso Wick deve ogni volta quasi esaurire un caricatore per ogni nemico), con alcune geniali trovate (vedi il gigantesco Ernest ammazzato a librate). Gli sceneggiatori Derek Kolstad, Shay Hatten, Chris Collins e Marc Abram, per consentire un ulteriore livello di lettura, inseriscono poi svariati riferimenti cinematografici: Tarkovsky, Lawrence d’Arabia, Indiana Jones, Leone, Bullit, Matrix, Bruce Lee, Il giustiziere della notte, La signora di Shangai, tra gli altri, vengono citati a conferma che siamo ad un nuovo traguardo del racconto cinematografico. Possiamo, perciò, passare sopra a qualche svista, come la resurrezione del cane di Sofia.  I primi incassi sono ottimi e non ci libereremo tanto presto del killer in vestito e cravatta nera. Meno male.