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Tre manifesti a Ebbing, Missouri (Three Billboards Outside Ebbing, Missouri)

di Martin McDonagh. Con Frances McDormandWoody HarrelsonSam RockwellAbbie CornishLucas Hedges  USA, Gran Bretagna 2017

Molti registi europei, girando i primi film negli Stati Uniti, sono stati travolti da un’idea, più superficiale e letteraria che reale, di violenza; è successo ad Antonioni (Zabriskie Point) a Richardson (Il caro estinto), a Lester (Petulia). L’irlandese McDonagh non sembra fare eccezione: dopo la commedia schizzata 7 Psicopatici, eccolo in Missouri a raccontare la violenza, fisica e verbale, di un “tipico” centro americano. Lui però è un grande commediografo – uno dei più premiati della sua generazione – e non cade nella trappola: i suoi personaggi sono, dietro l’apparente rozzezza e l’aggressività verbale, pieni di complesse sfaccettature e, nei loro sbagli anche tragici, umanissimi e dolentissimi, capaci di una brusca ma reale empatia con chi sembrano odiare. Che il film abbia avuto di recente, proprio in America, 4 riconoscimenti importanti ai recenti Golden Globe (Miglior Film Drammatico, Migliore Attrice a Frances McDormand, Miglior Attore a Sam Rockwell, Miglior Sceneggiatura) la dice lunga sulla capacità dell’autore nel raccontare quel mondo. Inoltre, i suoi lavori teatrali son ben più crudi e disperatamente violenti di questo film; basta pensare alle crudeltà domestiche delle sue due trilogie (di Leenane e delle Isole Aran) per cogliere la relativa levità di Tre manifesti; non a caso, su suo suggerimento i due splendidi protagonisti si sono ispirati agli attori de L’uomo che uccise Liberty Valance (tipico film epico fordiano, con spunti di commedia) : la McDormand a John Wayne e Rockwell a Lee Marvin. Lo stesso McDonagh ci dà, in una scena del film, un’indicazione ulteriore sull’ispirazione del film: Jason e la madre guardano in TV A Venezia…Un dicembre rosso shocking di Nicholas Roeg, dolente noir, con al centro una coppia (Donald Sutherland e Julie Christie), che ha perso la figlia. Si vede ovunque la mano di un grande autore e si vede la mano del teatrante nel richiamare alcuni degli attori di 7 Psicopatici (oltre a Rockwell, Hallerson, Ivanek, Cornish, Sexton III) anche per piccoli ruoli; quasi una compagnia di giro. Hanno fatto bene ad accettare: il film è memorabile.

Ebbing. Mildred Hayes(McDormand), divorziata e gestrice di un negozio di souvenir ha perso da un anno figlia Angela (Katrhyn Newton) che è stata violentata e bruciata viva da qualche sconosciuto. Convinta che la polizia non faccia abbastanza per trovare il colpevole, affitta dall’agente pubblicitario Red Welby (Caleb Landry Jones) tre cartelloni lungo la strada dove è stata trovato il cadavere della ragazza e   affigge tre manifesti  rossi con le frasi: “Stuprata mentre stava morendo”, “E ancora nessun arresto”, “Come mai, sceriffo Willoughby?”. L’agente Jason Dixon (Rockwell) – cripto-omosessuale e omofobo, che vive con la madre (Sandy Martin), con una storia di tortura durante l’interrogatorio ad un giovane nero, che ha un’adorazione filiale per lo sceriffo –  spalleggiato dal Sergente di Guardia (Zeljko Ivanek), la convoca in centrale per spaventarla ma ottiene solo di essere schernito.  Lo sceriffo Bill Willoughby (Harrelson) va da lei – loro si conoscono da tempo e sono sempre stati amici – per spiegarle che è stato fatto tutto il possibile per rintracciare il colpevole ma lei, dura, insiste sulla sua posizione e anche quando lui le rivela di essere malato di un tumore al pancreas non demorde dalla sua ostinata richiesta di giustizia. Di lì a poco lei, il figlio Robbie ((Hedges) – che, pure, è contrario all’iniziativa della madre – e la sua amica e collaboratrice Denise (Amanda Warren), vengono osteggiati dalla comunità: in paese tutti la guardano male e le fanno mille sgarbi, mentre i compagni bullizzano il figlio e Denise viene arrestata per il possesso di due spinelli. Un giorno, lei è costretta a ferire un dentista (Jerry Winset) amico dello sceriffo, che cerca di strapparle un dente senza anestesia e viene convocate in Centrale. Qui Willoughby ha uno sbocco di sangue durante l’interrogatorio e lei gli presta i primi soccorsi, facendo subito arrivare un’ambulanza. Tornata a casa, dopo l’ennesima lite con Robbie e il riaffiorare dell’atroce rimorso di aver rifiutato, la sera della tragedia, la macchina ad Angela, dicendole “Spero che ti stuprino!”, si vede presentare il violento ex-marito Charlie (John Hawkes), che ora vive con la giovanissima Penelope (Samara Weaving), che la diffida dal continuare l’affissione e le rivela che la loro figlia gli aveva chiesto di andare a vivere da lui (“Se anziché dirle: tua madre ti adora ed ha bisogno di te, avessi accettato, lei sarebbe ancora viva!”. Nel negozio di Mildred si presenta un tipo (Brendan Sexton III) con i capelli cortissimi da militare, che la minaccia e la sera, rientrando a casa, vede che i cartelloni – il cui affitto residuo era stato pagato da uno sconosciuto – sono stati dati alle fiamme. Dopo aver tentato di salvarli con un estintore, lei, grazie all’aiuto di uno degli affissori – il nero Jerome (Darrell Britt-Gibson) – ne riaffigge le copie che la ditta teneva in magazzino.  In ospedale, il dottore (Gregory Nassif Saint.John) non fa mistero a Bill dell’aggravarsi della sua situazione e lui il giorno, si concede una giornata felice con la moglie Ann (Cornish)  e le figlie (Rya May e Sila Atwood) e la sera si spara, lasciando tre lettere: una per la  moglie, nella quale le spiega di aver voluto  risparmiare a se stesso e a loro le sofferenze e le privazioni dei mesi successivi;  una indirizzata a Mildred, nella quale le rivela di aver pagato lui l’affissione, per vedere come se la sarebbe cavata quando il paese le avrebbe attribuito – a torto – la responsabilità del suo  suicidio e una a Jason. Questi, appresa la notizia della morte del capo, ubriaco, va da Red e lo butta dalla finestra, sotto gli occhi del Sovrintendente Abercrombie (Clarke Peters), il sostituto di Willoughby appena arrivato in paese, che lo caccia dalla polizia. Avvertito dal sergente della lettera, va di notte a leggerla in Centrale; nello scritto Bill gli manifesta una grande stima e lo invita a superare la rabbia e la frustrazione che gli impediscono di essere la brava persona ed il bravo poliziotto che potrebbe diventare. Mildred, intanto, convinta che siano stati gli agenti a dar fuoco ai cartelloni, lancia contro l’edificio delle bottiglie molotov, pensando che gli uffici siano deserti. Lui riesce a saltar fuori e, mentre un ambulanza lo porta in ospedale per le ustioni riportate, arriva Abercrombie e vedendo Mildred, insospettito, la interroga; se non che il nano James (Peter Dinklage), che aveva prestato i primi soccorsi a Jason, dice che erano insieme lì di passaggio, dopo aver passato la notte insieme e in cambio le chiede di andare a cena. Al ristorante arriva anche Charlie con la compagna, che rivela, pentito, di aver bruciato lui i cartelloni. Jason viene ricoverato nella stanza in cui è Red che non lo riconosce per via delle bende che gli coprono la faccia ma lui gli si rivela e gli chiede di perdonarlo. Dimesso, va a bere e, al bar, coglie una conversazione: il ragazzo dai capelli corti, che aveva minacciato Mildred, si vanta con un amico (Michael Aaron Milligan) di aver stuprato e dato alle fiamme una ragazza; lui prende il numero di targa dell’auto del ragazzo e, rientrato al pub, lo provoca, in modo da poter prendere brandelli di DNA nella colluttazione, che poi consegna ad Abecrombie; dopodiché contatta Mildred, per darle una speranza. Il Sovrintendente, gli comunica, che il DNA non combacia affatto con quello trovato sul corpo di Angela e che il ragazzo, un militare, all’epoca dei fatti, era in missione in Oriente.  Jason, però, sa che il ragazzo è, comunque, un violentatore e un assassino e ne ha – grazie alla targa – l’indirizzo in Idaho, propone quindi a Mildred di andare con lei ad ucciderlo – quasi una vendetta indiretta. Lei accetta e in viaggio gli confessa di essere lei l’incendiaria della Centrale; lui risponde, ridendo, che lo aveva capito subito e le chiede se sia proprio sicura di voler uccidere l’uomo. Lei dice di non esserlo: decideranno durante il viaggio.




La ruota delle meraviglie (Wonder Wheel)

di Woody Allen. Con Jim BelushiJuno TempleJustin TimberlakeKate Winslet (USA 2017)

In Allen, non è certo una novità, sono sempre riconoscibili i richiami letterari o teatrali da Tolstoj (Amore e guerra) a Dostoevskij (Crimini e Misfatti e Match Point) a Sheckley (Il Dormiglione) a Hammett (La Maledizione del Medaglione di Giada), alla tragedia greca (La Dea dell’Amore), a Fitgerald (Cafè Society), alla letteratura francese del primo novecento (Midnight in Paris), a Kierkegaard (Irrational Man) e in Blue Jasmine aveva affidato a Cate Blanchett un ruolo fortemente ispirato alla Blanche DuBois de Un tram che si chiama desiderio di Tennessee Williams. In questo film l’omaggio al teatro di Eugene O’Neill e di Williams è dichiarato: Mickey sogna di scrivere in quello stile e di raccontare la grande tragedia americana, Ginny è (sin dal francesizzante nome d’arte) una tragica Blanche e Humpty una delle disperate vittime del Fato che appaiono nelle pagine di O’Neill. Naturalmente Allen usa il materiale alla sua maniera e la tragedia (i grandi tragici greci, rivisti in chiave psicoanalitica, sono alla base di molte delle opere di O’Neill e di Williams) si colora di una luce fiabesca, complice la fotografia di Storaro, che si è dichiaratamente ispirato ai teneri disegni di Norman Rockwell. In America il film (per l’autore non è una gran novità) è andato piuttosto male ma (questo, invece, non gli capita spesso) è anche stato massacrato dalla critica. Da noi sta funzionando discretamente e, a mio avviso, non merita la disapprovazione che ha ricevuto in patria. La scrittura è, a tratti, intellettualistica e scontata ma il delirio finale di Ginny è una bella pagina; certo, anche per merito di un’ottima Winslet che, con la Temple, tiene splendidamente la scena. Bravo, anche se più scontato, Belushi, mentre Timberlake – molto presente e molto parlante – non sembra del tutto a proprio agio nel ruolo di narratore-demiurgo. Per dirla con O’Neill: il lutto non si addice al volenteroso ma acerbo Justin.

New York, anni ’50. Ginny (Winslet), una mediocre ex attrice in disarmo dopo il fallimento (per sue colpa) del primo matrimonio, vive con il vedovo Humpty (Belushi), giostraio con problemi di alcool, a Coney Island; qui lei fa la cameriera e gestisce con difficoltà il figlio Richie (Jack Gore) – nato dal precedente marito – nevrotico, ladruncolo (ruba i soldi al patrigno per andare al cinema) e piromane. Un giorno si presenta da loro Carolina (Temple), la figlia di Humpty che lui aveva misconosciuto quando aveva sposto un gangster, facendo morire la madre di crepacuore; la ragazza è terrorizzata: ha rivelato alla polizia particolari scottanti sull’attività del marito che la maltrattava ed ora i suoi scagnozzi la cercano per ucciderla. Humpty, che ha sempre stravisto per lei, urla un po’ ma poi la accoglie, chiede a Ginny di farla lavorare con lei al ristorante e mette da parte i pochi guadagni (la giostra non va particolarmente bene) per farle frequentare un scuola serale. Ginny in spiaggia conosce Mickey (Timberlake), bagnino e studente di lettere moderne con l’ambizione di diventare un drammaturgo e ne diventa l’amante, immaginando di fuggire con lui e riprendere la via del teatro. Un giorno due gangster, Angelo (Tony Sirico) e Nick (Steve Schirripa), si presentano da Humpty a chiedere notizie di Carolina ma lui, aiutato da Ginny, riesce a depistarli. La ragazza ha conosciuto in spiaggia Mickey che le presta un libro sul rapporto tra Eugene O’Neill e la psicoanalisi, mettendo subito in allarme Ginny. Intanto a causa delle continue assenze da scuola e della sua mania di appiccare piccoli incendi, Richie viene spedito da una psichiatra (Maddie Corman), tra le proteste di Humpty che non vuole intaccare i risparmi destinati all’istruzione della figlia per pagare le sedute. Carolina, intanto, rincontra Mickey, che le dà un passaggio in un giorno di pioggia e, dopo aver parlato con lei in macchina, la invita a cena per il fine settimana; lei si confida la sera stessa con la matrigna e le chiede un consiglio, ricevendo uno sprezzante invito a lasciar perdere il ragazzo, che – dice- è inaffidabile e già impegnato. Ginny, sempre più infatuata e gelosa, ruba 400 dollari ad Humpty e con quelli compra da un antiquario (Jacob Berger), come dono di compleanno per Mickey, un orologio sul quale fa incidere una frase d’amore. Imbarazzato dalla situazione e dal valore del regalo, lui lo rifiuta e le confessa di essersi innamorato di Carolina, alla quale – le dice –  si dichiarerà. Ginny, sconvolta e bevuta, va al lavoro e la sua capa Tiny (Jenna Stern) le racconta che due tizi sono venuti a cercare Carolina e lei li ha indirizzati alla pizzeria dove la ragazza è a cena con Mickey; lei capisce che sono i due mafiosi e si precipita a telefonare per avvertire la ragazza del pericolo ma quando il padrone del locale (John Mainieri) risponde riattacca. Carolina, alla quale Mickey ha confessato il proprio amore e le ha raccontato della relazione con la matrigna, confusa lascia il locale e rifiuta di essere accompagnata in macchina: vuole fare due passi per riflettere. Quando gira l’angolo, la macchina con i killer le si accosta e di lei non si hanno più notizie. Humpty angosciato corre alla polizia e Ginny, rimasta sola, si trucca e si veste come se dovesse andare in scena e a Mickey, che ha saputo della mancata telefonata ed è corso da lei per accusarla e esprimerle il proprio odio, risponde con fare trasognato e pose da teatrante. Ora a lei e Humpty, più soli e distrutti, non rimane che riprendere la loro disperata vita di coppia, mentre Richie accende l’ennesimo fuoco in spiaggia.




Suburbicon

 di George Clooney. Con Matt DamonJulianne MooreNoah JupeGlenn FleshlerAlex Hassell USA 2017

Nel 1957 a Levittown in Pennsylvania la famiglia di colore Mayers, appena trasferitavi, era stata fatta oggetto di violente dimostrazioni razziste. Clooney voleva traferire per la sua sesta regia quella storia sullo schermo e, per arricchirla cinematograficamente, aveva acquisito una sceneggiatura dei fratelli Coen – con loro aveva lavorato in 4 film (Fratello dove sei, Prima ti sposo, poi ti rovino, Burn after reading – A prova di spia e Ave, Cesare!) – rielaborandola con il suo socio e sceneggiatore di fiducia Grant Heslov. Il risultato è piuttosto deludente per vari motivi: la storia della città immaginaria di Suburbicon i Coen la avevano scritta subito dopo il loro Blood simple e più di trent’anni pesano non poco al cinema (loro nel frattempo ne avevano difatti perfezionato il plot prima – in parte – ne L’uomo che non c’era e poi nello splendido Fargo); nonostante gli sforzi di Heslov la storia dei Mayers e quella di Gardner fisicamente e temporalmente si incontrano ma narrativamente no – anche se una grassona (Peggy Miley), in un’intervista alla fine del film dice che da quando ci sono quei neri succedono strane cose – e, infine, Clooney non è assolutamente i Coen: laddove loro sanno dare agli immorali, perdenti e pasticcioni dei loro film un alone di pietistica grandezza, lui mette in fila dell’ottimo girato, senza riuscire a comunicare emozioni. Un discorso a parte va fatto, poi, per le scelte di cast: sono ottimi i comprimari, Oscar Isaac (lo ricorderete in A proposito di Davis dei Coen) in testa, è invece un po’ legnoso l’appesantito Damon, mentre la Moore rifà il personaggio di Lontano dal paradiso e i caratteristi sono eccessivamente freak, a voler troppo platealmente sottolineare la disumanità degli wasp di quegli anni. I Coen non lo avrebbero mai fatto.


 

La cittadina Suburbicon, nata come oasi per gli americani middle e upper class, negli anni ’50 è un piccolo paradiso, abitato da famiglie apparentemente in tutto simili a quelle della pubblicità ma un giorno il postino Henry (Steve Monroe) scopre, con orrore, che i nuovi vicini, i signori Mayers (Karimah Westbrook e Leth M. Burke) e il loro figlio decenne Andy (Tony Espinosa) sono neri! Loro dirimpettai sono i Lodge: il capofamiglia Gardner (Damon), la moglie Rose (Moore), costretta su di una sedia a rotelle da un incidente di macchina e aiutata dalla gemella Margaret (Moore), e il loro figlio Nicky (Jupe). La comunità, in una riunione tumultuosa, decide di agire con azioni di boicottaggio contro gli indesiderati Mayers e i Lodge sono alle prese con due rapinatori, Sloan (Flesher) e Louis (Hassell), che, entrati in casa, li legano e li cloroformizzano e, mentre gli altri sono addormentati, a Rose somministrano una dose doppia di etere causandone la morte. Margaret decide di rimanere in casa per accudire Nicky, che nel frattempo è diventato amico di Andy. Al funerale il rozzo ma affettuoso zio Mitch (Gary Basaraba) si offre di venire a trovare il nipote ma Gardner e Margaret rifiutano con decisone. Qualche giorno dopo, Gardner e la cognata vengono convocati dal capitano di Polizia Hightower (Jack Conley) per un confronto all’americana e Nicky (che era venuto con la zia che non aveva dove lasciarlo) si accorge, con stupore ed angoscia, che loro dichiarano di non riconoscere nessuno dei pregiudicati mente Sloan e Louis sono in fila con gli altri. I due delinquenti, che evidentemente sono in combutta con lui, vanno nell’ufficio di Gardner e, per rammentargli gli impegni presi, gli rompono il naso. Una notte Nicky sente dei rumori venire dalla cantina dove il padre era andato a dormire per cedere la stanza a Margaret, e quando scende sorprende Gardner che sta sculacciando la cognata con una racchetta da ping pong; la situazione e l’imbarazzo dei due gli fanno capire che fra i due c’è qualcosa. Qualche notte dopo, spiando il padre che si è infilato in camera di Margaret, capisce che loro sono responsabili della morte della madre e comincia a temere per la propria vita. Hightower va da Gardner per chiedere spiegazioni sul fatto che nel taccuino di un boss locale comparisse il suo nome come debitore per un prestito, mentre Sloan, stanco di aspettare ordina a Louis di recarsi quella notte ad uccidere Nicky e Margaret e quest’ultima riceve la visita dell’investigatore assicurativo Bud Cooper (Oscar Isaac), che subodora subito che dietro la polizza sulla vita di Rose c’è qualcosa di losco e promette di tornare più tardi per chiarirsi con Gardner. Quella sera i tumulti davanti alla casa dei Mayers si fanno violenti: vengono lanciati oggetti e bruciata la loro macchina e Cooper va a casa Lodge e, senza mezzi termini, dice di aver capito tutto e chiede tutto il premio assicurativo in cambio del suo silenzio; Margaret gli serve un caffè avvelenato e, mentre lui corre in strada in preda agli spasimi, Gardner lo insegue in strada e lo finisce con un attizzatoio; ne carica in macchina il cadavere e lo porta in un posto isolato, seguito a distanza da Sloan che ha appena lasciato a casa Lodge il complice. Nicky si è barricato in camera (ha sentito tutto) e la zia gli prepara un sandwich e del latte pieni di barbiturici tritati; intanto lui, spaventato a morte, telefona allo zio. Mentre lei lo blandisce perché scenda a mangiare, arriva Louis che la ammazza e sfonda la porta di Nicky che si è nascosto sotto al letto. Lo sta per acciuffare quando arriva Mitch che uccide il killer e, con il coltello dell’altro piantato nella schiena, fa in tempo a nascondere il nipote in un armadio e a dargli una pistola prima di morire. Gardner torna in bicicletta a casa e viene fermato da Sloan che lo sta per colpire quando un camion lo travolge, schiantandosi sulla macchina con il cadavere di Cooper. Tornato a casa vede i tre cadaveri e disarma il figlio al quale offre l’alternativa tra l’essere ucciso e fuggire con lui nel protettorato di Aruba, dove non esiste estradizione ma la cenetta di Margaret…

 

 




Assassinio sull’Orient Express (Murder On the Orient Express)

di Kenneth Branagh. Con Kenneth BranaghPenélope CruzWillem DafoeJudi DenchJohnny Depp USA 2017

Nel 1974 Sidney Lumet aveva diretto la prima, fortunatissima, trascrizione del romanzo di Agatha Christie, con un cast spettacolare – Albert Finney, Ingrid Bergman (che per il ruolo vinse l’Oscar), Anthony Perkins, Richard Widmark, Vanessa Readgrave,Lauren Bacall, Sean Connery, per citare i più noti – ottenendo la piena approvazione della scrittrice presente alla premiere (lei aveva sempre detestato le riduzioni cinematografiche dei suoi libri). Nel 2001 e nel 2010 seguirono due TV Movies ed ora Branagh si cimenta in quello che possiamo considerare un sostanziale remake del primo film, con pochi, non strutturali cambiamenti (ad esempio Aburthnot è un medico di colore mentre nel film di Lumet – come nel romanzo – è un ufficiale bianco e la missionaria svedese della Bergman diventa, per aderire alla Cruz, spagnola e poco altro). Vista la scelta registica non è scorretto riconoscere che il film di Lumet aveva una forza narrativa che all’odierno in parte manca. E’ anche chiaro il motivo: Lumet – insieme a Martin Ritt, Delbert Mann, Arthur Penn, Robert Mulligan – appartiene alla prima generazione di registi che si era fatta le ossa con la televisione, traendone una grande capacità di sintesi narrativa e di drammatizzazione e il suo Assassinio sull’Orient Express deve molto alla sua prima efficacissima opera cinematografica: La parola ai giurati, anche lì un ambiente chiuso e un gruppo di splendidi attori che, con la sola forza della loro recitazione, rende il pathos di un dramma. Branagh è, come è noto, grande attore e regista scespiriano che, mentre quando porta sullo schermo il bardo (Enrico V, Hamlet, Molto rumore per nulla) fa un’opera di, sia pur rispettosa, divulgazione, quando entra in contatto con testi meno accademici (Thor, Cenerentola – a mio avviso il suo capolavoro – e questo) dà loro una solida aura di classicità. Se si esce dal paragone, però, non si può non riconoscere che siamo di fronte ad un ottimo film con una cast degno (la Pfeiffer, in particolare, è in una delle sue performance migliori), una sceneggiatura – di Michael Green (autore degli ultimi Alien e Wolverine e Blad Runner) – di grande efficacia e la maestosa fotografia (con la complessa cinepresa a 65 mm. la stesa di Dunkirk) di Harris Zambarloukos. Certo, aiuta l’operazione, di (per così dire) scespirizzazione della Christie, il dramma di partenza, ispirato al recente caso Lindbergh, che ha i toni di una vera tragedia elisabettiana.

Il famoso investigatore belga Hercule Poirot (Branagh) è a Gerusalemme in vacanza ma si trova a dover individuare chi, tra il rabbino (Elliot Levey), il prete (David Anney) e l’imam (Joseph Long), ha compiuto un furto sacrilego; una piccola crepa sul muro lo porta alla soluzione: il colpevole è l’Ispettore Capo (Michael Rouse). Risolto il caso, decide di partire per Instanbul per riposarsi con un viaggio nel favoloso Orient Express. In battello incontra l’istitutrice Mary Debenham (Daisy Ridley) e il medico di colore Aburthnot (Leslie Odom jr.), anche loro in procinto di prendere l’Orient Express e nota che tra i due c’è del tenero (anche se loro cercano di nasconderlo). Arrivato in Turchia incontra il suo vecchio amico Bouc (Tom Bateman), che ora dirige la compagnia ferroviaria e che riesce, fortunosamente (la prima classe è insolitamente completa, nonostante sia un periodo di bassa stagione) a trovargli una cabina sul treno. Qui viene accolto dal capo-carrozza Jean Michael (Marwan Kenzari) e conosce gli altri compagni di viaggio: oltre a Bouc e alla coppia incontrata nel traghetto, ci sono la missionaria laica Pilar Estravados (Cruz), la dispotica principessa russa Dragomiroff (Dench) con la servizievole dama di compagnia Hildegrade Schmidt (Olivia Colman), il commerciante d’auto Biniamino Marquez (Manuel Garzia-Rulfo), lo sprezzante e razzista professore austriaco Gerhard Hartman (Dafoe), una coppia di nobili etoile ungheresi della danza, i conti Rudolph (Sergei Pulonin) e Helena (Lucy Boynton)  Andrenyi, la chiassosa vedova americana Carolyn Hubbard (Michelle Pfeiffer) e l’ambiguo e volgare antiquario  Edward Ratchett (Depp), con al seguito il segretario Hector McQueen (Josh Gad) e il maggiordomo Edward Henry Masterman (Derek Jacobi). Ratchett cerca più volte, invano, di parlare con Poirot e, quando ci riesce (complice un dolce al quale l’investigatore non sa resistere), gli dice di essere nel mirino di un boss della mafia per un quadro falso che gli aveva venduto e gli offre una grossa somma perché gli guardi le spalle; lui naturalmente rifiuta. Una notte, Poirot sente un gran trambusto e, affacciandosi dalla sua cabina, vede una dona in kimono rosso che si allontana dalla cabina di Ratchett. L’indomani mattina, notando l’assenza di questi a colazione, se ne fa aprire da Bouc la porta e ne scopre il cadavere, trafitto da tredici pugnalate; sparsi nella stanza vi sono alcuni indizi: un fazzoletto di lino con ricamata una H, un nettapipe, un bottone di una divisa da capotreno e l’orologio da taschino di Ratchett, fermo all’una e quarantacinque. Il treno è bloccato perché una tempesta di neve ne ha ostruito i binari e Bouc prega Poirot, per il buon nome della compagnia, di indagare sul delitto, cosicché, all’arrivo dei soccorsi, il colpevole sia assicurato rapidamente alla giustizia. Senza entusiasmo lui accetta e, ben presto, scopre che il morto in realtà era il gangster Cassetti, autore di un famoso kidnapping. La storia era stata a lungo al centro dell’attenzione della cronaca statunitense: Daisy, la figlia piccola del Colonnello John Armstrong (Phil Dunster) e di sua moglie Sonia (Miranda Raison) era stata rapita e, nonostante il pagamento del riscatto, uccisa; la madre, incinta, per lo shock aveva prima abortito e poi si era uccisa, imitata poco dopo dal marito, travolto dal dolore di quelle perdite; il giudice (Rami Nasr) incaricato del caso, pressato dai media aveva messo sotto processo la cameriera Susanne (Hayat Kamille), la quale, pur prosciolta, si era, a sua volta, suicidata per la vergogna e i sensi di colpa (al momento del rapimento non era al suo posto perché si era appartata con il fidanzato) e quando era arrivato a Cassetti e questi, ricco e potente, era riuscito ad eclissarsi la sua carriera e la sua onorabilità erano stati definitivamente compromessi. Mano a mano, il detective scopre che ciascuno dei passeggeri aveva un legame con quella vicenda: Mary era la nurse di Daisy al momento del rapimento, il dottore aveva potuto studiare grazie all’aiuto di Armstrong, suo comandante in guerra, Marquez era lo chauffer degli Armstrong, Masterman il maggiordomo e Hildegarde la cuoca, la principessa era amica ed ammiratrice della grande attrice Linda Arden madre di Sonia, della quale era madrina, la contessa era la sorella di Sonia – e il marito viveva con immenso dolore il decadimento psicologico e fisco che la tragedia le aveva procurato –  mentre McQueen è figlio del giudice rovinato dal caso, Jean Michael il padre di Susanne e il professore (in realtà un ex-poliziotto inglese) il fidanzato della ragazza e la Hubbard altri non è che Linda Arden. Ora Poirot ha due alternative: o chiudere le indagini indicando un fantomatico sicario della mafia, che si è allontanato nella notte oppure tirare le fila di un intricato complotto, nel quale sembra che nessuno possa essere innocente od estraneo.

 




Caccia al tesoro

di Carlo Vanzina. Con Vincenzo SalemmeCarlo BuccirossoChristiane FilangieriGennaro GuazzoFrancesco Di Leva  Italia 2017

Anni fa, intervistando per radio Castellano e Pipolo (allora autori di grandi campioni d’incasso, Mani di velluto, Il bisbetico domato, Innamorato pazzo, pieni di riferimenti a film e commedie famosi), Luigi Magni li rimproverava, scherzosamente, di copiare dai grandi successi altrui e loro, sempre scherzando, rispondevano: “Perciò, sta tranquillo, da te non copieremo mai!”. Anche i Vanzina nella loro lunga carriera (questo è – mi pare – il loro sessantesimo film) hanno preso in prestito situazioni e gag da altri; le loro serie televisive Anni ’50 e Anni ’60, ad esempio erano una miniera di citazioni, esplicite ed affettuose del cinema di quegli anni. In questo film il riferimento alla situazione di base di Operazione San Gennaro di Dino Risi è così voluto che alla domanda di Ferdinando/Buccirosso, quando Domenico/Salemme gli illustra il piano: “Ma non è un plagio?”, quest’ultimo risponde: “No. E’ una citazione, un omaggio!”. Non è solo il film di Risi ad essere omaggiato, c’è, ad esempio, anche una gag (la truffa al negoziante) che è molto vicina ad un episodio di Totòtruffa ’62. D’altronde i Vanzina, sono cineasti di razza con una bella tradizione familiare e anche i loro riferimenti al cinema del passato sono anche prova di una solida cultura e sensibilità cinefila. Loro – come abbiamo altre volte notato – passano da belle idee e buoni esiti di botteghino a film meno riusciti ma, alla fine, continuano a mantenere un buon livello qualitativo, rispetto ad altri “forzati della commedia” – registi costretti da una fraintesa astuzia commerciale a cimentarsi in un genere che non governano – o a autori più affini ma globalmente meno dotati di loro. Insomma, rielaborando la geniale definizione del regime data allora dal fascista ma sui generis e liberissimo Longanesi: “Sbagliando s’impera”, i Vanzina, talora, citando mantengono la loro autorevolezza.

Domenico Greco (Salemme), sfortunato attore di teatro, vive in casa della vedova di suo fratello Rosetta (Serena Rossi) il cui figlio decenne soffre di una grave disfunzione cardiaca; una lettera dagli Stati Uniti li informa che un famoso chirurgo si è dichiarato disponibile a operare il bambino ma che, tra trasferta, spese cliniche e parcella, bisognerà spendere 180.000 dollari. Disperati i due vanno a chiedere un miracolo e mentre pregano almanaccano sulla possibilità di rubare un singolo gioiello della tiara conservata con il resto del tesoro del santo; la voce di un parcheggiatore, proveniente dall’esterno, li illude dell’assenso del santo e decidono di fare il colpo. A fianco a loro però Ferdinando (Buccirosso), un separato che ha perso il lavoro e la casa e non sa come pagare gli alimenti alla moglie e al figlio Gennarino (Guazzo), ha sentito e li ricatta: se non lo ospitano e non lo fanno partecipare al colpo, lui li denuncia. Racimolati con una piccola truffa i soldi per le prime spese, Domenico si fa dare da un costumista (Enzo Casertano) una statua cava, raffigurante un santo e un costume da pope, con questo travestimento consegna la statua (con dentro Ferdinando) a don Luigi (Benedetto Casilio), il parroco della Chiesa di San Gennaro. I due, quella notte, riescono a scendere nella cripta ma hanno due sorprese: il tesoro non c’è più e da un buco del muro arrivano altri due ladri: Cesare (Max Tortora) – un piccolo professionista romano del furto – e Claudia (Filiangieri) – ex spogliarellista ed escort in cerca di una vita più “onesta”. Da un cartello fuori dalla chiesa scoprono che il tesoro è esposto a Torino. Domenico e Ferdinando (con figlio annesso: è il suo turno di affidamento) partono per Torino e, ovviamente, di lì a poco arrivano anche i due romani e, dopo qualche schermaglia, decidono di fare il colpo insieme. Scoperto che il museo, dove il tesoro è custodito è confinante con lo studio di un avvocato (Mario Zucca) della Juventus, i tre lo vanno a incontrare, fingendosi avvocati del Napoli che vogliono trattare il riacquisto di Hinguaìn e riescono ad individuare il muro dal quale si può accedere alla mostra. La notte mettono in azione il piano ma una banda più organizzata – mentre loro con un drone (rubato da Gennarino a un bambino) spiano la sala – porta via la tiara. Claudia che era di vedetta ha però riconosciuto in uno dei rapinatori un suo vecchio cliente (Pippo Lorusso) e li porta all’hotel dove alloggia; lui, messo alle stette da Domenico che si finge commissario, rivela che il suo capo ha portato il prezioso oggetto a Cannes per venderlo ad un collezionista. Il povero Cesare, colpito da un violento colpo della strega è ricoverato ma nella sua corsia arriva, per un infortunio, l’avvocato della Juve che, riconosciutolo, lo fa arrestare ma la polizia continua a brancolare nel buio e fa un accordo con il boss camorrista Mastino (Di Leva): se lui ritroverà il maltolto, suo fratello (Antonio Fiorillo), attualmente detenuto al nord, sarà trasferito a Poggioreale, dove la mamma potrà portargli gli ziti e la mozzarella che tanto ama. I nostri eroi arrivano a Cannes dove, con molta più fortuna che abilità, riescono a impadronirsi della tiara ma, mentre si godono il trionfo sulla spiaggia, arriva O’ Mastino. Tutto sembra perduto ma il cuore del camorrista farà il miracolo.




The Big Sick

di Michael Showalter. Con Kumail NanjianiZoe KazanHolly HunterRay RomanoAnupam Kher  USA 2017

Kumail Nanjiani ha scritto con la moglie, la scrittrice Emily V. Gordon, questa storia completamente autobiografica, basata sul loro amore e sulle difficoltà che hanno dovuto superare; la regia è andata, saggiamente, a Showalter alla sua terza prova come autore di commedie sentimentali con un retrogusto amaro-intellettuale. Il risultato è un Romeo e Giulietta wasp o, se volete, un Indovina chi viene a cena? multietnico, comunque gradevole, arricchito da un cast azzeccatissimo, a partire dalla nipote di Elia Kazan, Zoe, credibilissima nel personaggio e dai grandi Holly Hunter e Ray Romano. The big sick è stato presentato al Sundance Festival ed ha vinto il Premio del Pubblico nel recente Locarno e, con un budget di partenza bassissimo (5 milioni – quasi niente negli USA), ha superato i 40 milioni di incasso negli States ed è stato venduto in decine di Paesi. Ecco come un racconto di integrazione e di superamento delle barriere culturali può essere affrontato con toni lievi o – talora – drammatici ma mai predicatori e saccenti ed arrivare al pubblico ovunque nel mondo.

Chicago, Kumail (Nanjiani), un giovane comico, mentre sta eseguendo il suo numero incentrato sulle proprie origini pakistane, viene interrotto da un grido di incoraggiamento dalla studentessa Emily (Kazan); la avvicina dopo lo spettacolo, la porta nella casa che divide con un altro comedian, Chris (Kurt Braunohler), ci fa l’amore e, quando lei chiama Uber per tornare a casa è il suo telefono a rispondere (il suo lavoro per vivere è quello). Nel ritorno a casa si scambiano promesse di non vedersi più per evitare complicazioni sentimentali ma, naturalmente, di lì a poco, hanno una relazione. Kumail, va regolarmente a pranzo dalla propria famiglia – la madre Sharmeen (Zenobia Shroff), il padre Azmat (Kher), il fratello Naveed (Adeel Akhtar) e la cognata Fatima (Shenaz Tresury) – ed ogni volta (per caso!) arriva in visita una ragazza pakistana: i suoi lo vorrebbero sistemato secondo l’abitudine dei matrimoni combinati della loro terra d’origine e – già provati dalla sua vocazione (insistono perché studi legge e divenga un avvocato) – non accetterebbero mai una relazione con una occidentale; lui, per non essere  espulso dalla famiglia, finge cordialità e poi ripone le foto delle pretendenti in una scatola. Quando i genitori di Emily – Beth (Hunter) e Terry (Romano) – vengono a trovarla, lui trova modo di evitarli ma, poco dopo, lei trova la scatola delle foto e nella discussione che segue, Kumail ammette di non avere il coraggio di mettersi definitivamente con lei per non causare un dolore alla propria famiglia. Emily allora tronca la relazione e lui si butta sul lavoro, ottenendo dal talent-scout Bob Dalavan (Jeremy Shavos) un’audizione per il Festival della Comicità di Montreal. Una sera una telefonata lo informa che Emily è stata portata in ospedale dopo essere svenuta. Si precipita da lei e un dottore (Jeff Blumenkrantz) gli comunica che lei ha una grave infezione ai polmoni e dev’essere immediatamente posta in coma farmacologico; lui firma il modulo di consenso fingendosi suo marito e chiama i genitori della ragazza. All’inizio Beth e Terry lo trattano freddamente e gli chiedono di andarsene ma lui resta e, mentre la malattia di Emily non sembra regredire, imparano a conoscerlo ed a capire quanto ami la loro figlia, tanto che, assistendo ad un suo show, Beth viene quasi alle mani con un bulletto (Spencer House) che gli aveva rivolto epiteti razzisti. I medici intervengono chirurgicamente ma l’infezione, che era inizialmente regredita, si allarga. Beth vuole trasferire Emily a un altro ospedale ma Kumail ha saputo dall’infermiera (Myra Lucretia Taylor) che accudisce Emily che sarebbe assai rischioso spostarla e convince Terry; i due coniugi litigano e lei gli rinfaccia qualche grave colpa. La notte Terry va a dormire da Kumail e gli confessa di aver tradito Beth, di averglielo confessato e che per questo il loro matrimonio è in crisi. Quando arriva il giorno dell’audizione per il Festival, Kumail, anziché recitare il pezzo che aveva preparato, racconta la sua disperazione e le sue paure per la sorte della ragazza e viene scartato. Si precipita in ospedale e trova che Beth ha convinto Terry a firmare per il trasferimento; tenta invano di fermarli ma è la direttrice sanitaria (Linda Edmond) ad opporsi e a convincerli ad avere fiducia nel suo staff. Infatti, di lì a poco, Emily si risveglia dal coma. A Kumail la bella notizia arriva mentre è a casa; quando sta uscendo arrivano i suoi genitori indignati perché lui ha scaricato la ragazza (Vella Lovell) che loro avevano scelto come nuora; lui confessa la verità e loro lo disconoscono. Arrivato all’ospedale, però, Emily, che non sa nulla della sua dedizione e che è ancora amareggiata con lui, gli chiede di andarsene. Quando lei esce dall’ospedale, Beth le organizza una festa di bentornato e lo invita; Kumail le chiede ad Emily di rimettersi insieme, ma lei non se la sente.  Allora lui – dopo essere andato a pranzo dai suoi e aver loro comunicato che non accetta il loro disconoscimento – decide di trasferirsi a New York con due amici comici, C.J. (Bo Burnham) e Mary (Aidy Bryant). Dopodiché si presenta a cena dai suoi, parla loro dei suoi piani e comunica che si rifiuta di permettere loro di disconoscerlo. Ad Emily capita di vedere su you-tube la registrazione della sua performance alle audizioni e va a trovarlo per dirgli quanto apprezzi quello che ha fatto per lei e lui le comunica che sta per partire. Durante un numero a New York, Kumail viene disturbato da qualcuno del pubblico…




The Place

di Paolo Genovese. Con Valerio MastandreaMarco GialliniAlessandro BorghiSilvio MuccinoAlba Rohrwacher Italia 2017

Dopo il successo di Perfetti sconosciuti Genovese (che pure veniva dagli ottimi incassi dei due Immaturi  e de La banda dei Babbi Natale) ha scelto di percorrere di nuovo la strada del racconto drammatico, corale ed emblematico. Per farlo ha preso le mosse dalla serie americana The booth at the end, riproponendone il format – l’uomo con l’agenda (nella serie è Xander Berkeley) seduto in fondo al caffè che propone scambi, spesso inumani, par realizzare i desideri – ma anche molte delle storie. Il tema, dal Faust in poi, non è nuovissimo: al cinema da Il milione di Renè Clair, a Se avessi un milione (film ad episodi, diretto da Ernst Lubitsch ed altri 7 registi), a Il carnevale della vita di Julien Duvivier più volte sono state sviluppate storie che scaturivano dalla possibilità magica di esaudire i propri desideri. Anche la commedia musicale, con il delizioso Un Mandarino per Teo (Soldi, soldi, soldi: ricordate la canzone?) aveva immaginato un tentatore che promette la felicità in cambio, in quel caso, della morte di uno sconosciuto (nel 2009 Richard Kelly aveva proposto un tema molto simile, traendo il suo The box da un racconto di Richard Matheson). Nella serie e nel film l’Uomo non è chiaramente (come nei titoli che abbiamo citato) un angelo o un demone ma piuttosto la rappresentazione dell’es (il termine psicanalistico dell’istintualità contrapposta all’Io) dei personaggi. Il cast è uno dei pregi ma anche uno dei difetti del film: sono tutti buoni attori ma si portano appresso un inevitabile alone di già visto e l’eccessiva teatralità del congegno narrativo (che era già nella serie televisiva ma i 23 minuti di durata di ogni episodio aiutavano ad asciugare il racconto) li porta ad una recitazione un po’ troppo d’accademia (la Lazzarini ce l’ha di suo e già in Mia madre di Moretti appariva in parte fuori contesto). Non a caso sono più credibili Mastandrea e la Ferilli che al teatro sono arrivati dopo il cinema, mentre la migliore, la meno scontata appare Silvia D’Amico. E’ comunque una buona prova, della quale la regia, le musiche di Maurizio Filardo – con l’irrompere di A chi di Fausto Leali e di Sunny di Bobby Hebb – e la fotografia di Fabrizio Lucci sono di veri punti di forza; disturba (ma forse solo me) il depistante moralismo delle varie conclusioni e qualche concessione al conformismo impegnato (l’allusione a Cucchi, il femminicidio). Rimane la voglia di una qualche ribalda libertà di ispirazione ma The place ha un suo coraggio e una lodevole voglia di novità.

Nel tavolino di un bar anonimo chiamato The Place un Uomo (Mastandrea) riceve persone che gli confidano i loro desideri; lui promette di realizzarli, in cambio di missioni – spesso ignobili – che affida loro, traendole da un’agenda piena di scritte. La signora Marcella (Giulia Lazzarini) –  -che vorrebbe far uscire dall’Alzheimer che lo affligge il marito – ha il compito di costruire una bomba per metterla in un luogo affollato; il professionista Gigi (Vinicio Marchioni), padre di un bambino leucemico, in cambio della sua guarigione deve uccidere una bambina; il poliziotto Ettore (Giallini) per ritrovare una refurtiva, che si è lasciato scappare, dovrà picchiare a sangue uno sconosciuto; ad Azzurra (Vittoria Puccini) per risvegliare l’antica passione nel marito l’Uomo chiede di mettere in crisi una coppia; il cieco Fulvio (Borghi) riavrà la vista se violenterà una donna; il garagista Odoacre (Rocco Papaleo) sogna una notte di sesso con la pin-up appesa nella sua officina: potrà averla se salverà una bambina in pericolo (quella del compito di Gigi); suor Chiara (Rohrwacher) ha perso Dio e per ritrovarlo dovrà rimanere incinta;  Martina (Silvia D’Amico), ragazzotta coatta, vuole diventare più bella e le viene chiesto di metter in atto una rapina che frutti 100.000 euro e spicci; di lì a poco lei porterà con se il teppistello Alex (Muccino), che l’aiuterà nella rapina se l’Uomo farà sparire dalla sua vita l’odiato padre.  L’Uomo è sempre schivo e stanchissimo ma la cameriera Angela, la sera quando sono soli, riesce a strappargli qualche rarefatta confidenza. Le storie dei personaggi si dipanano e spesso si intrecciano: Marcella, terminata la bomba, ha mille scrupoli; Gigi si accorge di Odoacre e, questi, dopo un maldestro tentativo dell’altro di travolgere la bimba con la macchina, decide di rapirla per tenerla al sicuro (intanto la modella della foto va nella sua officina e fa la carina con lui); Ettore ha picchiato brutalmente un fermato e trova la refurtiva ma il ladro – si tratta di Alex ed è suo figlio-  gli sfugge e lui cambia il desiderio: per rivederlo e cercare di recuperarlo (lui è stato un pessimo padre) accetta di nascondere una denuncia di stupro; Azzurra seduce un vicino di casa e fa in modo che la moglie lo sappia e, quando lui se ne va di casa e lei lo confessa al marito, questi ha una reazione, dapprima, solo passionale ma, via via, si fa sempre più violento e ossessivamente geloso; Fulvio incontra proprio suor Chiara e, dopo una serie di appuntamenti, arriva la sera in cui dovrebbe stuprarla.




La ragazza nella nebbia

di Donato Carrisi. Con Toni ServilloAlessio BoniLorenzo RichelmyGalatea RanziMichela Cescon  Italia, Francia, Germania 2017

Carrisi è uno dei nostri giallisti più tradotti in Europa, ha alle spalle un solido lavoro di sceneggiatore (Casa famiglia, Nassirya, Moana) ed è un accanato cinefilo come ben si vede in questa sua opera prima, nella quale abbondano le citazioni: da quelle dichiarate al Fincher diSeven e de L’amore bugiardo, a I soliti sospetti (la serie di finali a sorpresa) e a Fargo (la poliziotta con il colbacco, che nel romanzo era un uomo), alle atmosfere di The village di Shyamalan ma anche dei due Fiumi di porpora con Reno poliziotto scontroso, forse anche l’assai meno riuscito La ragazza del lago di Molaioli. Sicuramente meno voluti sono i riferimenti a Omicidio all’italiana di Maccio Capatonda e al recentissimo L’uomo di neve, anche se l’allegra satira sui format televisivi sanguinolenti del primo, qui, prendendosi sul serio, rischia di sfociare nel moralismo conformista, mentre la solitudine delle valli innevate di Carrisi è più efficace della stucchevole neve norvegese di Alfredson. Quest’ultima notazione aiuta a capire che siamo davanti ad un buon film, con un cast europeo notevole (anche se Servillo, come talvolta gli capita, sembra compiacersi troppo della propria a scapito della credibilità del personaggio), una regia nient’affatto insicura e soprattutto la scommessa vinta di fare un’opera di genere di qualità (anche commerciale – vengono in mente gli ottimi esordi di Petri con L’assassino e di Damiani con Il rossetto) .La trama gialla è ben calibrata anche se, nelle ultime scene, appesantita da finali via via un po’ telefonati. Insomma, però, ben venga un “whodunit” (poliziesco con scoperta finale dell’assassino) italiano non televisivo e di buon impatto. Avercene.

Ad Avechot, piccolo paese di montagna, l’agente Mayer (Cescon) porta l’ispettore Vogel (Servillo) dallo psichiatra Flores (Reno) perché, a seguito di un incident, sembra aver perso la memoria. Già dalle prime battute del colloquio, al medico appare chiaro che l’uomo finge l’amnesia e lo fa parlare; lui è un poliziotto famoso per aver risolto casi importanti sempre con grande clamore giornalistico ma che è incappato in un guaio giudiziario: l’ultimo suo arrestato, sospettato di essere un serial killer, era stato assolto in appello e aveva ottenuto un risarcimento milionario. Chiamato, insieme al suo braccio destro Borghi (Richelmy) ad Avechot per indagare sulla scomparsa dell’adolescente Anna Lou (Ekaterina Buscemi), una ragazzina dai lunghi capelli rossi tutta casa e comunità religiosa, si era subito messo all’opera chiamando la sua amica/nemica Stella Honer (Renzi), star giornalistica televisiva specializzata in casi criminali. La presenza della televisione convince la Polizia a mandare uomini, apparecchiature ed elicotteri per aiutare l’ispettore. Viene fuori che un ragazzo nevrotico, Mattia (Jacopo Olmo Antinori), era solito riprendere di nascosto la ragazzina e che in un video da lui girato il giorno della scomparsa vicino alla casa di Anna Lou si veda aggirarsi la macchina di Loris Martini (Boni), professore di liceo trasferitosi da poco dalla città nel villaggio, decisione non indolore, nata dal tentativo di ricucire il rapporto con la moglie Clea (Lucrezia Guidone) reduce da una relazione adulterina. Ora loro e la loro figlia Monica (Marina Occhionero) – che è furiosa con il padre per aver dovuto lasciare la città ed i suoi amici – vivono alla meglio con il magro stipendio di insegnante di lui e sono pieni di debiti. Vogel, sollecitato dai media e dai disperati genitori (Daniela Piazza e Thierry Toscan) di Anna Lou, si convince che gli indizi che portano a Martini – il filmato di Mattia, la mancanza di un alibi per il giorno della scomparsa, una misteriosa ferita alla mano e un sms ambiguo ad una sua allieva (Sabrina Martina) – siano prove sufficienti e comincia a costruirgli intorno un muro di sospetti, lasciando parte del lavoro sporco alla Honer  In paese si appalesa il famoso avvocato Levi (Antonio Gerardi) che si offre di difendere Martini, mettendolo in guardia contro la pericolosità e il cinismo del poliziotto ma dopo un drammatico incontro a due con il suo persecutore, a seguito del ritrovamento dello zaino di Anna Lou con tracce del sangue del professore, questi viene arrestato. Vogel si gode la ritrovata fama mediatica ma la telefonata di una giornalista tedesca (Greta Scacchi), che si è rovinata la carriera per inseguire l’Ombra (un serial killer che trent’anni prima uccideva in tutta la valle adolescenti dai capelli rossi rimetterebbe tutto in discussione ma…