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Appaesarci in un mondo mobile e in fuga

Agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, fu molto in voga una canzone, che ebbe grande successo al Festival di Sanremo, interpretata dal gruppo I ricchi e poveri e dal cantante ispano-americano Josè Feliciano. Il testo del brano, Che sarà (Migliacci-Fontana),  ben racconta la durezza della vita lontano da casa e il senso di doloroso abbandono provato dal protagonista nel lasciare il proprio paese e la sua comunità di vita:

“Paese mio che stai sulla collina, disteso come un vecchio addormentato. La noia, l’abbandono sono la tua malattia, Paese mio, ti lascio vado via”

E ancora:

“Gli amici miei son quasi tutti via e gli altri partiranno dopo me, peccato perché stavo bene in loro compagnia, ma tutto passa, tutto se ne va. Che sarà, che sarà, che sarà”

Intorno ad altre atmosfere, quelle disegnate da Cesare Pavese ne La luna e i falò, si svolge invece il ricamo di Mario Pogliotti, amplificato dalla straordinaria interpretazione di Giovanna Marini, che, in Ricordo di Pavese, fa esordire il brano musicale con queste parole:

“Un paese vuol dire non essere soli, avere gli amici del vino, un caffè…”.

Ma leggiamo direttamente una pagina de La luna e i falò:

“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.”

E’ importante notare che, nei due testi, emergono più che i luoghi fisici che caratterizzano l’habitat paese – la chiesa, la piazza, il campanile – i luoghi dello spirito – gli amici, la lontananza, la nostalgia – che si collegano a immagini profonde della vita.

Oggi siamo nella fase della post-metropoli. E le città-territorio in cui viviamo sono fatte di spazi indefiniti in cui gli eventi accadono sulla base di logiche che non corrispondono più a un disegno unitario d’insieme.

Tutto questo ha creato uno spaesamento sia nei piccoli comuni interni che nelle aree urbane. Uno sradicamento che è innanzitutto dentro di noi. Per appaesarci di nuovo, in un mondo mobile e in fuga, è necessario dare un nuovo senso all’abitare, all’essere nei luoghi, fotografandoli per quelli che sono. Malinconia, nostalgia, memoria, non guardano al passato ma ad un futuro da costruire, anche riconsiderando scarti, frammenti, schegge, saperi di altri universi, immaginando altri percorsi.

Non servono slogan, ma nuovi sguardi e nuovi stili di vita. Cogliere le trasformazioni, i mutamenti, le novità, le incurie, le bellezze, i margini, le devastazioni. Bisogna essere disponibili alla sorpresa e allo stupore, allo spavento e all’incanto. Rimettersi in cammino, guardare e vedere, osservare, condividere, accogliere.

 

I ricchi e poveri




Segna la data: Ater Roma e Unimol presentano il progetto dei tetti di Corviale – 22 ottobre ore 11.30 – 13.00 Bologna fiere

Un passo alla volta … cominciamo dal TETTO, trasformandolo in una piattaforma rigenerativa.

  • ROOF Top FARM – Rigenerazione delle superfici di copertura con verde pensile per produzione alimentare con terra (orti) e senza terra (serra idroponica), per assorbimento calore, polveri sottili e acque piovane (giardino pensile);
  • REUSE – Riuso di acque (piovane e grigie) e rifiuti (umido e materiali) a scala condominiale, reimpiegabili nello stesso edificio nel ciclo riproduttivo generato dal tetto;
  • FabLab KM 0 – Mini laboratori per servizi artigianali, tradizionali e innovativi, a KM ZERO di riparazione e modificazione (abiti, elettrodomestici, cucina, elettronica, impianti);
  • TELE PRESENCE – Assistenza a distanza (sanitaria e formazione);
  • MONITORING – Monitoraggio e rappresentazione dinamica di tutti i consumi e della produzione nell’edificio, delle condizioni di sollecitazione strutturali e ambientali (domotica);
  • ENERGY – Produzione di energia rinnovabile (serre e pergole fotovoltaiche).
Presentazione:
Bologna, Convegno 22 10 2014  11.30 – 13.00

iscritti a parlare Daniel Modigliani (Ater Roma) e il prof. Stefano Panunzi (Unimol)

http://www.smartcityexhibition.it/it/lavoro-ed-impresa-nelle-smart-cities

smart



Dall’area cani al parco sotto casa: ora si adottano gli spazi pubblici

parchi

Il Comune istituzionalizza il faidate contro il degrado delle zone verdi. E i giardini diventano orti urbani

Anziché adottare un cane, specie se ce l’avete già, da oggi in poi potrete adottare un’intera “area cani”. Sì, avete capito bene: quelle spianate solitamente recintate, situate all’interno dei parchi, che servono per portare a spasso, far correre e defecare i vostri amici a quattro zampe. Se però non avete un cane ma il pollice verde sì, non disperate: potete sempre chiedere in affidamento uno dei tanti giardini di proprietà comunale, ormai quasi tutti in stato di abbandono, per trasformarli in orti urbani coltivati a zucchine e pomodori, o in oasi lussureggianti di gerbere e rose.

È l’ultima frontiera tracciata dal Campidoglio per coniugare la tutela del verde pubblico con le ristrettezze di un bilancio che a stento riesce a garantire i servizi essenziali: visto che sempre più spesso sono i cittadini a farsi carico, in modo del tutto spontaneo, della pulizia dei prati sotto casa, perché non istituzionalizzare il faidate? Ed ecco che l’assessore all’Ambiente Estella Marino ha messo a punto due diverse delibere, che verranno esaminate oggi in giunta. La prima detta le linee guida per l’adozione di una delle 150 “aree cani” distribuite sul territorio romano. Nobili le motivazioni, sebbene scritte in perfetto burocratese: “Detti spazi, ove non adeguatamente mantenuti, contribuiscono significativamente alla dequotazione degli standard qualitativi, anche solo “percepiti”, con riferimento alla manutenzione del verde cittadino da parte della cittadinanza”. Ancora: “Nel corso degli ultimi esercizi finanziari, le risorse economiche stanziate in bilancio per la cura e la manutenzione del verde hanno subito una cospicua contrazione”.

Da qui l’idea di incentivare il “partenariato sociale pubblico-privato”, dando seguito “alla più volte manifestata volontà dei cittadini di affiancare Roma Capitale in iniziative” di questo tipo. Semplice lo schema individuato: il soggetto che adotta (persona fisica, organismi, enti, associazioni o comitati) si impegna mediante un apposito atto a manutenere e/o eventualmente custodire un’area cani cittadina “per un periodo di tempo determinato” e secondo precisi standard “fissati unilateralmente” dall’amministrazione, “senza oneri finanziari a carico” di quest’ultima. Chi lo fa dovrà perciò garantire “la pulizia, il decoro e gli arredi nel rispetto delle vigenti norme igienicosanitarie”.

Più o meno la stessa ratio che sottende l’innovativo Regolamento per l’affidamento in comodato d’uso gratuito delle aree verdi comunali “compatibili con la destinazione a orti/giardini urbani”. Tredici articoli con tanto di “disciplinare di conduzione e manutenzione” per trasformare gli spazi abbandonati in prati coltivati a ortaggi, fiori e frutta. A prenderli in carico potranno essere associazioni e gruppi no profit, oppure persone singole (il cui lotto non potrà però superare i 60 metri quadrati) a patto di produrre solo quanto serve a se stessi e ai propri collaboratori. Ma ci saranno anche gli orti condivisi (coltivati collettivamente a scopo sociale) e quelli didattici (da destinare alle scuole). Tanti gli obblighi da rispettare, elencati nella convenzione da firmare, e un divieto grande così: escludere l’utilizzo di sementi ogm, cioè geneticamente modificat




Vendemmia alla Città dei ragazzi

 

Vendemmia 2014 Città dei Ragazzi

Dall’ottima qualità dell’uva si prospetta un’annata felice per il vino prodotto dai giovani della Città dei ragazzi

 

Vendemmia 2014 Città dei Ragazzi

È cominciata la vendemmia alla Città dei ragazzi importante luogo di aggregazione sociale e accoglienza per giovani disagiati

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Il torchio

Ivan Selloni
foto di Aldo Feroce




VIDEO > VENEZIA 2014 – BIENNALE ARCHITETTURA – CORVIALE 2020 INTELLIGENTE SOSTENIBILE INCLUSIVO

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(foto)narrazione social(e) di una giornata particolare

C’era una strada nel bosco, quando all’improvviso appare

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un bivio

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da una parte una porta finta, dall’altra s’intravedono mirabilie.
porta finta 20141003_135609

Scegliamo, senza dubbi, la seconda e c’inoltriamo in un palazzo incantato

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dove, affacciata a una loggia,
incontriamo una bellissima donna
che ci dice che è lì proprio ad aspettarci
per raccontarci quello
che il ministro ci ha scritto.

copertina

Ci porta ad un tavolo preparato per noi

tavolo

poi sale su un balconcino interno

lettura

e lì ci legge:
"La questione delle periferie va posta al centro dell’azione del governo".
Allora capiamo che il lungo viaggio per mare

per mare

e per terra

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non è stato inutile.
Soddisfatti, andiamo a mangiare e bere

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e quindi, rimessoci in forze, finalmente visitiamo la città acquatica.
Attraversiamo il ponte d’ingresso

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e c’immergiamo nella calca

nella calca

tra gruppi che si fotografano

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bottiglie pronte ad essere bevute

bottiglie pronte per essere aperte

carrozzine

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bambini che si affacciano dai ponti

bambini affacciati a ponticelli

Camminiamo fino al tramonto

al tramonto

e nella luce serale vediamo gente seduta a tavola

vediamo gente che mangia

ponti levatoi

ponti levatoi

balconi illuminati

balconi illuminati

ci specchiamo in vetrine

ci specchiamo nelle vetrine

sempre alla ricerca di segni divinatori sulla sorte del nostro sogno
e alla fine, stanchi, ad uno squallido
tavolo di tavola calda – finalmente – incontriamo il segno

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l’icona nave di Noè che ci porterà, dopo una notte di attesa, alla macchina che si autoalimenta

macchina

il modello che la simbiosi tra natura

natura

e tecnologia ci consegna come prototipo per la rinascita del palazzo di Corviale:
un ecosistema in cui le acque

acque

la luce

luce

alimentino la vita come nel disegno di Fiorentino.

la vita




Le comunità-territorio del futuro

Opportunità e rischi della democrazia identitaria

Si parla di identità in rapporto agli istituti della democrazia quando un gruppo di persone si percepisce come specifico in relazione ad una componente che non è il risultato immediato di una scelta individuale. E tale specificità identitaria viene riconosciuta da altri individui.

In altre parole, la mia specificità identitaria non nasce immediatamente per atto della mia volontà. Emerge perché sono nato in una determinata famiglia, vivo in un certo paese, in cui si parla una data lingua e si adotta una specifica religione.  E sono identificato dagli altri mediante alcuni tratti peculiari. Ho sempre la possibilità di fare una scelta diversa. Ma intanto, nell’immediato, quella specificità mi caratterizza e costituisce un legame di appartenenza. L’identità unisce e, al tempo stesso, distingue.

L’identità non è mai qualcosa di statico ma il portato di un processo culturale sempre in evoluzione ed è in virtù di questa intrinseca dinamicità che costituisce un valore, un arricchimento per l’insieme della società. La fioritura di culture identitarie – come reazione spontanea alla globalizzazione – è dunque un’opportunità da saper cogliere. Ma quando si pretende di far valere l’identità nella scena politica contro gli altri che non appartengono al gruppo, la democrazia può correre seri rischi. Non è la prima volta che accade. Anche le ideologie che sono state protagoniste della guerra fredda creavano non solo manicheismo dottrinario ma anche simboli e appartenenze identitarie. Chi nasceva in una famiglia comunista o democristiana doveva compiere una scelta sofferta per distaccarsi da un’identità percepita dal proprio gruppo e riconosciuta all’esterno come appartenenza. E tale condizione creava opportunità perché alimentava legami comunitari e solidarietà, ma anche rischi perché fomentava conflitti irriducibili.

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L’identità religiosa

Le ideologie onnicomprensive del Novecento sono sparite e vanno sorgendo nuove identità. Rinascono in forme nuove anche quelle antiche, come le religioni. Credere in un Dio è certamente un fattore che unisce e distingue. Ma cosa succede quando l’identità in una fede vuole avere voce in capitolo nelle scelte politiche e nella sfera pubblica per sopraffare altre identità? C’è il rischio  che tale pretesa ponga in serio pericolo lo stato di diritto. Lo stato moderno è infatti nato escludendo le religioni dalla sfera del potere politico: liberando le religioni dal potere, ha liberato il potere dall’intolleranza e dalla violenza per ragioni di fede.

Con l’adozione delle carte dei diritti, e quindi con il riconoscimento del limite del potere della maggioranza, le democrazie moderne hanno reso la libertà religiosa un principio fondamentale che libera la persona da ogni autorità esterna alla propria coscienza di individui responsabili e perciò liberi. La tolleranza non attiene più alla sfera pubblica. I diritti individuali rendono la tolleranza una questione di comportamento individuale, non più una politica degli stati. Difendere i diritti di tutti supera la discrezionalità degli stati di tollerare questa o quella fede.

Oggi le gerarchie religiose reclamano una presenza speciale dell’identità religiosa nella vita politica. Esse contestano il principio della separazione di giudizio, oltre che di potere, tra le sfere di vita civile e religiosa. Sotto il pontificato di Giovanni Paolo II la Chiesa cattolica ha rivitalizzato la dottrina della legge naturale – che per un lungo periodo era stata messa in soffitta – con l’intento di contrastare l’idea liberale che i diritti individuali, primo fra tutti quello della libera scelta in questioni morali, debbano essere difesi in via di principio. La filosofia della legge naturale, impressa da Dio nel cuore degli uomini e interpretata dalla Chiesa che ne sarebbe il custode supremo sulla terra, si propone esplicitamente  come alternativa alla filosofia che, a partire dalla Dichiarazione dei diritti del 1789, si è imposta come la sfida più radicale al potere della trascendenza religiosa nella vita civile e politica.

Intendiamoci. Che le chiese esprimano la loro opinione sulle questioni che attengano alle decisioni politiche è cosa legittima e auspicabile. I cristiani – proprio perché il loro “Dio è un’idea politica”, come ricorda il teologo Johann Baptist Metz – possiedono una determinata visione del mondo e dell’essere umano e hanno delle convinzioni che non andrebbero relegate nell’intimo e nel privato, ma che, in una società pluralista come la nostra, converrebbe a tutti renderle presenti  e ascoltabili nello spazio pubblico, sociale e politico.

Tuttavia, vivere intensamente la differenza cristiana nell’agone politico e sociale non deve significare necessariamente organizzarsi in minoranze attive, ritenendole più capaci di assicurare identità e visibilità nell’ambito di strategie difensive e di concorrenza. Come suggerisce Enzo Bianchi, si può essere efficaci anche solamente vivendo la testimonianza di fede in compagnia degli uomini, innestando “una dinamica che scuote l’indifferenza alla fede cristiana e alle sue esigenze propria anche a molti sedicenti cattolici”.

Naturalmente il ragionamento del Priore di Bose vale per tutte le religioni.  La commistione tra potere politico e potere religioso non solo è rischiosa per le istituzioni democratiche: fomenta il fondamentalismo e il fanatismo anche all’interno delle stesse comunità religiose. Per contribuire a salvaguardare la democrazia, le chiese devono evitare di organizzare gruppi politici e sociali di ispirazione religiosa ed essere tolleranti e dialoganti con altre culture.

 

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Un nuovo multiculturalismo

Altra cosa è tener conto delle differenze e adottare politiche specifiche che riconoscano identità religiose, etniche, linguistiche, convinzioni culturali di specifici gruppi, questioni di verità o di vita buona, credenze di una parte di cittadini a cui altri non aderiscono e che attengono al rapporto uomo/ambiente o uomo/animale.

Negli ultimi tempi il concetto di multiculturalismo si è ampliato. Un diritto culturale è per esempio una norma che consente ai negozianti di religione musulmana di svolgere la loro attività commerciale in accordo con le loro pratiche religiose. Un altro diritto culturale è la facoltà concessa ai gruppi che aderiscono a determinate credenze religiose o filosofiche di adottare il metodo dell’agricoltura biodinamica nell’ambito di specifiche regole che, comunque, devono tutelare i diritti dei consumatori. Si tratta di soluzioni di prudenza poiché, se il diritto individuale è fondamentale, e deve restarlo, gli accomodamenti avvengono su questioni che non sono essenziali per lo stato di diritto.

È possibile avere un’ampia politica di diritti culturali, ma la decisione sulla sua ampiezza deve essere presa dalle istituzioni, non dal gruppo culturale che la sostiene, tenendo ferma la difesa dei diritti individuali, i quali non sono sempre in armonia con le difesa del gruppo che rivendica politiche culturali rispettose della propria identità.

Mentre i diritti civili non sono negoziabili, le politiche culturali lo sono, e per questo possono sempre essere revocate. Le norme che autorizzano o vietano la coltivazione di Ogm (Organismi geneticamente modificati) rientrano nelle politiche culturali che non dovrebbero ledere i diritti individuali (cosa che invece purtroppo accade!) e andrebbero considerate revocabili nel caso in cui si formino maggioranze politiche diverse. Il multiculturalismo deve favorire il rispetto del pluralismo ma non deve portare mai all’affossamento dello stato di diritto e al ripristino dello stato corporativo.

Concordo con Nadia Urbinati quando afferma che diventa un pericolo per la democrazia il sorgere di gruppi che rivendicano una propria specificità contro la generalità dei cittadini e contro altri gruppi, chiedendo che la politica segua l’identità e che la legge si modelli sull’identità più rappresentativa o maggioritaria su di un territorio. Ciò avviene quando i gruppi si auto-rappresentano non tanto o non solo come diversi, ma come meritevoli di un potere o di una considerazione superiori a quelli di altri gruppi.

Le istituzioni pubbliche sono di tutti e, quindi, non devono assolutamente far proprie convinzioni etiche e religiose o che attengano a specifiche visioni culturali, modelli produttivi e di consumo che sono di qualcuno e che divergono con quelle di qualcun altro. Se ne deve tener conto in via prudenziale, ma salvaguardando sempre i diritti individuali di coloro che non aderiscono a quelle credenze.

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Una nuova laicità

È questa la laicità pubblica del XXI secolo da realizzare con istituzioni pubbliche che devono rimanere neutrali per non degenerare in istituzioni non democratiche. Dovrebbe essere preoccupazione di tutti coloro a cui sta a cuore l’eguale libertà democratica di cittadinanza difendere le istituzioni dal morbo che conduce alla perdita della laicità, imparzialità, neutralità pubblica. Democrazia e laicità, simul stabunt, simul cadent. Non bisogna avere remore nel criticare deliberazioni e scelte istituzionali che, riflettendo gli interessi  di gruppi politici che mirano a soddisfare domande di eticità di frazioni di popolazione, ledono l’eguale rispetto dovuto a chiunque, in quanto cittadino o cittadina di pari dignità nella polis.

È inevitabile che la globalizzazione renda più intense le domande sociali di identità rivolte al sistema politico democratico e incentivi la presentazione conflittuale, nell’arena istituzionale, di domande di eticità. E che un’autorità politica che perde colpi rispetto a poteri sociali come la finanza, l’economia e la comunicazione, si rivalga soddisfacendo la domanda di eticità.

D’altra parte, anche il persistere della crisi economica e sociale crea un nesso molto forte tra questioni di identità e questioni di giustizia distributiva o di equità sociale. Ma queste ultime non sono separabili dalle altre, in quanto nascono intimamente unite alle prime. E tuttavia, né la globalizzazione né la crisi economica né il malessere sociale che ne consegue possono farci smarrire che la democrazia sia un valore irrinunciabile che non può essere mediato con altri.

Sappiamo che non c’è valore che non sia esposto al rischio della sua perdita e dissipazione. E oggi le derive populistiche, gerarchiche e plebiscitarie dei regimi democratici sono alimentate anche dalle continue risposte che le autorità pubbliche danno alle domande di eticità.

Va tutelato il diritto di assicurare ai gruppi specifici di esprimere i propri punti di vista sulle politiche pubbliche.  Perché solo l’esercizio di questo diritto permette il dibattito pubblico, non istituzionale, delle diverse opzioni ai fini della condivisione e contaminazione e, dunque, dell’interculturalità. Ma questo diritto va sempre accompagnato dall’eguale rispetto dovuto a chiunque non malgrado, bensì in virtù delle differenze e delle distinte concezioni di valore, etico, religioso e culturale.

In una società che fa perno sulla Costituzione e sugli eguali diritti, nessuna identità è di per sé più potente di un’altra. D’altra parte i totalitarismi sono identitari perché mirano a creare società non di diritto ma di sostanziale identità.

C’è un nesso molto stretto tra democrazie identitarie e degenerazioni xenofobe e razziste. Lo stiamo vedendo purtroppo nelle periferie delle nostre metropoli, dove si formano spontaneamente quartieri multietnici. Le due cose non sono necessariamente concatenate come causa ed effetto. Ma i rischi sono altissimi perché nella cultura europea c’è una resistenza molto forte al pluralismo e un’acquiescenza molto estesa al centralismo e all’omologazione.

In alcuni quartieri di Roma, come Torpignattara e Pigneto, stanno proliferando nuove forme di mafia per iniziativa di organizzazioni criminali, dedite al traffico di droga e al riciclaggio di denaro sporco, che strumentalizzano l’identità e il disagio sociale indotto dalla difficoltà di interazione tra le diverse etnie che convivono senza efficaci politiche di integrazione. Per affrontare questa nuova situazione è necessario affermare una cultura della legalità e fare in modo che le culture identitarie dialoghino, interagiscano senza mai proporsi al di sopra della cultura dell’eguaglianza e della dignità della persona. Non ci può essere un’eguaglianza all’interno di un gruppo diversa dall’eguaglianza praticata in un altro gruppo perché una simile concezione comporta negare l’eguaglianza come principio di relazione tra diversi. E queste considerazioni valgono per tutti i gruppi, sia quelli autoctoni che per quelli di immigrati.

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Identità e universalità dei diritti per un nuovo comunitarismo

I contesti e i gruppi specifici sono un’opportunità per rivitalizzare e arricchire nuove forme di società civile che correggano l’individualismo. E tuttavia bisogna tendere a costruire legami sociali che promuovano comunità-territorio aperte a tutti e che decidano con la regola di una testa un voto. È in tal modo che si può andare oltre la solidarietà e si può affermare la fraternità civile.

Le comunità-territorio contemporanee devono saper cogliere le opportunità della globalizzazione e non chiudersi in sé stesse. Bisognerebbe accompagnarle ad acquisire la capacità di auto-rappresentarsi e di costruire la propria immagine. Ma tale capacità presuppone una chiara percezione di sé, per fare in modo che gli scambi culturali ed economici con altre comunità-territorio del mondo globale siano reciprocamente arricchenti e improntati ad una relazionalità collaborativa.

Di qui l’importanza di studiare e conoscere scientificamente i contesti in cui fioriscono le vite delle persone e dei gruppi mediante approcci interdisciplinari e un’attività permanente di ricerca-azione finalizzata a promuovere percorsi partecipativi progettuali per lo sviluppo locale. Le storie di vita, le memorie delle persone e dei beni strumentali, architettonici, archeologici e paesaggistico-ambientali sono elementi indispensabili per fare in modo che gli individui e i gruppi si approprino delle loro radici e di un’identità consapevole e capace di aprirsi ad altre identità.

I contesti vanno vissuti da persone che comprendano i processi e i meccanismi con cui questi si producono. Le comunità-territorio contemporanee devono servire prioritariamente a siffatto scopo. Solo con un forte senso di sé e stabilendo regole democratiche condivise per il proprio funzionamento nei percorsi partecipativi dal basso, le comunità-territorio possono svolgere una funzione propulsiva, alimentando valori da immettere nelle istituzioni e nel mercato.  Per farlo devono essere comunità che non pongono in alternativa l’appartenenza identitaria e l’universalismo dei diritti. L’individualismo si corregge con un nuovo comunitarismo che non mette in discussione i diritti individuali. Altrimenti, coniugandosi in modo distorto con le culture identitarie, l’individualismo porta inevitabilmente alla violenza e alla sopraffazione.

 




Rifiuti, recuperare materia dalla frazione secca residua

rifiutidi Giuseppe Miccoli da ecodallecitta.it

E’ possibile recuperare materia dalla frazione secca residua a valle della raccolta differenziata porta a porta. Quali tecnologie? Ne abbiamo parlato con Gianluca Intini, professore del Politecnico di Bari ha introdotto il tema “Remat: raccogliere la differenziata a valle del ciclo” al focus tematico della regione Puglia dal titolo ‘Monitoraggio della qualità della Raccolta differenziata in Puglia’

 

Professore Intini, è’ possibile recuperare materia dalla frazione secca residua a valle della raccolta differenziata porta a porta. Quali tecnologie secondo Lei sono le più appropiate?
Oggi ho presentato qui per il Politecnico di Bari i risultati di una sperimentazione condotta nell’ambito della redazione del Piano regionale della gestione dei rifiuti urbani, la quale sostanzialmente ha analizzato la frazione secca residua della raccolta differenziata, in diversi comuni della regione Puglia e ne ha fatta un’analisi merceologica, al fine di verificare ancora la presenza potenziale di imballaggi da avviare a successivo recupero. È emerso sostanzialmente che, anche nei comuni dove la raccolta differenziata aveva dei valori elevati, ad esempio nella provincia di Brindisi, nell’ex consorzio Brindisi2, ancora esiste, in particolar modo per la plastica e per la carta, una discreta frazione, un 10%, che ancora potrebbe essere recuperato. Perciò si è posto il problema tecnologico di come poter recuperare questo 10%, ed è stato proposto, nell’ambito del piano regionale, l’introduzione di questi che noi abbiamo chiamato “remat”, cioè “recupero materia”, vale a dire l’introduzione di un separatore balistico che sostanzialmente differenzia le frazioni 2d dalle frazioni 3d, cioè le frazioni piane da quelle che hanno un volume, e poi ognuna di queste frazioni, attraverso i separatori ottici, possono essere utilizzate per recuperare quello che effettivamente oggi ha un mercato, e quindi attraverso il Conai o il libero mercato possono essere vendute per trarne un vantaggio. Questo comporterebbe un duplice vantaggio. Uno: si risparmierebbe sui costi di conferimenti di quella frazione al recupero energetico (oggi in Puglia si paga circa un cento euro a tonnellata); due: avvieremmo al recupero di materia e non al recupero energetico ancora una frazione di raccolta differenziata, quindi aumenteremmo il tasso di raccolta differenziata. Quindi c’è un vantaggio sia ambientale che economico.

Stiamo parlando di raccolta differenziata a valle della raccolta porta a porta, in cui si riesce ulteriormente a separare e a recuperare materia. È corretto?
Esatto, oggi esistono impianti di questo tipo, non stiamo parlando di fantascienza, in Europa, in particolar modo in spagna ,in Germania, ne ho visto uno in Canada, a Cipro, e c’è anche l’esempio di Granada e anche a Roma. A Roma c’è un impianto che in realtà lavora l’industriale e non i rifiuti urbani e so che recentemente credo sia stato inaugurato un impianto a Bologna. Quindi a mio parere può essere una soluzione. Certo, questi impianti lavorano molto bene sul multi materiale, in generale, però se noi facciamo una raccolta differenziata spinta dove abbiamo tolto l’organico, che porta dei problemi nella fase di selezione, secondo me può essere un sistema che può essere adattabile. Quindi vediamo se qualche gestore implementerà questo sistema e vedremo i risultati.

In cosa consiste il recupero di questa materia, esiste già un mercato?
Si, esiste un mercato, nel senso che chiaramente si preferirebbe recuperare la bottiglia in pet, ma la bottiglia in pet ha già un mercato, quindi una volta che noi le selezioniamo anche quell’1% presente in impianti di questo tipo, che poi tra l’altro sono automatici, non hanno bisogno di grossa forza lavoro, in realtà è un 1% che tu puoi avviare con un costo di mercato notevole, pensiamo al cartone, all’alluminio, all’acciaio, cioè ci sono materiali che effettivamente tu paghi, è chiaro che non mi metterò a separare un materiale che ha un basso valore aggiunto,perché diventa poi molto complessa la linea, quindi ovviamente qui si tratta di andare a integrare impianti esistenti cercando di togliere il separabile,io le chiamo le frazioni buone, che comunque rappresentano una piccola percentuale all’interno del rifiuto indifferenziato, che ancora sconta un tasso di raccolta differenziata non ancora elevato.