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In bici senza sella

di Francesco DafanoChiara De MarchisMatteo GiancasproCristian IezziGianluca MangiasciuttiGiovanni Battista OrigoSolange Tonnini. Con  Edoardo Pesce, Riccardo De Filippis, Alberto Di StasioMichele BevilacquaLuca Scapparone

Una speaker radiofonica (Azzurra Locchi) apre e chiude, con impietosa ironia, sei vicende di ordinario precariato:

Primo episodio: Santo Graal di Giovanni Battista Origo
Luciano (De Filippis) e Aurelio (Pesce), per sbarcare il lunario, fanno gli svuotacantine. Un giorno il nobile Partecipazi (Sergio Basile) dà loro un baule da portare via, dopo averli accolti con modi bruschi in una casa piena di suoi ritratti in fogge di varie epoche. Quando, nel bar di Bruno (Bruno Pavoncello), aprono il baule davanti al rigattiere Nando (Di Stasio) per vendergliene il contenuto, tra il ciarpame viene fuori una coppa di legno. Nando, intuendone il valore, chiama l’antiquario Dino (Stefano Corsi) che la riconosce come il Sacro Graal, la coppa dell’Ultima Cena che dà l’immortalità a chi vi beve dentro. Bruno porta del vino ma nessuno se la sente di provare: Dino è ebreo e con lui non funzionerebbe, Nando dovrebbe farla bere a tutti i suoi familiari, e Aurelio – interpretando anche il pensiero del suo socio, non intende passare l’eternità nella vana ricerca di un lavoro. Il pensionato Remo (Umberto Montorsi), però …

Secondo episodio: I Precari della Notte di Sole Tonnini e Gianluca Mangiasciutti
Cinque giovani, in jeans e gilet di pelle, Bellachioma (Bevilacqua), Lo Zoppo (Scapparone), Cucciolo (Alessandro Giuggioli), Pacco (Manfredi Saavedra) e Cesarino (Vittorio Giardina), i Precari, vanno con l’ultima corsa della metropolitana all’EUR per prenotarsi ad un bando dell’INPS ma sono in anticipo di un giorno e, tornando indietro, dovranno difendersi dalle temibili bande dei Cassintegrati e dei Lavoratori in Nero.

Terzo episodio: Curriculum vitae di Matteo Giancaspro
Francesco ha un curriculum invidiabile per gli studi e i master brillantemente superati ma non riesce a trovare lavoro. Non se ne capacita, nonostante la brutale chiarezza con la quale lo yuppissimo boss (Francesco Montanari) della Leader, avveniristica agenzia di lavoro, gli spiega che è proprio la sua competenza a spaventare i datori di lavoro. Quando l’ennesimo capo del personale (Lucio Patanè), letto il curriculum, lo caccia in malo modo, Francesco, disperato, sale al terrazzo e fa per buttarsi di sotto. La folla sottostante cerca di dissuaderlo e il pizzettaro Bruno fa una colletta e raccoglie ben 800 euro. Ma allora…!?

Quarto episodio: Crisalide di Cristian Iezzi e Chiara De Marchis
Laura (Emanuela Mascherini) è contenta: e stata assunta come pubblicitaria; il Direttore (Alberto Gimigniani) dell’agenzia le fa però firmare un foglio di dimissioni da far valere nel deprecabile caso di una maternità. Pazienza. Lei e il marito Marco (Remo Stella) festeggiano la provvidenziale assunzione; un po’ troppo, però: poco dopo lei si scopre incinta. L’unica soluzione è far finta di niente in ufficio, mangiare ostentatamente troppo per giustificare l’aumento di volume e di peso e, allo psicologo (Bruno Crucitti) dell’azienda giustificare gli sbalzi d’umore, inventando un adulterio del marito ma come si fa se, durante il parto, il capo ti chiama al telefono?

Quinto episodio: Il Parassita di Francesco Dafano
Un brillante creativo (Alessandro Giuggioli), inventa personaggi per una piccola società di merchandisng artigianale. La crisi e le malferme condizioni di salute, costringono il suo Capo (Ciro Scalera) a licenziarlo. Come se non bastasse, a casa trova un avviso di sfratto. Il nostro non si dà per vinto: va a casa del capo e, all’insaputa di questi, vive una vita speculare alla sua: mangia e dorme lì e, di giorno, quando l’anziano boss è via, gli corregge i progetti, creando un supereroe di grande successo. Se poi la malattia del Capo farà il suo corso, il piano sarà perfetto, sinché…
Sesto episodio: Il Posto Fisso di Sole Tonnini
Pietro (Scapparone) e Paolo (Bevilacqua) sono disoccupati alla costante ricerca di un lavoro, all’osteria, dove stanno bevendo un bicchiere di vino, arriva loro, riservatissima. la notizia di un posto fisso; Paolo si lascia scappare qualcosa e tutti gli avventori offrono loro dei soldi – la locandiera (Francesca Fago), se stessa – in cambio di quell’opportunità. Loro resistono e, lungo la strada, ammazzano con una fiondata il concorrente Corradini (Marco Bernardi), eludono il Bagarino (Simone Spinazzè) che offre biglietti per colloqui, legati a lavori improbabili e quasi si scontrano con Wonder Woman (Francesca Pisanello) che corre anche lei per arraffare un impiego. Arrivano a destinazione e dopo aver giurato eterna fedeltà all’Uomo del Colloquio (Edoardo Sala)…

In bici senza sella è un piccolo miracolo: un gruppo di giovani attori, sceneggiatori e registi, capitanato dal geniale e caparbio Alessandro Giuggioli ha deciso di fare un film che raccontasse in modo divertente la propria (ed universale) condizione di precariato. Nel loro cammino hanno incontrato, non a caso, la Tandem di Enzo Giulioli, storico produttore che 38 anni fa produsse il primo film di Nanni Moretti, Ecce Bombo. Parecchie porte si sono loro chiuse in faccia ma non si sono arresi e, con il sistema di crowdfunding – una raccolta di fondi porta a porta, molto diffusa tra le produzioni indipendenti americane e nordeuropee– hanno trovato i soldi necessari per completare il film. Alcuni noti attori (Montanari, De Filippis, Pesce, Di Stasio, tra gli altri) hanno partecipato all’operazione accontentandosi della paga sindacale, contribuendo non poco a dare all’operazione un taglio di commedia all’italiana moderna. Di questo, infatti, si tratta: di una riproposta intelligente e attualissima degli stilemi del nostro genere più blasonato. Come nella migliore tradizione, il film presenta vari piani di lettura: si ride di gag esilaranti, si medita sullo sperpero delle ultime generazioni, si gode di citazioni colte (I guerrieri della notte, Indiana Jones, Brecht, Beckett, addirittura Sergio Tofano e il suo Bonaventura, nel personaggio del nobile Partecipazi). Il film è già cult: Colin Firth, Stanley Tucci e Rupert Everett, ai quali il bulldozer Giuggioli l’ha fatto vedere, hanno rilasciato giudizi entusiastici (Firth lo ha addirittura accompagnato in una proiezione all’Università La Sapienza). Solo dei giovani potevano scherzare con efficacia sulla precarizzazione della loro generazione e loro ci sono riusciti benissimo.

 




Doctor Strange

di Scott Derrickson. Con Benedict CumberbatchChiwetel EjioforMad MikkelsenRachel McAdamsTilda Swinton  USA 2016

A Katmandu lo stregone Kaecilius (Mikkelsen) e i suoi zeloti assalgono il tempio Kamar-Taj, uccidono il bibliotecario (Ezra Khan), custode di libri antichi e misteriosi e rubano un trattato di Nostradamus, che solo al potente Antico (Swinton) era consentito consultare. Questi sopraggiunge e riesce a riprendere il libro ma alcune pagine restano nelle mani di Kaecilius. Intanto in America, Steven Strange (Cumberbatch), un grandissimo ed egocentrico neurochirurgo, passa di successo in successo, umiliando il suo collega, dottor West (Michael Stuhlbarg) e alienandosi l’amore della dottoressa Christine Palmer (McAdams). In un incidente automobilistico, però, perde parzialmente l’uso delle sue preziose mani. Per mesi, impoverendosi, cerca una cura che gli ridia la possibiltà di riprendere a operare, finché non conosce Jonathan Pangborn (Bernjamin Bratt), un paraplegico che può camminare e fare sport, che gli rivela l’esistenza di Kamar-Taj. Strange va a Katmandu ma nessuno sembra conoscere il tempio; un giorno, però, uno sconosciuto lo salva da una rapina: è Mordo (Ejofor), che lo porta dal suo maestro, l’Antico. Lui è inizialmente scettico e sprezzante e lo stregone lo butta fuori ma, dopo le sue suppliche, lo ammette tra gli allievi, rivelandogli l’esistenza di un Mulitiuniverso, abitato anche da forze terribilmente malvagie e insegnandogli la capacità di trarre da se stesso poteri magici. Strange, nonostante le prime difficoltà, si rivela dotatissimo – l’Antico lo aveva capito e spiega al dubbioso Mordo che il dottore potrebbe rivelarsi decisivo nel combattere Kaecilius, ex-allievo ora passato al servizio del Padrone della Dimensione Oscura dove il tempo non esiste, Dormammu (Cumberbatch) – e, spesso, deve vedersela con Wong (Benedict Wong), il nuovo bibliotecario, perché cerca di studiare anche libri non consentiti. Strange apprende che il loro compito è quello di proteggere la Terra, attraverso tre santuari, siti a New York, Londra e Hong Kong. Un giorno, approfittando dell’assenza di Wong, Sttrange s’impadronisce dell’Occhio di Agamotto, un gioiello magico che porta chi lo indossa fuori dalla dimensione temporale e Mordo e il bibliotecario lo mettono in guardia sulle conseguenze dell’andare contro le leggi della natura. Di lì a poco, Kaecilius, il suo fortissimo braccio destro Lucian (Scott Adkins) e i suoi zeloti (Zara Phythian, Alaa, Safi e Katrina Durdan) attaccano e distruggono il santuario di Londra, mentre Strange, che mal governa l’Occhio si ritrova catapultato nel santuario di New York; Strange , dopo aver indossato il Mantello della Levitazione (una cappa che consente di volare e che agisce interpretando il pensiero dello stregone che lei stessa ha prescelto), li raggiunge e li affronta ma viene ferito mortalmente, riesce a trasportarsi nel suo vecchio ospedale e a farsi operare da Christine, mentre il suo corpo mistico combatte con Lucian, uccidendolo. Dopo aver rivelato all’esterrefatta dottoressa la sua nuova realtà, torna da Kaecilius e questi, mentre combattono, gli rivela che l’Antico mantiene l’immortalità prendendo potere dalla Dimensione Oscura. Sopraggiungono l’Antico e Mordo, nello scontro muoiono i tre zeloti e Kaecilius ferisce mortalmente l’Antico (che, morente, affida a Strange il compito di salvare il mondo) e va a distruggere il tempio di Hong Kong – difeso invano da Wong – consentendo l’accesso alla Dimensione Oscura, che inizia a distruggere la Terra. Strange, sopraggiunto con Mordo, utilizza l’Occhio di Agamotto per creare un paradosso temporale in cui intrappola Dormammu, costretto a cercare in eterno di ucciderlo, ogni volta riuscendoci e ogni volta ritrovandoselo davanti. Il Signore della Dimensione Oscura è costretto a lasciare la Terra, portando con sé Kaecilius. Strange, fa tornare il tempo al momento precedente l’attacco per cui il tempio e Wong sono ancora in piedi. Mordo, però, deluso dalle rivelazioni sull’Antico, va via. Strange diventa il nuovo guardiano del santuario di New York e, nei titoli di coda, lo vediamo a confronto con Thor (Chris Emsworth), in procinto a unirsi agli Avengers.

Un nuovo supereroe Marvel si unisce alla schiera e, ufficialmente, è alla sua prima apparizione cinematografica; in realtà nel 1992, il geniale produttore e regista, di origini italiane, Charles Band animatore di b-movies horror di culto (quali Puppet master e Il ritorno dei giocattoli assassini), aveva prodotto e diretto, con il padre Albert nel ’92 Invasori dalla IV dimensione, con il Dottor Strange come protagonista ma, a metà lavorazione – nella migliore tradizione dei cinematografari approssimativi – aveva perso i diritti sul personaggio, per cui aveva dovuto riscrivere la storia e cambiare il character, chiamandolo Dottor Mordrid. A differenza dei suoi eroici colleghi, Strange non è così immediatamente noto ed amato dal pubblico (in Italia, ad esempio, gli albi a lui dedicati non hanno avuto gran seguito) e le sue avventure sono meno attraversate dagli epici scontri, che sono il segreto del successo di Spiderman, Hulk, Thor e gli altri. Non a caso a dirigere il film è stato chiamato uno specialista del fantastico come Derrickson (The exorcism of Emily Rose, Hellraiser V – Inferno, Liberaci dal male), che ha scelto una dimensione di racconto più propriamente fumettistica, appoggiandosi molto sulla grafica di Steve Dikto – il creatore e disegnatore del personaggio – e, per alcuni effetti, sullo splendido Inception di Christopher Nolan. Lo stesso, stralunato Cumberbatch è distante dagli altri ironici e muscolari Avengers. Il risultato è divertente ma non facilmente digeribile, un po’ anche per l’inevitabile verbosità dell’introduzione alla mistica del personaggio e delle sue avventure.




Io, Daniel Blake (I, Daniel Blake)

di Ken Loach. Con Dave JohnsHayley SquiresDylan McKiernanBriana ShannKate Runner

Daniel Blake (Johns) è un falegname di Newcastle e, dopo una vita di lavoro, è costretto all’inazione da un infarto. Ha un colloquio con una non meglio identificata “operatrice della sanità” (noi lo sentiamo solo dallo schermo nero) che dovrebbe assicurargli l’assegno d’invalidà ma le domande sono stereotipate e assurde e lui reagisce con malgarbo. Il sussidio, nonostante il parere dei medici, gli viene negato ma, fino a che alla lettera che glielo comunica non si aggiunga anche una telefonata ufficiale, lui non può presentare un ricorso (né può accelerare  i tempi chiamando direttamente perché il suo contatto è un call-center). All’Ufficio del Lavoro, l’Assessore (Natalie Ann Jamieson) gli consegna un modulo che dovrà riempire on line per chiedere il sussidio di disoccupazione ma, siccome per ottenerlo dovrà dimostrare di cercare un lavoro (non importa che sia inabile: il respingimento della istanza attesta il contrario), gli impone anche di frequentare un ridicolo corso – gestito da un caricaturale manager (John Summer) – sulla compilazione del curriculum. Nello stesso ufficio aveva incontrato Katie (Squires), una giovane operaia disoccupata che era appena arrivata da Londra con due figli, Dylan (McKiernan) e Daisy (Shann), alla quale era stato negato il colloquio per un lieve ritardo. Lui l’aveva difesa e poi la aveva accompagnata nella sua nuova malandata casa e si era offerto di farle i lavori necessari a renderla vivibile. Dylan e Katie diventano amici e i bambini gli si affezionano. Lui non sa usare il computer ma con l’aiuto del suo giovane vicino di casa China (Kema Sikaszwe) – un ragazzo di colore intraprendente che vende sottocosto scarpe di marca importate dalla Cina – riesce a compilare il modulo richiesto e comincia a girare per le aziende per lasciare il curriculum (salvo dover rifiutare per ragioni di salute quando il lavoro gli viene offerto davvero). L’assessore però gli contesta la pratica perché sprovvista della regolare documentazione e un’impiegata gentile, Ann (Runner), lo aiuta con il computer ma, per questo, viene severamente redarguita. Katie, a sua volta, gira per tutta Newcastle cercando un lavoro di addetta alle pulizie ma non trova niente e, così, lascia ai figli quel poco di cibo che riesce a comprare. Daniel accompagna lei e i bambini  ad un  Banco Alimentare –  associazione benefica che dà cibo a chi ne ha bisogno – e Katie, presa dai morsi della fame, apre un barattolo di pomodori e li mangia avidamente, scoppiando poi in lacrime per la vergogna. Dave vende i mobili della sua casa (li aveva fatti lui per sé e per l’adorata moglie, ora scomparsa per una grave malattia, con grande amore) e le dà un po’ di soldi. Lei va al supermercato ma non resiste alla tentazione di rubare qualcosina (assorbenti, penne per i bambini) e l’addetto alla sorveglianza, Ivan (Micky McGregor) la coglie in fallo e la porta in direzione; lei se la cava con una ramanzina e all’uscita Ivan le dà il proprio biglietto da vista, dicendole che può aiutarla. Una notte Daisy va nel suo letto e le dice che a scuola la prendono in giro perché ha le scarpe rotte; lei allora prende il coraggio e telefona. In un bar lui la presenta a Madam (Julie Nicholson), che la ingaggia nella sua casa d’appuntamenti. Dave intuisce qualcosa, la segue e va da lei, presentandosi alla porta come un cliente; lei lo scaccia e gli dice che non vuole più vederlo. Poco dopo, alle ennesime assurde richieste dell’Assessore, lui rifiuta di proseguire con quella farsa e, con un pennello, scrive la sua storia sul muro del Collocamento. Diffidato, si chiude in casa e rifiuta ogni contatto ma un giorno Daisy, insistendo, si fa aprire e lo porta da Katie. Lei lo aiuta a trovare un avvocato per il ricorso, lo accompagna al colloquio ma, per le troppe emozioni accumulate, il suo cuore non regge.

L’ottantenne Loach aveva dichiarato che Jimmy’s Hall del 2014 sarebbe stato il suo ultimo film ma la storia scritta dal suo sceneggiatore Paul Laverty lo ha convinto a ripensarci. Ed è un bene perché Io, Daniel Blake è un bel film e, giustamente, all’ultimo Festival di Cannes ha avuto il Premio quale Miglior Film. La filmografia di Loach è ricca di opere importanti, tutte, come è noto, improntate ad una grande passione politica (lui ama definirsi trozkysta); il suo cinema è, però, grande perché attraversato spesso da una robusta e delicata, a un tempo, poesia. Le sue cose migliori sono sempre un ritratto dolente e condiviso della classe operaia, senza paura di lasciarsi andare a toni melò, che in questo film sono assai vistosi ma ricchi di pathos. Semmai la sua vena s’inaridisce un po’ quando (come in Terra e libertà, L’altra verità o la parte nicaraguense de La canzone di Carla), facendosi didascalic, fronteggia direttamente la Storia. Io, Daniel Blake è invece dalla parte dei suoi titoli migliori e Daniel se la vede con i meravigliosi proletari perdenti di Piovono pietre, Ladybird,Ladybird, Paul, Mick e gli altri e dello splendido documentario, Spirit of ’45, sulle prime elezioni vinte nel dopoguerra dal partito laburista. Il cast è perfetto e il protagonista è uno stand-up comedian, per la prima volta – efficacissimo – in un ruolo drammatico.




Caffè

di Cristiano Bortone. Con Ennio FantastichiniDario AitaMiriam DalmazioMichael SchermiHichem Yacoubi   Cina, Belgio, Italia 2016

Episodio belga: l’ex-profugo iracheno Hamed (Yacoubi) ha un piccolo banco di pegni che gestisce con grande generosità verso chi ha bisogno di piccole somme per tirare aventi, offrendo loro anche un caffè con una preziosa caffettiera, antico lascito della sua famiglia. Una sera, durante una manifestazione di protesta, un paio di teppisti mascherati fanno irruzione nel suo negozio rubando anche la caffettiera. Uno dei due ha però lasciato cadere il portafogli con i documenti e Hamed – che ha capito che la polizia non farà niente per aiutarlo – va a casa del ragazzo: si chiama Vincent (Arne De Tremerie), vive con la nonna malata ed è costantemente in lite con la sua ex-ragazza, con la quale ha fatto un figlio del quale lui si disinteressa. Hamed entra in casa di nascosto e trova la caffettiera ma il balordo lo sorprende, lui lo colpisce alla gamba con una mazza da baseball ma la nonna lo tramortisce con una bottiglia ed aiuta il nipote a legarlo ed imbavagliarlo. Il complice del furto, Danny (Tim Taveirne), accompagna Vincent all’ospedale e Hamed, mentre la nonna è distratta dalla televisione, prova a liberarsi ma i ragazzi tornano e, nella colluttazione seguente, Danny lo accoltella. Ora lui è ferito e la situazione si è fatta ancora più grave. Arriva il padre (Koen De Bouw), che decide di caricare il ferito in macchina, di portarlo in un luogo deserto e di ucciderlo. Nel viaggio, però, l’auto ha un brutto incidente. Danny e il padre di Vincent muoiono mentre Hamed riesce a trascinarsi fuori e fa per andarsene, quando sente le suppliche di aiuto di Vincent. Lo tira fuori e lo lascia a suo destino, portando con se la caffettiera.

Episodio cinese: Fei (Xiaodong Guo) è un giovane manager di Pechino in ascesa, è fidanzato con la figlia (Sarah Yimo Li) del padrone ed aspetta di essere mandato a dirigere la filiale europea dell’azienda ma, a sorpresa, viene spedito nella fabbrica dello Yunnan – sua terra di origine – dove un guasto sta fermando la produzione. Il capo-operaio (Tongsheng Han), gli spiega, disperato, che le apparecchiature sono vecchie e c’è il costante rischio che una fuoriuscita delle scorie allaghi tutta la valle, seminando la morte. Lui chiama il suocero ma questi non intende ragione: dovranno essere fatti solo piccoli lavori di rappezzamento. Fei non può disobbedirgli ma una mattina investe con l’auto una ragazza, A Fang (Zhuo Tan), lei non si è fatta nulla ma la bici è rotta e lui la accompagna a casa. Lei è una pittrice e, per dipingere, usa lo speciale caffè della valle; gliene fa sorbire una tazza e la mente del manager ritorna alla propria infanzia di figlio di un contadino, che coltivava quel caffè e si era disperato quando il figlio era andato cercare fortuna in città. Lui torna in fabbrica e decide  di disobbedire al suocero e di avviare i lavori necessari per la messa in  sicurezza degli impianti.  Ha perso così il lavoro e la fidanzata e quando va a cercare A Fang, scopre che è morta di leucemia (aveva scelto di dedicare gli ultimi momenti della propria alla salvaguardia della valle). Lui rimane lì e proseguirà l’opera della ragazza e del padre.

Episodio Italiano: Renzo (Aita) è un giovane conoscitore ed appassionato di caffè ma ha appena perso il lavoro e lo stesso è successo alla sua ragazza Gaia (Dalmazio). Decidono così di andare a Trieste: lì la lavorazione e la vendita del caffè è molto avanzata e lì abita un suo caro amico, Stefano (Michael Schermi), che li può ospitare in un appartamentino in attesa di demolizione. In una cena di amici di Stefano Renzo conosce Enrico (Ennio Fantaschini), un operaio ex-sessantottino, che cerca di smontare tutti suoi entusiasmi. In effetti, la crisi è forte e lui trova solo lavoretti saltuari come facchino e Gaia, che ha scoperto di essere incinta, pensa di abortire. Qualche sera dopo, durante un’altra cena, lui racconta di aver scaricato 8 casse di preziosissimo e costosissimo caffè cinese, ricavato dalle feci dello zibetto. Enrico propone di rubarlo, così si sistemeranno un po’; Renzo, che ha perso ogni speranza, accetta (in fondo si tratta solo di portarlo via dal deposito e lui ha visto la combinazione che apre la porta del magazzino). Anche gli altri si aggregano e il ragazzo va avanti, nonostante le paure di Gaia che ha saputo tutto. Tutto, però, va male: Enrico si è portato una pistola La così riprendere le speranze con Gaia e il bambino, che alla fine lei ha deciso di far nascere.

Cristiano Bortone è una figura anomala nel nostro cinema: regista e produttore, ha capito subito che il nostro cinema non può rimanere confinato nei confini del paese. Si è trasferito in Germania, ha sempre una grande attenzione alle coproduzioni (di recente, insieme ai fratelli Dardenne ha prodotto Marina, primo incasso in Belgio per molte settimane) e, da un paio d’anni ha deciso di investire in Cina una parte importante della propria attività, facendosi promotore dei rapporti tra produttori europei e cinesi. Caffè è il primo frutto di questo lavoro e, dopo la presentazione all’ultima Biennale di Venezia, è arrivato in sala. Quello che soprattutto colpisce del film è che, nonostante le inevitabili difficoltà produttive di un progetto così ambizioso, Bortone fa trasparire da molte sequenze una poeticità rara (che già si era vista nel suo film più personale: Rosso come il cielo).  La valle dello Yunnan accarezzata dal vento, le desolate conversazioni tra Renzo ed Enrico davanti ad una birra ed un kebab – ad esempio – sono sprazzi di vita dolente raccontati con grande efficacia. Una segnalazione merita la splendida fotografia di Vladan Radovic, ormai uno dei migliori nel suo campo. Vale proprio la pena di vedere il film, uno dei rarissimi casi di opera italiana sgravata da ogni provincialismo (non solo perché si dipana in vari paesi ma per forza intellettuale intrinseca) e di ampio, liberatorio respiro.




Indivisibili

di Edoardo De Angelis. Con Marianna FontanaAngela FontanaAntonia TruppoMassimiliano RossiToni Laudadio  Italia 2016

A Castel Volturno Viola (Marianna Fontana) e Dasy (Angela Fontana), due sorelle siamesi di diciotto anni attaccate l’una all’altra al fianco, mantengono la famiglia – il padre Peppe (Rossi), la madre Titti (Truppo) e gli zii Nunzio (Laudadio) e Nando (Marco Maria De Notaris) – cantando canzoni neomelodiche ai matrimoni e alle cerimonie; Dasy vorrebbe cantare le canzoni di Janis Joplin ma il padre non glielo lascia fare: sa cosa la gente si aspetta da loro. Un giorno, dopo essersi esibite al pranzo di comunione per la figlia del boss Salvo Coriace (Antonio Pennarella), vengono contattate dal manager Marco Ferreri (Gaetano Bruno), che dice di aver lanciato Anna Tatangelo e fa loro intravvedere un futuro di successi e ricchezza e Dasy – Viola è più scettica – prende il suo biglietto da visita. Poco dopo tutta la famiglia va da don Salvatore (Gianfranco Gallo), il parroco della loro chiesa, che usa la loro menomazione per farle apparire come creature miracolose toccate dalla grazia, per prendere accordi per la loro esibizione alla prossima processione. All’incontro assiste Alfonso Fasano (Peppe Servillo), un medico che chiede ai genitori di portare da lui le ragazze: è quasi certo che possano essere divise senza rischi. Il padre lo tratta male e, a casa, cerca di convincerle che il dottore è un imbroglione e che vuole sfruttarle. L’indomani, però, mentre sono sotto il balcone di una ragazza alla quale devono fare la serenata, Dasy non apre bocca finche non strappa la promessa che saranno portate all’ambulatorio di Fasano. Questi, dopo averle visitate, conferma la diagnosi e si offre di fare gratis l’intervento in Svizzera; serviranno però 30.000 euro per le spese della clinica. A casa, le sorelle – Viola non è convintissima di volere un cambiamento ma va appresso alla risoluta Dasy – chiedono al padre la loro parte dei guadagni per potersi operare ma scoprono che lui si è giocato tutto. Peppe le aggredisce e insulta la moglie, che le aveva difese, trattandola da drogata e da puttana. All’alba le ragazze rubano il motorino del padre e vanno da Don Alfonso a chiedere un prestito ma lui le caccia via insultandole e loro, disperate chiamano Ferreri che dà loro un appuntamento sul suo yacht. Alla foce del fiume le aspetta il motoscafo, loro ci salgono e, poco dopo, arrivano Peppe e Titti, che dopo che lui, furibondo, aveva ripreso ad insultarla, se ne va per sempre. Sulla barca, le ragazze si trovano in una specie di festa lasciva e, quando chiedono i 30.000 euro a Marco, come anticipo di ingaggio, lui accetta e le indirizza alla sua cabina; qui tira fuori i soldi da una cassaforte e comincia a toccare e baciare Dasy; Viola lo interrompe chiedendogli insistentemente un tè alla pesca e quando lui, esasperato, va a cercarglielo, le due sorelle mettono i soldi in uno zainetto e si buttano a mare, cercando di nuotare fino alla riva. Stanno per annegare e alcuni pescatori le salvano e le consegnano al padre, che le porta da Don Salvatore. Questi grida che sono impure e che solo un segno evidente di martirio potrà salvarle. A casa, Peppe da’ loro un calmante e con il coltello traccia due stimmate sulle loro mani. Eccole ora cantare tra due ali di folla che le prega e le tocca, finché Dasy, abbraccia la gemella e si pugnala al petto. Viola si sveglia in ospedale con i segni evidenti dell’avvenuta operazione di distacco e, ancora malferma per l’intervento, cerca la sorella; la trova in un altro letto, si accuccia accanto a lei e le canta Mercedes Benz della Joplin.

De Angelis è al suo terzo film e, dopo il vivace ma confuso Mozzarella story e lo stanco Perez, ci spiazza con un piccolo gioiello dal sorprendente cast: le gemelle Fontana, alla primissima esperienza, sono espressive e spontanee e tutti sono perfettamente in parte, a partire da Massimiliano Rossi (il tormentone “Come on baby, light my fire” con il quale sollecita le ragazze è porto in modo da darci tutta la sua miserabilità di pappone, con velleità hippy) fino a Gallo, che trova un cattivo diverso da quelli che aveva sin qui incarnato (da Fortapàsc a Take five) e gli da un bello spessore. L’uso del neomelodico non è certo una novità ma qui le canzoni – Drin drin e Indivisibili, scritte da Riccardo Ceres e Tutt’eguale so’ e’ guagliune (nella finzione, esempio della vena poetica di cui si vanta Peppe) di Enzo Avitabile – sono una traccia importante dell’anima del film. C’è poi la parte cinephile dell’autore ma le citazioni (il nome del manager che rimanda all’autore de La donna scimmia e quelli delle due sorelle, ripresi dalle siamesi di Freaks di Todd Browning: Violet e Daisy Hilton) non appesantiscono il racconto, delimitano solo un’ area per chi vuole coglierle. Il film era in lizza per l’Oscar ed ha perso per un solo voto con Fuocammare  di Rosi; Sorrentino, che lo supportava nella commissione di selezione, se ne è rammaricato e, credo abbia ragione: Indivisibili è molto piaciuto ed ha avuto riconoscimenti ed elogi critici nelle manifestazioni internazionali alle quali ha partecipato; si direbbe però che abbia prevalso un criterio politico-rappresentativo nella scelte, un po’ come l’andreottiano “I panni sporchi si lavano in famiglia!” riferito al neorealismo. Siamo ancora qui !?

 




Café Society

di Woody Allen. Con Jeannie BerlinSteve CarellJesse EisenbergBlake LivelyParker Posey USA 2016

Los Angeles, metà degli anni ’30: l’agente di divi Phil Stern (Carell), mentre è ad un party con la moglie Karen (Sheryl Lee), riceve un telefonata da New York: è la sorella Rose (Berlin) che gli chiede di trovare un occupazione a suo figlio Bobby Dorfman (Eisenberg), che sta arrivando ad Hollywod in cerca di fortuna. Lui lo fa riempire di scuse dalla segretaria (Tess Frazer) e, un giorno, il timido Bobby si fa convincere dal fratello malavitoso Ben (Corey Stoll) a telefonare ad un’agenzia di squillo; poco dopo gli arriva l’imbranata Candy (Anna Camp), che è alla sua prima esperienza e, quando lei gli dice di essere ebrea come lui, lui le dà i 20 dollari pattuiti e la manda via senza toccarla. Dopo tre settimane lo zio lo riceve e lo assume come tuttofare, dando incarico alla propria assistente Veronica (Christen Stewart), Vonnie per gli amici, di fargli conoscere la città. Quasi subito i due diventano amici – lei che, come tante ragazze, era andata ad Hollywood per far l’attrice ma ora che lo conosce ha la giusta distanza dal vacuo mondo del cinema – e lui se ne innamora ma lei gli dice che ha un fidanzato giornalista. In realtà è l’amante di Phil e aspetta sempre che lui si decida a lasciare la moglie. Una sera che, dopo l’ennesima titubanza dell’amante, ha accettato di andare a cena da Bobby, riceve una telefonata da Phil che vuole festeggiare con lei il loro primo anniversario e lei disdice la cena (alla quale il povero Bobby si era dedicato con grande cura) e va da lui con una lettera autografa di Rodolfo Valentino come regalo. Phil però le dice che non ce la fa a parlare con la moglie e le annuncia che vuole troncare la relazione; lei disperata va da Bobby e dorme con lui. Inizia così il loro amore e il ragazzo la convince a partire con lui per New York; intanto lo zio gli confida le proprie pene d’amore e lui – non sapendo che la donna di cui gli parla è la sua ragazza – lo consola e lo sprona a far trionfare le ragioni del cuore. Una sera Phil va nel locale nel quale adesso Vonnie lavora come guardarobiera e le dice che ha lasciato la moglie; lei, indecisa, non gli risponde. Poco dopo, lui, nel suo ufficio, si confida con Bobby – che gli ha appena comunicato che partirà per New York con il suo amore – e, mentre parlano, il giovane vede la lettera di Valentino, di cui Vonnie gli aveva parlato a proposito dell’ex-fidanzato giornalista; capisce tutto e si precipita al guardaroba per porre alla ragazza un ultimatum: o lui o lo zio. Lei sceglie quest’ultimo e lui, con il cuore a pezzi, torna a casa. Qui ritrova la famiglia: la madre ed il padre (Ken Stott), che battibeccano in continuazione accusandosi a vicenda di scarso ebraismo, la sorella Evelyn (Sari Lennick), sposata a Leonard (Stephen Kunken), marxista e con velleità intellettuali, e Ben, che ora è un gangster a tutti gli effetti e gli offre di lavorare nel night che ha appena aperto. Grazie agli amici snob Rad (Posey) e Steve (Paul Schneider), che aveva conosciuto a Los Angeles, il locale diventa alla moda e gli affari vanno benissimo e lui è ora un affabile ed efficacissimo direttore di sala. Una sera Rad gli presenta la bella modella Veronica (Lively) reduce da una delusione d’amore e lui la corteggia spudoratamente. Si frequentano, si mettono insieme e, poco dopo lei gli dice di essere incinta e lui, felice, la sposa. Ben continua la sua attività di malavitoso e, una volta che la sorella, gli confida che Joe (Brendan Burke) un vicino aggressivo e maleducato la spaventa, lui lo fa prendere dai suoi scagnozzi (Raymond Franza e Michael Elian) e, come sua abitudine, gli spara e lo sotterra nel cemento. Bobby è in piena forma – gli affari prosperano (anche se le attività del fratello sono sotto la lente della parte non corrotta delle forze dell’ordine) e lui è felice della propria vita familiare – quando al locale si presentano Phil e Vonnie con due amici; lei ora sembra essere quello che ha sempre odiato: la tipica moglie stronza hollywoodiana. Lei trova una scusa per parlargli, lui la tratta male ma Vonnie continua a cercarlo e alla fine si incontrano. Il loro amore si riaccende, quando Ben viene arrestato e tutta la famiglia si mobilita perché abbia la migliore difesa; i suoi omicidi però sono stati scoperti ed i cadaveri dissotterrati – Evelyn e Leonard tremano perché se venisse alla luce anche il corpo del loro vicino potrebbero passare seri guai – e lui viene condannato a morte. In prigione il cappellano (Nick Plakias) lo convince a convertirsi al cristianesimo, così potrà sperare nel Paradiso e questo anima una nuova discussione teologica tra Rose e il marito. Vonnie deve ripartire e né lei né Bobbie hanno il coraggio di troncare i rispettivi matrimonio. Una sera di capodanno, mentre tutti festeggiano, tutti e due, all’apparenza felici, guardano nel vuoto il loro sogno d’amore svanito.

Allen mantiene il proprio impegno a girare un film all’anno e – come abbiamo già visto da qualche tempo – i risultati sono, inevitabilmente discontinui. Cafè Society non è tra i peggiori (niente a che vedere con i modesti Vicky, Cristina, Barcellona e Irrational man, il – secondo me – sopravalutato Midnight in Paris o il pessimo To Rome with love) ma sembra, più che altro, un film “alla maniera di Woody Allen”. C’è, come ne La rosa purpurea del Cairo o in Radio Days , il richiamo al cinema degli anni’30, non solo per le citazioni de La signora in rosso (Wonan in red, 1935), La donna del giorno (Libeled lady, 1936) di Jack Conway e Voglio danzar con te (Shall we dance, 1937) di Mark Sandrich, oltre ai costanti riferimenti a Barbara Stanwyck, Irene Dunne, Ginger Rogers ed Erroll Flynn ma per il tono generale (compreso la desueta e tenerissima dissolvenza incrociata del finale) che si rifà ai registi amatissimi da Allen: Ernest Lubitsch, Frank Capra e Gregory La Cava. La scelta delle musiche poi è particolarmente accurata: vere e proprie chicche di nostalgia con brani come The paenut vendor, I didn’t know what time it was, The lady is a tramp, Jeeper Crepers o Taki Rari, interpretate dalla sublime e dimenticata Yma Sumac, Benny Goodman e Count Basie. Insomma una bella operazione di accurato ed elegante trovarabato ma il racconto è poca cosa e, una volta tanto, il cast non è splendente come in altri film, anche non riusciti, di Allen; Steve Carell è un po’ una maschera, mentre Eisenberg e la Stewart sono poco più che corretti. I migliori – e non è un caso – sono gli yddish Berlin, Stott e Lennick; con loro Allen innesta il pilota automatico e lì il film fila piacevolissimo.




I magnifici sette (The Magnificent Seven)

di Antoine Fuqua. Con Denzel WashingtonChris PrattEthan HawkeVincent D’OnofrioLee Byung-Hun  USA 2016

Gli abitanti di Rose Creek, un piccolo centro contadino, sono riuniti in chiesa per decidere il da farsi perché il ricchissimo padrone dell’adiacente miniera Bartholomew Bogue (Peter Sarsgaard), li minaccia con i suoi killer perché se ne vadano e gli cedano le loro terre per 20 dollari a testa, quand’ecco che lui arriva con i suoi scherani, che ammazzano alcuni di loro, dà fuoco alla chiesa e, quando il colono Matthiew Cullen (Matt Bomer) si ribella, lo uccide a sangue freddo. In un saloon di un centro vicino, dove il baro e pistolero Josh Farday (Pratt) sta giocando a poker, arriva Sam Chisolm (Washington), guardia giurata e ufficiale di pace di una decina di stati (una sorta di bounty-killer con licenza), che affronta ed uccide il barista (David Kallaway), omicida ricercato che si era data una nuova identità; Josh, istintivamente, estrae la pistola e lo protegge dagli amici del barista. La vedova di Cullen, Emma (Haley Bennett) che era partita con il compaesano Teddy Q (Luke Grimes) per cercare qualcuno che li proteggesse, gli offre una magra – ma per loro, ridotti alla miseria da Bogue, enorme – ricompensa. Il pistolero accetta e, di lì a poco, ricompra il cavallo di Josh (che lo aveva perso al gioco) e lo recluta. I quattro partono per cercare altri mercenari: Sam convince il fuorilegge messicano Vasquez (Manuel Gracia-Ruffo), ricercato per omicidio, a essere della partita (in cambio lui lo cancellerà dei suoi elenchi) e, dopo poco si unirà a loro il bestione Jack Horne (D’Onofrio), mentre Josh, dopo aver visto l’orientale Billy Rocks (Byung-Hun) uccidere per scommessa un cow-boy (Ritchie Montgomery) armato di pistola con un coltello e il leggendario ex-ufficiale sudista Goodnight Robicheaux (Hawke), suo amico e protettore, raccogliere le vincite, li invita a nome di Sam, vecchio amico di Goodnight – Goodie per gli amici – a venire con loro. I due accettano, anche perché Goodie è convinto che in ballo ci siano molti più soldi della misera paga promessa. Mentre sono in cammino, incontrano l’indiano Red Harvest (Martin Sensmeier) e Sam, che parla un po’ di comanche, recluta anche lui. Ora sono 7 e quando arrivano al villaggio, lo sceriffo Harp (Dane Rhodes) – al soldo di Bogue – li aspetta con una torma di armati; nella scontro, ne uccidono 22 (tutti tranne Goodnight, che è come paralizzato dall’angoscia) e, scovato, Harp, che si era nascosto all’inizio della sparatoria, lo mandano dal suo padrone, sfidandolo a venire ad affrontarli; lo sceriffo, terrorizzato, esegue e Bogue, dopo averlo ucciso, si prepara a mettere insieme un piccolo esercito. I 7 addestrano al combattimento agli impreparatissimi contadini (solo Emma ha una qualche dimestichezza con le armi), congegnano trappole per rendere più arduo il compito agli assalitori e rubano armi e dinamite dal deposito della miniera. Red Harvest, che era partito in ricognizione, dopo due giorni torna per avvertirli che Bogue e i suoi arriveranno all’alba del giorno dopo. La sera Goodnight va via, confessando a Sam la proprie paure: se ne vergogna ma è convinto che se sparerà ancora lo attenderà una morte orribile. Bogue arriva la mattina dopo con decine di pistoleri ma, grazie anche alle ingegnose trappole, i primi scontri ne vedono la decimazione – non è estraneo al successo il ritorno di Goodie che uccide decine di avversari prima di morire assieme a Bill – ma lui ha in serbo un arma segreta: una potente mitragliatrice che sembra avere la meglio sui nostri eroi, quando Josh si lancia contro il mitragliere (Jackson Beals) e, pur crivellato di colpi, riesce a far saltare l’arma con un candelotto di esplosivo. La battaglia è vinta e Sam affronta Bogue che lo supplica di lasciarlo vivo: il pistolero ha con lui, però, un conto aperto: i suoi uomini avevano ucciso e violentato sua moglie e le sue figlie e lo invita a pregare prima di morire ma sarà Emma a dargli il colpo di grazia. Anche Horne è morto dopo aver massacrato parecchi mercenari con la pistola, l’ascia e le mani nude e Sam, Vasquez e Red Harvest ripartono, salutati da eroi.
Fuqua ha dichiarato di aver avuto presente, nel preparare il film, più I 7 samurai (1957) di Kurosawa de I magnifici 7 (1960) di Sturges (che ne era il dichiarato remake). Questo spiega alcune delle differenze tra i due western: quello del ’60 era solare e i 7 – ma anche i loro nemici – erano fracassoni e simpatici, mentre questo è crepuscolare e gli eroi – tranne qualche battutina tra Vasquez e Josh – sono seriosi e portatori di ideali (il cattivo, poi, è una summa di tutte le figure negative del perfido capitalismo: addirittura esordisce con la frase: “Il capitalismo è Dio!” prima di massacrare i bravi contadini). C’è poi un versante d’impegno: Sam è nero -non è la prima volta che il cinema racconta di pistoleri di colore, da Invito ad una sparatoria (1964) di Richard Wilson in poi – e alla fine si salva solo lui, l’indiano e il messicano; la donna è, post-femministicamente, coraggiosa e, in qualche modo surroga i caratteri – il combattente-contadino – che negli altri due film erano affidati a Toshiro Mifune e a Horst Bucholz; per far spazio alla multietnicità dei protagonisti i due caratteri, presenti nel film di Sturges, il paranoico Lee/Robert Vaughn e l’avido Harry Luck/Brad Dexter, sono assommati nel pensoso Goodnight di Ethan Hawke. Detto questo, il film ha dei momenti piacevoli, solo che non si capisce perché si sia sentita la necessità di fare un pallido remake di uno dei capisaldi del cinema western, al quale, ad esempio, Leone e Peckinpah si sono fortemente ispirati e che ha lanciato i tre divi più significativi degli anni successivi: Steve McQueen, Charles Bronson e James Coburn, affidandolo ad un regista più a suo agio nell’action con risvolti sociali (Training day, The equalizer, Attacco al potere). Esempi di remake falliti di western storici non ne mancavano – vedi l’insopportabile Quel treno per Yuma di Mangold del 2007 – e, di più, con la splendida eccezione del grandissimo Peckinpah, il western è morto da tempo e la deriva impegnata – iniziata con Soldato blu di Ralph Nelson del 1970 (che era stato visto come un parallelo tra la conquista del west e la guerra in Viet-Nam) – non ha fatto che accelerarne la decomposizione.




The Beatles – Eight Days a Week

di Ron Howard. Con Paul McCartney, Ringo Starr, John Lennon, George Harrison USA 2016

Ai tempi di Happy Days, i Beatles, in tour in America, erano andati sul set ma – ricorda Ron Howard protagonista della serie nel ruolo di Richie – non per lui: volevano conoscere Fonzie (Henry Winkler). L’incontro l’ha però segnato se 50 anni dopo decide di girare su di loro il suo primo documentario. Altre volte la televisione ha commissionato documenti su i Fab Four (What’s happening! The Beatles in the USA di fratelli Maysles è un precedente del quale Howard ha certamente tenuto conto) ma, per la prima volta, ci viene raccontata l’evoluzione del gruppo pop più importante della storia dall’interno ed i Beatles ci arrivano con la loro genialità ma anche con le loro fragilità; anche fisicamente, li vediamo ragazzi nei primi due anni dei loro successi e precocemente adulti negli anni immediatamente successivi, logorati da un circo (sono loro stessi a definirli così) che tendeva a mostrificarli (“freaks” è il termina con il quali George definisce se stesso e i suoi compagni). Ci sono interviste a Paul e Ringo, che – dopo anni di presa di distanza – rivendicano la forza del loro team, dichiarazioni di John e George che riportano alla musica il valore di fondo del gruppo e varie testimonianze di personaggi che avevano, come testimoni o semplici fan, partecipato a quel fenomeno e inserti nei quali appare il geniale Richard Lester, con sequenze di A hard day’s night e Help!, i due deliziosi film nei quali li ha diretti. Seguiamo i Beatles dalle prime esibizioni nelle cantine di Liverpool, alla dura gavetta di Amburgo, ai primi successi, ai massacranti – e alienanti (nel frastuono non sentivano le proprie voci e Ringo racconta di aver suonato basandosi sui movimenti del sedere degli altri tre e sul battito del piede di Paul) – tour americani, alla decisione di non esibirsi più in pubblico e di concentrarsi sulle registrazioni- da qui nacquero lp-capolavoro, quali Revolver, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (il miglior album pop di sempre per moltissimi critici) e The Beatles/White Album – fino al concerto di addio sul terrazzo della Apple il 30 gennaio del ’69, ripreso dal film Let it be. La storia è puntellata da testimonianze di addetti ai lavori, quali il giornalista Larry Kane che, ventenne, li seguì nel loro primo tour americano, il critico Jon Savage, che non poté andare da ragazzino a sentirli perché i genitori glielo proibirono, Lou Costello, loro fan da bambino, frastornato dalla rivoluzione del loro album Rubber Soul. Ci sono poi fan speciali: Whoopi Goldberg che, bambina, capisce che la loro musica è unificante; la storica Kitty Oliver che, partecipò al loro concerto di Jacksonville – allora attraversata da manifestazione contro la segregazione – insieme a tanti ragazzini bianchi, perché loro avevano imposto – minacciando di far saltare la data – che non ci fosse apartheid durante la loro esibizione; la produttrice tv Debbie Supnik, che tredicenne – col suo nome Debbie Gendler – fu intervistata durante la loro apparizione all’Ed Sullivan Show; Sigourney Weaver, adolescente innamorata di John che si schiarì i capelli con la birra, sicura di essere notata dal suo amato in mezzo ad altre 15.000 ragazzine urlanti e il compositore Howard Goodall, che afferma che, nella storia della musica, solo Mozart può – per quantità di brani riusciti – essere paragonato a loro.

Quest’ultima testimonianza è la chiave del film: Ron Howard ha gli strumenti giusti per raccontare il successo e l’amicizia (Cocoon, Apollo 13, Rush) e qui viene fuori la profondità del rapporto tra i quattro ma anche con il manager Brian Epstein e con i produttori George Martin e Neil Aspinall ma, soprattutto, riesce – senza forzare il racconto – a far capire quale rivoluzione musicale (per primi inserirono stilemi d’avanguardia nella musica pop), industriale (il LP, fino a quel momento pura raccolta di 45 giri di successo, con loro diventò la vera hit) e sociale (i giovani in quegli anni divennero una forza commerciale e di costume, come mai erano stati in passato) siano stati i Beatles. Il ‘900 è stato teatro di rivoluzioni orrende e cruentissime: il fascismo, il nazismo e il comunismo, ben venga chi ci ricorda l’unica rivoluzione, che ha coinvolto enormi masse migliorandole: la beatlesmania (come ci dice John in Revolution :”Tu parli di rivoluzione, bene, tutti vogliamo cambiare il mondo ma quando mi parli di distruzione.. non contare su di me”)