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Mad Max: Fury Road

di George Miller (II). Con Tom HardyCharlize TheronRosie Huntington-WhiteleyZoë KravitzNicholas HoultUSA, Australia 2015

Anche per la trama di questo film riprendo, con aggiunte e correzioni, lo scritto di Wikipedia:

In un disastroso futuro distopico (distopia: immagine di un futuro fortemente invivibile)  , dovuto ad una serie di calamità catastrofiche che hanno causato il crollo della società, vive Max (Hardy), un ex-poliziotto solitario che ha perduto la famiglia durante i primi giorni del collasso sociale. Max viene catturato dai Figli di Guerra, un’armata di guerrieri dalla pelle pallida comandati dal tirannico ImmortanJoe (Hugh Keyas-Byrne) che – coadiuvato dal sapiente e malvagio nano deforme Corpus Colossus (Quentin Kenihan) –  governa, tramite i Figli della Guerra,  un regno totalitario lungo la desertica Fury Road, sottomettendo il popolo tramite il possesso delle riserve di acqua.Etichettato come “donatore universale” di sangue, Max è costretto a trasfondere il proprio sangue con Nux (Hult), uno dei tanti figli malati di Joe. Nel frattempo Furiosa(Theron), una serva di ImmortanJoe, guida un’autocisterna corazzata per andare a recuperare il carburante dall’impianto di Joe, ma esce dalla Fury Road poiché ha nascosto nel veicolo le Cinque Mogli- The Splendid Angahard (Rosie Huntginton-Whiteley),The Capable (RileyKeough), The Dag (Abbey Lee), The Fragile Cheedo (CortneyEaton) e The Knowing Toast (Zoe Kravitz) – delle donne sane e fertili destinate ad accoppiarsi con ImmortanJoe per dare alla luce una nuova stirpe di figli sani, a differenza della precedente che è quasi completamente malata (Angahard è già incinta e sta per partorire). Furiosa intende scappare e salare se stessa e le Mogli dal folle tiranno. Joe si rende conto della loro fuga e, insieme al suo primogenito Rictus Erectus (Nathan Jones), si mette alla testa dei Figli di Guerra, inclusi Nux,che si porta appresso Max per continuare a pompargli sangue, e il  suo compagno di battaglie Slit (JoshHelman),  per fermare Furiosa e recuperare le Mogli. L’inseguimento viene interrotto dall’attacco della banda dei predoni Porcospini e, in seguito, da una violenta tempesta di sabbia. Finita la tempesta, Max e Nux si ritrovano presso l’autocisterna di Furiosa .Max, pistola in pugno, decide di unirsi a loro per sopravvivere, mentre Nux ritorna daImmortanJoe, il quale si fa raggiungeredalle bande del Mangiauomini (John Howard) di Gastown e quella del Fattore (Richard Carter) di Bullet Farm. Nel frattempo Max e le donneraggiungono il canyon dove stringono un accordo con i Motociclisti, guidati da Prime Imperator (Richard Norton),perchè blocchino il passaggio con una frana in cambio di carburante. Tuttavia, siccome le forze di ImmortanJoe sono vicine, Furiosa è costretta a partire mentre i Motociclisti detonano gli esplosivi per bloccare il canyon. Max riesce a seminare i Motociclisti, ma ImmortanJoe e Nux riescono lo stesso a penetrare il blocco e li inseguono. Mentre Nux riesce a salire a bordo, Angahard cerca di difendere Furiosa dagli attacchi ma finisce per cadere dal mezzo e venire investita dalla macchina di Joe, così egli perde sia la compagna che il figlio sano, Nux, temendo che Immortan lo possa ritenere responsabile della perdita dell’erede, nella confusio, penetra nell’autocisterna. Furiosa spiega a Max che ha intenzione di condurre le Mogli alle Terre Verdi, il luogo fertile e vitale in cui lei viveva da bambina. Nux svela a sua presenza a bordo e si pente di tutto quello che ha fatto e viene accettato dal gruppo (di lì  a poco tra lui e Capable nascerà un sentimento). Sul far della sera i fuggiaschi e gli inseguitori giungono su un tratto del deserto dal terreno fangoso dove l’autocisterna rimane bloccata. Mentre Nux escogita un sistema per tirare l’autocisterna fuori dal fango, Max va ad uccidere il Fattore, che possiede un mezzo di trasporto capace di muoversi sul fango. Max ne esce vittorioso e conquista un prezioso carico di armi e munizioni. Il mattino seguente il gruppo di Max e Furiosa giunge in un punto in cui trova una donna nuda (Megan Gale) che implora aiuto. Max la interpreta correttamente come l’esca di una trappola, ma Furiosa si avvicina lo stesso e le dice il proprio nome e il clan dal quale proviene. La donna, che fa parte del clan delle Molte Madri ed è nota come La Valchiria, riconosce Furiosa, in quanto sua madre era una di loro prima di venire rapita da ImmortanJoe.Max,  però, rivela a Furiosa che le Terre Verdi sono ormai inabitabili, ma la Madre più anziana (Melissa Jaffer) ha conservato i semi di varie piante a così il gruppo e le Molte Madri decidono di unirsi e attraversare il deserto insieme con la speranza di trovare un nuovo posto dove vivere. Max decide di andare per la propria strada, ma dopo aver avuto visioni della sua famiglia deceduta, decide di riscattarsi restando unito al raggruppamento di amici e li convince a tornare indietro per affrontare ImmortanJoe , usare la sua acqua e il suo terreno fertile per i semi e creare una nuova Terra Verde.Nella battaglia finale contro ImmortanJoe e i Figli di Guerra, Furiosa resta gravemente ferita mentre le Molte Madri cercano di difendere l’autocisterna dagli attacchi dei Figli di Guerra e Max – dopo aver ucciso vari guerrieri, tra i  quali The Rock Rider Chief (Stephen Dunley), un rocker con chitarra sputafuoco – affronta  il gigantesco RictusErectus ma sta per avere la peggio . Toast viene catturata e messa nella macchina di Joe, ma lei riesce a distrarlo permettendo a Furiosa di raggiungerli. Furiosa aggancia la maschera di ImmortanJoe alla ruota della propria macchina con una catena, così l’apparecchio e la faccia di Joe vengono strappati via, causandogli una morte istantanea. Nux si sacrifica per schiantare l’autocisterna causando anche la morte di Rictus, mentre Max e gli altri fuggono a bordo della macchina di Joe. Max medica le ferite di Furiosa e le trasfonde il suo sangue.I civili gioiscono nel vedere il cadavere di ImmortanJoe, mentre Furiosa, le Molte Madri e le Mogli rimaste vengono issate alla roccaforte appartenuta a Joe dai Figli di Guerra più giovani e insieme lasciano scorrere l’acqua per dissetare tutti quanti. Il film si chiude con Furiosa e Max che si scambiano un ultimo sguardo prima che lui scompaia tra la folla.

Nel 1979 il primo MadMax (in Italia fu intitolato Interceptor) entrò nel Guinnes dei primati: costato 100.000 dollari alla produzione australiana,, ne portò a casa 100.000.000 (record battuto, qualche anno dopo, solo da The Blair Witch Project). Per il regista George Miller e il protagonista Mel Gibson, che furono insieme negli altri due sequel (Interceptor II – Il Guerriero della Strada e MadMax – Oltre la Sfera del Tuono), fu il successo. Ora, l’eclettico Miller (ha diretto anche Babe – Maialino Coraggioso e due Happy Feet), lasciati porcellini sapienti e pinguini ballerini, torna con un quasi-sequel del primo episodio. Sono passati 36 anni  ma la sua mano è perfettamente in grado di competere con i grandi action  tecnologici di questi tempi. La Theron, che a dodici anni da Moster, torna a deformarsi, è una straordinaria presenza sullo schermo e Hardy non è il carismatico e folle di suo Gibson ma regge benissimo. L’attore che interpreta ImmortanJoe, (Hugh Keyas-Bryne)  era stato Toecutter, il villain del primo MadMax

 




The Gunman

The Gunmandi Pierre Morel. Con Sean PennIdris ElbaJavier BardemRay WinstoneMark Rylance  USA, Francia, Spagna 2015

Nel 2006 Jim Terrièr (Penn) è in Congo,  collabora con una Onlus ed è fidanzato con Annie (Jasmine Trinca), medico solidale, della quale è innamorato anche il suo amico Felix (Bardem). Un giorno, però, lui, Felix ed altri due vengono convocati d’urgenza: sono Agenti Speciali Internazionali sotto copertura e uno di loro dovrà uccidere il locale Ministro delle Miniere; colui cui toccherà il compito dovrà sparire. Sarà Jim il prescelto e lui, dopo aver messo a segno il colpo mortale, raccomanda Annie a Felix. Qualche anno dopo è di nuovo in Congo ma stavolta si occupa solo di fornire acqua potabile agli abitanti ma un giorno viene attaccato da tre killer, ne ha la meglio e nella tasca di uno di loro trova due provette per l’analisi del sangue (tipica precauzione dell’Agenzia per assicurarsi dell’identità dell’ucciso). Jim vola a Londra e va dal suo vecchio capo Cox (Rylance), che ora è a capo di una multinazionale e che gli fa capire che ha le ore contate. Lui va a Barcellona (Felix, del cui aiuto ha bisogno, vive lì) e in città ritrova il vecchio amico Stanley (Winstone), anche lui ex-killer in ritiro, che gli dà un rifugio sicuro e gli fornisce l’indirizzo di Felix, ora sposato con Annie. Felix gli un appuntamento a cena e si fa trovare ubriaco, in compagnia di Annie; poco dopo lei lo raggiunge e, dopo un tempestoso chiarimento, i due fanno disperatamente l’amore. Il giorno dopo Jim raggiunge Felix nella sua villa di campagna; l’amico, ancora ubriaco e folle di gelosia, gli comunica che lo ha tradito; infatti, un manipolo di uomini, guidati da Reiniger (Peter Franzen) fa irruzione nella villa e, nella sparatoria che ne consegue, Felix e gli uomini di Reiniger vengono uccisi. Jim torna di nascosto nel proprio appartamento e, usando a proprio favore le trappole esplosive che i killer vi avevano predisposto, fa fuori un bel po’ di nemici e porta Annie da Stanley ma lì arriva Reiniger che li prende entrambi e li porta da Cox . Questi tortura Stanley e, dopo averlo ucciso, minaccia telefonicamente Jim di far fare la stessa fine ad Annie se lui non si consegnerà. Terrièr ha però pesanti prove del coinvolgimento di Cox nell’attentato e riesce ad ottenere un appuntamento faccia a faccia. Nel frattempo l’ufficiale dell’interpol DuPont (Elba) lo contatta e lo invita a collaborare; lui risponde che lo farà a tempo debito. L’incontro con Cox era ovviamente una trappola e lui uccide un po’ di sicari ma non riesce a liberare Annie. L’appuntamento decisivo è alla Plaza de Toros dove è in corso una corrida e, stavolta Jim fa in modo di essere seguito da DuPont. Qui Cox, dopo aver inebetito di droghe Annie, si porta altri sicari ma Jim ha la meglio e Cox muore incornato. La sua collaborazione vale a Jim la libertà e lui raggiunge Annie, di nuovo in Africa per una missione umanitaria.

Patrick Manchette è stato un importante scrittore e sceneggiatore francese di noir e Gunman è tratto dal suo romanzo più famoso: Posizione di tiro, dal quale nel 1982 Robin Davis aveva già ricavato Il bersaglio con Alain Delon e Catherine Deneuve. Alcolizzato e anarco-comunista , Manchette riprende il tema del killer stanco e pentito (già apparso, ad esempio, in chiave moralistica dal pur notevole Una pistola in vendita del cattolico Graham Greene) e ne fa un dolente eroe nichilista. Penn, che produce questo film ha assoldato il capace autore del primo Taken con Liam Neeson  e però immette nella storia un sovrappiù di solidarismo terzomondista, che inceppa il racconto e rende poco credibile il protagonista. Penn ostenta un fisicaccio scolpito ma si dimentica spesso di recitare e la Trinca non ci prova nemmeno.

 




Sarà il mio tipo?  (Pas son genre) e altri discorsi sull’amore

sara-il-mio-tipo-film-03di Lucas Belvaux. Con Émilie DequenneLoïc CorberySandra NkakeCharlotte TalpaertAnne Coesens  Francia 2014

Clement Le Guern (Cobery) è un giovane filosofo raffinato e un po’ cinico: ha pubblicato un saggio dal titolo Dell’amore e del caso, nel quale contesta l’essenza men che carnale del sentimento; lo vediamo lasciare con freddezza  la sua ultima amante (Martine Chevalier), alle cui lacrime contrappone freddamente le proprie teorie. Ora gli hanno assegnato una cattedra ad Arras e lui, parigino fino al midollo, ne è assai seccato. All’arrivo lo accoglie la collega Helene Pasquier-Legrand (Coesens) sua grande ammiratrice e il preside (Christophe Moyer) gli organizza un orario che lo impegna solo i primi tre giorni della settimana. Tra lezioni ad allievi svogliati, conferenze, discussioni con gli snobbissimi genitori (Didier Sandre e Martine Chevallier) che non condividono il suo, ai loro occhi modesto, lavoro. Una sera incontra in un locale un’altra ex, Marie (Amira Casar), che lo accusa di egocentrismo ed anaffettività. Un giorno va dal parrucchiere e la titolare, m.me Bortolin (Talpaert) lo affida a Jennifer, una giovane parrucchiere con un passato sentimentale burrascoso – ha un figlio, Dylan (Tom Burgeat) che cresce allegramente da sola – e una irresistibile solarità. Dopo qualche giorno lui la va a prendere per bere un aperitivo, poi per altre sere vanno a cena, al cinema e, mentre lei gli racconta la sua passione per i romanzi rosa di Anna Gavalda, per il gossip sui divi e per i film di Jennifer Aniston, lui le fa leggere L’idiota di Dostoevski e le dice che ha criteri estetici kantiani. Al terzo appuntamento vanno a letto e scoprono di avere una bella intesa sessuale. La relazione continua, lei lo porta al bar karaoke, dove lei e le sue amiche, Cathy (Nkake) e Nolowenn (Talpaert) si esibiscono in You can’t hurry love abbigliate come le Supremes e lui le legge Proust e Zola (lei, per amore, affronta anche, armata di dizionario, la Critica della ragion pura di Kant) ma evita di incontrare Dylan. Un  giorno però in libreria lei vede il suo saggio e gli fa una scenata perché non gliene aveva mai parlato, probabilmente non ritenendola all’altezza. Dopo un breve periodo di freddezza, si rivedono ma ormai  qualcosa non va: quando fanno l’amore lei gli apre gli occhi che lui tiene costantemente chiusi e, durante la Sfilata dei Giganti – la manifestazione carnevalesca di Arras – incontrano Helene ed il marito (Christophe Leys) e lui non la presenta. Jennifer ne è ferita (evidentemente lui si vergogna di lei con i colleghi) ma fa finta di niente. A letto gli dice che partirà con le amiche per una settimana, al karaoke canta in lacrime I will survive  e, arrivata a casa, dice alla baby sitter (Tiffany Coulombel) adolescente del figlio che non avrà più bisogno di lei e le raccomanda di studiare per non finire come lei. Quando Clement va a cercarla al lavoro per salutarla prima del viaggio Cathy gli dice che si è licenziata e che a loro aveva detto che sarebbe partita con lui. In realtà ha lasciato l’appartamento ed è andata non si sa dove con Dylan.

Sarà il mio tipo è tratto dal romanzo Non il suo tipo di Philippe Vilain (che nel film appare come se stesso) ed ha avuto in Francia, in Belgio ed in Canada svariati premi e nomination, molti dei quali alla bravissima Emile Dequenne (l’indimenticabile Rosetta del film dei Dardenne). Intenso, intelligente – è anche un po’ snob – conferma la rinnovata forza del cinema francese che tra commedie, drammi sentimentali e l’action-polar di Besson ha ritrovato un’autorevolezza innegabile nel panorama europeo – e non solo. E noi? Noi facciamo i documentari di Veltroni!




Mia madre

mia madre

di Nanni Moretti. Con Margherita BuyJohn TurturroGiulia LazzariniNanni MorettiBeatrice Mancini [I]  Italia, Francia, Germania 2015.

Margherita (Buy) è la regista di un film politico (è la storia di una fabbrica occupata) dal titolo Noi siamo qui. La sua vita è complicata: separata con una figlia adolescente, Livia (Mancini), ha da poco lasciato Vittorio (Enrico Inanniello), attore protagonista del film e la madre, Ada (Lazzarini) è ricoverata in ospedale per gravi problemi cardiaci, assistita prevalentemente dall’altro figlio Giovanni (Moretti), che per starle accanto ha chiesto una lunga aspettativa dall’azienda nella quale lavora come ingegnere. Lei, ogni volta che la va a trovare si sente inadeguata e teme di essere di peso alla malata. In quelle ore deve anche lavorare con Barry Huggins (Turturro), importante attore americano, guest star del film, che si rivela insopportabilmente gigione e faticosissimo da dirigere: nonostante gli sforzi dell’interprete (Lorenzo Gioielli), non riesce a ricordare le sue poche battute in italiano. L’appartamento di Margherita si allaga e lei si trasferisce nella casa materna, dove i ricordi si fanno ancora più dolorosi. Lì, accompagnata dal padre, Federico (Stefano Abbati), la raggiunge Livia, che deve affrontare una verifica di latino per la quale avrebbe bisogno dell’aiuto della nonna, che era stata un’ottima insegnante. La dottoressa (Monica Scamassa) toglie a lei e a Giovanni ogni speranza: la loro madre non potrà che peggiorare; di li a poco le dovranno, infatti, praticare una tracheotomia; mentre lei è alle prese con una conferenza stampa sul film e la banalità pseudo-politica delle domande (ma anche delle proprie stereotipate risposte) le risulta insopportabile. Di lì a poco ha una crisi di rabbia per l’inettitudine di Barry e, in un incontro notturno con Vittorio, questi la mette di fronte al suo essere incapace di legami se non ego-riferiti. Le riprese con Barry comunque finiscono (e lui si conferma, alla fine, un ottimo attore) e una sera mentre Margherita, Giovanni e Livia sono a cena, lui si presenta con una bottiglia di vino e confessa di soffrire di gravi vuoti di memoria (per questa ragione Kubrick – con cui lui ha sempre raccontato di aver lavorato – lo aveva protestato). Michele lascia il lavoro e con la sorella decide di riportarla a casa. Qui la mamma potrà dara qualche lezione di latino alla nipote, prima di morire. Alla veglia funebre partecipa anche un vecchio ex-alunno (Antonio Zavatteri), che rivela come molti di loro la avessero sempre considerata una preziosa seconda madre.

Mia madre è una tappa importante nella filmografia di Moretti: non solo per la portata autobiografica del soggetto (sua madre, morta da non molto, era, come Ada, un’insegnante di latino e greco) o per l’aver affidato alla Buy il proprio personaggio lasciandosi – come insiste con la protagonista (Anna Bellato) la regista nel film : “…devi essere nel personaggio e accanto a lui” – il ruolo di fratello super-ego ma anche per ragioni strettamente cinematografiche; mai come ora Moretti ha curato la confezione formale, lasciando al bravo Catinari la possibilità di comunicare stati d’animo con le inquadrature. Non intendo dire che i suoi altri film fossero minimamente sciatti (è nota la sua pignoleria) ma in Mia madre (nel sogno Michele dice a Margherita; “Rompi almeno uno dei tuoi duecento schemi!”) Moretti lascia arrivare l’emozione. Le stesse scelte di costumi (Valentina Taviani) e di scenografia (Paola Bizzarri) sono morettianamente rigorose ma anche affettuose (i maglioni con le toppe scelte dalla madre, i veri libri di casa Moretti, l’arredo decorosamente retrò della casa materna ci rimandano un acuto rimpianto). A molti critici questo ha dato fastidio: come si permette Moretti di non essere più Moretti? Invece ha dato una bella ed importante lezione di stile sulla regia cinematografica. E’ come un interessante ri-esordio da cui possiamo aspettarci molto. Non c’entra con il film ma chi ha visto lo spassoso servizio di Enrico Lucci ne Le jene sullo squallido circo dell’anteprima del documentario di un ex ministro dei Beni Culturali avrà notato che Moretti non c’era; rispondendo ad Ecce Bombo: lo si nota, con stima, di più se non c’è!




Shakespeare a Corviale

L’Amleto di Shakespeare a cura del regista Riccardo Vannuccini andrà in scena il 28 alle ore 21.00 nella Biblioteca Renato Nicolini e il 29 marzo alle ore 12.00 all’anfiteatro.

Lo spettacolo è il frutto del laboratorio teatrale TEATRO DEL RAMMENDO portato avanti dall’associzione ArteStudio che per due mesi ha dato la possibilità a chiunque di frequentare un laboratorio teatrale gratuitamente e recitare in spettacoli tratti dal grande teatro mondiale come l’Agamennone, La serva amorosa e le città invisibili.

Non solo laboratri ma anche inconotri diretti con i cittadini di Corviale invitati personalmente a discutere sulla situazione del teatro a

DSC_4522-8Il laboratorio ha visto la partecipazione straordinaria di attori come Elio Germano e Michele Riondino.

Spettacoli brevi ma di notevole impatto visivo grazie ai movimenti, ai gesti e alle pose degli attori che riescono con il loro corpi a rimepire e animare un enorme spazio vuoto come spesso sono le periferie romane.

“Il TEATRO DEL RAMMENDO nasce da un’idea di Riccardo Vannuccini presidente di Artestudio – spiega la regista Caterina Galloni – con lo scopo di ricucire le reatà culturali nelle periferie come Corviale”.

gallery fotografica:

https://www.facebook.com/ivanselloni/media_set?set=a.10206578040839946.1073741866.1539310907&type=1

per info: https://www.facebook.com/pages/ArteStudio/1438663859750956

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#L’Oriana, miniserie di Marco Turco

 

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È arrivato il momento di dire la verità, di alzare lo sguardo verso la luce,  guardare la realtà vis-à-vis. Il film-fiction L’Oriana, di due puntate, andato in onda il 16 e 17 febbraio su Rai 1, non merita l’attenzione del pubblico. La Puccini non gratifica e non onora il “personaggio” Oriana Fallaci, né tantomeno la mirabile avventura della più grande giornalista degli anni 70. Il poco gusto di un prodotto confezionato, e pronto per l’estero, pacchetto compreso. Molti i commenti sul web e sui social network utilizzando l’hashtag #l’oriana. Nessuno è rimasto soddisfatto. Forse perché il personaggio era troppo complesso per essere inquadrato in due puntate, forse perché la sua opera è stata travisata, la sua persona filtrata dal romanzesco. Un’anziana Fallaci che illustra la sua vita, con disprezzo e maleducazione, ad una giovane studentessa di giornalismo la sua vita è l’escamotage narrativo – un episodio mai accaduto – con cui si apre il sipario sulla telenovela “la Fallaci e la sua vita alternativa”. Non erano di certo le basi della sua vita la ricerca dell’amore, ossessivo, maniacale, le “pieghe rosa” della fiction, e la smania per una maternità che non arriverà mai. Fare il giornalismo, “non l’ho studiato” dice Oriana, era il suo impegno vitale. Ma non sappiamo che tipo di messaggio voleva veicolare il produttore, il regista, per poter dire di non aver assolto al suo compito.  Se questa miniserie si prefigura lo scopo di essere una biografia, fallisce. Se si sofferma sullo sfondo storico, con l’obiettivo di riproporre tematiche e scenari diversi dalla nostra attualità, brancoliamo nel buio. Le ricostruzioni e i paesaggi mendaci sono il frutto di una mediocrità e di una superficialità dilagante e una pochissima attenzione ai dettagli sono; le scene, che si susseguono, banali, insipide, senza suspence, ricostruiscono Saigon in una sorta di periferia romana, per riproporre dei dialoghi estrapolati dai suoi libri e altri scritti con poca cura.

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E quando mi viene detto che “fare un po’ di cultura significa provarci” io mi indigno. Come si indignava Oriana a vedere sporcata la sua Piazza, a Firenze, quando, nell’estate del 1999 un gruppo di “musulmani somali sfregiarono e oltraggiarono per tre mesi e mezzo piazza del Duomo a Firenze. La mia città”. [1] E per conoscere veramente l’Oriana, di cui i giornali e i media si fanno portavoce nei loro articoli arrivisti, per discutere dell’Islam e della minaccia terroristica, bisognerebbe rileggere la prefazione del suo libro “La rabbia e l’Orgoglio”, nato e cresciuto in lei, dopo tanti anni di silenzio, che recita: “Ma vi sono momenti, nella Vita, in cui tacere diventa una colpa e parlare diventa un obbligo. Un dovere civile, una sfida morale, un imperativo categorico al quale non ci può sottrarre”[2]  Allora, se mi affido alle sue parole, e ai suoi libri, mi sento offesa. Perché la cultura non si da a pillole. La cultura non si “fa”. Non si crea, “piano piano”; la cultura non è un prodotto commerciale, non si guadagna.
Quando mi viene detto “è comunque cultura” oppure “meglio di niente”, mi sento indignata. La cultura o c’è o non c’è. Continuo a pensare che la cultura è leggere le opere di prima mano.  Penso che per conoscere veramente Oriana Fallaci bisogna aprire un suo libro. E leggerlo. Tutto. Dall’inizio alla fine. Leggere la storia con Alekos Panagulis in Un uomo, se vogliamo mettere al centro l’amore e le mille sfaccettature dolorose. Bisogna leggere le sue interviste ai grandi della terra per sapere veramente cosa aveva chiesto a Khomeini. Bisogna leggere “Intervista con il Potere”, allora.
Per capire il suo dramma individuale nella lotta contro il cancro e l’amore spasmodico per la Vita bisogna leggere Oriana Fallaci intervista Oriana Fallaci. In un’intervista la Fallaci aveva detto, parlando di sé “su ogni esperienza personale lascio brandelli d’anima”.

A questo punto le tue parole, Oriana, rimangono sulla carta e nei nostri cuori di lettori. Zì! Zì! Zì! Vive! Vive! Vive! – urlava il corteo al funerale di Alekos, il  5 maggio 1976, in cui i “grappoli di persone”  strisciavano verso la chiesa, in un’unica direzione, tutti insieme a forma di “piovra” – allo stesso modo i tuoi lettori dicono Zi! Zi! Zi !
Vivi Oriana, vivi dei tuoi pensieri e dei tuoi bei ricordi.

[1] Cit. Oriana Fallaci, La rabbia e l’orgolio, BUR Rizzoli, 2009, p. 96

[2] Oriana Fallaci, La rabbia e l’orgoglio, BUR Rizzoli, 2009

link all’articolo

 




Birdman

tn_gnp_et_1025_filmdi Alejandro González Iñárritu. Con Michael KeatonZach GalifianakisEdward NortonAndrea RiseboroughAmy Ryan USA 2014

Riggan Thomson (Keaton) è stato un divo acclamato  dalle folle per aver interpretato al cinema il supereroe Birdman ma , arrivato al terzo episodio, angosciato ed alcolizzato ha lasciato Hollywwood. Ora è a New York e sta mettendo in scena un suo adattamento di  Di cosa parliamo quando  parliamo d’amore  di Raymond Carver. Durante una delle ultime prove, alla quale partecipano le due protagoniste femminili del dramma – la sua amante Laura (Riseborough) e Lesley (Naomi Watts), anche lei debuttante sul palcoscenico dopo vari lavori televisivi – si arrabbia con un attore, Ralph (Jeremy Shamos), ancora fuori parte e, con poteri sovrannaturali (così lui pensa ma, in realtà, lo ha brutalmente spintonato)) lo butta a terra,  ferendolo. Chiede al produttore, e suo amico, Jake (Galifianakis), di scritturare Mike  Shiner (Norton), bravissimo ma costoso ed inaffidabile e, già alla prima scena, Mike, che convive con Lesley e perciò sa tutte le battute a memoria, si dimostra un grande animale da palcoscenico. Sam (Emma Stone), la figlia di Riggan che esce da una pesante tossicodipendenza (alla quale non sono estranee le assenze del padre) e che fa da organizzatore generale dello spettacolo, lo accompagna in sartoria e lui si mette nudo davanti a lei, facendo infuriare Lesley. Alla prima anteprima, Riggan si accorge che Mike sta bevendo in scena del vero gin e, rapidamente, glielo  sostituisce con la bottiglia di scena riempita d’acqua; Mike si infuria e fa una scenata, incurante del pubblico, facendo interrompere lo spettacolo. Nel frattempo tra lui e Sam sta nascendo qualcosa che i due nascondono tra finti giochini di ruolo e ciniche battute. La seconda anteprima va molto meglio, anche se Mike in una scena in cui è a letto con Lesley ha un’erezione e tenta di far l’amore sul serio. Lui e Riggan vanno al bar e lì incontrano la terribile critica del New York Times, Tabitha (Lindsay Duncan) e Mike la provoca apertamente. Riggan, intanto, continua a sentire la voce di Birdman che lo deride per la sua scelta  e gli chiede di riprendere il costume da supereroe (l’unica cosa buona, dice la voce, che abbia fatto nella carriera). Un’ intervista di Mike che lo definisce “scimmia ammaestrata” lo fa infuriare e, dopo averlo picchiato, va al bar e cerca di ingraziarsi Tabitha  ma lei gli comunica che farà una recensione stroncante per punire la sua arroganza nel mettere in scena – lui divo ma non attore – un testo così importante, Thomson, disperato, si attacca una volta di più alla bottiglia e si addormenta ubriaco in mezzo alla spazzatura. Siamo alla prima, la sala è stracolma e Riggan, che oltretutto ha appena visto la figlia e Mike che si baciavano, esce in accappatoio per fumare una sigaretta ma la porta di sicurezza si chiude imprigionando l’accappatoio e lui deve rientrare in mutande a recitare l’ultima scena nella quale deve sparare a Mike. Attraversa la platea  in quella mise e, quando è sul palco con in mano la pistola di scena (ma in realtà lui l’aveva sostituita con un arma vera), improvvisa un monologo sulla solitudine e si spara. In ospedale legge la recensione entusiasta di Tabitha e si riconcilia con l’ex-moglie Sylvia (Ryan), con la figlia e  con il Birdman che è in lui.

Inarritu sin da Amores perros aveva dimostrato una bella struttura di cantore della disperazione con venature di melò sfacciato ed  intelligente (21 grammi,Biutiful). Non è un caso che in questo film abbia scelto come terreno di sfida culturale del suo protagonista il testo più noto di Raymond Carver, grandissimo scrittore ma facilmente equivocabile come  una sorta di Prevert moderno e sconsolato; la scommessa è poi ancora più azzardata se si pensa all’ Altman che in America oggi ha trasposto meravigliosamente i racconti di Carver. Il gioco è ancora più labirintico: Keaton ha quasi chiuso la sua carriera dopo i primi due trionfali Batman e Norton ha avuto guai con le major per aver rifiutato il ruolo di Hulk in  The Avengers. Il risultato è un gran bel film, personalissimo ed intenso con un cast impeccabile (Norton, in particolare, è impareggiabile) ed una regia solidamente immaginifica.




Maraviglioso Boccaccio

Il Decamerone  è  l’opera letteraria italiana che  ha avuto il maggior numero di trasposizioni cinematografiche sin dai tempi del muto con il cortometraggio Andreuccio da Perugia del 1910 di Enrico Guazzoni ; tra i tanti c’è anche un Boccaccio del 1920 – basato sull’operetta di Suppè- girato in Austria da Michael Curtiz né va dimenticato, dopo il successo del Decameron di Pasolini, il fiorire dei cosiddetti decamerotoci (filmetti scollacciati, più o meno basati sulle novelle del Boccaccio). Ora arrivano i Taviani e, mettendo al centro del racconto i dieci giovani novellieri e la pestilenza dalla quale fuggono, innestano nel testo la loro visione metastorica, scarna ed essenziale; non a caso la messa in opera delle pagnotte è uno dei momenti più significativi e poetici del film.

boccacciodi Paolo TavianiVittorio Taviani. Con Lello ArenaPaola CortellesiCarolina CrescentiniFlavio ParentiVittoria Puccini  Italia 2015

Nel 1348 la peste sta devastando Firenze, vediamo, in apertura, un giovane appestato (Marco Iermanò) che si lancia nel vuoto dal campanile di Giotto; sette giovani , tre ragazzi (Moisè Curia, Nicolò Diana e Fabrizio Falco) e sette ragazze (Melissa Bartolini, Eugenia Costantini, Miriam Dalmazio, Camilla Diana, Ilaria Giachi, Barbara Giordano  e Rosabell Laurenti Sellers) decidono di rifugiarsi un campagna, dandosi alcune semplici regole: vivranno la vita semplice dei contadini, quelli di loro accoppiati si asterranno da gesti amorosi per non immalinconire gli altri ed ogni sera ciascuno di loro racconterà agli altri una novella per dimenticare l’angoscia di quei giorni. La prima storia è quella di Catalina (Puccini) che si ammala di peste e la madre  (Enrica Rosso) del debole marito Nicoluccio (Parenti) la fa portare via; il cocchiere la lascia per morta in una chiesetta e Gentile (Scamarcio), innamorato da sempre di lei, la porta in casa propria e la cura. Una  volta risanata organizza un banchetto, nel corso del quale sarà proprio Nicoluccio (tratto in un inganno) a decretare che la sposa spetta a chi la ha salvata. Ecco poi il racconto di come allo sciocco   Calandrino (Kim Rossi Stuart) gli amici Bruno (Simone Ciampi) e Buffalmacco (Lino Guanciale), d’accordo con tutta la contrada, fanno credere di aver trovato una pietra che rende invisibili, quando però la moglie Tessa (Silvia Frasson) lo saluta e dischiara di vederlo, la picchia chiamandola “strega!”. Ecco i  casi del duca Tancredi (Arena), che ama smodatamente la figlia Ghismunda (Kasia Smutniak), che, tornata a casa vedova dell’anziano marito che il padre aveva scelto per lei, si innamora del cesellatore Guiscardo (Michele Riondino), protegè del duca; quando il padre, folle di gelosia, fa trucidare il giovane, lei si uccide con il veleno. Vediamo la severissima madre badessa Usimbalda (Cortellesi) infuriarsi con la novizia Isabetta (Crescentini), sorpresa in cella con l’amante ma, quando la giovane le fa notare che al posto della cuffietta ha in testa un paio di mutande da uomo, la pia donna getta la maschera ed invita le consorelle a darsi alle gioie della carne. Da ultimo si raccontano le disgrazie del nobile e ricco Federigo degli Alberighi, tanto innamorato di Giovanna (Jasmine Trinca) da ridursi in miseria per lei; a seguito di ciò, lui vive in un casolare con la sola compagnia di un amatissimo falcone che lo aiuta, con la caccia, a sostentarsi e tutti i giorni spia da lontano l’amata che, rimasta vedova, accudisce il figlioletto Rinuccio (Niccolò Calvagna), malfermo di salute. Federigo insegna al bambino l’arte del falconiere e quando il piccolo ha una ricaduta e chiede di poter avere il falcone, la madre va dal vicino per chiederglielo ma non trova subito il coraggio e, sulle prime, gli dice che si fermerà a pranzo; lui, disperato perché la dispensa è vuota, le cucina proprio il falco.

Il Decamerone è probabilmente l’opera letteraria più rappresentata al cinema: già nel 1910 Enrico Guazzoni dirige un corto dalla novella Andreuccio da Perugia, ricordiamo poi un Boccaccio austriaco del 1920, girato da Mihally Kertesz ( il futuro Michael Curtiz), un Boccaccio del ’40 e, nel ’53, Le notti del Decamerone sino allo splendido Decameron di Pasolini del 1971, da cui prenderanno le mosse una nutrita  serie di commediole ammiccanti, più o meno basate sulle novelle del Boccaccio, che, nei primi anni ’70, furono classificati come decamerotici . I Taviani hanno spesso usato la grande letteratura come base delle loro opere (da Goethe a Pirandello, a Dumas, a Tolstoy, a Shakespeare, per citarne alcuni) ma ne hanno sempre tratto dei film personalissimi, ancorché fedeli alla lettera della narrazione; anche in questo caso  non fanno eccezione: là dove, ad esempio, il film di Pasolini era un capolavoro di carnalità ferina, anche nei momenti più lirici, loro – lontani come sono da ogni coinvolgimento sensuale- spostano l’epicentro del racconto sulla peste e sui giovani narratori e le novelle stesse divengono pretesti per dare vita alla grande pittoricità che, insieme al rigore politico (i loro film in costume rimandano sempre metastoricamente all’oggi), è una delle chiavi della loro poetica (non a caso, qui diviene centrale la lavorazione del pane, attraverso la quale i dieci giovani si conciliano con se stessi e con la natura che li ospita). Da questo punto di vista non si possono non citare, oltre ai soliti perfetti costumi di Lina Nerli Taviani, le scene di Emita Frigato e la fotografia di Simone Zampagni. Il cast è notevole e, come sempre con i Taviani, quelli bravi (la Cortellessi ed Arena su tutti) sono al loro meglio, gli altri si adeguano come possono.