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Visages, villages

di JRAgnès Varda Documentario Francia 2017

Agnès Varda conosce il fotografo, artista, regista JR e decide di fare un viaggio con lui nei paesini della Francia per ritrarre l’anima delle persone che incontreranno. Lei ha 88 anni e lui 33 ma a nessuno dei due pesa quella differenza e partono con il furgone-laboratorio fotografico (ha l’aspetto di una vecchia macchina fotografica e sviluppa, da un fianco, gigantografie). Arrivano in un villaggio semi-abbandonato; era un paese di minatori ma ora le miniere sono chiuse e le case sono quasi tutte vuote. C’è solo una signora anziana che non se la sente di abbondonare la casa lasciatale dal padre minatore, del quale conserva vecchie foto, insieme ai compagni di lavoro a testimonianza della loro durissima vita ma lei ricorda ancora il “pane di miniera”, l’avanzo di pagnotta che il padre portava a casa, finito il lavoro e che lei, bambina, accoglieva festosamente: era un po’ della miniera del papà che arrivava da lei. Loro la fotografano e con la foto le decorano la facciata della casa che, da anonima, diventa viva e personale. Arrivano poi in un piccolissimo centro abitato e JR nota la bella cameriera dell’unico bar-trattoria. La fotografano scalza, ne incollano l’immagine su di un muro e i suoi bambini giocano a fare il solletico agli enormi piedi della mamma. In una fabbrica fotografano, nei vari turni di riposo tutti i dipendenti, decorandone le mura esterne con le gigantografie messe in modo da farli apparire tutti protesi gli uni verso gli altri. Negli spostamenti Agnès e JR discutono di tutto, di arte, della loro vita e lei ogni tanto si arrabbia un po’ perché lui non si toglie mai gli occhiali da sole (li avverte come una barriera contro di lei) e ricorda come nel 1961, durante le riprese del suo corto Le fiancés du Pont MacDonald, nel quale Jean-Luc Godard rifaceva, scherzosamente, Buster Keaton e Anna Karina la sua partner Dorothy Sebastian, lo scorbutico regista, anche lui con gli occhi costantemente nascosti dagli occhiali scuri, se li era tolti per farle un piacere. Ora sono in un allevamento di capre e, di fronte alla loro sorpresa perché le bestie sono senza corna, un allevatore spiega che da quelle parti le bruciano quando le bestie sono piccole, per evitare che si azzuffino di continuo, rischiando di morire, con nocumento alla produzione del latte; un’allevatrice (che verrà immortalata con una delle sue capre) non la pensa così: lei ama le capre ed i gatti e lascia che gli animali seguano, liberi, la loro natura. Arrivano a Le Havre e incontrano i lavoratori del porto – mitici eroi di grandi lotte sindacali – ma Agnès vuole conoscere le loro mogli e, insieme a JR fotografa tre di loro e ne incolla gli ingrandimenti su una catasta di conteiner; togliendone tre all’altezza del cuore per farvi accomodare le tre donne. Tra gli incontri, non manca un vagabondo che vive con la pensione minima (lui ha bisogno di così poco che è convinto sia la “massima”) ed è felice perché con tappi di bottiglie e materiale di risulta si è costruito una baracca coloratissima e piena di collages. I viaggiatori si concedono anche delle deviazioni sentimentali: Agnès va a vedere la casa nella quale era morta la scrittrice Violette Leduc e le tombe di Henri Cartier- Bresson e della moglie Martine (anche lei grande fotografa); vanno infine a trovare la nonna centenaria di JR, che li accoglie festosa e fiera del nipote. In Normandia, dove Agnes, giovanissima, aveva cominciato ad appassionarsi di fotografia artistica, trovano, in riva al mare, un bunker tedesco piantato nella sabbia. JR prende un nudo maschile dalle foto giovanili di lei e vi incolla la gigantografia: l’effetto è splendido e poco male se subito l’alta marea la lava via. Arrivano in Svizzera a Rolle, il paese nel quale vive Godard e lei è emozionata: è molto tempo che non vede il caro amico e maestro ma lui le fa un brutto scherzo: all’ora dell’appuntamento non le apre e le fa trovare sulla porta una frase cara al suo scomparso marito Jacques Demy; lei ne soffre e JR, abbracciandola, la porta in riva al lago di Ginevra e lei si commuove al ricordo di una vacanza con il marito, Jean-Luc e Anna Karina. JR per consolarla, si leva gli occhiali. Alla fine del viaggio, dopo una visita di controllo agli occhi malati di lei, lui le fotografa gli occhi e i piedi e ne incolla l’ingrandimento su due cisterne attaccate ad una locomotiva: “Così – le dice – i tuoi occhi e i tuoi piedi andranno in luoghi dove tu non potrai andare”.

Questo film era uno dei cinque candidati all’Oscar di quest’anno quale miglior documentario; ha vinto l’americano Icarus ma la Varda ha avuto il Premio Speciale alla Carriera. In effetti è un piccolo capolavoro e lei vi fa trasparire tutta la sua forza e la sua poesia di autrice. E’ stata l’unica regista nel complesso e multiforme universo della Nouvelle Vague e non è un caso: meglio di tanti altri suoi colleghi, la sua filmografia esprime quell’èsprit de liberté che è proprio di quel movimento: dal suo primo successo Cleo dalle 5 alle 7, a Il verde prato dell’amore a Senza tetto né legge (tutti incentrati su figure di donne orgogliosamente e dolorosamente libere) è passata a raccontare, guidata solo dalle proprie emozioni, l’affetto per l’amica Jane Birkin in Jane B. par Agnès V. e l’amore per il marito scomparso in Garage Demy. I suoi documentari, poi, sono un raro esempio di capacità di cogliere lo splendore del vero, altro comandamento della Nouvelle Vague: gli struggenti Les Demoiselles ont eu 25 ans e L’univers de Jacques Demy, in ricordo dell’adorato marito e il recente Les plages d’Agnes son esempi di un racconto personalissimo, che del documentario hanno la forma ma dalla realtà sanno trarre – verrebbe da dire spudoratamente -mille suggestioni autobiografiche. Così questo Visages, villages parte da un idea – catturare i volti di piccoli villaggi – per poi tradirla, sulla base degli universi dei due autori. Lei si commuove, si appassiona, si addolora e la sua commozione, la sua passione, il suo dolore sono i materiali veri del racconto (un operaio della fabbrica dirà: “L’arte non deve sempre stupire?”, cogliendo il senso reale dell’operazione). I suoi occhi e i suoi piedi, al di là dell’effimera vita delle gigantografie, continueranno a vagare, liberi nella ricerca della meravigliosa relatà/irrealtà  del piccolo, irripetibile quotidiano.




Il Giustiziere della Notte (Death Wish)

di Eli Roth. Con Bruce WillisElisabeth ShueVincent D’OnofrioDean NorrisJack Kesy  USA 2018

Paul Kersey (Willis) è un chirurgo e quotidianamente ha a che vedere con la violenza delle strade di Chicago, dovendo curare decine di feriti da armi da fuoco. La figlia Jordan (Camilla Morrone) è stata accettata al college a New York e lui e la moglie Lucy (Shue) la accompagnano a giocare a football – durante la partita, Paul dà prova di autocontrollo, non raccogliendo le provocazioni di un padre attaccabrighe (Andreas Aspergis) – e poi, insieme al fratello di lui Frank (D’Onofrio), vanno a festeggiare in un locale. All’uscita Frank, che ha avuto qualche problema con la giustizia ed è senza lavoro, gli chiede un prestito. Il ragazzo dal car-valet, Miguel (Louis Oliva), ha visto il movimento di soldi tra i due e, quando va a prendergli la macchina, ne fotografa dalla segreteria l’indirizzo. Quel giorno è anche il compleanno di Paul e lui, Lucy e Jordan hanno in programma una cena fuori ma l’ospedale lo chiama per un un’urgenza. Madre e figlia, rimaste a casa, decidono di preparargli una torta ma Miguel e altri tre ceffi mascherati fanno irruzione in casa e costringono Lucy ad aprire la cassaforte. Intanto Joe (Ronnie Gene Benvis), il bandito che tiene a bada a Jordan, tenta di violentarla, lei lo ferisce con un paio di forbici, scoprendogli il volto, i banditi perdono la testa e sparano a lei e la madre, uccidendo Lucy e ferendo gravemente Jordan; l’ambulanza le porta all’ospedale dove lavora Paul e, qui, i detective Kevin Raines (Norris) e Leonor Jackson (Kimberly Elise), gli raccontano cosa è successo e cercano di rassicurarlo sulla possibilità di trovare i colpevoli. Paul non riesce più a lavorare, non ce la fa a dormire nel letto matrimoniale e si rifugia in cantina dove guarda la tv, mangia cibi pronti e dorme su un divano; l’unica sua attività è quella di stare ore a parlare con la figlia in coma – sostituito ogni tanto da Frank e dalla migliore amica della ragazza, Sophie (Stephanie Janusaukas) – e di chiedere notizie a Raines. Un giorno va nell’ufficio di questi e vede sulla parete un mare di bigliettini relativi a casi come il suo irrisolti. La sera incontra due teppisti (William Gines e Enrique Guzman) che infastidiscono una ragazza (Naomi Frenette); fa per difenderla ma viene preso a calci e lasciato in strada. Torna a casa e vede in televisione la suadente Bethany (Kirby Bliss Blanton), che reclamizza il proprio negozio di armi; lui ci va e sta per comprare qualcosa (l’acquisto e l’ottenimento del porto d’armi sono facilissimi ed immediati, gli spiega Bethany) ma si ferma quando si accorge di essere ripreso da una telecamera. Rientrato al lavoro, riesce ad impadronirsi della pistola Glock di un ferito e si allena per imparare ad usarla. Una notte, con addosso una felpa con cappuccio, si aggira nei bassifondi e assiste al violento furto d’auto da parte di due malviventi (Mike Chute e Sebastien Peres); lui li uccide ma nella sparatoria, per imperizia, si ferisce la mano con il rinculo dell’arma. Una ragazza, Natasha (Kanientiio Horn) ha ripreso la scena con lo smartphone e, appena lo posta, definendo lo sconosciuto giustiziere Il Seminatore di Morte, il filmato diventa virale. Subito nasce nella città, attraverso tutti i media, un dibattito nel quale una forte maggioranza si dichiara favorevole al Seminatore. Paul – come nota l’analista (Wendy Crewson) che lo ha in cura – sta decisamente meglio. Qualche giorno dopo, curando Tyler (Isaiah Gero-Marsman), un bambino al quale hanno sparato ad una gamba, viene a sapere che il colpevole è uno spacciatore, che si fa chiamare Il Gelataio, che vuole che tutti i bambini del quartiere vendano droga per lui; poco dopo, sempre coperto da un cappuccio, spara allo spacciatore, uccidendolo. Un giorno arriva all’ospedale, morente, Miguel con al polso uno degli orologi che erano stati rubati a casa sua. Dal telefonino di questi, Paul ricava l’indirizzo del ricettatore Ponytail (Ian Matthews) e vi si reca, fingendo di cercare un regalo per la moglie ma, l’altro, da una targhetta che pende dalla felpa, lo riconosce e chiama un altro dei rapinatori, chiamato The Fish (Kesy); nella sparatoria i due malviventi cadono uccisi ma Paul riporta una brutta ferita alla spalla che, per non destare sospetti, si cura da solo con colla e cucitrice. La polizia trova sul luogo del delitto un anello della moglie di Paul e, dati i suoi precedenti, Raines sospetta che Frank possa essere il Seminatore. Questi va a casa del fratello e, sceso in cantina, capisce tutto. Una telefonata dall’ospedale, interrompe il teso colloquio tra i due: Jordan è uscita dal coma. Paul, che ha avuto da The Fish, in punto di morte, l’indirizzo del garage nel quale lavora Joe, lo raggiunge, lo tortura per sapere il nome del quarto assassino e quando questi glielo rivela – si tratta dell’imprendibile Knox (Beau Knapp) – lo uccide. Poco dopo gli arriva una telefonata di Knox, che gli dà l’appuntamento in un’affollata discoteca. Qui, in uno scontro a fuoco, il bandito viene ferito e riesce a fuggire ma viene ricoverato proprio nell’ospedale di Paul –all’insaputa di questi- e, quando viene dimesso, capita in ascensore proprio con lui che sta riportando a casa la figlia; lo saluta, minacciosamente, con il suo nome e il dottore va da Bethany, comprando – alla luce del sole – un intero arsenale. Qualche sera dopo, Knox con alcuni scagnozzi va a casa sua e lui, dopo aver nascosto Jordan in un ripostiglio, fa fuori tutti. Raines e Jackson, giunti sul luogo del massacro, fanno finta di credere (ma hanno capito tutto) che quella sia l’unica sparatoria nella quale, per legittima difesa, lui sia stato coinvolto. Jordan parte per il college e Paul sembra pacificato ma, incrociando un ladruncolo (Anoulith Sintharaphone), fa con le dita il gesto di sparargli.

L’inglese Michael Winner, nell’immaginario collettivo, è noto soprattutto come il regista del controverso (per sciocchi pregiudizi idelogici) Il giustiziere della notte del 1974, che, certamente, è il suo capolavoro – tanto da riverberare di se titoli precedenti del periodo (Io sono la legge, Chato, Professione assassino, Scorpio, L’assassino di pietra), rivalutati da una critica che non sempre ne aveva compreso la forza autoriale; in realtà – ma pochi lo ricordano – lui (sempre con la sua caratteristica di forte narratore, senza retorica e abbellimenti)  era stato un interessante esponente del free-cinema inglese, con film come Chiamate West 11: risponde un assassino, Il complesso del sesso e I ribelli di Carnaby street (orribili titoli che la nostra distribuzione di allora riteneva accattivanti). Questo per sottolineare come fare un remake del Giustiziere è un po’ come rifare Senso di Visconti: si può raccontare l’infelice amore di una nobile italiana per un seduttivo ufficiale austriaco ma non ricreare il pathos viscontiano. Eli Roth è un buon professionista, ha al suo attivo principalmente qualche horror di routine (Cabin Fever, Hostel e Hostel: part II) e porta a casa un prodotto di buona confezione, con vari richiami ai precedenti Giustizieri (nella scena della tortura in garage anche a Un borghese piccolo, piccolo di Monicelli). Il primo ad aver avuto l’idea del remake era stato Stallone, che avrebbe voluto interpretarlo e dirigerlo; certamente anche questa versione non sarebbe stata all’altezza dell’originale ma probabilmente la fissità – suo pregio e difetto – di Sly sarebbe stata più simile alla impenetrabilità della maschera di Bronson, rispetto a Willis che nell’interpretare Paul Keersey (qui dottore, anziché architetto come nel film di Winner e nel  romanzo di Wendell Mayes), in alcuni momenti, incongruamente sembra riproporre l’ironia del suo vecchio serial Moonlighting.




Quello che non so di lei (D’après une histoire vraie)

di Roman Polanski. Con Emmanuelle SeignerEva GreenVincent PerezDominique Pinon   Francia, Belgio, Polonia 2017

Delphine de Vigan (Seigner), scrittrice di successo, sta firmando la copie del suo ultimo romanzo – basato sulla storia della madre morta suicida – e quando, affaticata e angosciata dalla folla dei fan, chiede all’editor Karina (Josée Dayan) e all’addetta stampa Oriane (Camille Chamoux) di chiudere l’incontro, i presenti si arrabbiano e lei non può firmare (per non aggravare la tensione) la copia che le porge una coinvolgente sconosciuta (Green). Dopo poco, con le sue due accompagnatrici, si reca ad una festa per incontrare il suo editore italiano (Leonello Brandolini) e lì la rincontra: si chiama Leila ma si fa chiamare Lei/Elle e, dopo averle firmato il libro, si ferma a bere e a chiacchierare con lei. Da qui nasce una complessa, ambigua amicizia, nella quale la scrittrice è sempre più affidata all’altra. Elle dice di essere anche lei scrittrice ma che il suo nome non appare mai perché il suo lavoro è quello di scrivere “autobiografie” di personaggi celebri.  Delphine è fidanzata con Francois (Perez), critico letterario di successo e star di una seguita trasmissione televisiva, che sente che Elle ha un’influenza negativa su di lei e cerca, invano, di metterla in guardia. Lui deve partire per un giro di interviste ai maggiori scrittori statunitensi ed inglesi e Elle – a cui Delphine (poco abile nel gestire internet) ha, di fatto, affidato la piena gestione della sua vita pratica – le si piazza in casa, dicendole che il proprietario dell’appartamento nel quale abitava se lo era ripreso. Un giorno Delphine fa colazione con Karina e scopre che Elle ha scritto a tutti i suoi contatti, invitandoli a non farsi vivi, perché la stesura del nuovo romanzo (sul quale Leila aveva da sempre espresso aspre riserve, invitandola a continuare a scrivere di se stessa) procedeva a rilento e lei aveva bisogno di concentrazione. Tornata a casa, esasperata, litiga con l’amica, che se ne va. Poco tempo dopo, però, uscendo di casa inciampa per le scale e si frattura una gamba e Elle, che era andata a riprendere le sue cose la accompagna in ospedale e ritorna con lei. Decidono di andare per qualche tempo nella casa di campagna di Francois e lì, di nascosto dall’altra, Delphine – abbandonato il romanzo sul quale si era arenata – comincia a scrivere un libro sulla vita, attraversata da tragedie, dell’amica. Un giorno questa si mette ad urlare: ha visto un topo e lei è terrorizzata dai ratti; si precipita a comprare trappole e veleno e chiede a Delphine di portarli in cantina, attraverso la botola di comunicazione. Lei, seppur impedita dalla gamba ingessata, lo fa e quando risale vede Elle accanto agli appunti del libro su di lei che sta scrivendo. Poco dopo una zuppa di pesce preparata dall’amica le fa venire un forte malore e, per giorni e giorni, continua a stare malissimo. Una notte Raymond (Pinon) il vicino, mandato da Francois – preoccupato per l’assenza di notizie – bussa a porte e finestre ma Delphine, debilitata, risponde con un filo di voce e l’altro non la sente ma, a questo punto, lei, raccolte le ultime forze, riesce a fuggire nella notte. Viene ritrovata svenuta in un fossato il giorno dopo e in ospedale, dove la raggiunge Francois, le diagnosticano un’intossicazione da veleno per topi. Qualche tempo dopo la vediamo firmare le copie del suo romanzo Da una storia vera e tra il pubblico, con un sorriso enigmatico, si materializza, per poi subito scomparire Elle.

Dico, in premessa, che ho scelto di parlare di questo film, non il migliore e il più originale di Polanski, scrivendone le lettere in maiuscolo nell’occhiello, per rispondere all’ipocrisia moralistica che sta di nuovo (in questi giorni di Metoo) circondando il nome del grande regista; è, direi, la prima volta che un suo film viene lanciato, lasciando quasi in ombra il suo nome. Non è questione di condanna o assoluzione: un autore si giudica per le sue opere, lasciando il giudizio morale ad altre, distinte sedi. In questi giorni si sono fatti nomi di artisti grandi ma non certo irreprensibili (Caravaggio, Picasso, Pasolini, Chaplin); a me viene in mente un esempio letterario: nelle Lettere dello yage – scambio di corrispondenza tra Allen Ginsberg e William Burroughs sui rispettivi viaggi in Sud-America per provare nuove sostanze allucinogene – Burroghs lamenta la scarsa igiene dei ragazzini indios con i quali fa l’amore. Nessuno allora si è soffermato moralisticamente su questo particolare ma, giustamente, sul valore letterario e documentario di un importante momento della scrittura “lisergica” dei due poeti. Tornando al film, non è come ho detto un capolavoro ma è pur sempre un bel racconto, molto interno ai temi di Polannski: la doppiezza, l’ambiguità, la forza irresistibile del male, come in Repulsion, Rosemary’s baby, La nona porta, L’uomo nell’ombra e, in qualche modo, Venere in pelliccia. L’idea di adattare il romanzo della vera  Delphine de Vigan, Da una storia vera, è di Olivier Assayas (autore del non dissimile Sils Maria) e, certo, ha molti precedenti – Misery non deve morire, Eva contro Eva, Inserzione pericolosa, Il servo, tra i tanti, per non parlare degli ottimi thriller televisivi degli anni ’90, con al centro la feroce difesa di un’identità carpita – e che Roman lo abbia considerato poco più che un divertissement lo si evince anche dalla presenza nel cast di amici non attori come il vero editore Leonello Brandolini e la regista Josée Dayan ma, in molti momenti, la mano di Polanski si fa sentire, eccome! Forse la dura Seigner non è sempre assonante con le fragilità di Delphine ma la dark Eva Green è una splendida e naturalmente polanskiana presenza.




La forma dell’acqua – The Shape of Water

di Guillermo Del Toro. Con Sally HawkinsMichael Shannon (II)Richard JenkinsDoug JonesMichael Stuhlbarg   USA 2017

Baltimora, 1962. Elisa Esposito (Hawkins), ragazza muta addetta alle pulizie in un laboratorio della Difesa, vive una vita solitaria ed appartata; ogni mattina compie gli stessi gesti: si sveglia, si masturba nella vasca mentre fa il bagno e prepara la colazione per sé e per il suo vicino e – insieme alla collega Zelda (Octavia Spencer) – unico amico: il disegnatore, semi-disoccupato e gay Giles (Jenkins). Un giorno al laboratorio arriva una cisterna blindata ed Elisa, che stava facendo le pulizie, guarda in un oblò e vede uno strano uomo-pesce (Jones). L’arrivo della creatura appare subito misterioso e strategico: l’Esercito affida la gestione della Sicurezza al temibile Richard Strickland (Michael Shannon), che effettua brutali esperimenti sulla creatura. Una volta Elisa e Zelda vengono chiamate d’urgenza dal capo della sicurezza interna, Fleming (David Hewlett), per pulire il sangue nel pavimento della stanza dove è rinchiusa la creatura che, per reagire alle torture di Strikland, gli aveva staccato due dita con un morso;  Elisa le mette in un sacchetto e le dà a Fleming; poco dopo fa in modo di rimanere sola nella stanza e dà un uovo sodo alla creatura, che, dapprima diffidente, lo mangia e la ragazza gli comincia a parlare con il linguaggio dei segni. Ora lei ogni giorno va di nascosto dall’anfibio nell’intervallo del pranzo, gli porta le uova, ci parla e gli fa ascoltare ballabili con un giradischi portatile. Un giorno, nella stanza, entrano Strickland, al quale sono state riattaccate chirurgicamente le dita, il dottor Robert Hoffstetler (Stuhlbarg) – che è lo scienziato incaricato di studiare la creatura – e il generale di Stato Maggiore Hoyt (Nick Searcy), che ordina ai due di vivisezionarlo. Elisa, che si è nascosta, apprende con orrore che l’anfibio è oggetto di studi per migliorare le possibilità dell’uomo nella corsa allo spazio e che l’ordine ò stato dato nel timore che i russi se ne possano impadronire. Hoffstetler, che ha visto la ragazza ma non ne ha fatto cenno, tenta di opporsi ma invano; poco dopo lo vediamo in un luogo deserto, scambiarsi ridicole parole d’ordine in un russo con un omaccione (Marvin Kaye) che lo porta nel retro di un ristorante russo: in realtà il dottore è una spia sovietica (il suo vero nome è Dimitri Mosenkov), incaricata da KGB di carpire i segreti della creatura e adesso, dopo aver informato il suo superiore Mihalkov (Nigel Bennet) delle intenzioni degli americani,  riceve  l’ordine di praticare una iniezione distruttiva  all’essere  per osteggiare gli americani; lui vorrebbe tenerlo in vita ma il russo (come prima il generale americano) è irremovibile. Elisa decide di rapire l’anfibio e chiede disperatamente aiuto a Giles ma questi che spera di riavere il suo vecchio lavoro  nell’azienda di pubblicità diretta da mr. Arzoumanian (John Kapelos) e si è innamorato del bel gestore (Morgan Kelly) di un bar specializzato in pessime torte, si rifiuta; poco dopo però Azoumanian gli rifiuta un bozzetto e il cameriere, risponde con sdegno alle sue avances e lui va da Elisa e con lei organizza la fuga, predisponendo un furgone che rende uguale a quello della lavanderia che serve il laboratorio. Hoffstetler, che ha capito tutto, aiuta Elisa facendo saltare la  luce al momento del rapimento e dandole il composto salino ed i consigli che servono a tenere in vita la creatura. All’ultimo momento anche la reticente Zelda si unisce al complotto e l’anfibio arriva sano e salvo a casa di Elisa. Strickland è furioso: ha, per la prima volta in vita sua, perso, il furgone nella fuga ha distrutto la Cadillac nuova che si era appena regalato e, soprattutto, Hoyt lo minaccia di tremende ritorsioni se non ritroverà l’anfibio. Elisa è felice e, in breve, ha con la creatura dei bellissimi rapporti sessuali, per lo stupito divertimento di Zelda; Giles invece – dopo un drammatico scontro perché l’anfibio aveva mangiato uno dei suoi gatti – scopre che l’essere ha il potere di guarire le ferite, di fermare il processo di invecchiamento e di far ricrescere i capelli (la calvizie è un suo narcisistico cruccio). Elisa si è innamorata della creatura ma decide, per salvarlo, di portarlo, nel giorno in cui è previsto un acquazzone, nel canale del fiume che, ingrossandosi, lo faccia arrivare al mare. Hostetler riceve l’ordine di tornare in patria ma, intanto, Strickland che sospetta di lui, lo segue; così, quando, nel solito luogo degli appuntamenti segreti, vede l’omaccione ferirlo mortalmente, lo uccide; poi – convinto di aver scoperto una grande rete di spionaggio – lo tortura e, l’altro, irridente in punto di morte gli rivela la verità: è stato sconfitto da due donne delle pulizie. Pazzo di rabbia va a casa di Zelda e il marito di questa, (Martin Roach), terrorizzato, gli rivela il nascondiglio dell’anfibio. Elisa e Giles, intanto, sono al canale e lei, pur consapevole di doverlo lasciar andare, soffre all’idea di doverlo lasciare. Arriva Strickland che tramortisce Giles e spara a Elisa ed all’uomo pesce; questi, grazie ai suoi poteri, guarisce e uccide Strickland, poi si getta in acqua con il corpo di Elisa e in acqua, le risana le ferite e le fa crescere le branchie così che lei possa rimanere per sempre con lui nel mare.

Il segno distintivo della filmografia di Guillermo Del Toro è sempre stata la commistione tra il fantasy e il damma di sentimenti, sin da La spina del diavolo e Il labirinto del fauno così come il tenero ed inquietante trasformista Doug Jones è presente in molti suoi lavori (oltre a questo e ai due citati, lo abbiamo visto anche in Mimic e nei due Hellboy). Qui però, Del Toro ha trovato una ispirazione più profonda e il film è pieno di suggestioni e richiami di grande raffinatezza musicale e filmica: vediamo Carmen Miranda interpretare il mitico Chica Chica Boom Chic, sentiamo Caterina Valente duettare con il fratello Silvio Francesco in Babalù, ci arrivano scene da La storia di Ruth (non a caso: il film romanza le vicende della contadinella dalla quale nascerà la stirpe di David), Elisa ripeterà le mosse di Shirley Temple e di Bill “Bojangles” Robison nel famoso balletto sulla scala di Piccolo colonnello. Queste ed altre citazioni (tra le altre il film con Pat Boone Martedì grasso), accompagnano un soffuso e coinvolgente tono generale che richiama ai primi anni sessanta: la guerra fredda, la corsa allo spazio, la casa e la famiglia perfettina di Strickland – la moglie Elaine (Lauren Lee Smith), e i figli Tammy (Madison Ferguson) e Timmy (Jayden Greig) – che sembrano presi di peso da una pubblicità di quegli anni. La stessa fotografia di Dan Lautsen richiama, nella grana e nei colori la vecchia pellicola Eastmancolor e, sfacciatamente, il film si permette anche una nostalgia nella nostalgia con il bianco e nero di Elisa e la creatura che ballano in una coreografia alla Bubsy Berkeley. Io, come molti, ero quasi certo che avrei rimpianto il delizioso Mostro della laguna nera del grande Jack Arnold ma non è successo.  Il film ha avuto il Leone d’Oro a Venezia, due Golden Globe (regia e colonna sonora) e ha 13 nomination all’Oscar di quest’anno. Li merita tutti.




Cinquanta sfumature di rosso (Fifty Shades Freed)

di James Foley. Con Dakota JohnsonJamie DornanEric JohnsonEloise MumfordRita Ora   USA 2018

Anastasia (Johnson), ora signora Grey, è in viaggio di nozze con Christian (Dornan) ma le vacanze vengono interrotte da una telefonata della segretaria Hanna (Asleigh LaThrop): qualcuno è penetrato negli uffici, ha preso dal computer di Christian dei dati sensibili ed ha appiccato un incendio. Ritornati in fretta scoprono da una telecamera che l’attentatore è Jack Hyde (E. Johnson), l’ex-caporedattore di Anastasia che Grey aveva fatto licenziare dopo che la aveva pesantemente molestata. Lei torna al lavoro nella casa editrice – ora è caporedattore, grazie all’intuito che le aveva fatto scoprire lo scrittore di successo Boyce Fox (Tyler Hoechlin) – scortata dalla guardia del corpo Sawyer (Brant Daugherty) e accolta con affetto da tutti i colleghi, tranne Liz (Amy Prince-Francis) che è convinta che la sua promozione sia dovuta all’essere moglie del padrone. Grey la porta a vedere una splendida villa che sarà la loro nuova casa e lei avrà modo di mettere a posto l’archistar Gia Matteo (Arile Kebbel) che flirtava ostentatamente con il marito. Al ritorno, i due si accorgono di essere seguiti da una misteriosa macchina. L’indomani Christian deve partire e, non essendo riuscito a convincere Anastasia a seguirlo, le raccomanda – in parte per la sua sicurezza, in parte per gelosia – di andare a casa appena uscita dal lavoro ma una telefonata insistente della sua amica Kate (Mumford) la convince a raggiungerla per un aperitivo. La ragazza è angosciata perché teme che il suo fidanzato Elliot (luke Grimes), il fratellastro di Christian, abbia una relazione con Gia. Tornata a casa, viene aggredita da Jack che l’aspettava e salvata dalle guardie del corpo. Jack viene arrestato e Christian, tornato di corsa, porta Anastasia nella stanza rossa e con un vibratore la eccita, togliendoglielo di colpo, per farle provare il senso di impotenza che lui aveva sentito, essendo lontano e sapendolo in pericolo. Lei di arrabbia e fanno l’amore con solo il “normale” aiuto di due manette. L’indomani il detective Clark (Hiro Kanagawa) la va a trovare in ufficio e le fa sapere che Jack sostiene di essere stato da lei sedotto e, poi, fatto licenziare e che sembra avere motivi profondi – legati a Christian – per odiare lei e il marito. Lei e Christian passano un week end con Kate, Elliot e sua sorella Mia (Ora); dopo una notte di sesso, con il marito, l’indomani mattina, andando a fare colazione in un bar, lei vede Elliot che saluta Gia; teme il peggio ma tutto si chiarisce: l’architetta ha solo fatto da consulente per l’anello di fidanzamento che lui ha comprato per chiedere a Kate di sposarlo. Tornata in città, Anastasia ha due emozioni: va in tribunale e vede che la giudice (P. Lynn Johnson) ha concesso a Jack una cauzione (sia pur enorme: 500.000 dollari) e la sua ginecologa (Catherine Lough Haggquist) le comunica che è incinta. La sera, quando rivela a Christian, questi le fa una scenata perché ha dimenticato di prendere gli anticoncezionali e se ne va. Torna di notte, ubriaco e pentito ma, nel metterlo a letto, lei trova sul suo telefono un messaggio di Helena (Kim Basinger) -la sua storica amante e iniziatrice alle pratiche BDSM – e l’indomani mattina gli fa una scenata e, anche quando lui le assicura di essere andato dalla donna come amico in un momento di confusione, se ne va infuriata. In ufficio le arriva la telefonata di Jack che è libero, ha rapito Mia e chiede un riscatto di 5 milioni di dollari, avvertendola che se avvertirà la polizia o Christian ucciderà la ragazza. Lei si precipita a casa, prende la pistola del marito e, elusa la sorveglianza di Sawyer, si precipita in banca. Qui chiede al direttore (Troy Welan) i soldi, che telefona a Christian la conferma dell’operazione, questi in una drammatica telefonata con Anastasia, intuendo qualcosa di grave, dà il via libera. Anastasia esce dal retro della banca e trova ad attenderla in una macchina Liz (lei aveva ceduto a Jack che da allora la ricatta) che la porta nel luogo dell’incontro. Intanto, Christian, venuto a sapere della scarcerazione di Jack e della scomparsa di Mia, capisce tutto e con il fido Taylor (Max Martini), segue il segnale del telefono di Anastasia ed avverte la polizia. Jack aggredisce Anastasia ma lei gli spara ad una gamba, mentre il marito e la polizia arrivano a salvarla. Da una vecchia foto, Christian capisce che Hyde era stato suo compagno in una casa famiglia e che lo odiava perché convinto che fosse stato adottato dai Grey al suo posto. Ora lui è un padre felice e con Anastasia si apre un periodo felice di giochi erotici serenamente condivisi.

Quest’ultimo capitolo della trilogia delle 50 sfumature è certamente il più debole. L’impianto di partenza – lo ricordiamo i romanzi, inizialmente, si intitolavano Masters of the Universe ed erano concepiti come una fanfiction di Twilight : la protagonista anziché un vampiro, sposa ed addomestica un sadico – ha il suo compimento: Christian è ora un bravo papà, è ricchissimo – che non guasta – e gli si concedono dei giochetti BDSM controllatissimi (si sa: i ragazzi sono ragazzi). Foley, dopo aver sostituito la cervellotica Sam Taylor-Johnson, regista del primo episodio, continua la sua opera di professionale metteur en scene ma l’impianto è inutilmente complicato dall’innesto thriller e, nel semplificarlo, si perdono dei pezzi (non è chiaro, ad esempio, come Jack trovi l’enorme somma della cauzione; nel romanzo gliela fa avere il geloso marito di Helena ma qui non viene detto). Anastasia, lo abbiamo visto è una Cenerentola un po’ più erotica (anche se l’allusione del piede e della scarpetta non scherzava!) e, come ogni manuale di psicologia ci spiega in relazione alle relazioni sadomaso, è lei ad avere il potere nella coppia, anche perché il bel Christian ha in dosi massicce la sindrome di Peter Pan; solo che (come già ci aveva splendidamente chiarito Tofano/Bonaventura ne La regina in berlina) la storia Cenerentola e del Principe dopo il matrimonio è un bel po’ noiosa. Il film però continua a piacere a nonne e teenager e, perciò, fa il suo lavoro.




C’est la vie – Prendila come viene (Le sens de la fête)

di  Eric ToledanoOlivier Nakache. Con Jean-Pierre BacriJean-Paul RouveGilles LelloucheVincent MacaigneEye Haidara  Francia, Belgio, Canada 2017

Toledano e Nakache sono autori di commedie di successo, in particolare il campione di incassi miracolosi Quasi amici e anche con C’est la vie (curioso esempio dell’abitudine italiana di cambiare i titoli con una frase della lingua di origine, in Francia il titolo era il più congruente Le sense de la féte) hanno fatto centro: in casa ha incassato più di 23 milioni di euro ed è stato venduto in tutto il mondo. Alla buona riuscita del film ha certamente contribuito l’ottimo cast, con alla testa il grande Bacrì (compagno di vita e di lavoro di Agnes Jaoui, e co-autore e interprete, tra gli altri, di Parole, parole, parole e de Il gusto degli altri) ma, soprattutto la perfetta scrittura e realizzazione dei due registi, perfetti discendenti della grande tradizione francese della Comédie de Boulevard, la commedia borghese, che qui arricchiscono di note clownesche, con qualche rimando all’indimenticabile Hellzapoppin’. E’, inutile nasconderselo, uno dei tanti esempi di una cinematografia che funziona perché è in sintonia con il proprio pubblico. Tutti i discorsi dei nostri esperti (!) che cercano da anni di risolvere le difficoltà della nostra cinematografia con formule grottescamente sovietiche che mandino a forza gli spettatori in sala a vedere film che non gradiscono, cadono su questa semplice verità: il pubblico sceglie e se non sai intercettarne i gusti, gli incassi saranno sempre insufficienti. E’ banalissimo ma per molti addetti ai lavori è algebra.


Max Angely (Bacri) organizza matrimoni e vive con grande partecipazione il proprio lavoro; lo conosciamo mentre manda all’inferno due fidanzati (Pauline Clément e Sébastien Pouderoux), che volevano risparmiare troppo sugli antipasti e sugli addobbi. Il suo matrimonio è in crisi e lui ha una relazione segreta con la sua organizzatrice Josiane (Suzanne Clément), che però è stanca della situazione e vorrebbe che lui chiarisse con la moglie. Ora è in un castello preso in affitto per le nozze di Pierre (Benjamin Lavernhe) e Héléna (Judith Chemla) con tutta la sua equipe: oltre a  suo cognato Julien (Macaigne),ex professore di Lettere, parzialmente guarito da una  orte crisi depressiva e a Josiane  che ha deciso di ingelosirlo, flirtando con il cameriere Patrice (Kevin Azais), ci sono la sua litigiosa alter ego Adèle (Haidara), sempre pronta a prendere a parolacce il tronfio animatore e disc jockey James (Lellouche), lo sbracato fotografo Guy (Rouve), accompagnato dal poco convinta stagista Bastien (Gabriel Naccache), il cameriere-prestigiatore (Sebastien Mossiere) non proprio abilissimo, il pavido capo-cameriere Henry (Antoine Chappey), l’inesperto combina guai Samy (Alban Ivanov), l’imperturbabile operaio Nabio (Kerreddine Ennasri) ), sempre pronto a chiosare con qualche ovvietà qualsiasi catastrofe, il navigato chef Bernard (Nicky Marbot) e i volenterosi ed ironici camerieri multietnici Roshan (Manmathan Basky), Seb (William Lebghil), Katir (Manickam Sritharar) e Nico (Jackee Toto). Durante i festeggiamenti succede di tutto: Samy per rendersi presentabile attacca il rasoio elettrico alla presa del frigorifero, cosicché il piatto forte va a male, provocando malori a parte dell’equipe di James e Max, dopo aver fatto ingozzare gli ospiti di salatini, deve rimediare con i resti di un altro banchetto prestatati da un gentile collega (Sam Karman); Julien si accorge che la sposa è una sua ex-collega della quale è stato innamorato e, toltasi la divisa da lacchè, cerca di confondersi tra gli invitati; Guy, che non sopporta che gli ospiti facciano le foto con i telefonini, rompe lo smartphone di un invitato e, poi, con una app segnalatagli dallo stagista, rimorchia la madre (Hélène Vincent) dello sposo e si apparta con lei varie volte; lo sposo ammorba gli ospiti con un discorso interminabile; un ospite (Grégoire Bonnet) arrivato all’improvviso con una misteriosa valigetta, fa temere a Max un’indagine dell’Ufficio del Lavoro (molti dei suoi lavoratori non sono in regola) mentre è solo la persona con la quale era in contatto mail per la cessione dell’azienda (lui è stanco e vorrebbe smettere) cha ha portato l’offerta scritta; alla fine, poi, Adèle e James che reggono le corde di una mongolfiera alla quale lo sposo si è fatto legare per di terminare la serata con un volo amoroso, hanno un raptus reciproco, lasciano le corde e si baciano, facendo volare lontano il malcapitato, mentre Samy, equivocando i segnali, lascia partire i fuochi d’artificio contro gli ospiti, facendo, oltretutto, saltare la luce. Max, esasperato, fa un duro discorso ai suoi e, dopo aver comunicato loro che lascia l’attività, si allontana, in tempo per ricevere una telefonata della moglie che gli comunica di amare un altro. Tornato al castello per prendere le proprie cose, trova una sorpresa: i suoi dipendenti extracomunitari e James hanno improvvisato un orchestrina, tutti gli invitati ballano felici e la sposa lo ringrazia per la splendida giornata. All’alba, finalmente libero, se ne va sottobraccio a Josiane, e, dopo aver gettato l’offerta di acquisto in un cestino, dà a tutti l’appuntamento per il prossimo matrimonio.




Made in Italy

di Luciano Ligabue. Con Stefano AccorsiKasia SmutniakFausto Maria SciarappaWalter LeonardiFilippo Dini Italia 2018

Riko (Accorsi), operaio in una fabbrica di insaccati in Emilia, è in crisi: il suo rapporto con Sara (Smutniak), che gestisce con l’amica Angela (Alessia Giuliani) un negozio di parrucchiera, sta andando a rotoli (lui le mette da sempre la corna e ha capito che anche lei ha un altro); il figlio Pietro (Tobia De Angelis) sta per terminare gli studi al Dams (sarebbe il primo laureato della sua famiglia) ma, oltre a realizzare divertenti clip con parenti ed amici, l’attuale crisi non sembra consentirgli un qualche futuro; il lavoro di insaccare mortadelle, che fa da trent’anni, non lo esalta certo e, inoltre, l’azienda sta licenziando molti suoi colleghi, tra i quali il suo amico Rebecchi (Francesco Colella) che la prende malissimo; suo  padre (Giuseppe Gaiani), affetto da demenza senile, è ricoverato in un istituto e quando lui lo va a trovare o non lo riconosce o gli chiede ossessivamente se “va a figa”; lui rischia, per ragioni economiche, di perdere la casa che il nonno e il padre avevano messo su con sacrificio; la situazione del Paese, infine, gli manifesta l’inutilità dei sogni e delle lotte che aveva vissuto da giovane. Si ritrova un po’ solo con gli amici: il pittore Carnevale (Sciarappa), l’amico del cuore con gravi problemi di ludopatia, il collega Max (Leonardi) e Matteo (Dini), con i quali condivide partite a scopa, sbronze, spinelli, notti brave in discoteca e scazzottate. Riko, Carnevale e Max decidono di passare un giorno a Roma e, all’alba, vedono un corteo di dimostranti per l’art. 18 e, con loro, caricano la polizia. Riko prende una manganellata e finisce in ospedale; qui lo raggiunge Sara, che gli porta biancheria pulita; dimesso quasi subito, viene intervistato da un giornalista televisivo che cerca di farlo apparire un eroe della contestazione ma lui ribatte di aver avuto solo motivi personali nell’aggredire i poliziotti. Un giorno lui e Sara vanno a pranzo dal suo collega indiano Pavak (Jefferson Jeyaseelan) e si incantano nel vedere l’armonia di quella famiglia povera ma vivacissima; a fine pranzo lei si commuove al ricordo del loro secondo figlio, morto alla nascita e, al ritorno, confessa a Riko di essere stata, in un momento di particolare solitudine, a letto con Carnevale. Lui fa una scenata, va sotto la casa dell’amico, con una mazza gli sfonda la macchina, poi gli dà duemila euro per aiutarlo coi debiti di gioco e lo abbraccia. Tornato a casa, dopo un aspro chiarimento, lui e Sara fanno l’amore e, poco dopo, sono al centro di una scherzosa cerimonia nuziale, presenti tutti gli amici, officiata da Patrizio (Gianluca Gobbi), l’amico gay, da sempre bersaglio di affettuosi sfottò. Pochi giorni dopo, Carnevale si uccide e Riko, disperato, aggredisce un collega (Ettore Nicoletti) che fa un commento sulla vita dissipata del morto, rompendogli il naso. Quel gesto accelera il suo licenziamento e Riko, dopo vari inutili colloqui per trovare un nuovo lavoro, cade – come il Rebecchi gli aveva prognosticato – in una tremenda depressione, sconvolgendo anche la vita di Sara, fino a tentare il suicidio, gettandosi nel Po. Tornato a casa, fradicio ma vivo, fa l’amore – dopo mesi – con Sara e trova la forza di ricominciare la vita a Francoforte.

Nel 1983 uscì il saggio dello psicoterapeuta Dan Kiley La sindrome di Peter Pan – Uomini che hanno paura di crescere e, da allora, gli eterni bambinoni immortalati da Fellini ne I vitelloni sono diventati, soprattutto in America (ma il recente After the storm del giapponese Hirokazu ne è un altro esempio) un vero genere cinematografico: oltre ai 3 Una notte da leoni, campioni mondiali di incasso, c’è il Frat Pack, un gruppo di attori (Owen e Luke Wilson, Ben Stiller, Jack Black, Steve Carell e Vince Vaughn) che, oltre a condividerne lo stile di vita, ha dato vita a vari film sul bamboccionismo (2 single a nozze, L’isola delle coppie tra i più noti). Ligabue sin dal fulminante esordio con Radiofreccia ne ha dato una sua versione, più politica, più generazionale, più intrisa di tragedia e, soprattutto, più emiliana. Il successivo Da uno a dieci, però, era già un po’ di maniera e questo, girato a 15 anni di distanza, è retto solo dalla capacità di Accorsi (che dopo Veloce come il vento ha trovato una matura profondità attoriale). Per il resto più che un film sembra essere una lunga videoclip dei brani dell’album omonimo che fanno da colonna del film: Mi chiamano tutti Riko, E’ venerdì, non mi rompete i coglioni, Dottoresa, Ho fatto in tempo ad avere un futuro, Un’altra realtà, G come giungla, Non ho che te e il brano del titolo – diciamo sommessamente: una sorta di aggiornamento rock del vecchio Tre sorelle di Claudio Villa (“Roma, Napoli e Firenze/ son tre sorelle/…tutte e tre ugualmente belle). Non certo un film riuscito ma la simpatia emiliana che lo permea aiuta a vederlo con una punta di allegra malinconia.

Antonio Ferraro




Ella & John – The Leisure Seeker

di Paolo Virzì. Con Helen MirrenDonald SutherlandChristian McKayJanel MoloneyDana Ivey Italia, Francia 2017

Contrariamente agli altri film di Virzì, questo è stato accolto un po’ freddamente dagli addetti ai lavori (a Venezia, dove era in concorso, ha avuto grandi applausi in sala ma critiche freddine se non addirittura, dagli americani Variety e TheHollywood Reporter, negative), che lo hanno considerato banale, scontato e non all’altezza dei suoi ultimi apprezzatissimi Il capitale umano e La pazza gioia. In realtà è un ottimo film; certo ci sono stati road movie (Cinque pezzi facili, Easy Rider) più importanti ma Ella & John– tratto da un romanzo del neo-minimalista (ammesso che si dica così) Michael Zadoorian The Leisure Seeker (in Italia In viaggio contromano) – è un dichiarato omaggio al genere, nato negli anni a cavallo tra i ’60 e i ’70, come le due canzoni che accompagnano l’inizio (It’s too late di Carole King) del viaggio e i titoli di coda (Me and Bobby McGhee di Janis Joplin) sottolineano. E’ anche vero che la sceneggiatura, per la quale a Virzì e ai soliti Archibugi e Piccolo, si affianca l’autore del romanzo dal quale era tratto Il capitale umano, Stephen Amidon, ha vistosi rallentamenti narrativi e, oltretutto, la scelta di non rispettare il romanzo, che aveva come meta finale Disneyland e non Key West, appare un po’ provincialotta (“la cultura, signora mia!”) ma la preziosità del film è tutta nella recitazione degli immensi Sutherland e Mirren e, va detto, nella capacità del regista di mettersi, apparentemente, da parte e lasciar condurre il film e le sue amozioni ai due veri mostri sacri. E’ inevitabilmente scontata la sequenza della campagna elettorale ma qui ci viene risparmiato il peggior difetto di Virzì: lui è, probabilmente, l’autore italiano che più si è avvicinato ai grandi maestri del passato (Monicelli e Comencini in particolare) ma i suoi film – quasi sempre godibilissimi –  sono spesso appesantiti da predicatorie lezioncine etico-sociali (basta pensare al notevole Ferie d’Agosto, una commedia per più aspetti paragonabile alla nostra grande stagione ma deviata dal forzoso assunto che gli italiani siano profondamente divisi dalle convinzioni  politiche). Ellas & John non è perfetto (già di per sé, peraltro, la mancata presenza della Bruni Tedeschi gli dà un bel respiro) ma è una notevole prova d’attori e, grazie anche alla notevole fotografia di Luca Bigazzi , con una regia che sa approfittarne per tirar fuori il “capitale umano” e momenti di empatia e commozione che non ci capita spesso di trovare nel nostro cinema.

 Detroit. Will Spencer (McKay) va, come ogni giorno, a trovare il genitori – la madre Ella (Mirren), malata di cancro ed il padre John (Sutherland), affetto da Alzheimer – e, non trovandoli, chiede notizie alla vicina Lilian (Ivey) e, insieme, scoprono che sono partiti con il camper (il vecchio “Leisure seeker”, cercatore di svago) con il quale anni prima andavano in vacanza. I due anziani, stanchi di un destino da malati e da reclusi, hanno deciso di andare fino a Key West a visitare la casa di Hemingway, del quale John, professore di letteratura, era sempre stato un grande ammiratore. Will, omosessuale che non ha trovato il coraggio di parlare con i genitori e ancora alla ricerca di una sistemazione, è disperato, mentre sua sorella Jane (Moloney), brillante docente di lettere, capisce le ragioni dei genitori e cerca di tranquillizzarlo. Imboccata la Route 1, i due viaggiatori procedono con qualche contrattempo: lui ha continui sbalzi di memoria (una volta la lascia ad un distributore, costringendola a cercare un passaggio in motocicletta per raggiungerlo) e ogni tanto si fa la pipì addosso, lei ha crisi di dolore lancinanti e, talvolta, perde la pazienza con il marito da sempre distratto ma ora spesso inaffidabile. Una volta che lui ha lasciato il volante per aprire una bottiglietta di Coca Cola, un poliziotto (Robert Walker Branchaud) li insegue, li ferma e, solo grazie alla prontezza di risposta di Elle, non si accorge delle strane risposte di John e li lascia andare. Un’altra volta, fermi con una gomma a terra, vengono aggrediti da due balordi (Sean Michael Webber e Ryan Clay Gwaltney) ed è di nuovo Ella, armata di fucile a salvare la situazione. Ogni sera si fermano in un campeggio e lì lei improvvisa uno schermo con un lenzuolo e, anche per smuovere la sua memoria, guarda con John le vecchie foto di famiglia. John, ogni tanto, le fa una scenata di gelosia accusandola di essere ancora l’amante del fidanzato che lei, da ragazza, aveva lasciato per mettersi con lui; una sera la minaccia anche col fucile (scarico) e lei, esasperata, fa una telefonata e, ottenuto il recapito del suo presunto amante, ce lo porta; è un ospizio e, quando arrivano nella stanza di Dan Coleman (Dick Gregory) – questo è il suo nome – si trovano davanti ad un vecchio nero su di una sedia a rotelle che non riconosce nessuno dei due (Ella ci rimane anche un po’ male). Durante il viaggio – è in corso la campagna presidenziale – si trovano bloccati da un comizio pro-Trump e lui, divertitissimo, partecipa all’entusiasmo del pubblico, subito portato via da Ella che gli ricorda che lui ha sempre votato Democratico. Una sera lui è particolarmente svanito e nel camper la chiama Lilian e le si raccomanda di non far capire alla moglie – che incinta di Jane – che loro sono amanti, perché, dice, lui ama Ella disperatamente. Lei si infuria, chiama un taxi e lo fa portare “nel più schifoso ospizio della città” e qui lo lascia, salvo poi andarlo a riprendere qualche ora dopo, trovandolo tranquillo che gioca con un libro pop-up. A Key West li attende una delusione: la casa di Hemingway è piena di turisti cafoni e vi è in corso una festa di matrimonio. John, vedendo gli invitati che ballano si unisce a loro mentre Ella ha un malore e viene portata d’urgenza in ospedale. Lui, non trovandola, riesce nel panico a trovare la lucidità necessaria per raggiungerla nella clinica nella quale è stata ricoverata e, dopo aver avuto dal primario (Geoffrey D. Williams) un quadro devastante delle condizioni di salute di Ella, la raggiunge in camera e, insieme, fuggono dall’ospedale. Tornati nel camper, un’imprevista erezione fa loro fare del tenero sesso e lei, dopo avergli dato le gocce per dormire e averle prese a sua volta, lascia entrare nel camper chiuso il gas di scarico, lasciando una lettera di addio ai figli. Questi capiranno benissimo le ragioni del gesto.