1

Capovolti

capovoltiScheda del Progetto

Ambito: Cura e integrazione dei disabili

Progetto: In corso

Luogo: Battipaglia (SA)

Contributo: € 480.000

Descrizione:

L’iniziativa progettuale propone l’avvio di una fattoria sociale con l’obiettivo di consentire l’inserimento lavorativo di 10 persone con disabilità mentale attraverso la costruzione di una cooperativa di tipo a e b, che ne preveda il loro diretto coinvolgimento nella governance, insieme ai familiari. E’ prevista la gestione del fondo agricolo (coltivazione e raccolta), la trasformazione dei prodotti, la loro commercializzazione (vendita diretta, trasporto, e-commerce) e un piano di marketing sociale strategico (acquisizione di certificazioni e marchi di qualità, gruppi di acquisto solidale, sinergia con operatori del mercato equo e solidale). Si prevede l’impiego di animali da allevamento quali galline, conigli, animali da cortile e animali per attività didattica e di riabilitazione, con particolare riferimento all’onoterapia. L’iniziativa, inoltre, intende sostenere le famiglie in un percorso di coinvolgimento e responsabilizzazione che ne migliori la qualità della vita, l’accesso ai servizi, la reale partecipazione all’intervento e la sostenibilità dello stesso. Si intende, infine, realizzare attività didattiche formative ed educative con il coinvolgimento delle scuole e interventi sul territorio per la valorizzazione e la tutela dell’ambiente, dei beni comuni, del paesaggio, dei percorsi naturalistici ed enogastronomici, per favorire una reale integrazione e socializzazione dei destinatari dell’iniziativa all’interno della comunità locale.

Responsabile: ASSOCIAZIONE MAI PIÙ SOLI

Partner:

ASL SALERNO
ASSOCIAZIONE GIOVAMENTE
ASSOCIAZIONE LA VITA DENTRO
ASSOCIAZIONE MACROVERSO
COMUNE DI MONTECORVINO PUGLIANO
FEDAGRI REGIONE CAMPANIA
FONDAZIONE DELLA COMUNITÀ SALERNITANA
FRIDA: ASSOCIAZIONE CONTRO LA VIOLENZA DI GENERE
ISPPREF – ISTITUTO DI PSICOLOGIA E PSICOTERAPIA RELAZIONALE E FAMILIARE
PRS – PROGETTAZIONE E RICERCA SOCIALE
STALKER COOPERATIVA SOCIALE

link all’articolo




C Factor*: la parola al presidente Veloccia

*fattore Corviale




Video > Pensando a Corviale: allegoria storica di Segesta, un racconto di Tullio Sirchia

Il tempio di Segesta

Il tempio di Segesta

 

I viaggiatori di “Corviale domani” incontrano i giardinieri del re, esponenti della scuola alfamediale di Erice, leggono e discutono il manifesto di Corviale

 

 

 

 

Un giardino sul tetto a Corviale e un giardino sul tetto di un’area pseudonaturale del parco di Segesta. Realtà lontane, certo, ma forse un filo le lega. Nel primo si deve inventare una natura sulle”rocce”di cemento nel secondo la natura spontanea colonizza le rocce naturali. Una forza comune , la Natura, in cui si ci vuole riconoscere, una forza con cui dobbiamo fare comunque i conti sia se progettiamo ex novo sia se recuperiamo un paesaggio culturale che la natura tende ad assorbire. I tetti di Corviale , come le rocce di Timpone, possono essere e sono madri che aspettano di accogliere i semi della natura che il vento porterà. Certo nel primo esempio ci sarà l’intervento dell’uomo ma dopo la selezione naturale avverrà e potranno starci solo le piante che possono, come avviene nel giardino/parco di Segesta tra quei pochi centimetri di suolo che le rocce conservano. Le associazioni , allora, non sono più così piccole o modeste perché in entrambi i casi sarà la nostra abilità a scegliere con sapienza che farà la differenza come la stessa abilità ci dirà cosa togliere e cosa lasciare. Vento e sensibilità nelle scelte di arredo e di recupero naturalistico saranno le occasioni su cui misurare questi due potenziali esempi di umanità e naturalità…anche provocata.

 

hanno partecipato all’incontro: Tullio Sirchia, presidente scuola Alfamediale di Erice – Giovanna D’angelo, insegnante – Sonia Fermo, attrice, assistente al centro rifugiati politici di Calatafimi – Daniela Artioli, giornalista – Pietro Pedone, architetto paesaggista botanico – Sandro Zioni, Corviale domani




Rugby nel cuore dalle isole Fiji

I mari del sud

I mari del sud

Mosese Tavutunawailala, per gli amici Mojee, è un bel ragazzo di 27 anni delle Fiji, dal cognome impronunciabile e dal sorriso disarmante. Gioca come centro della squadra di rugby di Arvalia di Corviale periferia popolare di Roma e la sua storia e il suo arrivo in Italia hanno il sapore della magia che si respira in una commedia romantica. Cosa ti ha spinto a lasciare le isole Fiji per venire in Italia? Giocavo in una squadra importante ma mi ero infortunato e così passavo il tempo della convalescenza in spiaggia. Un giorno ho incontrato una ragazza italiana, di Roma, che lavorava in Australia e che si era presa qualche giorno di vacanza da passare alle Fiji. È stato un colpo di fulmine, non ci siamo più lasciati. Lei non solo non è più tornata in Australia, ma neanche in Italia ed io ho passato tutta la convalescenza con lei, sono guarito ed ho ripreso a giocare. Federica, così si chiama, ha così deciso di rimanere con me alle Fiji, abbiamo cominciato a convivere e dopo quattro mesi ci siamo sposati. E poi cosa vi ha fatto cambiare idea e trasferire in Italia? E come è stato l’impatto da un paradiso terrestre al caos di Roma? Dopo circa sei mesi la famiglia di Federica ha avuto dei problemi che hanno reso necessaria la sua presenza in Italia. Per me non ci sono stati tanti problemi, il mio unico pensiero era: “Ma in Italia si gioca a rugby?” Ho chiesto, molto preoccupato, alla mamma di Federica. Perché sapevo che c’era una nazionale di rugby, ma sapevo anche che non c’era e non c’è una vera e propria tradizione rugbistica come nel mio Paese. Noi giochiamo a rugby e non a pallone. Noi abbiamo il rugby nel sangue. I bambini nelle strade con qualsiasi oggetto s’inventano una partita di rugby, in più c’è tutta una filosofia legata alle nostre danze di guerrieri che hanno significato di rispetto dell’avversario che sapevo non esistere in Italia. Eppure, nonostante l’Italia non fosse la patria del rugby, sei arrivato lo stesso qui. Sì, l’amore per mia moglie mi ha fatto superare ogni paura e diffidenza. E poi comunque quando siamo arrivati nel 2008, ho cominciato subito a cercare lavoro e a fare provini in alcune squadre del nord, dove c’è più tradizione nel rugby. Ho anche giocato in una squadra di serie A, però purtroppo ho avuto grandi difficoltà, perché nonostante fossi sposato con una italiana, per la federazione continuavo ad essere straniero e quindi ad avere problemi di tesseramento, di regole e così via. Cosa ti ha portato poi a Roma? Per prima cosa sono nate le nostre bellissime gemelle e così, visto che Federica aveva una casa vicino Corviale e aveva anche maggiori possibilità di trovare lavoro, siamo rientrati a Roma. All’inizio non è stato per niente facile. Roma è una città caotica, molto lontana dal mio mondo. È enorme e in più nel quartiere ci sono state anche delle insofferenze, mi chiamavano negro, e anche se sono stati episodi sporadici mi hanno comunque fatto pensare e preoccupare, anche per le mie figlie. L’incontro con la squadra di rugby Arvalia di Corviale come è avvenuto? Un giorno ero per strada e giocavo a rugby con una palla improvvisata. Si è fermato un ragazzo che fa parte della squadra maggiore dell’Arvalia e mi ha chiesto se volevo andare con lui presso il campo che si trova proprio sotto Corviale. È stato anche lì un colpo di fulmine. Ho incontrato persone meravigliose, che attraverso il rugby cercano di aiutare tanti ragazzi ad uscire da situazioni difficili, questo è un quartiere ad alto livello di disagio e loro credono in questo sport e mi hanno dato una nuova chance. Fai parte della squadra maggiore, per cui immagino che tu sia la loro stella. In fondo deve essere entusiasmante trasmettere ai ragazzi il senso di squadra, l’etica del rugby, e anche la velocità, le dritte di questo sport che voi avete nel sangue. Diciamo di sì. Cerco di trasmettere loro le regole che fanno grande questo sport, il senso di sacrificio, cosa non facile nei giovani di oggi e in un quartiere così, ma anche le furbizie atletiche, i passaggi in velocità, che per la verità gli italiani non hanno proprio nel loro dna. E poi i fondatori di Corviale Salvatore Gallo, Fabio Di Giovannantonio, mi hanno anche dato la possibilità quella di lavorare come barman nella zona ristoro del circolo, incrementare così le mie entrate. In pratica ho trovato una nuova famiglia. Ma insegni loro anche la danza maori, quella che per esempio fa sempre la nazionale delle Fiji quando gioca le sue partite? Assolutamente no! La danza guerriera fa parte della nostra tradizione, non è un gioco, è insita in noi e nel nostro concetto di rispetto dell’avversario, del nemico. Le tue bambine hanno difficoltà a scuola a farsi chiamare per cognome, è lunghissimo. Anch’io pensavo, e invece tutti i loro compagni lo dicono in un soffio come una filastrocca. Tavutunawailala.

Antonella Matranga
link all’articolo

 

il rugby a Corviale non ha eta




Venere in pelliccia

pellicciaRegia : Roman Polanski;  attori : Emannuelle Seigner , Mathieu Amalric

Thomas ( Amalric)  sta uscendo da un teatro un po’ scalcagnato dove, tra gli scenari western di un precedente lavoro ( un musical belga tratto da “Ombre rosse”) , ha terminato i deludenti provini per il ruolo di Wanda nella versione teatrale di “Venere in pelliccia” di Von Sacher Masoch che lui ha curato. Bagnata di pioggia ed in ritardo entra Vanda(Seigner) , un’attrice cialtrona e volgarotta che insiste per fare il suo provino . Il  pur recalcitrante Thomas non riesce ad opporsi ma dalle prime letture appare affascinato dalla capacità dell’attrice a essere il personaggio. I due cominciano a provare, lui nel ruolo di Severin e lei in quello di Wanda (i due protagonisti del romanzo) e , mano a mano che la recita va avanti, lei lo coinvolge fino a  fargli perdere il senso del tempo e a costringerlo a lasciare per telefono la sua fidanzata ( una ragazza ricca, colta e salottiera, apprendiamo). Vanda/Wanda spinge il gioco fino a legarlo sul palcoscenico e , dopo aver improvvisato , nuda e con indosso la pelliccia di scena, una danza bacchica, a lasciarlo lì , allontanandosi nella notte.

Dopo “ Carnage”, Polanski dirige un altro film tratto da un dramma teatrale ( questo è la versione scenica di David Iles ) e ,soprattutto grazie alla chimica che si avverte tra i due protagonisti ( che erano già stati insieme ne “Lo scafandro e la farfalla” di Schnabel) , il racconto è avvincente . Amalric , truccato e pettinato come il regista, è bravissimo e la Seigner è sguaiatamente carnale . Quello che funziona meno è proprio il romanzo di partenza : sappiamo che Masoch vi aveva raccontato , con poche variazioni – Venezia anziché Firenze, l’amante un ufficiale greco anziché un attore italiano – , la propria personale esperienza con la scrittrice Fanny Pistor ; il romanzo ha avuto una gran fortuna extra-letteraria , tanto da far definire masochismo il piacere, descritto nel libro, della sofferenza ma qui finiscono i suo pregi : il racconto è mal scritto e pervaso di  lagnose lamentazioni che , oltre ad essere noiose, ne annullano il potenziale erotico ( un discorso simile, peraltro, si può fare per De Sade). Polanski ha sculacciato e frustato sullo schermo i sederi di Francoise Dorleac (“Cul de sac”), di Sharon Tate (“Per favore non mordermi sul collo”) e di Sydne Rome (“Che? “) ; ora prova a mettersi d’all’altra parte;  tecnicamente il risultato è ineccepibile ma la dolente ed irridente anima polanskiana si intravede appena.

altre letture: http://www.psychiatryonline.it/node/4665




Consumo netto di suolo zero

suolo«Entro il 2020 le politiche comunitarie dovranno tenere conto dei loro impatti diretti e indiretti sull’uso del territorio, a scala europea e globale, e il trend del consumo di suolo dovrà essere sulla strada per raggiungere l’obiettivo del consumo netto di suolo zero nel 2050». Ma cominciare domani è già troppo tardi
La necessità di limitare il consumo di suolo e in particolare di suolo agricolo (8 metri quadrati al secondo, secondo i dati di ISPRA) è ormai entrata a tutti gli effetti nell’agenda politica nazionale. Dopo il DDL Catania, presentato dall’omonimo Ministro del governo Monti e arrivato fino all’approvazione della Conferenza Stato-Regioni, nell’attuale legislatura sono stati depositati tre disegni di legge di iniziativa parlamentare che hanno come obiettivo dichiarato la limitazione del consumo di suolo, a cui va aggiunto un ulteriore disegno di legge promosso direttamente dal governo Letta.
Questi disegni di legge hanno suscitato un acceso dibattito sui principali quotidiani trovando critici e sostenitori. Senza entrare nel merito del dibattito, un dato abbastanza sorprendente è che nessuna delle quattro proposte pare prendere le mosse dagli indirizzi e dai principi espressi in tema di consumo di suolo a livello comunitario. Nella comunicazione della Commissione Europea “Tabella di marcia verso un’Europa efficiente nell’impiego delle risorse” [COM(2011) 571] uno specifico capitolo viene dedicato a terra (Land) e suoli (Soils). Per queste risorse, considerate a un tempo strategiche e vitali, viene fissato un obiettivo molto ambizioso e insieme di vasta portata per quanto comporta a livello urbanistico e territoriale: entro il 2020 le politiche comunitarie dovranno tenere conto dei loro impatti diretti e indiretti sull’uso del territorio, a scala europea e globale, e il trend del consumo di suolo dovrà essere sulla strada per raggiungere l’obiettivo del consumo netto di suolo zero nel 2050.
Purtroppo nella versione italiana della Comunicazione questo fondamentale principio del consumo netto di suolo zero (no net land take) non viene adeguatamente riportato e forse ciò può spiegare il suo mancato richiamo nei disegni di legge citati. Manca infatti nella traduzione italiana la parola chiave “netto”, un aggettivo solo all’apparenza accessorio che è stato invece volutamente inserito per le profonde implicazioni che sottende.
Consumo netto di suolo zero non significa infatti congelare l’infrastruttura urbana impedendo in assoluto di occupare nuovo territorio. Al contrario esso consente l’occupazione di spazi liberi purché questo avvenga a saldo zero, de-sigillando o ripristinando ad usi agricoli o seminaturali aree di pari superficie in precedenza urbanizzate e impermeabilizzate. E’ questa una specificazione fondamentale che introduce anche nella pianificazione urbanistica e territoriale il principio del riciclo e dell’economia circolare, già espresso nella strategia Europa 2020, con l’obiettivo finale di disaccoppiare lo sviluppo urbano dal consumo della risorsa suolo.
Con l’introduzione del termine “netto”, l’obiettivo del consumo di suolo zero da vincolo di fatto impraticabile si trasforma in motore di una nuova stagione di trasformazione urbana, fondata sulla riqualificazione dell’esistente e sul ridisegno del territorio urbanizzato, che non deve essere più considerato come un dato acquisito e irreversibile, ma come un corpo suscettibile di essere ridisegnato e ricucito secondo nuove e più funzionali orditure in grado anche di recuperare i guasti di uno sviluppo passato, di carattere spesso incontrollato e disperso, rivelatosi alla fine inefficiente ed anti-economico.
La sfida qui, più che fissare degli obiettivi quantitativi di consumo di suolo o enunciare principi generali di riuso che vengono poi sistematicamente disattesi, è quella di trovare gli strumenti e i meccanismi regolativi che consentano di avviare questo processo di rigenerazione urbana a consumo netto zero garantendo l’indispensabile sostenibilità economica degli interventi edilizi e infrastrutturali, sia per gli operatori immobiliari privati che per i soggetti pubblici.

E’ in quest’ottica, e come strumento di accompagnamento all’obiettivo fissato dalla Comunicazione sull’uso efficiente delle risorse, che la Commissione Europea ha successivamente pubblicato le Linee guida sulle migliori pratiche per limitare, mitigare e compensare l’impermeabilizzazione del suolo [SWD (2012) 101].
Il documento si rivolge agli Stati membri, agli enti locali, agli operatori del settore e in generale ai cittadini e ha come fine quello di fornire informazioni sul livello di impermeabilizzazione del suolo nell’Unione Europea, sulle cause e gli impatti, nonché sugli esempi di buone pratiche per contrastarlo. L’impermeabilizzazione del suolo è uno degli effetti del “consumo di suolo”, ma non coincide con quanto usualmente si intende con questa espressione, che riguarda piuttosto l’occupazione di aree agricole o semi-naturali per usi urbani (land take). In media circa la metà delle superfici urbanizzate risultano effettivamente impermeabilizzate con totale perdita delle funzioni del suolo. Anche in questo caso l’ordine delle parole del titolo non è casuale o secondario, ma stabilisce una precisa gerarchia di priorità in vista del raggiungimento dell’obiettivo più generale di fermare l’incremento di superfici impermeabilizzate e quindi il consumo effettivo di suolo.
Limitare l’impermeabilizzazione resta il principio di fondo che deve avere sempre la priorità su mitigare e compensare gli impatti, in quanto la perdita di suolo è di fatto irreversibile . Ai fini della limitazione è importante fissare obiettivi quantitativi che devono però essere accompagnati da adeguate misure di monitoraggio e controllo. La mitigazione interviene quando si occupano nuove aree per ridurre in situ le conseguenze negative dell’impermeabilizzazione del suolo, ad esempio utilizzando materiali di copertura permeabili che garantiscano l’invarianza idraulica. La compensazione dovrebbe essere utilizzata solo quando non è possibile limitare e mitigare e si traduce in interventi in aree diverse da quelle occupate per “compensare” su scala territoriale la perdita di funzioni dei suoli impermeabilizzati. Esempi di compensazione sono: il riutilizzo del suolo rimosso per ripristini in altri luoghi, la bonifica di siti contaminati, la rimozione o sostituzione di coperture impermeabili (manti stradali, edifici) con ripristino a verde (de-sealing), l’imposizione di un extra onere da utilizzare per interventi di tutela e risanamento dei suoli. In Europa, in particolare in Olanda e Germania, la compensazione è già oggi obbligatoria sia per gli interventi infrastrutturali che per le nuove lottizzazioni.
Sebbene la compensazione venga ultima come ordine di priorità nella gerarchia delle linee guida, essa agisce da rinforzo per limitare il consumo di suolo e può diventare la chiave per attuare la politica del consumo netto di suolo zero, soprattutto se intesa come ripristino di aree precedentemente occupate. E’ quello che succede in città come Dresda o Stoccarda dove sono stati introdotti regolamenti urbanistici che vincolano la costruzione sul terreno libero al recupero e ripristino, da parte del soggetto attuatore, di altri spazi già impermeabilizzati presenti all’interno del Comune.
Si tratta di fatto di una sorta di perequazione che attribuisce crediti di impermeabilizzazione a spazi costruiti relitti o inutilizzati (edifici e strutture con relative pertinenze in disuso quali parcheggi, aree cortilizie, piazzali) che una volta acquisiti attraverso il ripristino preventivo possono essere sfruttati per nuova occupazione di suolo in altre aree individuate dalla pianificazione comunale. E’ un modo questo di attivare un motore di riciclo delle aree urbane che consente di ridisegnare le città a parità di occupazione di suolo.
La priorità nelle politiche di contenimento del consumo di suolo rimane comunque quella di favorire la rigenerazione e riqualificazione del tessuto urbano esistente intervenendo sulle aree dismesse e sul patrimonio edilizio. Questo si interseca con un altro pilastro della strategia di Europa 2020 che è quello della de-carbonizzazione dell’economia e della transizione energetica. Un terzo dei consumi energetici, a livello nazionale come comunitario, proviene dal settore domestico e abitativo. La stragrande maggioranza degli immobili sono stati costruiti prima degli anni `90 e presentano pessime prestazioni energetiche (in molti casi consumi superiori di 10 volte alla classe A), bassa qualitá abitativa, inadeguati accorgimenti antisismici. Se si vogliono raggiungere gli obiettivi comunitari di riduzione delle emissioni e del consumo di combustibili fossili è soprattutto lì che bisogna intervenire
La “grande opera” del futuro deve quindi essere la riqualificazione edilizia promuovendo il riciclo delle aree e dei materiali di costruzione, nonché l`uso di tecniche di bio-edilizia che valorizzino le filiere produttive locali. Per fare questo bisogna approntare adeguate politiche regolative, fiscali e di facilitazione al credito con l`obiettivo di rendere più conveniente il recupero dell`esistente piuttosto che la costruzione del nuovo e orientare di conseguenza il mercato immobiliare. Tra queste azioni, oltre al vincolo del consumo netto di suolo zero, si annoverano:
defiscalizzazioni per interventi di ristrutturazione, di adeguamento sismico e di miglioramento energetico sulla base del modello già sperimentato con successo del 55 e ora 65%;
esenzione dal pagamento degli oneri di urbanizzazione, riduzione di altri oneri (occupazione di suolo pubblico, permessi, conversioni di uso), possibilità di incentivi volumetrici per interventi di riqualificazione, recupero, ristrutturazione che comportano un significativo abbattimento dei consumi energetici e delle emissioni;
forme agevolate di finanziamento e di ulteriore esenzione fiscali per condomini che deliberano di investire nella riqualificazione dell`immobile;
promozione e facilitazione d interventi sullo schema ESCO (Energy Service Company) con rafforzamento dello strumento incentivante dei certificati bianchi e del conto termico;
riforma della fiscalità comunale con disaccoppiamento delle entrate dal consumo di territorio e divieto di utilizzo degli oneri di urbanizzazione per la spesa corrente;
Ecco quindi che l’obiettivo comunitario del consumo netto di suolo zero va inteso non solo come un vincolo di una politica ambientale tesa a tutelare una risorsa strategica e vitale come il suolo, ma anche come stimolo e propulsore per avviare il grande cantiere della riqualificazione e del riassetto urbano in grado di rilanciare il settore delle costruzioni e di rendere al contempo più sostenibili e vivibili le nostre città. E’ solo su queste basi che si può uscire dalla crisi e costruire un reale e duraturo sviluppo coniugando le esigenze di sostenibilità e di tutela ambientale con quelle altrettanto stringenti di garantire lavoro e reddito di impresa.

postilla
Mi domando quale sarebbe il risultato di questa compensazione in Italia, dove l’unica legge rispettata dai forti è l’elusione della legge, deve la rendita e i “diritti edificatori”imperano, e dove la pubblica amministrazione è sempre meno motivata, autorevole, competente e attrezzata.
di NICOLA DALL’OLIO
link all’articolo




La bonifica, sessione plenaria del forum Corviale (22 novembre 2013)

Alfonso Pascale scrittore romano

Alfonso Pascale scrittore romano

Il Progetto Corviale 2020 si fonda sull’idea che la coesione sociale è una premessa, non l’esito dello sviluppo.

A Roma – ma anche in altre parti del Paese – questa idea si può considerare come una tradizione innovativa. Oggi la stiamo riscoprendo, ma è antica almeno quanto Roma Capitale d’Italia.

Se andiamo a vedere i progetti di bonifica integrale elaborati nei primi decenni del secolo scorso nell’Agro romano e poi, successivamente, quelli riguardanti la riforma agraria del secondo dopoguerra – che hanno interessato anche una porzione importante del Comune di Roma – notiamo che alla base dello sviluppo della nostra città, per un lungo periodo, c’è stata una visione sistemica del territorio. Una visione in cui  i legami comunitari, le relazioni umane, le forme dell’abitare, l’istruzione, la cultura, l’arte, i servizi socio-sanitari precedono e condizionano le iniziative per la crescita economica.

E’ una tipicità della cultura tecnica, economica e sociale della prima metà del Novecento quando si produssero significativi esperimenti di bonifica integrale con interventi idraulici, civili, urbanistici, socio-educativi e igienico-sanitari di grande spessore. Un filone utopico che è stato colpevolmente rimosso dalla memoria storica.

I guai seri per la nostra città sono iniziati quando si è abbandonata la visione sistemica dello sviluppo territoriale e si è imposta quella urbanocentrica, caratterizzata dalla separazione e frammentazione delle funzioni urbane e dalla riduzione delle aree agricole, di fatto, ad un ruolo di mera riserva in attesa di essere edificate.

E così da una visione integrata del paesaggio agrario – nel senso che ad esso dava Emilio Sereni come “forma impressa dall’uomo, nel corso e ai fini delle sue attività produttive agricole, al paesaggio naturale” – si è passati ad una visione meramente naturalistica del paesaggio. E tale cambio di ottica ha prodotto una sorta di “divisione del lavoro”  (un perenne e infruttuoso armistizio!) tra chi pianifica e realizza i quartieri e i servizi a questi connessi e chi gestisce le aree agricole sempre più residuali, a partire dalle aree protette.

Più che all’idea di rigenerazione – che richiama la falsa mitizzazione nostalgica dei bei tempi di una volta – dovremmo rifarci all’idea di bonifica integrale come processo perenne di trasformazione territoriale – abbandonando ovviamente ogni risvolto dirigistico e utopico del passato – da declinare, mediante l’utilizzo diffuso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, come bonifica della crosta urbana.

Europa 2020 è una grande opportunità per impostare con siffatta visione la crescita dei territori della nostra città. Una grande opportunità se il Comune di Roma e la Regione Lazio sapranno coglierla scegliendo di adottare l’approccio integrato nell’utilizzo dei Fondi europei.

Sei anni fa, quando si negoziò con Bruxelles la Programmazione 2007-2013, l’Amministrazione capitolina si disinteressò di questi aspetti e non pose al centro della propria iniziativa il ruolo che avrebbe potuto svolgere l’agricoltura urbana al servizio della città e l’esigenza di una strumentazione specifica plurifondo.

Subimmo così l’esclusione dagli incentivi destinati dalla politica di sviluppo rurale alle attività multifunzionali e di diversificazione che avrebbero offerto una qualche prospettiva alle aziende agricole della Campagna romana e, al contempo, una risposta concreta alle nuove sensibilità per lo sviluppo sostenibile manifestate in modo crescente dall’insieme dei cittadini.

Questa volta, è augurabile che Roma non perda di nuovo il treno.

Spetta alla Regione Lazio decidere se estendere l’approccio Leader, finora utilizzato solo nelle aree rurali, anche alle città e se i Partenariati pubblico-privati che nasceranno potranno utilizzare contestualmente i diversi Fondi comunitari. Il Comune di Roma farebbe bene a sollecitare la Regione a compiere questa scelta se vuole creare nei territori cittadini delle vere e proprie comunità.

E’ ormai sempre più palese che le trasformazioni territoriali non si possono più né programmare né pianificare con gli strumenti che abbiamo utilizzato finora. Si possono solo accompagnare con percorsi partecipativi condivisi, da progettare “ad alta risoluzione”. Ma questa modalità richiede una rigenerazione – qui è proprio il caso di usare questo termine! – della funzione pubblica che deve acquisire la cultura partecipativa e quella della sussidiarietà e la capacità di riconoscere alla società civile la funzione di autorganizzarsi sulla base di valori comunitari per gestire i beni collettivi.

In sostanza, ci vogliono nuovi occhi perché gli spazi aperti, quelli edificati, le attività non vanno più visti come entità rigide, separate e monofunzionali, ma vanno scomposti e ricostruiti in modo polivalente. I singoli soggetti e i gruppi che li compongono non vanno più separati per categorie e ingabbiati in determinati interessi specifici. Si tratta, invece, di cogliere la molteplicità e, al contempo, l’unitarietà dei bisogni degli individui, ricomponendone i frammenti.

Oggi l’agricoltura non è più soltanto un settore produttivo – come lo abbiamo immaginato quando eravamo pervasi di cultura fordista – ma è anche un’attività che fornisce alla città servizi sociali, culturali, ricreativi e ambientali e che ha pertanto bisogno di spazi edificabili.

Oggi il Welfare in trasformazione non è soltanto il vecchio Stato sociale redistributivo ma è anche un Welfare produttivo.  Altro che fine del sociale! Siamo ad un suo rilancio ma su nuove basi: un Welfare che dismette le forme assistenzialistiche del passato per produrre esso stesso – in forme imprenditoriali – ricchezza, occupazione, benessere collettivo.

Dobbiamo, dunque, progettare gli spazi e le attività come insediamento nell’antispazio delle reti informatiche, come nodi delle reti, polivalenti, interscambiabili. Senza rigidità e separatezze. Dobbiamo costruirli come sensori, quasi interfacce di computer.

Per costruire le interconnessioni bisogna praticare senso di comunità e fraternità civile e avere sotto gli occhi le mappe del territorio. Più un territorio autorappresenta le sue funzioni sotto forma di mappatura in continuo divenire, più il suo destino evolve in un processo di ri-appropriazione collettiva dell’identità. Un’identità perennemente mutevole perché aperta al diverso.

Il Progetto Corviale 2020 non ha più nulla di utopico perché la sua realizzazione avviene nella concretezza quotidiana della pratica relazionale generativa di fiducia e dell’utilizzo diffuso delle tecnologie di nuova generazione. E’ questo il significato dello slogan “Il territorio è la sua mappa”. E qui si colloca anche un’evoluzione della logica distrettuale, che diventa capacità di una comunità in movimento di autodefinirsi, modificando continuamente – con l’innovazione sociale – la mappa delle sue funzioni.

 

 




Piano Nazionale di Rigenerazione Urbana‏

rigenerazioneIl tema della rigenerazione urbana sostenibile, a causa dell’esaurimento delle risorse energetiche e delle pessime
condizione del patrimonio edilizio costruito nel dopoguerra è, per gli architetti italiani, la questione
prioritaria nelle politiche di sviluppo dei prossimi anni.
Questione da intendersi non solo come materia rilevante nella pratica urbanistica, ma come una politica per
uno sviluppo sostenibile delle città, limitando la dispersione urbana e riducendo gli impatti ambientali insiti
nell’ambiente costruito: frenare il consumo di nuovo territorio, attraverso la densificazione di alcuni ambiti
solo a fronte della liberalizzazione di altre aree urbanizzate, da tramutare in servizi e luoghi di aggregazione.
In città sempre più disgregate a causa dell’incontrollata crescita degli ultimi decenni, la riqualificazione delle
periferie deve essere il punto di partenza per poter dare una svolta ad una situazione precaria sia a livello edilizio
che ambientale. L’assenza di spazi pubblici di qualità e il consumo del suolo arrivato al livello di guardia,
il costo energetico non più in grado di sopportare sprechi e lo smaltimento dei rifiuti e dei materiali non riciclabili,
hanno determinato consapevolezza da parte dei cittadini con richiesta di interventi e di soluzioni.
Piano_Nazionale_per_la_Rigenerazione_Urbana_Sostenibile