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“Coordinare in tempo reale produzione e consegna, riducendo tempi ed emissioni” il progetto URBeLOG per il trasporto merci urbano

merciIntervista all’ingegnere Marco Annoni di Telecom, capofila del progetto URBeLOG che punta a razionalizzare l’ultimo miglio del trasporto merci in ambito urbano. Coinvolte le città di Torino, Milano e Genova
Secondo i dati del Rapporto Italia Noi appena pubblicato da Istat, “nel 2012 il trasporto di merci su strada ha sviluppato un traffico di oltre 124 miliardi di tonnellate al km, in forte calo (-13,2%) rispetto al 2011”. Si tratta solo degli effetti della crisi, oppure dato che, sempre secondo Istat, “in rapporto alla popolazione, il volume di traffico italiano è inferiore a quello di tutti i principali partner dell’area dell’euro” ci sono altri elementi alla base di questa differenza?
La crisi economica è chiaramente la ragione principale per la quale il trasporto delle merci ha subito un simile calo, ma nel caso italiano c’è un elemento peculiare che ha aggravato la situazione, facendo sì che nel settore il nostro mercato reggesse meno di altri. A differenza di quanto accade in altri Paesi Europei, in Italia il trasporto merci è un comparto estremamente frammentato. Il trasporto logistico è gestito perlopiù da aziende di piccole, a volte piccolissime, dimensioni, composte anche da una o due persone. Ed è difficile fare economia di scala in questo modo; i cosiddetti padroncini sono quelli che hanno fatto più fatica a non farsi spazzare via dalla crisi.

Questa frammentazione è la stessa ragione per cui è così complicato organizzare l’ultimo miglio del trasporto merci? Si parla da anni di razionalizzazione del trasporto logistico in ambito urbano, ma con scarsi risultati, nonostante sia questa una delle principali cause dell’inquinamento e della congestione del traffico in città.
Esatto, questo purtroppo è un grosso problema, e non solo nella logistica delle merci. Nel mondo dei trasporti, in Italia come altrove, gli attori sono incredibilmente eterogenei: aziende individuali, agenzie partecipate, agenzie completamente pubbliche, grandi imprese private… Non sempre gli interessi collimano in questo mix tra pubblico e privato, che fra l’altro è caratterizzato da scale temporali molto diverse. Un elemento con cui dobbiamo purtroppo fare i conti quando parliamo di ICT e infomobilità. Il mondo delle telecomunicazioni è estremamente rapido: il ciclo di vita dei prodotti è breve, le nuove tecnologie vengono superate continuamente, con aggiornamenti, nuove versioni migliorate… pensiamo invece al settore degli autoveicoli: un’automobile circola fino a otto, nove anni, un veicolo commerciale anche venti. Per non parlare delle infrastrutture stradali che le pubbliche amministrazioni pianificano, operano e mantengono con pianificazioni pluridecennali. L’organizzazione del cosiddetto ultimo miglio, il tratto finale prima della consegna delle merci, deve necessariamente coinvolgere i Comuni, ma tra le difficoltà economiche, le implicazioni normative e di processo il coordinamento tra tutti gli attori coinvolti è molto, molto complicata. Non che la gestione dell’ultimo miglio sia un problema solo italiano, anzi. Solo che se già il contesto è complicato, noi riusciamo ad essere anche particolarmente “bizantini”in quanto a burocrazia…

Se vogliamo trasformare davvero le città nelle smart cities di cui si parla sempre più spesso, la mobilità urbana è forse il primo campo in cui è necessario intervenire . E la direzione sembra chiara: connettere i veicoli alla realtà che li circonda. A livello pratico, come si potrebbe applicare al trasporto merci?
Intanto bisogna precisare che, quando parliamo di mobilità e di veicoli connessi non intendiamo esclusivamente le automobili, ma anche le biciclette e le motociclette, il trasporto pubblico e quello commerciale, lo stesso pedone se vogliamo. Il tema dell’infomobilità è diventato sempre più centrale e negli ultimi dieci anni la Comunità Europea si è impegnata con fondi e finanziamenti per sviluppare la ricerca e la standardizzazione nel settore. L’obiettivo è arrivare ad avere veicoli che possano circolare liberamente in Europa con strumentazioni standard in grado di comunicare tra di loro e con le infrastrutture. C’è una grande spinta da parte di Bruxelles in questa direzione, perché permetterebbe di risolvere, o almeno semplificare, tanti problemi allo stesso tempo: sicurezza, efficienza, impatto ambientale… Si va da una cosa semplicissima – in cui l’Italia è all’avanguardia – come il telepedaggio, ai sistemi di car sharing, da soluzioni per aumentare la sicurezza diminuendo il rischio di incidenti, alla prenotazione automatica delle ricariche per le auto elettriche fino alla possibilità di regolare dinamicamente l’accesso alle ztl in base alla congestione del traffico, al meteo, alle concentrazioni di inquinanti. E’ la flessibilità, la chiave di tutto, la possibilità di monitorare ed adattare la viabilità al contesto in tempo reale e in modo dinamico. E ora anche per il trasporto delle merci si stanno aprendo possibilità interessanti. Sia il MIT che il MIUR hanno aperto bandi molto interessanti, che stanno facendo di alcune grandi città italiane dei laboratori a cielo aperto per i Sistemi di Trasporto Intelligente (ITS)

E qui veniamo al progetto URBeLOG, che vi vede direttamente coinvolti: Milano, Torino e Genova: il vecchio “triangolo industriale” sta tornando in prima linea per il trasporto smart? D che cosa si tratta e che ruolo gioca Telecom Italia nel progetto?
Nella tematica “Logistica di Ultimo Miglio” Telecom Italia si è classificata al primo posto nel bando Smart City del MIUR, e l’abbiamo fatto con questo progetto, URBeLOG, appunto, che punta proprio a razionalizzare l’ultimo miglio del trasporto merci. Fondamentalmente si tratta di scardinare quella frammentazione di cui parlavamo prima, coordinando tutti gli attori in gioco per gestire in tempo reale i processi distributivi dalla produzione alla consegna, riducendo tempi, consumi ed emissioni. Telecom Italia è capofila del progetto, ma con noi collaborano tantissimi enti diversi: IVECO, SELEX Elsag, TNT, Politecnico di Torino, Università Commerciale Luigi Bocconi, Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa… La sperimentazione coinvolge Torino, Milano e Genova, con un impegno diretto delle amministrazioni, come molto intelligentemente richiedeva il bando. Non resteranno impegni vaghi: ci sono delibere firmate, che garantiscono la collaborazione ed il coordinamento delle agenzie di mobilità, degli interporti e dei vari soggetti interessati dal progetto. I Comuni dal canto loro non riceveranno finanziamenti diretti, ma potranno beneficiare dei servizi che sperimenteremo gratuitamente, aiutandoci a valutare costi-benefici e a migliorare l’attuazione. Concretamente, sperimenteremo dei sistemi di ottimizzazione in tempo reale dei percorsi e dei carichi nelle flotte che distribuiscono i colli ai commercianti, con l’aiuto di dispositivi di localizzazione satellitare ed equipaggiamenti di comunicazione installati direttamente sui veicoli, monitoraggi degli indicatori ambientali… L’aspetto fondamentale è che una volta messi a punto questi modelli saranno assolutamente replicabili nelle altre città, proprio per uniformare e rendere il più efficiente possibile l’intero sistema. Quando avverrà? Si procederà un passo alla volta. Si pensi all’eCall, la chiamata di emergenza veicolare pan-Europea automatizzata in caso di incidenti stradali, che, al termine di un lungo percorso di standardizzazione tecnica e normativo sarà obbligatoria su tutte le nuove auto omologate a partire da ottobre 2015. E’ un dispositivo tecnologicamente semplice che viene installato per uno scopo specifico, ma che, fornendo funzioni di connettività al veicolo, potrebbe diventare una base d’appoggio per altri servizi che magari ora nemmeno immaginiamo. Ci vorrà del tempo, ma il futuro della mobilità è questo, e la strada è già cominciata.

Elena Donà

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DALLA PARTE DEI CITTADINI: TORINO SMART CITY

torino smart citytorino smart city




Ecco il nuovo Campidoglio, la città degli uffici pedonale che nascerà nel cuore di Ostiense

campidoglioI lavori da dicembre. L’architetto Desideri: “Percorsi arricchiti da arte e archeologia”

Piazze, percorsi sotterranei, giardini pensili, terrazzamenti, cortili interni e un ponte pedonale. Poi una grande scalinata di marmo e al centro la ciminiera della vecchia manifattura Tabacchi che diventa il simbolo, il segno. Sarà così la nuova cittadella del Campidoglio 2 che sorgerà a Ostiense, nel piazzale accanto all’ex Terminal, e poi si allungherà fino all’ex manifattura stessa, ristrutturata, fino alla circonvallazione Ostiense. Nuovi uffici per 4.350 impiegati per liberare gli antichi palazzi del colle e renderli un museo della città unico al mondo. E su tutto il bianco candore del travertino, a ricordare la Roma razionalista, la Roma dell’Eur e della città universitaria della Sapienza. Ma anche l’Arce Capitolina come cittadella istituzionale: un unicum di slarghi, spazi pubblici, architetture e monumenti.

L’ha annunciato il vicesindaco Nieri: alla fine dell’anno inizieranno i lavori, che finiranno del 2018. L’aggiudicazione definitiva del bando è cosa fatta. E così il progetto di Paolo Desideri realizzato con i partner del suo studio Abdr, Arlotti, Beccu e Raimondo. Può cominciare a volare. Un appalto integrato, progettazione e realizzazione, vinto da Astaldi, con Abdr e Proger. Il general contractor costruirà l’opera da 193 milioni di euro e poi l’affitterà al Comune per 25 anni. Dopo la proprietà passerà alla città. I numeri: 134.700 metri quadrati, 53.300 di uffici, 13.500 di archivi, 59.400 di parcheggi, 8.600 per servizi al quartiere. E in programma c’è anche la ristrutturazione della ex Manifattura Tabacchi, per un totale di 33.000 metri quadrati, 2 mila di parcheggi a raso, piazze e spazi pedonali per 11 mila. Infine i collegamenti: il nuovo polo sarà servito dai treni che si fermano alla stazione Ostiense, dalla linea B del metrò e dalla RomaOstia.

Spiega Nieri: “Grazie all’eliminazione della spesa per gli affitti passivi degli uffici, 33,7 milioni di euro annui, ci sarà un risparmio di 18,7 milioni l’anno. E Roma realizzerà una struttura che sarà della collettività per sempre. Non solo. Un ulteriore vantaggio dell’accorpamento delle sedi verrà dai minori spostamenti e da servizi comuni per tutti i dipendenti di Roma Capitale. E i cittadini avranno un unico punto di riferimento, un’area che diventerà una vera e propria cittadella amministrativa, con un rapporto costibenefici inequivocabile. Ogni passaggio di questa operazione, naturalmente, sarà stabilito insieme all’VIII Municipio e attraverso percorsi di partecipazione”.
Ma come sarà l'”astronave” che atterrerà nel cuore di Ostiense? “Il tema da un punto di vista architettonico” spiega l’architetto Paolo Desideri, il progettista della Stazione Tiburtina “era delicatissimo. A partire dal fatto che nell’immaginario collettivo mondiale il termine Campidoglio sta a indicare “la casa della rappresentanza pubblica”. Il problema era di creare un luogo di forte identità”. E l’identità ha bisogno di “segni”. “Le nuove costruzioni” continua Desideri “si articolano in sei volumi. E il cittadino che entrerà dalla circonvallazione Ostiense si troverà dentro un unicum spaziale, fortemente riconoscibile, con sottopassi e sovrappassi delle strade in modo da consentire, senza attraversare le vie, di entrare e uscire infine a piazzale dei Partigiani oltre la ferrovia. Poi c’è la sequenza ininterrotta di terrazzamenti, spazi pubblici e percorsi caratterizzati dalla presenza dell’arte”.

Nel Campidoglio 2 ci saranno archeologia e arte contemporanea. “A partire dall’esperienza del Campidoglio michelangiolesco” racconta il progettista “abbiamo voluto segnare la spazialità con l’esposizione di lapidi e effigi di epoca romana che arriveranno dal Lapidario capitolino e vogliamo intervallare tutto con sculture contemporanee. Lavoreremo con l’assessorato e con il Macro per aprire ai contributi degli artisti”.
Ma anche i materiali sono importanti: “Il travertino ricorderà la lezione del razionalismo romano. E il restauro dell’ex manifattura Tabacchi di Pier Luigi Nervi valorizzerà il cortile, che diventerà la prima di una sequenza di piazze, con la sua alta ciminiera. Lì ci saranno servizi di quartiere: caffetteria, auditorium, museo, che si aggiungeranno a un asilo nido, una palestra, una scuola”. Nel grande slargo davanti a Eataly, dalla parte opposta, il parcheggio verrà interrato e tutta la piazza pedonalizzata. “Ci sarà un centro civico

pubblico” conclude Desideri “e poi si salirà con una grande scalinata, che vuole riferirsi alla cordonata del Campidoglio, al terrazzamento superiore, da dove si accederà agli uffici capitolini. In uno spazio pubblico sopraelevato rispetto al tracciato delle macchine”.

http://roma.repubblica.it/cronaca/2014/02/20/news/ecco_il_nuovo_campidoglio_la_citt_degli_uffici_pedonale_che_nascer_nel_cuore_di_ostiense-79095069/




Il pachino del terzo piano

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Altro che “chilometri zero”. Potremmo mangiare broccoletti che vengono dal piano di sopra. O dall’altra parte della strada. O da dietro l’angolo. Non grazie a un improbabile orto urbano, sopravvissuto al cemento. Ma comprandoli in un normale supermercato, capace di riempire la borsa della spesa di migliaia di persone con prodotti cresciuti sopra le nostre teste, nei piani superiori del grattacielo che, a pianoterra, ospita lo stesso supermercato. Per i lettori di fantascienza, che da decenni hanno fatto la bocca al cibo cresciuto nelle stive delle astronavi o in cavernosi laboratori anti-bomba, è pura routine. Per i sette miliardi di esseri umani che vivranno nelle megalopoli del 2050, potrebbe diventarlo. In un mondo desertificato dal riscaldamento globale, dove l’acqua è troppo preziosa per essere sparsa a irrigare le campagne, potrebbe essere, semplicemente, l’unica strada.

 

Difficile che i pachino cresciuti all’ultimo piano di un grattacielo della Bovisa abbiano lo stesso sapore dei pomodori originali. Quelli veri, d’altra parte, è difficile trovarli anche oggi, da un normale fruttivendolo. E il sapore, in agricoltura, conta solo insieme all’abbondanza. Nell’agricoltura verticale di domani, mancheranno anche molte altre cose: il sole, la pioggia, il vento, la neve, i colori, i paesaggi. Ma i broccoletti del 2050 potranno cavarsela con solo poche gocce d’acqua, zero pesticidi, niente trasporto. Il conto dei vantaggi e degli svantaggi è più complesso e meno scontato di quanto potrebbe sembrare a prima vista.

 

Tecnicamente, l’agricoltura verticale è già una realtà. A marzo, verrà inaugurata a Scranton, in Pennsylvania, la più grande fattoria verticale del mondo. Produrrà lattuga, spinaci, pomodori, peperoni, basilico e fragole. La superficie è di poco più di tre ettari ma, siccome le piante saranno sistemate su sei strati sovrapposti, i tre ettari dell’agricoltura verticale si moltiplicano: Green Spirit Farms, la società proprietaria, calcola che si troverà a gestire 17 milioni di piante. Avere un’idea del numero è importante, perché, nella fattoria verticale, ogni pianta, in qualche modo, ha un trattamento individuale. Pomodori o peperoni, a Scranton, saranno collocati in contenitori in cui non c’è terra, ma acqua, potenziata con sostanze nutritive. Lampa- dine Led faranno le veci del sole. Un software si preoccuperà di far ruotare le piante in modo che ricevano tutte la stessa esposizione alla luce solare, più di quanto, probabilmente, avrebbero all’aperto, in Pennsylvania.

 

A Singapore, di sole ce n’è fin troppo. Quel che manca è lo spazio. La fattoria verticale costruita da Sky-Greens contiene la risposta già nel nome della società. I quattro piani della fattoria sono tutto vetro ma, soprattutto, cavoli cinesi e lattuga si muovono anch’essi in verticale: un ascensore muove lentamente ogni fila di contenitori, facendoli salire a turno fino al tetto. C’è, peraltro, chi la pensa esattamente all’opposto. A Kyoto, in Giappone, Nuvege produce le sue lattughe in una sorta di enorme hangar privo di finestre. Le piante sono illuminate solo da lampadine Led, tarate, però, sul rosso, oppure sul blu, per favorire due diversi tipi di clorofilla.

 

Ma se, tecnicamente, l’agricoltura verticale è possibile, economicamente, poi, funziona? Forse in Svezia un mango costa meno così, che importato con l’aereo, ma altrimenti? La prova l’avremo nei prossimi anni, anche grazie ai progressi della tecnologia. Uno dei costi maggiori dell’agricoltura verticale è l’elettricità per le lampadine che replicano il sole. Un Led, oggi, ha un’efficienza del 28 per cento, cioè produce energia luminosa solo per poco più di un quarto dell’energia che consuma. Sul mercato, però, stanno per arrivare Led con efficienza al 68 per cento, con un drammatico salto di qualità. Tuttavia, la luce non è tutto. Anzi, può essere troppa. Le fattorie verticali stanno scoprendo che le piante reagiscono meglio a una luce che varia dall’alba al crepuscolo. Un finto tramonto di cinque minuti favorisce la fioritura.

 

Per i profeti dell’agricoltura verticale questa, comunque, è una visione miope. L’energia è un problema e un costo che possono essere facilmente superati autoproducendo indipendentemente l’elettricità con pannelli fotovoltaici o riciclando gli scarti vegetali come biocombustibile. E, contemporaneamente, un altro costo può essere abbattuto: l’acqua. Oggi, il 70 per cento dell’acqua dolce, nel mondo, viene usato per irrigare i campi. Uno dei motivi per cui l’agricoltura verticale, domani, potrebbe affiancare efficacemente l’agricoltura tradizionale è che, per crescere la stessa pianta, la fattoria verticale ha bisogno del 2-5 per cento dell’acqua che occorre all’aperto, in larga misura grazie al riutilizzo dell’umidità creata nell’ambiente dalle stesse piante.

 

Anche considerando gli altri risparmi ottenibili, tagliando il trasporto e facendo assegnamento, almeno in teoria, sul fatto che non occorrono pesticidi, comunque tutto questo non basterebbe a fare dell’agricoltura verticale un’impresa economicamente sostenibile. Ma la fattoria in un grattacielo può essere tremendamente efficiente. Per dimo-strarlo, il guru dell’agricoltura verticale, Dickson Despommier, si lancia in una simulazione estrema. Prendete un caseggiato su più piani, grande quanto un isolato urbano (due ettari) e piantatevi il frumento nano, studiato dalla Nasa. Con raccolti tutto l’anno, quei due ettari di città possono produrre, dice Despommier, tanto frumento quanto quasi mille ettari di campagna.

 

Forse non occorre arrivare al frumento nano. La forza — e lo spazio economico futuro — dell’agricoltura verticale è nella capacità di produrre più raccolti l’anno, anche in climi in cui, diversamente dalle regioni più calde, questo non è possibile all’aperto. In una fattoria verticale sono possibili 30 raccolti l’anno di fragole, 14 di lattuga. In generale, considerando la maggior parte delle colture sperimentate, si arriva a raccolti annui 4-6 volte più frequenti dell’agricoltura tradizionale.

 

E il contadino verticale? Niente lunghe giornate sotto il solleone o la pioggia. Lo troverete al bar, a tenere sotto controllo piante, luci, software e ascensori con lo smartphone. Tranne, naturalmente, quando deve riparare rubinetti o cacciare topi.

Maurizio Ricci

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Contenimento del consumo del suolo

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Disegno di legge presentato alla Camera dei deputati il 3 febbraio 2014 riguardante “Contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato”

testo del disegno di legge

 




Il lago dell’ex Snia aperto a tutti Da un abuso rinasce un quartiere

l'obbiettivo di un grande fotoreporter: Giordano Pennisi

l’obbiettivo di un grande fotoreporter: Giordano Pennisi

L’assemblea capitolina approva una mozione per chiedere l’esproprio dell’area dell’ex fabbrica della Snia Viscosa in cui si nasconde il lago, sorto negli anni 90 dopo un tentato abuso edilizio. Sventata l’edificazione selvaggia dell’era Alemanno, l’obiettivo per il futuro è dare vita a una riqualificazione che sia partecipata. Da tutti

Sembra un paradosso, ma anche da un disastro ambientale, si può costruire una città più sostenibile, in cui le ferite del passato si tramutano in risorsa. Per tutti. E’ proprio questo quello che potrebbe accadere in via Prenestina, all’altezza di largo Preneste, fra i relitti urbani dell’ex fabbrica della Snia Viscosa, dove si annida un vero e proprio lago che presto potrebbe essere annesso all’adiacente parco delle Energie, divenendo quindi un nuovo spazio pubblico. E da una tentata speculazione potrebbe, quindi, rinascere un intero quartiere. Perché quel lago, sconosciuto ai più, è il risultato di un abuso edilizio consumato negli anni 90, quando i proprietari dell’area tentarono di realizzare un centro commerciale all’interno dell’ex fabbrica. Scavando, venne intaccata gravemente la falda acquifera sottostante. I lavori si fermarono, non l’acqua, che fuoriuscì fino a formare nel tempo uno stagno dalle consistenti dimensioni. Che ora potrebbe diventare patrimonio della collettività.

pellegrinaggio dei cittadini  al lago

pellegrinaggio dei cittadini al lago

L’ESPROPRIO – Proprio oggi pomeriggio, infatti, l’assemblea capitolina ha approvato una mozione per chiedere al sindaco “l’esproprio di una piccola porzione di area privata dell’ex Snia – si legge nel provvedimento portato in aula dal capogruppo di Sel Gianluca Peciola – per collegare l’area pubblica adiacente al lago con la più estesa area pubblica del parco”. Inoltre si chiede di “mettere a disposizione delle risorse per la sistemazione e l’attrezzaggio per la fruizione dell’area del lago condividendone la progettazione con i residenti e il Forum territoriale dei cittadini attraverso un percorso partecipato, a introdurre le tutele ambientali e paesaggistiche nell’area del lago”.

IL FUTURO – La mozione prevede anche di avviare una collaborazione tra i Dipartimenti del Patrimonio, dell’Urbanistica e dell’Ambiente con il Municipio e il forum territoriale dei cittadini, per una progettualità partecipata sia sull’area pubblica che su quella privata e di rendere noto qualsiasi ulteriore progetto presentato dal costruttore a tutti i gruppi consiliari. Una richiesta ben precisa che mira a evitare quanto accaduto nel recente passato. Fallito il tentativo, durante l’era Alemanno, di inserire l’area nel piano piscine private da realizzare in vista dei mondiali di nuoto del 2009, e tramontata, almeno per ora, la prospettiva dei grattacieli da realizzare anche attraverso il bando sul recupero dei Relitti Urbani, indetto da Alemanno nel 2010 e cancellato dalla nuova giunta lo scorso gennaio, si potrebbe quindi aprire per l’ex Snia un nuovo futuro. Partecipato e sostenibile.

 Marco Carta
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Richiesta di “Dichiarazione di interesse culturale” per il Cinema America

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Non esiste un concetto di bene culturale. Vi sono cose, gruppi e complessi di cose che hanno importanza per la storia, la condizione presente e i prossimi sviluppi della cultura. La cultura non è proprietà di persone, di classi, di singoli paesi; è di tutti. Bene culturale significa dunque bene pubblico. Il termine «bene» ha un senso patrimoniale: i beni culturali sono tali perché parti di un patrimonio. Il patrimonio culturale è mondiale, dunque ciascun paese risponde del proprio a tutto il mondo civile. Ogni paese civile ha leggi che proteggono, cioè disciplinano l’uso del proprio patrimonio culturale: all’apparato giuridico corrispondono servizi tecnici e amministrativi per l’interpretazione e l’applicazione delle leggi di protezione.  (Giulio Carlo Argan)

 

 

La richiesta di dichiarazione di interesse culturale del Cinema America, progettato negli anni ’50 da Angelo di Castro, si muove nella direzione di un suo duplice riconoscimento culturale: per le proprie caratteristiche architettoniche, in quanto “sala cinematografica” emblematica della specifica tipologia e riconoscibile elemento dello spazio urbano, e per il suo valore socio-antropologico.

 

Tra le sale cinematografiche romane tale riconoscimento è stato dato prima di oggi, e quando ormai compromesso, solo al Cinema Airone di Adalberto Libera consentendo così la distruzione di un patrimonio unico al mondo nel suo insieme.  Fino agli anni ’80 si contavano, infatti, solo a Roma oltre 300 sale cinematografiche, di cui ben 250 realizzate tra gli anni ’20 e ’50, espressione del ruolo rivestito dalla nostra città anche nel campo cinematografico internazionale, seconda al mondo solo ad Hollywood grazie alla presenza di diversi studios tra cui quelli di Cinecittà.

 

Identificati come “edifici per lo spettacolo” hanno subito e subiscono ancora oggi un triste destino. Mentre vengono trasformati e/o demoliti, i cosiddetti “edifici per la cultura”, al contrario meritevoli per principio di essere tutelati, per sopravvivere non fanno altro che imitarli alla ricerca di un possibile spettacolo, promuovendo eventi collaterali, proiezioni ed incontri di massa. Ed è così che le nostre politiche culturali anziché sottrarre la cultura alla logica imperante di mercato, così come indicato dall’art.9 della Costituzione Italiana, promuovono tale logica all’inseguimento del pubblico.

 

Solo superando l’errore di fondo per cui un film, e con esso un cinema, possa essere ridotto al suo unico valore commerciale, ed attribuendogli invece il giusto peso culturale, crediamo sia possibile uscire da questo momento di crisi e trovare azioni in grado di contrastare la caduta dell’opposizione tra mercato e cultura a cui si assiste da troppo tempo. Il tentativo ricorrente di portare il “cinema” in un museo, alla ricerca di pubblico per quest’ultimo, non fa altro che confermare quanto per noi già chiaro: il cinema, in quanto contenente, è da sempre, e a tutti gli effetti, un museo. Un museo dinamico per l’arte del cinema che è stato capace, come Walter Benjamin ci ha insegnato, di modificare totalmente il rapporto delle masse con l’arte.

 

Tutelare oggi il Cinema America, riconoscendogli valore culturale, significa innanzitutto muovere un primo passo in questa direzione e prendere le distanze da un atteggiamento di totale sottovalutazione del valore delle sale cinematografiche e, con esse, del nostro patrimonio architettonico moderno.

 

Anche se di valore riconosciuto da diversi autori e in diverse pubblicazioni,  molte sale sono, infatti e  purtroppo, andate perse del tutto o quasi: anche laddove si è voluta mantenere la destinazione d’uso originaria, nel trasformarle in multisala, si sono completamente perse tutte quelle caratteristiche tipologiche capaci di conferirgli valore architettonico. Caratteristiche che, al contrario, il Cinema America testimonia ancora, ed unicamente, per intero grazie ad una sua totale integrità formale.

 

Chi oggi frequenta il Cinema Lux (ex Alcyone), così come il Jolly, il Fiamma e molti altri, sa bene di non trovare più quella spazialità paradigmatica del “cinema” così come lo abbiamo sempre inteso. Spazialità che distingue un qualsiasi corpo di fabbrica da un’opera di architettura. I cinema hanno inoltre rivestito un ruolo fondamentale nei confronti dell’architettura moderna che risulta essergli in parte debitrice: spingendosi sempre in avanti alla ricerca di soluzioni volte a realizzare grandi ed unici invasi, sono tra i primi ad avere eliminato ostacoli strutturali e visivi per realizzare grandi campate con anche determinate caratteristiche acustiche. Basti pensare all’uso dei materiali: dai pannelli a doppio strato con interposta camera d’aria, alle superfici ondulate in grado di assorbire il suono mediante opportune forature; quelle stesse che vediamo ancora oggi nel Cinema America e che ritroviamo in molte architetture contemporanee. L’uso di materiali innovativi, come ad esempio il vetroflex, portò la ricerca e l’industria italiana ad una produzione di altissimo livello tanto da mostrare oggi una competenza tecnica meritevole di conservazione e tutela, ad esempio e studio dell’evoluzione della nostro costruire.

 

Modellato in funzione dell’osservatore, il Cinema America ha concretizzato a suo tempo tutte le nuove esigenze spaziali legate alla proiezione in presenza di un vasto pubblico, non solo al proprio interno, ma anche al proprio esterno in uno stretto rapporto dialettico tra dentro e fuori. Utilizzando elementi ricorrenti e comuni alle altre sale, è entrato a far parte della cultura figurativa e architettonica del Rione Trastevere e della città intera.L’insieme delle singole opere ci restituisce lo sviluppo della nostra città: riteniamo pertanto doveroso salvaguardare quelle oggi ancora intattecome il Cinema America.

 

Nel 1980, in occasione della mostra curata con Giorgio Muratore e Roberto Veneziani, “I cinema nella città”, Renato Nicolini manifestava la preoccupazione per un patrimonio in via di trasformazione: “è attraverso i cinema che rileggiamo l’architettura di Roma”, ma “le scelte di trasformazione debbono essere esplicite, anche se dolorose. Quello che non è ammissibile è fingere di conservare strutture nella realtà irrimediabilmente alterate.” Nascondersi allora dietro la conservazione di alcuni sporadici elementi, come nel caso della facciata del Cinema Etoile, ex Cinema al Corso di Marcello Piacentini, trasformato oggi in “concept store di Vuitton”, è quanto meno inaccettabile. Considerare una ventina di poltrone di fronte ad uno schermo, e qualche libro su un bancone, il giusto pegno culturale per il cambio di destinazione d’uso di una sala cinematografica equivale a negare l’esistenza di una qualsiasi politica culturale nei confronti del Cinema e della città tutta.  Ai nostri occhi solo il riconoscimento di valore culturale a questa sala nel cuore di Roma, ormai unico esempio esistente a Roma di un cocktail di elementi caratterizzanti il cinema di epoca moderna, può dare inizio ad un dichiarato cambio di rotta.

 

Tra i pochi casi rimasti di edificio isolato in un tessuto urbano consolidato, il Cinema America presenta infatti sul proprio fronte, quasi totalmente cieco, la tipica pensilina nervata della sua epoca che, insieme all’insegna luminosa, evidenzia il carattere di elemento urbano distintivo del cinema stesso, di “architettura per la città”. Altra eccezione oggi, che di per sé mostra valore inestimabile, è la copertura apribile che, nel consentire areazione alla sala, permetteva il contatto/contrasto tra la “luce” della notte ed il suo buio. Grazie alla profondità di campo di uno spazio articolato in platea e galleria, il CINEMA AMERICA rivela a tutt’oggi una sua FORTE INDIVIDUALITÀ, così all’interno come al suo esterno. La grande sala da 700 posti, con la sezione doppiamente inclinata e dalla forma leggermente trapezoidale per consentire perfetta visuale e acustica, è infatti leggibile nel suo prospetto grazie alla distinzione di ogni parte ed al contrasto esistente tra la compressione dello spazio di accesso e la grande apertura della sala stessa. Ad eccezione delle ceramiche di Leoncillo, indipendentemente esposte sotto lo schermo, tutti gli elementi decorativi sono ancora presenti e perfettamente integrati all’architettura. Dalle splendide maniglie in ottone alle grandi vetrine per i manifesti dei films, fino ad arrivare ai duesignificativi mosaici opera dell’artista Anna Maria Cesarini Sforza. Lo stesso possiamo dire per la struttura che è ancora in grado di rispondere positivamente ai punti più significativi del D.M. 261 del 1996, grazie alla distribuzione della sala e delle sue vie di fuga, alla posizione della cabina di proiezione ed ai materiali usati.

 

Nato nel 1954 per rispondere alle esigenze delle nuove tecnologie e di un vasto pubblico, sui resti della demolizione del teatro Lamarmora del 1925, il Cinema America testimonia una lunga e articolata storia, di vicende politiche, sociali e culturali. Ma l’ultimo passo ora da compiere è riconoscere la radicale diversità tra storia e memoria individuale; quella diversità che Vittorio Vidotto individua nella memoria collettiva, insieme di ricordi, di narrazioni e rappresentazioni del passato condivisi da un gruppo o da una collettività, talora da un’intera nazione. ”La memoria collettiva non è storia, è piuttosto uno degli oggetti più interessanti della ricerca storica, in quanto prodotto e riflesso di un comportamento culturale”. E il Cinema America è senz’altro memoria collettiva del suo Rione: chiunque sia di Trastevere racconta oggi un suo momento, un aneddoto. I più anziani ci parlano del Teatro Lamarmora, di Cacini e Fabrizi, altri ricordano la magia del cielo stellato, il fumo denso che all’improvviso si alzava a liberare l’aria della sala e le lunghe file per entrare. “Si andava al cinema non solo per vedere il film ma per stare insieme”, ci dicono a conferma delle parole di Giuseppe Tornatore: “Quando scompare una sala è come se venisse meno un amico, un conoscente, con il quale abbiamo condiviso un pezzo di strada e tante emozioni”.
I più giovani, al contrario, hanno avuto in pochi la fortuna di condividere la visione, e l’emozione, di un film con altre 7/800 persone ed è soprattutto per loro e per quanti arriveranno dopo, per assicurare non solo la storia letta, scritta, ma anche la memoria collettiva, che abbiamo oggi il dovere di riconoscere il Cinema America “bene di interesse culturale”.
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Tetti verdi: a Bari ne sorgeranno 2000 metri quadrati grazie al progetto Shagree

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E’ boom di tetti verdi a Bari. Presto su 2000 metri quadrati di tetti baresi sorgeranno nuovi spazi verdi. Il progetto mira ad una maggiore sostenibilità ambientale e al risparmio energetico. Grazie ai tetti verdi, infatti, sarà possibile aumentare l’isolamento termico delle abitazioni e migliorare la capacità di assorbimento dell’acqua piovana.

Grazie al progetto Shagree (Green Shadows Program) l’Italia si propone cerca di tenere il passo di altri Stati Europei, come l’Olanda, la Norvegia e la Danimarca, dove i tetti verdi rappresentano una realtà concreta ormai da anni. Anche nel nostro Paese, negli ultimi tempi, sono sorti alcuni giardini e orti sul tetto, alla ricerca di nuovi spazi liberi da coltivare.

I nuovi tetti verdi nasceranno in una zona sperimentale della città di Bari, grazie ad un gruppo di imprese che lavorerà in collaborazione con il Comune. I cittadini che beneficeranno della novità potranno contare su bollette meno salate. Infatti i tetti verdi sono considerati una vera e propria garanzia dal punto di vista del risparmio energetico.

Il progetto ha ricevuto un caloroso appoggio da parte dei cittadini, che il Comune di Bari ha interpretato come un importante segno di interesse dal punto di vista del rispetto dell’ambiente. I tetti verdi potranno contribuire a contrastare gli effetti del cambiamento climatico e del dissesto idrogeologico.

I cittadini non spenderanno nulla per la realizzazione dei tetti verdi, che sarà gratis e che permetterà la riqualificazione delle corti. Per i primi 6 mesi saranno i progettisti a prendersi cura dei nuovi spazi. Dopodiché i cittadini entreranno in gioco nella gestione dei nuovi tetti verdi, grazie alle informazioni che riceveranno in proposito.

I tetti verdi serviranno anche a proteggere i cittadini dai rumori esterni e a contribuire al filtraggio delle polveri sottili. Inoltre, ripareranno le case dagli eventi atmosferici, incrementando la durata delle coperture. Gli esperti si occuperanno di raccogliere dati importanti sull’impatto della presenza di tetti verdi in città, sia dal punto di vista della qualità della vita dei cittadini, sia per quanto riguarda la riduzione dell’inquinamento e gli effetti sul clima.

 

Il bando per la nascita dei nuovi tetti verdi era stato pubblicato a dicembre 2013, per andare alla ricerca di spazi privati disponibili. Tra i luoghi pubblici che presto potranno trarre vantaggio dalla presenza di un tetto verde, troviamo la scuola Imbriani, nel quartiere della Madonella. In tutto sono stati selezionati 12 terrazzi. Presto verranno valutate le loro caratteristiche per dare il via al meglio alla sperimentazione per la creazione di nuovi tetti verdi.

 

Marta Albè

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