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The Hateful Eight

di Quentin Tarantino. Con Samuel L. JacksonKurt RussellJennifer Jason LeighWalton GogginsDemiàn Bichir  USA 2015

Tarantino è al suo secondo western dopo Django enchained e, anche per effetto delle musiche di Moricone, di nuovo sembra riproporre gli stilemi del, da lui adorato, spaghetti-western; in effetti, la neve e l’angustia degli ambienti rimandano a Il grande silenzio di Sergio Corbucci (autore anche di Django) ma in Tarantino il gioco dei richiami cinematografici (e non solo) è molto più ricco e complesso: si va da Ombre rosse di John Ford, alle varie versioni dei Dieci piccoli indiani di Agatha Christie (nella prima stesura – uscita in Italia con il titolo …e poi non rimase nessuno – nella quale muoiono tutti), al western crepuscolare Notte senza fine di Raoul Walsh, al grandioso massacro finale del Mucchio selvaggio di Sam Peckimpah e, per ammissione dello stesso regista, a La cosa da un altro mondo di Christian Niby e Howard Hawks e al suo remake La cosa di John Carpenter. Lui è notoriamente un autore divisivo: lo si adora o lo si odia ma non è mai racchiudibile in una sola dimensione (lo stesso Grindhouse –A prova di morte, dichiarato omaggio ai b-movie degli anni ’70 ha più piani di lettura). Hateful eight non fa eccezione e, soprattutto, è un gioiello (sporco di sangue e di umori sinchè si vuole) di cinema: la perfetta fotografia del suo sodale Robert Richardson, le musiche di Moricone nuove e sorprendenti (lui, anche contro il parere del regista, ha evitato ogni auto-citazione ed ha avuto ragione!) e lo splendido cast, l’ironica e geniale Jason Leigh in testa, ne fanno un grande memorabile film. Il pubblico, come sempre intelligente, sta al gioco e gli incassi arrivano.

Nel Wyoming, all’approssimarsi di una bufera, una diligenza diretta a Red Rok, con a bordo il cacciatore di taglie John Ruth (Russell) – soprannominato “Il Boia” perché porta sempre al patibolo i criminali che cattura – e la sua prigioniera Daisy Domergue (Jason Leigh), viene fermata da Marquis Warren (Jacvkson), un ex-maggiore di colore dell’ Unione, ora anche lui bounty-killer, che ha perso il cavallo mentre stava trasportando i cadaveri di quattro criminali fino a Red Rock per riscuoterne la taglia. Il cocchiere O.B. (James Parks) gli dice di parlare con Ruth e questi – temendo che possa liberare Daisy – lo fa salire ma ammanettato. Poco dopo, nuova sosta: stavolta si tratta di Chris Mannix (Goggins), un rinnegato del sud che va a Red Rocks per assumere la carica di sceriffo. Ruth è costretto a farlo salire (senza uno sceriffo nessuno potrà pagare la taglia di 10.000 dollari per Daisy) ma libera Warren e fa con lui un accordo: si aiuteranno nel difendere i reciprochi interessi (i quattro banditi uccisi dal maggiore valgono 8.000 dollari). Mannix, che odia i neri ed i nordisti, racconta come Warren ( che si era sempre dipinto come un eroe ed aveva con se una lettera di elogi del presidente Lincoln) fosse stato congedato con disonore perché, durante la guerra civile, catturato dai sudisti , per evadere dal campo nel quale era recluso, lo avesse incendiato, facendo morire 37 prigionieri di guerra nordisti. La diligenza, a causa della bufera, è costretta a fermarsi all’emporio di Minnie (Dana Gourier), dove vengono ricevuti dal messicano Bob (Bichir) che dice di occuparsi del locale in assenza della proprietaria, in visita con il marito Sweet Dave (Gene Jones) dalla madre. Nell’emporio sono rifugiati il boia Oswaldo Mobray (Tim Roth) il vaccaro Joe Gage (Michael Madsen) e  Sanford Smithers (Bruce Dern), un ex generale sudista. Ruth e Warren sono diffidenti: il primo teme sempre che qualcuno dei viaggiatori sia lì per liberare Daisy e l’altro non crede che i proprietari siano partiti lasciando l’emporio nelle mani di un messicano. La sera, Warren confessa divertito che la lettera di Lincoln è falsa e, dopo aver messo una delle sue pistole vicino alla poltrona del generale, gli rivela di essere stato lui ad uccidere suo figlio (Craig Stark): questi era andato a cercarlo per incassare la taglia che il Sud aveva messo su di lui ma Warren lo aveva sopraffatto e, dopo averlo costretto e camminare nudo nella neve e a praticargli una fellatio, lo aveva abbattuto come un cane. Il generale afferra la pistola e tenta di sparare ma il maggiore è più rapido e lo uccide. Intanto qualcuno, visto solo da Daisy, ha avvelenato il caffè. Il cocchiere e Ruth ne bevono e muoiono vomitando sangue (in realtà l’indistruttibile Ruth cerca prima di uccidere la prigioniera ma questa gli prende la pistola e lo finisce), Manninx, che stava a sua volta prendendo il caffe, lo butta a terra e convince Warren, che ha puntato la pistola contro tutti per individuare il colpevole, della propria innocenza (anche lui stava per morire avvelenato) . Daisy è stata disarmata e le chiavi delle manette che la tengono legata al cadavere di Ruth gettate nella stufa, mentre Cage, Bob e il boia sono faccia al muro sotto il tiro delle pistole. Bob era lontano dal bricco del caffè durante gli ultimi avvenimenti ma la poltrona di Sweet Dave sporca di sangue ed altri indizi dimostrano senza dubbio che lui ha ucciso Minnie e il marito e Warren gli spara in testa; poi per ottenere una confessione da Mobray o da Gage, Warren minaccia poi di far bere il resto del caffè avvelenato a Daisy. Cage confessa ma un altro uomo, Jody (Channing Tatum), nascosto sotto le tavole del pavimento, spara al maggiore, colpendolo ai testicoli e Mobray afferra una pistola nascosta e spara addosso a Mannix ferendolo gravemente, venendo colpito a sua volta. Sappiamo, a questo punto, che quella mattina una diligenza guidata da Ed (Lee Horley) e Judy “6 cavalli” (Zoe Bell), era arrivata all’emporio con a bordo Mobray, Gage, Bob e Jody, fratello di Daisy e capo di una banda di criminali. I quattro uccidono tutti (tranne il generale, che era nell’emporio e che avrebbe dato un tocco di veridicità alla messa in scena; lui, spaventato, garantisce il silenzio).Ora Warren e Mannix, feriti a morte, costringono, minacciando Daisy, Jody ad uscire e il maggiore lo uccide; La ragazza, che ora è il capobanda, tenta di fare un accordo con Mannix, proponendogli salva la vita (altri 15 banditi, a suo dire sono appostati a Red Rock) e la possibilità di intascare le ricche taglie dei fuorilegge che giacciano morti nell’emporio. Lui sembra titubante ma, in una successiva sparatoria, lui e Warren fanno fuori Mobray e Cage. Sempre insieme, per onorare la memoria du Ruth “Il boia”, impiccano la ragazza, ridendo. Moriranno leggendo, commossi, la falsa ma toccante lettera di Lincoln.




L’abbiamo fatta grossa

 di Carlo Verdone. Con Carlo VerdoneAntonio AlbaneseAnna KasyanFrancesca FiumeClotilde Sabatino

L’attore Yuri Pelagatti (Albanese) da quando è stato lasciato dalla moglie Carla (Sabatino) non riesce più a lavorare: qualunque frase relativa all’amore o al tradimento lo blocca, immobile e senza memoria, in scena. Va, perciò, dall’investigatore Arturo Merlino (Verdone) perché raccolga le prove della relazione tra la moglie e l’avvocato Franciosa (Federigo Ceci); il detective scrive polizieschi pseudo autobiografici – che nessuno pubblica – il cui protagonista è un eroe da hard boiled novel ma in realtà è un povero diavolo che vive con la vecchia zia Elide (Virginia Da Brescia) e uno dei suoi incarichi più costanti è quello di riacchiappare il gatto di un generale il pensione (Giuliano Montaldo) e sua moglie (Vera Pescarolo, vera moglie del regista). Arturo, con l’aiuto della vicina Giorgia (Fiume), una ragazza cinese che parla romanesco, travestito da indiano venditore di fiori, riesce a piazzare una cimice nel tavolo del ristorante dove la coppia era andata a pranzare. I due, però, cambiano tavolo e la coppia che si siede al loro posto viene registrata mentre parla di un misterioso appuntamento per consegnare una valigetta con delle fotografie. Yuri, che da giovane aveva posato per delle foto porno, teme che quelle siano il contenuto della valigetta. I due si mettono il passamontagna e nel luogo convenuto, armati di due pistole giocattolo, si fanno consegnare la valigetta; Yuri vede che al volante non c’è la moglie e, sorpreso, si toglie il passamontagna. Quando aprono la valigetta i due trovano un milione di euro. Yuri vorrebbe tenerli ma Arturo, ex-carabiniere, si oppone e il bottino viene nascosto nel cappotto dello zio morto che Elide tiene come una reliquia. Ciascuno, di nascosto dall’altro, intasca una piccola somma: Yuri paga alla moglie gli arretrati degli alimenti e Arturo porta a cena la cassiera del bar con la vocazione del canto lirico, Lena ( Kasyan), della quale è innamorato. Yuri ottiene anche un piccolo ruolo in una pièce e invita Arturo e Lena alla prima. Tra gli spettatori c’è però la donna della valigetta, che lo riconosce e avverte l’uomo elegante (Massimo Popolizio) che è seduto accanto a lei. Yuri, a sua volta, la riconosce e scappa dal palcoscenico, mentre Arturo, che lo ha seguìto, sente l’uomo elegante impartire ordini minacciosi che li riguardano. Yuri si rifugia a casa dell’investigatore e, quando questi – accompagnato da Lena (che si sente una Bond-girl) – va nella comune nella quale l’attore vive, la trova messa a soqquadro. Un malvivente che era andato da Arturo per spaventarlo, viene messo inavvertitamente k.o. e, poco dopo, si presenta l’uomo elegante che, con minacce e promesse di ricompensa, gli intima di ridargli i soldi. Arturo accetta ma, quando con Yuri aprono l’armadio, si avvedono che l’indumento è sparito. Lo ha dato alla parrocchia la zia e, al centro di smistamento, lo recuperano dal vagabondo che lo aveva avuto, dandogli in cambio di un paio di colorate scarpe da tennis. I soldi ci sono ma una recente pioggia li ha infracidati; in un vicino solarium li asciugano alla bell’e meglio; sono, però, in ritardo e i malviventi rapiscono Lena. Portano il milione al nuovo appuntamento e, in cambio, Lena viene liberata e, nonostante l’uomo elegante si sia accorto del piccolo ammanco, ottengono anche la generosa ricompensa promessa. Queste banconote, però, sono false e i due vengono arrestati; al processo li difende, volutamente male, Franciosa e la condanna è pesante: cinque anni. In compenso, Carla, che è indignata per il comportamento di Franciosa, e Lena, che è andata a vivere da zia Elena, li aspetteranno, innamorate. In prigione i due ricevono un premio per le loro qualità letterarie (Arturo) e di recitazione (Yuri) e a consegnarglielo sarà un sottosegretario che altri non è che l’uomo elegante. Una eduardiana (L’oro di Napoli) e liberatoria pernacchia sarà la risposta al suo pistolotto sull’onestà e la redenzione.

Verdone ha spesso lavorato in coppia: con Castellitto (Stasera a casa di Alice), con Sordi (Troppo forte, In viaggio con papà), con la Buy (Maledetto il giorno che ti ho incontrato e Ma che colpa abbiamo noi?), con Montesano (I due carabinieri) con Pozzetto (7 chili in 7 giorni), con la Gerini (Viaggi di nozze, Sono pazzo di Iris Blonde, Grande, grosso e Verdone), con Muccino (Il mio miglior nemico), con inevitabili alternarsi di ruoli comici e di spalla ma, ultimamente, ha accentuato la capacità di dare spazio ad un altro comico: lo ha fatto con Giallini in Posti in piedi in Paradiso e con la Cortellesi in Sotto una buona stella. Ora, con Albanese, sembra aver costituito, almeno per questo film, un sodalizio alla Tognazzi e Vianell in cui lui si è ritagliato lo spazio (alla Vianello) di spalla comica. Il sodalizio della vecchia ditta era durato molti anni, tra televisione, 7 riviste e 22 film (23 se si conta Il giorno più corto in cui ciascuno appariva separatamente per pochi secondi); erano film (spesso, guarda caso, con una trama giallo-comica) senza grandi pretese, alcuni molto legati al loro successo televisivo (vedi Tu che ne dici? che richiamava il tormentone di Un,due,tre: “Tu che ne dici?” “Io dico che piace!”) ma di grande efficacia comica. Verdone è intelligente e niente affatto snob e con questa nuova formula sta scongiurando il rischio di stancare il pubblico dopo anni di successi. Il suo tocco è, semmai, nella solida regia e nel sempre sorprendente lavoro di casting (Montaldo e signora sono invece solo un ammicco agli addetti ai lavori che conoscono la simpatia, un po’ guitta, del regista di Sacco e Vanzetti).




Se mi lasci non vale

di Vincenzo Salemme. Con Vincenzo SalemmeCarlo BuccirossoPaolo CalabresiSerena AutieriTosca D’Aquino Italia 2016

Vincenzo (Salemme) – proprietario di un’agenzia di viaggi – e Paolo (Calabresi) – tecnico informatico, con padre (Carlo Giuffrè) a carico – si incontrano ad un party e ciascuno riconosce nell’altro lo sguardo di chi è stato lasciato dalla moglie. Nasce tra i due un’amicizia, fondata sulle lamentele e i rimpianti, sino a che Vincenzo non ha un’idea: ognuno di loro farà innamorare la ex dell’altro, per poi lasciarla e farla soffrire ciò che loro soffrono adesso. Sara (Autieri), la moglie di Vincenzo, è maniacalmente ecologista e salutista e Paolo, oltre a fare propri i di lei gusti musicali e letterari, deve imparare a cucinare un’immangiabile zuppa vegana. Federica (D’Aquino), che gestisce una società di arredamenti, invece, è ambiziosa e arrivista e Vincenzo dovrà contattarla nelle vesti di un magnate che vuole ristrutturare una favolosa villa. Questo secondo travestimento richiede un autista e, all’uopo, viene ingaggiato Alberto Giorgiazzi, un attorucolo di sceneggiata, pieno di prosopopea e di debiti. Sara, nonostante i pasticci di Paolo, cade nella trappola ma anche lui se ne innamora perdutamente. Vincenzo, invece, arrivato sulla porta dell’ufficio di Federica, viene costretto da Alberto, che si picca di curare la regia dell’imbroglio e vuole mostrargli come si muove un ricco, a mettersi al volante con il cappello da autista e lei, che ha visto la scena, si convince che il facoltoso cliente sia l’attore. Lui si presta volentieri e, coi soldi di Vincenzo, la porta a cena in una pizzeria, dove però un pizzaiolo gay – che lo aveva già aggredito mentre recitava nei panni del malamente – lo riempie di contumelie. Per rimediare, il giorno dopo la fa chiamare dalla figlia (Mirea Stellato) del proprietario della pensione, dove lui dorme a sbafo ( la ragazza – nonostante una pronunzia improponibile – sogna di diventare attrice e lui le ha promesso una sfolgorante carriera), che fingendosi segretaria, la invita a cena in un villone che Vincenzo ha ottenuto, per una sera, da un amico. Alberto, però, è stato convocato per un provino per un Otello e lascia Vincenzo a cavarsi d’impaccio; dopo qualche bicchiere Federica comincia a lasciarsi andare con il finto chauffeur, confessandogli di non provare niente per il supposto magnate e facendogli un po’ la corte. Il giorno dopo lei prova a richiamare il numero del finanziere e scopre tutto; va a teatro e alza una piazzata contro Alberto nel pieno della scena madre dell’Otello e di lì a poco aggredisce Vincenzo, che sta spiando una cenetta tra Paolo e Sara; va poi dai due commensali e Sara, scoperta la verità, se ne va indignata. Federica, però, ha visto lo sguardo innamorato dell’ex-marito e, pentita, si fa aiutare da Vincenzo ed Alberto per farli rimettere insieme.

Salemme e Buccirosso – che erano partiti insieme e si erano separati piuttosto polemicamente – dopo la trasposizione cinematografica di …E fuori nevica (il loro maggior successo teatrale) sono di nuovo co-protagonisti in un film, per una volta, non scritto da Salemme – il soggetto è di Paolo Genovese e Martino Coli – ma molto salemmiano. Lui ricorda spesso i suoi esordi con Eduardo e il film rimanda molto, soprattutto nel ruolo di Buccirosso, ai guitti del geniale Uomo e galantuomo e del pirandelliano L’arte della commedia. Detto questo, Se mi lasci non vale non è una grande commedia: gli attori sono bravi (il recupero di Giuffrè è persino commovente), la fotografia di Pesci è perfetta ma non è che si rida poi così tanto. Il napoletano Salemme ha il suo pubblico e il film lo soddisferà di sicuro. Visti i tempi, non è poco.




Creed – Nato per combattere

di Ryan Coogler. Con Michael B. JordanSylvester StalloneTessa ThompsonPhylicia RashadTony Bellew  USA 2015

Los Angeles, Adonis “Donnie” Johnson (Alex Henderson) è un ragazzino difficile: passa dall’orfanotrofio a famiglie affidatarie e al riformatorio, dove viene spesso isolato perché fa a botte con gli altri ragazzi. Lui non lo sa ma è il figlio naturale di Apollo Creed (Carl Weathers) e la sua vedova, Mary Anne (Rashad) decide di adottarlo. Qualche anno dopo Donnie Creed (Jordan) è un brillante manager di una società finanziaria ma, appena può, scappa a Tijuana a cimentarsi in incontri di boxe non ufficiali, vincendone 16 per k.o. e, proprio quando riceve una prestigiosa promozione, si dimette dal lavoro per seguire la sua vocazione al pugilato. Marie Anne tenta di dissuaderlo, minacciando di non vederlo più, ma lui parte per Filadelfia e va al ristorante Adrian’s di Rocky (Stallone), per chiedergli, in nome della vecchia amicizia con il padre, di allenarlo ma l’ex-campione rifiuta: orma è fuori dal mondo del pugilato. Lui comincia così ad allenarsi da solo nella palestra di Mickey – l’ex-allenatore (Burgess Meredith) di Rocky – gestita ora da Pete Sporino (Ritchie Coster), che allena personalmente il figlio Leo “The Lion” (Gabe Rosado), sul quale fonda molte speranze. Adonis va a vivere in un appartamento in cui, al piano di sotto, vive Bianca (Thompson) una cantante affetta da perdita progressiva dell’udito, con la quale di lì a poco si fidanzerà. Alle mille insistenze del ragazzo, Rocky torna alla palestra di Mickey e, dopo aver rifiutato la proposta di Pete di allenare Leo, dice ad Adonis che, se mostrerà il giusto impegno, si occuperà di lui. Rocky, però, sa di non essere più nelle condizioni fisiche per seguire attivamente Donnie negli allenamenti, e così lo porta in un’altra palestra dove avrà un secondo allenatore, Padman (Ricardo McGill) e suo figlio Amir (Malik Bazille) come sparring partner. Dopo poche settimane lui, con il nome Adonis Johnson (non vuole che, a parte Rocky, altri sappiano di chi è figlio) affronta il suo primo incontro e lo sfidante è proprio Leo Sporino. Il padre, poco prima del match, viene a sapere delle sue origini e, per rendere l’incontro più redditizio, propone a Rocky di divulgare la notizia. Balboa però sa che il ragazzo vuole realizzarsi senza sfruttare il nome del padre e gli chiede di non dirlo a nessuno. Adonis vince alla seconda ripresa ma subito si diffonde la notizia che lui è un Creed: Pete ha rivelato il segreto alla stampa. Bianca si offende perché Donnie l’ha tenuta all’oscuro ma lo perdona, spingendolo a continuare a combattere anche in nome del grande padre. A Liverpool, intanto, il campione in carica dei pesi massimi Ricky ‘Pretty’ Conlan (Tony Bellew), che già rischia 7 anni di carcere per detenzione illegale di armi, alla conferenza stampa prima del match con Danny ‘Stuntman’ Wheeler (Andre Ward) lo aggredisce, spaccandogli la mandibola. La sua carriera è ormai compromessa ma il suo manager, Tommy Holiday (Graham McTravish) decide di organizzargli un ultimo incontro di grande spessore mediatico con Adonis Creed. Adonis e Rocky, dopo molte indecisioni (il match è per il titolo è un po’ prematuro nella carriera appena iniziata del ragazzo) accettano. Durante gli allenamenti, Rocky si sente male e all’ospedale, le analisi rivelano che è malato di cancro. Lui, ricordando con dolore l’inutilità della chemioterapia applicata alla moglie Adriana, rifiuta di curarsi. Adonis, da dei depliant che l’ex campione aveva in tasca, scopre tutto e, quando tenta di convincerlo a curarsi, Rocky lo tratta male. Donnie va nel locale dove Bianca partecipa a un importante concerto e, sconvolto dalla recente scenata, viene alle mani con la star della serata, Tony Evers (Wood Harris). Viene fermato per aggressione e, in guardina, lo raggiunge Rocky che si scusa e lo invita a liberarsi del fantasma del padre; lui, lì per lì, lo scaccia ma, il mattino seguente, va da Bianca per scusarsi (lei però gli sbatte la porta in faccia) e poi va da Rocky e gli propone un patto: lui combatterà sul ring per il titolo se l’altro si sottoporrà alle cure.. Rocky accetta e l’allenamento riprende, anche in ospedale. Alla conferenza stampa del match Ricky Conlan insulta Donnie, sostendo che la sua fama è frutto solo del suo cognome. Poco prima del match Adonis riceve un regalo da Mary Anne:un paio di calzoncini a stelle strisce con la scritta, identici a quelli che indossava Apollo e arriva a dargli man forte anche Bianca. L’incontro vede Ricky Conlan in evidente superiorità ma Adonis, a sorpresa, riesce ad arrivare all’ultima ripresa, rifiutando la proposta di Rocky di gettare la spugna. Conlan mette k.o. Adonis ma questi si rialza e, con una raffica di colpi, manda, a sua volta, al tappeto l’avversario che però si rialza e vince il match ai punti. Al momento della proclamazione, però, riconosce pubblicamente che Adonis Creed è il futuro campione e degno erede del padre.

Il settimo Rocky, Stallone (che è anche produttore) lo ha affidato al regista e al protagonista dell’impegnatissimo e premiatissimo Prossima fermata: Fruitvale Station, che racconta le ultime ore di un nero che sarà ucciso da un poliziotto. Coogler non è un regista epico come l’Alvisden del primo film ma sa tenere ferma la macchina, puntandola su efficaci e ben confezionati luoghi comuni del cinema nero: la madre dura ed apprensiva, la ragazza tosta e imbronciata, il pugile simbolo di riscatto per i ghetti periferici (la scena della corsa di allenamento tra due ali di bikers è quasi da antologia), la famiglia che dà la forza di andare avanti. Lui, Sly, si muove in parallelo alla storia con sorniona maestria: gli altri si danno un gran da fare – Jordan ha dovuto anche affrontare i match con di fronte pugili veri (Anthony Bellew, Andrè Ward e Gabe Rosado), con tutte le difficoltà fisiche del caso – ma a lui basta una smorfia appena accennata o una lieve torsione del torace per essere Rocky Balboa e stare al centro dello schermo. Ben meritato il recente Golden Globe: lui forse non è un grande attore ma è una grande icona, una star nella grande, irripetibile tradizione di Hollywood.




Carol

di Todd Haynes. Con Cate BlanchettRooney MaraKyle ChandlerJake LacySarah Paulson Gran Bretagna, USA 2015

Natale 1952, Manhattan, Therese Belivet (Mara), giovane commessa del reparto giocattoli dei Magazzini Frankenberg, vende all’elegante Carol Aird (Blanchett) un trenino elettrico, destinato alla figlia Rindy (le gemelle Sadie e Kk Heim). Carol lascia i propri guanti sul bancone, e Therese, premurosamente, glieli spedisce. Lei è fidanzata, con qualche dubbio, con Richard (Lacy), che ha progettato un viaggio – se lei volesse, di nozze – insieme in Europa. Therese ha una gran passione per la fotografia e quando il suo amico Dannie (John Magaro), praticante giornalista al New York Times, le chiede di andare con lui in redazione, proponendole di conoscere un suo amico fotoreporter, lei accetta subito, dopo poco i due si baciano ma lei prova subito dopo un grande imbarazzo. Carol sta affrontando il divorzio dal marito Harge (Chandler), che – ancora innamorato e ingelosito dalla sua relazione con Abby (Paulson) – minaccia di farle togliere la custodia della bambina per indegnità morale e, con la scusa di volersi sdebitare per la restituzione dei guanti, invita Therese a pranzo e, alla fine dell’incontro, le propone di andare da lei per il weekend .Lei accetta ma quando è nella villa, Harge si presenta a casa e, a causa della presenza di Therese, fa una scenata alla moglie e porta via la bambina Carol, sconvolta, accompagna Therese, alla stazione. Il giorno dopo la chiama e va da lei, portandole in regalo una valigetta contenente una costosa macchina fotografica. Poco dopo l’avvocato di Carol le comunica che Harge ha chiesto la piena custodia di Rindy per “cause morali” e lei decide di superare l’angoscia, facendo un viaggio insieme a Therese, con la quale sta nascendo una particolare complicità. Richard, che dalle parole di Therese intuisce cosa sta accadendo, di fronte alla titubanza della ragazza sulla sua proposta di matrimonio, la lascia , dicendole che Carol la farà soffrire. Dopo qualche notte in vari alberghi, a Waterloo Carol e Therese si baciano e, per la prima volta, fanno l’amore. La mattina dopo fanno colazione con un imbranato commesso viaggiatore, Tommy (Corey Michael Smith) ma un telegramma rivela a Carol che il marito ha le prove della loro relazione: Tommy, che era in realtà un investigatore privato, aveva registrato dalla stanza accanto la loro notte di passione. Lei torna immediatamente a New York e chiede ad Abby (loro due sono ora solo buone amiche) di andare a prendere Therese e di riaccompagnarla a casa. A New York Carol accetta di sottoporsi a cure psicologiche per “guarire” dalle proprie inclinazioni e di non vedere più Therese, purchè le consentano di stare con Rindy. Therese, con il cuore spezzato, decide di tentare seriamente la carriera di fotografa e ottenendo un posto di archivista al New York. Carol, intanto, nel decisivo incontro sulle condizioni del divorzio, dichiara, a sorpresa, di accettare che la custodia della bambina vada al marito, a patto di essere libera di vederla: violentare la propria natura sarebbe impossibile e, ne è convinta, nocivo per Rindy. Immediatamente, invita Therese a prendere un thè al Ritz e, confidandole di amarla, le propone di andare a vivere insieme. Therese, ancora sconvolta per il precedente abbandono, rifiuta ma, dopo essere andata ad una festa con alcuni colleghi, dove viene corteggiata dall’intrapendente Genevieve (Carrie Brownstein) raggiunge Carol nel ristorante dove cena con amici.

Todd Haynes nel 2002 aveva diretto il notevole Lontano dal paradiso, più o meno sullo stesso tema: in quel film un marito alto borghese, accetta di sottoporsi a dolorose cure – anche a base di elettroshock – per “guarire” dall’omosessualità. In Carol, tratto da un racconto di Patricia Highsmith, è più centrale la storia d’ amore tra le due protagoniste ma l’epoca e le convenzioni sociali sono le stesse. Lui è stato spesso paragonato al grande maestro di melò Douglas Sirk (Magnifica ossessione, Come le foglie al vento) e, nel caso di Lontano dal paradiso, l’accostamento era azzeccato; stavolta però il risultato è un film di grande mestiere, con recitazione, fotografia (Edward Lachman) ambientazioni, scenografia (Heather Loeffler), acconciature e costumi (Sandy Powell) perfetti ma non molto più di un patinato trovarobato d’eccezione (l’accostamento alle mitiche pubblicità per le casalinghe americane di quegli anni è d’obbligo); niente di grave (anche a Visconti è capitato di essere definito un geniale trovarobe): all’inizio – e alla fine: il racconto è ellittico – del film la giacca a scacchettoni di Rooney Mara (che peraltro ha vinto la Palma d’Oro a Cannes per il ruolo di Therese) racconta il personaggio quasi con altrettanta efficacia   dell’attrice che la indossa.




Quo Vado?

di Gennaro Nunziante. Con Checco ZaloneEleonora GiovanardiSonia BergamascoMaurizio MicheliLudovica Modugno Italia 2016

Checco (Zalone) è in Africa e viene catturato da un ferocissima tribù, che è pronta a gettarlo nel fuoco, a meno che la storia della sua vita non li convinca. Lui comincia raccontare: è cresciuto con il mito del posto fisso e da grande, grazie al senatore Binetto (Lino Banfi) si è sistemato nell’Ufficio Caccia e Pesca della Provincia della sua città pugliese: stipendio sicuro, pochissimo lavoro e tanti regali in natura dagli utenti ai quali rinnova la licenza. Questa sua situazione di privilegio gli assicura anche l’amore e l’incondizionata devozione dell’eterna fidanzata (Azzurra Martina) ma un brutto giorno le provincie vengono abolite e lui, unico dipendente sano e senza carichi famigliari deve andare al Ministero a Roma per essere ricollocato (questa nuova situazione d’ incertezza ha già convinto la fidanzata a lasciarlo immediatamente). Qui incontra la perfida dottoressa Sironi (Bergamasco), che, su mandato del Ministro Magno (Ninni Bruschette), convince tutti i malcapitati che si rivolgono a lei ad accettare una piccola somma ed a dimettersi. Checco però, indottrinato dal Senatore, rifiuta ogni cifra e viene sballottato nei posti più sperduti del Paese, sino a che la Sironi – alla quale il ministro fa un duro pressing – lo spedisce al Polo Nord, al servizio di un team di ricercatori, il cui capo (Paolo Pierobon) gli dice che il suo lavoro è quello di difendere la ricercatrice animalista Valeria (Giovanardi) dagli orsi bianchi; lui sta per cedere ma quando vede Valeria se ne innamora all’istante e la segue tra le nevi perenni con entusiasmo. Il suo caso diventa uno scoop da prima pagina: l’impiegato in esubero che, per effetto dei bonus per la scomodissima destinazione, guadagna quanto un dirigente. La Sironi arriva al Polo ma lui, piuttosto che dimettersi o tornare in Italia e lasciare Valeria, si mette in aspettativa. Va così a vivere con lei in Norvegia e scopre che ha tre figli da tre compagni diversi ma, dopo qualche resistenza iniziale, Checco si adatta perfettamente alla nuova situazione: fa i lavori casalinghi, non suona il clacson quando guida e si è fatto crescere un biondissimo pizzetto, sconvolgendo i genitori (Micheli e Modugno) che sono andati a trovarlo. Una sera però vede in televisione Al Bano e Romina che cantano di nuovo insieme e viene assalito da una violenta nostalgia. Torna in Italia e la Sironi lo spedisce in Sicilia a sequestrare gli animali selvatici dei mafiosi. Lui non si dà per vinto e, con Valeria che lo ha raggiunto, mette su uno zoo antimafia. I fondi, però, non arrivano e lei, stanca di vederlo acquiescente all’andazzo italiano, se ne va. Ora lei è in Africa ed aspetta un figlio da lui, che, convinta la tribù, la raggiunge in tempo per veder nascere la sua bambina. Arriva anche la Sironi ma, stavolta, lui accetta l’assegno e con quello compra le medicine per l’ospedale di volontari dove la moglie ha partorito. Il suo caso ridiventa uno scoop e lui può tornare al vecchio lavoro, non più provinciale ma di Area Metropolitana, la sostanza peraltro è identica: poco lavoro, stipendio sicuro e tanti piccoli benefit.

Per una volta permettetemi un piccolo vanto, quello di aver capito Zalone prima dei tanti che oggi, alla luce dei ripetuti record storici di incassi, lo esaltano dopo averlo trattato con sufficienza o peggio – d’altronde era successo anche con Totò: la critica di sinistra dopo aver definito con disprezzo i suoi capolavori delle “totoate”, all’annuncio che sarebbe stato protagonista di Uccellacci e uccellini di Pasolini (e sia chiaro, con tutta la stima per P.P.P., che era lui, con il suo genio, ad onorare il regista–poeta e non viceversa) si precipitò a tessere gli elogi al suo film in uscita in quei giorni; peccato che si trattasse di Che fine ha fatto Totò baby?, uno dei suoi meno riusciti!. Anche Quo vado? sta dando segnali di incassi mirabolanti e meritatissimi, lui si conferma la maschera più completa del panorama italiano: un meraviglioso campione del nostro “familismo amorale”, come lo furono ai tempi Totò e Sordi. Non ci risparmia, grazie a Dio, nessun luogo comune :i pubblici impiegati fannulloni e scorretti, i neri africani quasi cannibali e i norvegesi dediti al suicidio ma – anche se sappiamo che nelle sue creazioni c’è sempre una doppia lettura; l’adesione al personaggio è sempre accompagnata da una matura consapevolezza- stavolta appaiono pericolosi segnali di politically correct: la canzoncina, sulla falsariga de L’albero di trenta piani di Celentano, sulla Prima Repubblica, il sottofinale che vira sul buonismo terzomondista. Niente di che ma è un attimo che si diventa, Dio non voglia, Pif o Celestini!




Irrational Man

di Woody Allen. Con Jamie BlackleyJoaquin PhoenixParker PoseyEmma StoneMeredith Hagner USA 2015

Abe Lucas (Phoenix) è un brillante professore di filosofia ma attraversa un periodo di crisi e si è trasferito in una università di provincia. La sua storia di ex-contestatore anarchico, la sua aurea di maudit dedito ad alcool e droghe e le voci di una sua intensa carriera di libertino gli attirano l’interesse della docente di chimica Rita Richards (Posey) in piena crisi matrimoniale e di Jill Pollard (Stone), la migliore allieva del suo corso. Con quest’ultima comincia una frequentazione costante, nella quale lui respinge le sue continue, esplicite avances, mentre Rita si presenta a casa sua con una bottiglia di whisky e se lo porta a letto ma la depressione da più di un anno lo ha anche reso impotente. Il fidanzato di Jill, Roy (Blackley), è ingelosito dal suo interesse per il professore e si irrita particolarmente quando lei lo invita ad andare con loro al party della loro amica April (Sophie Von Haselberg); qui Abe, discretamente ubriaco, prende la pistola del padre di April e si esibisce in una roulette russa spaventando tutti. La mattina dopo, Jill va con lui a far colazione e mentre parlano dell’accaduto, sentono casualmente dal tavolo vicino, un donna – Carol (Susan Pourfar)- confidare in lacrime ad alcuni amici la propria disperazione perché il corrotto giudice Spangler (Tom Kemp),cui è affidata la sua causa di divorzio, si appresta ad affidare a figli all’anaffettivo ex-marito. Jill ed Abe commentano indignati l’accaduto e si dicono che sarebbe bello se il giudice scomparisse prima della sentenza. Chiacchere da bar ma lui, sulla falsariga di Delitto e castigo, decide di agire e il progetto ha su di lui una presa prodigiosa: smette di bere, mangia con appetito e riesce a far l’amore con Rita. Eccolo seguire il giudice, studiarne le abitudini e, dopo aver sottratto le chiavi del laboratorio a Rita, procurarsi una dose letale di veleno (ad April che lo sorprende lì dice di stare facendo ricerche per un libro) e versarlo nell’aranciata che ogni sabato il giudice beve dopo lo jogging. La sera dopo invita Jill a cena e, stavolta, dopo una breve resistenza ci va a letto. Roy la lascia e Rita, che sta per abbqandonaree il marito e vorrebbe portare Abe con lei in Spagna, ne è gelosa. Un giorno un’amica di Jill, Ellie (Kate McGonigle), le rivela casualmente che Rita pensa che sia stato lui ad uccidere il giudice e la stessa Rita – che si è insospettita delle perdita delle chiavi del laboratorio – le conferma la propria ipotesi, anche se lei è la prima a non darvi gran peso. Quando lei ne parla ad Abe, lui sembra divertito e le fornisce un alibi per la mattina dell’omicidio ma poco dopo April le dice di averlo visto in laboratorio e lei lo affronta di nuovo, costringendolo a confessare. Lui la butta in filosofia ma lei è travolta dall’indignazione e, pur decidendo di non denunciarlo, tronca immediatamente con lui e torna dal comprensivo Roy. Abe dice a Rita di essere pronto a partire con lei e lei lascia il marito. Di lì a poco, le indagini hanno una svolta e viene arrestato un sospettato; Jill dà ad Abe un ultimatum: se non si costituirà entro il lunedì successivo, scagionando un innocente, sarà lei a rivelare il suo delitto alla polizia. Abe accetta ma il lunedì, giorno della lezione di piano di Jill, la raggiunge e, dopo aver manomesso l’ascensore, tenta di buttarla nel vuoto ma…

Allen, come è noto, da tempo ha deciso, per ragioni prevalentemente alimentari, di fare un film all’anno e, come è inevitabile, non tutti sono dei capolavori e lui è il primo ad esserne consapevole, tanto che, per compiacere i critici europei che lo amano quasi incondizionatamente, rimedia con citazioni cinefile. Qui si va da Persona di Bergman, a La signora di Shangai di Welles , a L’incidente di Losey fino a Il vedovo di Dino Risi ma soprattutto a Nodo alla gola e Delitto per delitto di Hitchcock ( negli ultimi tempi, vedi Sogni e delitti e Match Point, molto presente nel suo cinema). Un altro elemento che caratterizza alcuni suoi film meno riusciti è una tendenza a infarcirli di citazioni dotte; qui la fa da padrone l’esistenzialismo e via con Sartre, Kierkegaard e Heidegger. Intendiamoci, Allen non è un comico travolto e snaturato dalla paternalistica compiacenza degli intellettuali – come Chaplin con l’intellighenzia di sinistra, Keaton con Beckett, Totò con Pasolini o, in piccola parte, Groucho Marx con Thomas Eliot – spesso essendo loro, i comici, di spessore ben più alto di chi se ne appropriava. Lui è colto ed intellettuale di suo – è una chiave fondamentale del suo successo – solo che talvolta ce lo fa sapere un po’ troppo. Da citare, tra le musiche, The “In” crowd del mitico Ramsey Lewis Trio.




Vacanze ai Caraibi

di Neri Parenti. Con Christian De SicaMassimo GhiniAngela FinocchiaroLuca ArgenteroIlaria Spada Italia 2015

Giorgio Grossi Tubi (De Sica) ha sposato la ricchissima Gianna (Finocchiaro) ma ha perso tutto, è pieno di debiti e non sa come dirlo alla moglie; la sua unica speranza e di vendere la loro splendida villa ai Caraibi, dove vive la loro insopportabile figlia Anna (Maria Luisa De Crescenzo), maniacalmente ittiologa. Qui scoprono che la ragazza si è fidanzata con il maturo Ottavio Vianale (Ghini), anche lui spiantato ma che, indesiderato ospite nella lussuosa villona di un amico, si finge ricchissimo. Gianna chiede al marito di dissuaderlo ma lui, cadendo nell’equivoco, lo incoraggia con entusiasmo. Mentre discutono dei particolari del fastoso matrimonio (ciascuno contando sulle ricchezze dell’altro), due malavitosi che li hanno sentiti li rapiscono e Gianna deve vendere la villa per pagare il riscatt; tutto sembra perduto ma Anna ha venduto il brevetto di una sua invenzione basata sull’energia dei pesci-palla e il matrimonio e un altro rapimento –stavolta finto – salveranno la situazione. A Santo Domingo è diretta anche la nave da crociera nella quale viaggiano l’intellettuale Fausto (Argentero) e la coatta Claudia (Spada) coi rispettivi compagni; i due sono vicini di cabina e, dalla parete, litigano in continuazione ma quando si incontrano in ascensore hanno un violento impulso e fanno lì stesso l’amore. Scappano dai partner e avviano una relazione tutta sesso, pur non sopportandosi a vicenda, sino che lui, esasperato, non si fa dare da una maga vodoo una bambolina che gli inibisca l’eccitazione ma, quando una scimmietta gliela ruba, la foga è tale che finiscono in un dirupo. Un anno dopo sono guariti dalle fratture e, grazie alla psicoanalisi, dalla reciproca dipendenza sessuale ma un incontro casuale… Nella Repubblica Domenicana è arrivato anche l’ipertecnologico Adriano Fiore, che vive solo attraverso smartphone e pc. Conosce, grazie ad un app una ragazza, ci passeggia – conversando però solo via tweet – e la sera la convince a fare sesso virtuale (il solo che entrambi conoscono) ma ha una defaillance perché gli si scarica la batteria. Il giorno successivo, mentre sperimenta una applicazione che fa fare windsurf nautico, finisce su di un isola deserta e, quando con gli ultimi sprazzi del cellulare riesce a contattare una nave, perde la comunicazione per seguire gli aggiornamenti di facebook e linkedin.

La commedia natalizia italiana (varie trame comiche che si intrecciano durante le vacanze natalizie) è cominciata con l’ottimo Vacanze di Natale dei Vanzina del 1983 ma ha dei notevoli precedenti : Vacanze d’inverno di Camillo Mastrocinque del 1959, i filmetti estivi diretti da Marino Girolami (Le tardone, La donna degli altri è sempre più bella) e i film ad episodi – spesso firmati da registi importanti come Risi, Monicelli, Petri, Ferreri – degli anni ’60 (I complessi, I nostri mariti, Vedo nudo) e, non ultime, le commedia scollacciate di Luciano Martino. Come è noto, l’artefice principale del decennale successo del format è Aurelio De Laurentiis, che però, da qualche tempo, ne ha modificato la formula , in parte perché gli incassi non consentivano più gli sfarzi di cast e di location che lo caretterizzavano, in parte per lasciare le redini al figlio Luigi che, con Greg e Lillo diretti dal giovane De Biase, ha operato un ringiovanimento della formula e, infine, perché la passione per la squadra del Napoli, della quale è onnipresente Presidente, lo assorbe quasi completamente. Natale col boss è l’ultimo stadio di questo rinnovamento: il Natale è solo un pallido pretesto e i vari protagonisti sono tutti inseriti in un solo plot; gli stessi precedenti del film vanno cercati altrove: nei film con cantanti che, intrepretando più o meno se stessi, fanno parte del racconto (Little Tony in Un gangster venuto da Brooklyn, Fred Buscaglione in Noi duri, lo stesso Di Capri con Maurizio, Peppino e le indossatrici). Anche il cast di contorno, frutto della “napoletanità” di De Laurentiis, è qui più riflessivo: ai comici di Made in sud, sono sostituti caratteristi di maggior spessore non solo comico (Pennarella, Imparato, Di Leva); unica concessione ai vecchi stilemi il cameo della Clerici, come già in passato Laurenti o Giletti. Parenti, regista della maggior parte dei film natalizi di Aurelio, ha invece fatto il percorso inverso: ha chiamato De Sica e Ghini e, mettendo loro a fianco attori brillanti di tutto rispetto, ha ricostruito i fasti del genere, aiutato anche dall’apporto alla sceneggiatura di Brizzi e Martani (qui anche co-produttori), che prima delle Notti degli esami e dei Maschi conto femmine, si sono fatti le ossa proprio con i film di Natale. Gli incassi li vedono sostanzialmente appaiati (entrambi, peraltro, soffrono la invincibile concorrenza della corazzata Star wars) ma, bando alla altezzosa pruderie dei nostri intellettuali di complemento, andarli a vedere è come mangiare una delle leccornie industriali natalizie: non sono il massimo dell’educazione alimentare ma fanno festa. Peggio per voi se siete vegani e schizzinosi.

Da consumatore , un po’ compulsivo, di cinema credo di potermi riconoscere in altri consumi: quelli di massa nei periodi festivi. E’ certamente giusto riconoscere e segnalare la qualità e la genuinità di ciò di cui fruiamo ma, se Dio vuole, c’è anche una salutare libertà nel tuffarsi nel panettone industriale ma con tanti canditi, nei tortellini pubblicizzati in televisione che sembrano fatti in casa e nel nocciolato venduto al doppio perché chiamato torrone. Vale anche per le commedie di Natale (non userò mai il termine sgradevolmente snobistico “cinepanettoni”): sono fatte in serie, cialtrone e piene di gag adolescenzialmente scatologiche ma fanno festività come un tempo gli zampognari (anche loro, talvolta, erano dei figuranti con un po’ di orecchio musicale). Non saranno il nutrimento ideale dell’anima ma riempiono la pancia e fanno allegria.