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Consumo netto di suolo zero

suolo«Entro il 2020 le politiche comunitarie dovranno tenere conto dei loro impatti diretti e indiretti sull’uso del territorio, a scala europea e globale, e il trend del consumo di suolo dovrà essere sulla strada per raggiungere l’obiettivo del consumo netto di suolo zero nel 2050». Ma cominciare domani è già troppo tardi
La necessità di limitare il consumo di suolo e in particolare di suolo agricolo (8 metri quadrati al secondo, secondo i dati di ISPRA) è ormai entrata a tutti gli effetti nell’agenda politica nazionale. Dopo il DDL Catania, presentato dall’omonimo Ministro del governo Monti e arrivato fino all’approvazione della Conferenza Stato-Regioni, nell’attuale legislatura sono stati depositati tre disegni di legge di iniziativa parlamentare che hanno come obiettivo dichiarato la limitazione del consumo di suolo, a cui va aggiunto un ulteriore disegno di legge promosso direttamente dal governo Letta.
Questi disegni di legge hanno suscitato un acceso dibattito sui principali quotidiani trovando critici e sostenitori. Senza entrare nel merito del dibattito, un dato abbastanza sorprendente è che nessuna delle quattro proposte pare prendere le mosse dagli indirizzi e dai principi espressi in tema di consumo di suolo a livello comunitario. Nella comunicazione della Commissione Europea “Tabella di marcia verso un’Europa efficiente nell’impiego delle risorse” [COM(2011) 571] uno specifico capitolo viene dedicato a terra (Land) e suoli (Soils). Per queste risorse, considerate a un tempo strategiche e vitali, viene fissato un obiettivo molto ambizioso e insieme di vasta portata per quanto comporta a livello urbanistico e territoriale: entro il 2020 le politiche comunitarie dovranno tenere conto dei loro impatti diretti e indiretti sull’uso del territorio, a scala europea e globale, e il trend del consumo di suolo dovrà essere sulla strada per raggiungere l’obiettivo del consumo netto di suolo zero nel 2050.
Purtroppo nella versione italiana della Comunicazione questo fondamentale principio del consumo netto di suolo zero (no net land take) non viene adeguatamente riportato e forse ciò può spiegare il suo mancato richiamo nei disegni di legge citati. Manca infatti nella traduzione italiana la parola chiave “netto”, un aggettivo solo all’apparenza accessorio che è stato invece volutamente inserito per le profonde implicazioni che sottende.
Consumo netto di suolo zero non significa infatti congelare l’infrastruttura urbana impedendo in assoluto di occupare nuovo territorio. Al contrario esso consente l’occupazione di spazi liberi purché questo avvenga a saldo zero, de-sigillando o ripristinando ad usi agricoli o seminaturali aree di pari superficie in precedenza urbanizzate e impermeabilizzate. E’ questa una specificazione fondamentale che introduce anche nella pianificazione urbanistica e territoriale il principio del riciclo e dell’economia circolare, già espresso nella strategia Europa 2020, con l’obiettivo finale di disaccoppiare lo sviluppo urbano dal consumo della risorsa suolo.
Con l’introduzione del termine “netto”, l’obiettivo del consumo di suolo zero da vincolo di fatto impraticabile si trasforma in motore di una nuova stagione di trasformazione urbana, fondata sulla riqualificazione dell’esistente e sul ridisegno del territorio urbanizzato, che non deve essere più considerato come un dato acquisito e irreversibile, ma come un corpo suscettibile di essere ridisegnato e ricucito secondo nuove e più funzionali orditure in grado anche di recuperare i guasti di uno sviluppo passato, di carattere spesso incontrollato e disperso, rivelatosi alla fine inefficiente ed anti-economico.
La sfida qui, più che fissare degli obiettivi quantitativi di consumo di suolo o enunciare principi generali di riuso che vengono poi sistematicamente disattesi, è quella di trovare gli strumenti e i meccanismi regolativi che consentano di avviare questo processo di rigenerazione urbana a consumo netto zero garantendo l’indispensabile sostenibilità economica degli interventi edilizi e infrastrutturali, sia per gli operatori immobiliari privati che per i soggetti pubblici.

E’ in quest’ottica, e come strumento di accompagnamento all’obiettivo fissato dalla Comunicazione sull’uso efficiente delle risorse, che la Commissione Europea ha successivamente pubblicato le Linee guida sulle migliori pratiche per limitare, mitigare e compensare l’impermeabilizzazione del suolo [SWD (2012) 101].
Il documento si rivolge agli Stati membri, agli enti locali, agli operatori del settore e in generale ai cittadini e ha come fine quello di fornire informazioni sul livello di impermeabilizzazione del suolo nell’Unione Europea, sulle cause e gli impatti, nonché sugli esempi di buone pratiche per contrastarlo. L’impermeabilizzazione del suolo è uno degli effetti del “consumo di suolo”, ma non coincide con quanto usualmente si intende con questa espressione, che riguarda piuttosto l’occupazione di aree agricole o semi-naturali per usi urbani (land take). In media circa la metà delle superfici urbanizzate risultano effettivamente impermeabilizzate con totale perdita delle funzioni del suolo. Anche in questo caso l’ordine delle parole del titolo non è casuale o secondario, ma stabilisce una precisa gerarchia di priorità in vista del raggiungimento dell’obiettivo più generale di fermare l’incremento di superfici impermeabilizzate e quindi il consumo effettivo di suolo.
Limitare l’impermeabilizzazione resta il principio di fondo che deve avere sempre la priorità su mitigare e compensare gli impatti, in quanto la perdita di suolo è di fatto irreversibile . Ai fini della limitazione è importante fissare obiettivi quantitativi che devono però essere accompagnati da adeguate misure di monitoraggio e controllo. La mitigazione interviene quando si occupano nuove aree per ridurre in situ le conseguenze negative dell’impermeabilizzazione del suolo, ad esempio utilizzando materiali di copertura permeabili che garantiscano l’invarianza idraulica. La compensazione dovrebbe essere utilizzata solo quando non è possibile limitare e mitigare e si traduce in interventi in aree diverse da quelle occupate per “compensare” su scala territoriale la perdita di funzioni dei suoli impermeabilizzati. Esempi di compensazione sono: il riutilizzo del suolo rimosso per ripristini in altri luoghi, la bonifica di siti contaminati, la rimozione o sostituzione di coperture impermeabili (manti stradali, edifici) con ripristino a verde (de-sealing), l’imposizione di un extra onere da utilizzare per interventi di tutela e risanamento dei suoli. In Europa, in particolare in Olanda e Germania, la compensazione è già oggi obbligatoria sia per gli interventi infrastrutturali che per le nuove lottizzazioni.
Sebbene la compensazione venga ultima come ordine di priorità nella gerarchia delle linee guida, essa agisce da rinforzo per limitare il consumo di suolo e può diventare la chiave per attuare la politica del consumo netto di suolo zero, soprattutto se intesa come ripristino di aree precedentemente occupate. E’ quello che succede in città come Dresda o Stoccarda dove sono stati introdotti regolamenti urbanistici che vincolano la costruzione sul terreno libero al recupero e ripristino, da parte del soggetto attuatore, di altri spazi già impermeabilizzati presenti all’interno del Comune.
Si tratta di fatto di una sorta di perequazione che attribuisce crediti di impermeabilizzazione a spazi costruiti relitti o inutilizzati (edifici e strutture con relative pertinenze in disuso quali parcheggi, aree cortilizie, piazzali) che una volta acquisiti attraverso il ripristino preventivo possono essere sfruttati per nuova occupazione di suolo in altre aree individuate dalla pianificazione comunale. E’ un modo questo di attivare un motore di riciclo delle aree urbane che consente di ridisegnare le città a parità di occupazione di suolo.
La priorità nelle politiche di contenimento del consumo di suolo rimane comunque quella di favorire la rigenerazione e riqualificazione del tessuto urbano esistente intervenendo sulle aree dismesse e sul patrimonio edilizio. Questo si interseca con un altro pilastro della strategia di Europa 2020 che è quello della de-carbonizzazione dell’economia e della transizione energetica. Un terzo dei consumi energetici, a livello nazionale come comunitario, proviene dal settore domestico e abitativo. La stragrande maggioranza degli immobili sono stati costruiti prima degli anni `90 e presentano pessime prestazioni energetiche (in molti casi consumi superiori di 10 volte alla classe A), bassa qualitá abitativa, inadeguati accorgimenti antisismici. Se si vogliono raggiungere gli obiettivi comunitari di riduzione delle emissioni e del consumo di combustibili fossili è soprattutto lì che bisogna intervenire
La “grande opera” del futuro deve quindi essere la riqualificazione edilizia promuovendo il riciclo delle aree e dei materiali di costruzione, nonché l`uso di tecniche di bio-edilizia che valorizzino le filiere produttive locali. Per fare questo bisogna approntare adeguate politiche regolative, fiscali e di facilitazione al credito con l`obiettivo di rendere più conveniente il recupero dell`esistente piuttosto che la costruzione del nuovo e orientare di conseguenza il mercato immobiliare. Tra queste azioni, oltre al vincolo del consumo netto di suolo zero, si annoverano:
defiscalizzazioni per interventi di ristrutturazione, di adeguamento sismico e di miglioramento energetico sulla base del modello già sperimentato con successo del 55 e ora 65%;
esenzione dal pagamento degli oneri di urbanizzazione, riduzione di altri oneri (occupazione di suolo pubblico, permessi, conversioni di uso), possibilità di incentivi volumetrici per interventi di riqualificazione, recupero, ristrutturazione che comportano un significativo abbattimento dei consumi energetici e delle emissioni;
forme agevolate di finanziamento e di ulteriore esenzione fiscali per condomini che deliberano di investire nella riqualificazione dell`immobile;
promozione e facilitazione d interventi sullo schema ESCO (Energy Service Company) con rafforzamento dello strumento incentivante dei certificati bianchi e del conto termico;
riforma della fiscalità comunale con disaccoppiamento delle entrate dal consumo di territorio e divieto di utilizzo degli oneri di urbanizzazione per la spesa corrente;
Ecco quindi che l’obiettivo comunitario del consumo netto di suolo zero va inteso non solo come un vincolo di una politica ambientale tesa a tutelare una risorsa strategica e vitale come il suolo, ma anche come stimolo e propulsore per avviare il grande cantiere della riqualificazione e del riassetto urbano in grado di rilanciare il settore delle costruzioni e di rendere al contempo più sostenibili e vivibili le nostre città. E’ solo su queste basi che si può uscire dalla crisi e costruire un reale e duraturo sviluppo coniugando le esigenze di sostenibilità e di tutela ambientale con quelle altrettanto stringenti di garantire lavoro e reddito di impresa.

postilla
Mi domando quale sarebbe il risultato di questa compensazione in Italia, dove l’unica legge rispettata dai forti è l’elusione della legge, deve la rendita e i “diritti edificatori”imperano, e dove la pubblica amministrazione è sempre meno motivata, autorevole, competente e attrezzata.
di NICOLA DALL’OLIO
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La bottiglia con la candeggina che illumina gratis trionfa nelle periferie di tutto il mondo

bottigliaAlfredo Moser è un meccanico brasiliano che ha avuto un’idea brillante nel 2002, dopo aver subito uno dei frequenti black-out che interessano Uberaba, la città dove vive nel sud del Brasile.

Stanco di guasti elettrici, Moser ha iniziato a giocare con l’idea della rifrazione della luce solare in acqua e in poco tempo ha inventato la “lampadina dei poveri”. “Wit” è semplice e disponibile a chiunque: una bottiglia di plastica riempita d’acqua da due litri a cui si aggiunge un po’di candeggina per preservarla dalle alghe. Il flacone è stato posto in un foro nel tetto e dotato di resina poliestere.

Il risultato? Illuminazione libera e organica durante il giorno, particolarmente utile per gli edifici e baracche che a malapena hanno finestre.

A seconda dell’intensità del sole, la potenza di queste lampade artigianali si aggira tra i tra 40 e i 60 watt. “E ‘una luce divina. Dio creò il sole e la sua luce è quindi per tutti “, ha riferito Moser alla BBC . “Non costa un centesimo ed è impossibile che si fulmini.”

Anche se l’inventore ha ricevuto piccole ricompense per le installazioni di Wit nelle case e in aziende locali, la sua idea non lo ha reso ricco.
Un grande senso di orgoglio: «Conosco un uomo che ha inserito le bottiglie e in un mese aveva risparmiato abbastanza per comprare beni di prima necessità per il loro bambino appena nato”, dice soddisfatto.
Un’idea che si è diffusa in tutto il mondo.

Ma la lampadina geniale non si è fermata a Uberaba. Negli ultimi due anni l’invenzione ha subito una grande espansione in tutto il mondo.

Ad esempio, la Fondazione MyShelter (mio rifugio) nelle Filippine ha accolto con entusiasmo l’idea. MyShelter è specializzata in costruzioni alternative utilizzando materiali come il bambù, pneumatici o su carta.

In Cina, dove il 25% della popolazione vive sotto la soglia di povertà e l’elettricità è particolarmente costosa, ci sono 140.000 famiglie che hanno fatto ricorso a questo sistema di illuminazione.

Il direttore esecutivo del MyShelter, Illac Angelo Diaz spiega che bottiglie-lampadine sono diffuse ad almeno quindici paesi, tra cui India, Bangladesh, Fiji e Tanzania.

“Non ho mai immaginato che la mia invenzione avrebbe avuto un tale impatto”, afferma Moser. “Solo a pensarci mi viene la pelle d’oca.”
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La bonifica, sessione plenaria del forum Corviale (22 novembre 2013)

Alfonso Pascale scrittore romano

Alfonso Pascale scrittore romano

Il Progetto Corviale 2020 si fonda sull’idea che la coesione sociale è una premessa, non l’esito dello sviluppo.

A Roma – ma anche in altre parti del Paese – questa idea si può considerare come una tradizione innovativa. Oggi la stiamo riscoprendo, ma è antica almeno quanto Roma Capitale d’Italia.

Se andiamo a vedere i progetti di bonifica integrale elaborati nei primi decenni del secolo scorso nell’Agro romano e poi, successivamente, quelli riguardanti la riforma agraria del secondo dopoguerra – che hanno interessato anche una porzione importante del Comune di Roma – notiamo che alla base dello sviluppo della nostra città, per un lungo periodo, c’è stata una visione sistemica del territorio. Una visione in cui  i legami comunitari, le relazioni umane, le forme dell’abitare, l’istruzione, la cultura, l’arte, i servizi socio-sanitari precedono e condizionano le iniziative per la crescita economica.

E’ una tipicità della cultura tecnica, economica e sociale della prima metà del Novecento quando si produssero significativi esperimenti di bonifica integrale con interventi idraulici, civili, urbanistici, socio-educativi e igienico-sanitari di grande spessore. Un filone utopico che è stato colpevolmente rimosso dalla memoria storica.

I guai seri per la nostra città sono iniziati quando si è abbandonata la visione sistemica dello sviluppo territoriale e si è imposta quella urbanocentrica, caratterizzata dalla separazione e frammentazione delle funzioni urbane e dalla riduzione delle aree agricole, di fatto, ad un ruolo di mera riserva in attesa di essere edificate.

E così da una visione integrata del paesaggio agrario – nel senso che ad esso dava Emilio Sereni come “forma impressa dall’uomo, nel corso e ai fini delle sue attività produttive agricole, al paesaggio naturale” – si è passati ad una visione meramente naturalistica del paesaggio. E tale cambio di ottica ha prodotto una sorta di “divisione del lavoro”  (un perenne e infruttuoso armistizio!) tra chi pianifica e realizza i quartieri e i servizi a questi connessi e chi gestisce le aree agricole sempre più residuali, a partire dalle aree protette.

Più che all’idea di rigenerazione – che richiama la falsa mitizzazione nostalgica dei bei tempi di una volta – dovremmo rifarci all’idea di bonifica integrale come processo perenne di trasformazione territoriale – abbandonando ovviamente ogni risvolto dirigistico e utopico del passato – da declinare, mediante l’utilizzo diffuso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, come bonifica della crosta urbana.

Europa 2020 è una grande opportunità per impostare con siffatta visione la crescita dei territori della nostra città. Una grande opportunità se il Comune di Roma e la Regione Lazio sapranno coglierla scegliendo di adottare l’approccio integrato nell’utilizzo dei Fondi europei.

Sei anni fa, quando si negoziò con Bruxelles la Programmazione 2007-2013, l’Amministrazione capitolina si disinteressò di questi aspetti e non pose al centro della propria iniziativa il ruolo che avrebbe potuto svolgere l’agricoltura urbana al servizio della città e l’esigenza di una strumentazione specifica plurifondo.

Subimmo così l’esclusione dagli incentivi destinati dalla politica di sviluppo rurale alle attività multifunzionali e di diversificazione che avrebbero offerto una qualche prospettiva alle aziende agricole della Campagna romana e, al contempo, una risposta concreta alle nuove sensibilità per lo sviluppo sostenibile manifestate in modo crescente dall’insieme dei cittadini.

Questa volta, è augurabile che Roma non perda di nuovo il treno.

Spetta alla Regione Lazio decidere se estendere l’approccio Leader, finora utilizzato solo nelle aree rurali, anche alle città e se i Partenariati pubblico-privati che nasceranno potranno utilizzare contestualmente i diversi Fondi comunitari. Il Comune di Roma farebbe bene a sollecitare la Regione a compiere questa scelta se vuole creare nei territori cittadini delle vere e proprie comunità.

E’ ormai sempre più palese che le trasformazioni territoriali non si possono più né programmare né pianificare con gli strumenti che abbiamo utilizzato finora. Si possono solo accompagnare con percorsi partecipativi condivisi, da progettare “ad alta risoluzione”. Ma questa modalità richiede una rigenerazione – qui è proprio il caso di usare questo termine! – della funzione pubblica che deve acquisire la cultura partecipativa e quella della sussidiarietà e la capacità di riconoscere alla società civile la funzione di autorganizzarsi sulla base di valori comunitari per gestire i beni collettivi.

In sostanza, ci vogliono nuovi occhi perché gli spazi aperti, quelli edificati, le attività non vanno più visti come entità rigide, separate e monofunzionali, ma vanno scomposti e ricostruiti in modo polivalente. I singoli soggetti e i gruppi che li compongono non vanno più separati per categorie e ingabbiati in determinati interessi specifici. Si tratta, invece, di cogliere la molteplicità e, al contempo, l’unitarietà dei bisogni degli individui, ricomponendone i frammenti.

Oggi l’agricoltura non è più soltanto un settore produttivo – come lo abbiamo immaginato quando eravamo pervasi di cultura fordista – ma è anche un’attività che fornisce alla città servizi sociali, culturali, ricreativi e ambientali e che ha pertanto bisogno di spazi edificabili.

Oggi il Welfare in trasformazione non è soltanto il vecchio Stato sociale redistributivo ma è anche un Welfare produttivo.  Altro che fine del sociale! Siamo ad un suo rilancio ma su nuove basi: un Welfare che dismette le forme assistenzialistiche del passato per produrre esso stesso – in forme imprenditoriali – ricchezza, occupazione, benessere collettivo.

Dobbiamo, dunque, progettare gli spazi e le attività come insediamento nell’antispazio delle reti informatiche, come nodi delle reti, polivalenti, interscambiabili. Senza rigidità e separatezze. Dobbiamo costruirli come sensori, quasi interfacce di computer.

Per costruire le interconnessioni bisogna praticare senso di comunità e fraternità civile e avere sotto gli occhi le mappe del territorio. Più un territorio autorappresenta le sue funzioni sotto forma di mappatura in continuo divenire, più il suo destino evolve in un processo di ri-appropriazione collettiva dell’identità. Un’identità perennemente mutevole perché aperta al diverso.

Il Progetto Corviale 2020 non ha più nulla di utopico perché la sua realizzazione avviene nella concretezza quotidiana della pratica relazionale generativa di fiducia e dell’utilizzo diffuso delle tecnologie di nuova generazione. E’ questo il significato dello slogan “Il territorio è la sua mappa”. E qui si colloca anche un’evoluzione della logica distrettuale, che diventa capacità di una comunità in movimento di autodefinirsi, modificando continuamente – con l’innovazione sociale – la mappa delle sue funzioni.

 

 




Le città volanti, le funivie alla conquista dei centri urbani

funiviaMolto più economiche, ecologiche, veloci e perfino belle le cabinovie stanno diventando sempre più un’alternativa a metro e tram. Dopo Londra, Rio e Medellin, nuovi progetti sono pronti per decollare in mezzo mondo, da Lagos ad Ankara, da Amburgo a La Mecca
È nei dettagli che si nasconde il diavolo. Così, tra un futuro visionario e uno molto più banale, la differenza può farla un semplice filo. Intere generazioni di autori di fantascienza hanno immaginato città avveniristiche dove il traffico è sparito, sostituito da un viavai di navicelle che si muovono libere nell’aria. Effettivamente è ciò che sembrano riservarci gli anni a venire, ma il merito non sarà di qualche rivoluzionario sistema di trasporto capace di vincere la gravità. A trasferire buona parte degli spostamenti a qualche decina di metri da terra sarà piuttosto una tecnologia vecchia di oltre un secolo: la funivia. Più ecologica, più economica, più semplice da gestire e spesso decisamente più bella, la funivia sta emigrando dalle cime delle montagne per conquistare sempre più spazi in città, dimostrando di essere anche nelle zone di pianura una validissima alternativa a bus, tram e metropolitane.

LE IMMAGINI

“Le cabinovie e i sistemi di transito a cavo sono al momento una delle tecnologie più dinamiche e a più rapida diffusione al mondo”, spiega Steven Dale, urbanista canadese a capo del Creative Urban Projects. “Mano a mano che un numero crescente di città fa a gara per realizzare reti di trasporti sempre più complesse, aumenta il ricorso alle funivie per risolvere i loro problemi”, sottolinea.

“È una tendenza generale, ma a trascinare il boom è soprattutto l’America Latina”, conferma Carlo Iacovini, manager di Clickutility e curatore di un recente convegno dedicato al tema dalla fiera Citytech. “L’economicità delle linee – osserva – consente l’accessibilità per quelle aree localizzate in collina e poco raggiungibili con servizi di terra. Spesso si tratta di periferie degradate ad altissima densità abitativa che si possono raggiungere solo sorvolandole. Medellin Metrocable in Colombia è in servizio dal 2006; ha reso accessibile il quartiere Aburra Valley trasportando seimila passeggeri all’ora e risollevandolo da una situazione di degrado e isolamento. Rio de Janeiro ha inaugurato la prima Teleferica Do Aleman nel 2011 con 3,5 km di lunghezza e sei stazioni che collegano alcuni quartieri residenziali con il centro, con una capacità di tremila persone all’ora. Il successo è stato tale che si è replicato con una seconda linea aperta in queste settimane che unisce il quartiere di Morro da Providencia (la più antica favelas di Rio) con il centro in pochi minuti”.

I numeri dei collegamenti via cavo sono sorprendenti. Ogni chilometro costa tra i tre e i quattro milioni di euro contro i cento di una linea metropolitana, ma può garantire lo spostamento anche di tre o quattro mila persone all’ora, con punte fino a ottomila. “Ancora più interessanti sono i costi di gestione, davvero bassissimi visto che queste linee hanno bisogno di poco personale di controllo e solo alle stazioni del capolinea “, sottolinea Maurizio Todisco, manager della Leitner, azienda altoatesina leader del settore. Molto più silenziose e meno inquinanti grazie ai motori elettrici, le funivie hanno anche tempi di realizzazione decisamente più rapidi visto che, se il percorso non prevede ostacoli particolari, un classico tracciato cittadino da 5-6 km richiede meno di un anno per la sua realizzazione mentre tram e metropolitane possono avere bisogno di oltre un decennio. Così, a fronte di questi vantaggi, la lista delle città che hanno già scelto o che si accingono a scegliere la mobilità via cavo si allunga di mese in mese.

“Nel giro di pochi anni la parte del nostro fatturato derivante da cabinovie urbane è passato dal dieci al venti per cento del totale e siamo convinti che il business del futuro ormai sia sempre più questo”, sottolinea ancora Todisco. La Paz, Tolosa, Groningen, Lagos, Amburgo, La Mecca sono solo alcuni dei nomi di un elenco di progetti che tocca ormai i cinque continenti, ma il caso più clamoroso è forse quello di Ankara dove è in via di realizzazione un vero e proprio reticolo di linee aeree che anche nella mappa ricorda a tutti gli effetti la tipica ragnatela di un efficiente sistema di metropolitane. E chi non passa alle funivie per risolvere i problemi di traffico lo fa per richiamare turisti, come Londra, dove la linea che sorvola il Tamigi inaugurata in occasioni delle Olimpiadi del 2012 è diventata una delle principali attrazioni.

Sostanzialmente assente da questo grande fermento l’Italia, malgrado abbia in casa un’azienda come la Leitner che insieme agli austriaci della Doppelmayr si spartisce il mercato mondiale del settore. Da noi, da Segrate a Genova, dal Ponte sullo Stretto all’Eur di Roma, siamo fermi a qualche progetto a corto di soldi o in attesa di passare dalle tante forche caudine burocratiche. Eppure non mancano le idee d’avanguardia. L’architetto Stefano Panunzi, docente di Ingegneria edile all’Università del Molise, sponsorizza da anni la proposta di una “circolare volante ” che unisca i vecchi forti dismessi che fanno da corona al centro di Roma, ma davanti allo stop della sovrintendenza collabora ora alla battaglia per la realizzazione di una cabinovia che unisca una zona periferica (Casalotti) al capolinea di una linea della metro (Battistini). “Ma non bisogna farne una questione ideologica, le funivie non sono una panacea, occorre promuoverle partendo dal basso, sulla spinta dei cittadini e dei comitati di quartiere finalmente consapevoli che esistono delle valide alternative, economiche ed ecologiche, per riqualificare i loro quartieri”.

Anche quest’ultimo progetto per il momento è solo un sogno, ma come spesso accade, nel paese dove il normale è quasi sempre impossibile, a volte succede qualcosa di eccezionale. È il caso di Perugia, dove dal 2008 è in funzione il primo esemplare al mondo di “minimetro”, una teleferica composta da 25 vagoni privi di conducente che adagiati su un binario vengono tirati da un cavo lungo un percorso di 4 km articolato in sette fermate, compresi i capolinea.
di VALERIO GUALERZI
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Città a prova di inondazione, l’esempio di Rotterdam

rotterdamQuartieri galleggianti, tetti verdi, impianti di recupero di acqua piovana. Come la lotta al cambiamento climatico è diventata motore di sviluppo
Mentre l’Italia affronta l’ennesimo disastro dettato anche dall’incapacità di agire preventivamente, c’è chi mette in atto strategie per fronteggiare gli ormai noti cambiamenti climatici. Ci riferiamo a Rotterdam che, da qualche tempo a questa parte, sta subendo un cambio d’immagine per far posto a piazze “acquatiche”, pareti verdi e interi quartieri galleggianti.
UNA CITTA’-SPUGNA. “Stiamo cercando di pianificare per il futuro- spiega Alexandra van Huffelen, vice sindaco della città olandese nonché responsabile delle politiche sostenibili. “Gli olandesi hanno vissuto sotto il livello del mare per secoli e si sono forgiati di dighe e barriere. Ma le precipitazioni sono diventate sempre più violente ed imprevedibili e stiamo quindi cercando di preparare la città, trasformandola in una sorta di spugna.”
MPIANTI DI STOCCAGGIO E AREE VERDI. Letteralmente circondata dai fiumi, la città ha maturato la consapevolezza del fatto che le inondazioni non possano essere contrastate semplicemente cercando di contenere l’acqua piovana ma trasformando ogni superficie in una specie di deposito acquitrinoso. Strade, piazze, marciapiedi sono stati progettati in modo da contenere al loro interno l’acqua. Sono stati poi realizzati molti impianti di stoccaggio e recupero dell’acqua piovana, e diverse aree verdi, comprese facciate e coperture green sulle abitazioni, che hanno proprietà assorbenti.
QUARTIERI GALLEGGIANTI. Altro elemento interessante di questo processo di riprogettazione urbana è la realizzazione (ancora work in progress) di interi quartieri galleggianti, che dovrebbero essere terminati nell’arco dei prossimi tre anni. Compreso un padiglione galleggiante situazione nella zona portuale, adibito a centro conferenze.
UNA PRESA DI COSCIENZA COLLETTIVA. I primi passi verso questo cambiamento hanno previsto lo spostamento degli impianti elettrici dalle cantine ai piani alti degli edifici e la sostituzione delle pavimentazioni in legno con superfici water proof. Poi, un regime incentivante per l’installazione di tetti verdi (dal 2008 ne sono stati montati 140.00 mq e ci si aspetta che si arrivi a quota 200.000 entro il 2014), e riduzioni fiscali (sulla tassa di depurazione) per coloro che mettono in atto comportamenti socialmente utili, come la raccolta dell’acqua piovana. Perché, come spiegano le istituzioni, in una città come Rotterdam bisogna imparare a convivere con il rischio inondativo e questa presa di coscienza deve partire dai cittadini stessi.
INVESTIRE IN RICERCA PUO’ TRASFORMARSI IN BUSINESS. La chiave di volta di questo ripensamento della progettazione urbana risiede nel vedere l’implementazione di soluzioni innovative come un vantaggio. E non solo nel senso che “costa meno prevenire che curare” ma anche in una prospettiva di business. I ricercatori e i progettisti olandesi hanno raggiunto un tale livello di esperienza che le loro soluzioni progettuali di adattamento ai cambiamenti climatici, e sopratutto ai rischi di inondazioni, iniziano ad essere richieste anche all’estero. Dopo la consulenza chiesta da parte della città di New Orleans ci sono trattative in corso- riferisce Piet Dircke, ad di Arcadis, una delle aziende più note in gestione dell’acqua- con diverse città dell’Africa del Sud est Asiatico e dell’America Latina.
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Piano Nazionale di Rigenerazione Urbana‏

rigenerazioneIl tema della rigenerazione urbana sostenibile, a causa dell’esaurimento delle risorse energetiche e delle pessime
condizione del patrimonio edilizio costruito nel dopoguerra è, per gli architetti italiani, la questione
prioritaria nelle politiche di sviluppo dei prossimi anni.
Questione da intendersi non solo come materia rilevante nella pratica urbanistica, ma come una politica per
uno sviluppo sostenibile delle città, limitando la dispersione urbana e riducendo gli impatti ambientali insiti
nell’ambiente costruito: frenare il consumo di nuovo territorio, attraverso la densificazione di alcuni ambiti
solo a fronte della liberalizzazione di altre aree urbanizzate, da tramutare in servizi e luoghi di aggregazione.
In città sempre più disgregate a causa dell’incontrollata crescita degli ultimi decenni, la riqualificazione delle
periferie deve essere il punto di partenza per poter dare una svolta ad una situazione precaria sia a livello edilizio
che ambientale. L’assenza di spazi pubblici di qualità e il consumo del suolo arrivato al livello di guardia,
il costo energetico non più in grado di sopportare sprechi e lo smaltimento dei rifiuti e dei materiali non riciclabili,
hanno determinato consapevolezza da parte dei cittadini con richiesta di interventi e di soluzioni.
Piano_Nazionale_per_la_Rigenerazione_Urbana_Sostenibile




Orti urbani: 10 consigli per ridurre l’inquinamento e le contaminazioni

ortiColtivare un orto in città è davvero sicuro? Chi vive in una metropoli potrebbe essere più preoccupato di altri riguardo all’inquinamento dei terreni. Esistono, per fortuna, delle soluzioni per rimediare e prevenire la contaminazione dei suoli.
Lavare bene frutta e verdura – come faremmo per quanto acquistato al supermercato – resta una buona abitudine. Se il problema di inquinamento dovesse risultare grave, esiste una soluzione molto semplice: acquistare ortaggi bio e coltivati in modo naturale presso aziende agricole di campagna. Ecco alcuni consigli per limitare l’inquinamento negli orti urbani.
Leggi anche: Orti urbani: il pericolo dei metalli pesanti
1) Coltivare in vaso
I pericoli di inquinamento del terreno vengono contenuti dalla scelta di coltivare in vaso. Grazie a questo tipo di coltivazione, infatti, si parte da zero rispetto alla scelta del terriccio su cui cresceranno le piante. Ecco che allora si opterà per un terriccio di qualità, certificato come biologico e non ottenuto da scarti e rifiuti potenzialmente inquinanti. Così si otterrà una garanzia ulteriore. I più fortunati potranno arricchire i vasi con del terriccio di sottobosco raccolto in aree naturali lontane dal traffico.
2) Test del terreno
Se siete intenzionati a dare inizio ad un orto vero e proprio, e magari progettate di realizzare un orto sociale o un orto condiviso in una grande città, rivolgetevi ad un esperto che potrà effettuare i test necessari a verificare la presenza di metalli pesanti o di agenti inquinanti nel terreno. Potrete decidere di rivolgervi ad un’altra area, più pulita, oppure di ricorrere a terreno da riporto, che risulti sicuro.
3) Bonifica
Una delle tecniche di bonifica più interessanti prevede l’impiego della canapa, o di altre specie vegetali adatte, e prende il nome di phytoremediation. Si tratta di coltivare su terreni inquinati contaminati piante che risultino in grado di assorbire gli agenti nocivi e di ripristinare la salubrità del terreno. I tempi di realizzazione sono più lunghi rispetto ad una normale bonifica, ma il risultato è maggiormente sostenibile.
4) Container gardening
Si tratta di una soluzione adatta a chi possiede uno spazio piuttosto ampio, senza avere la possibilità di rinnovare il terreno che si trova alla base, che potrebbe risultare inquinato. Ecco allora il suggerimento di utilizzare dei cassoni da appoggiare alla superficie dell’orto e da colmare con del terriccio di alta qualità e del compost domestico, in modo da evitare il contatto delle piante con suoli a rischio di inquinamento. Si tratta di un metodo raccomandato dal Dipartimento di Scienza dei Suoli della North Carolina State University all’interno del documento “Minimizing Risks of Soil Contaminants in Urban Gardens”.
5) Compost casalingo
Una parte dell’inquinamento che rischia di interessare gli orti urbani deriva anche dall’impiego di fertilizzanti chimici. Come possiamo pensare di gustare ortaggi sani se scegliamo di irrorarli con sostanze di sintesi non meglio identificate e potenzialmente tossiche per la salute? Ecco allora che, per arricchire il nostro terreno e permettere alle piante di crescere in modo più rigoglioso, possiamo pensare di ricorrere al compostaggio domestico, in cassoni esterni o in una compostiera da balcone. Così grazie alle parti di scarto di frutta e verdura nasceranno nuovi alimenti davvero sani. Il compost arricchisce il terreno e allo stesso tempo limita i rischi correlati alla presenza di eventuali contaminanti.
6) Pesticidi e insetticidi
Un ulteriore fattore di inquinamento per gli orti urbani è rappresentato dal ricorso a pesticidi e insetticidi. Non tutti gli orticultori urbani, infatti, scelgono metodi di coltivazione biologici e naturali, pur avendo optato per l’autoproduzione. Il consiglio è di dimenticare i numerosi prodotti che troviamo in vendita e di affidarci a rimedi naturali, a partire dalle consociazioni tra ortaggi, fino ai macerati a base di aglio, cipolle o ortica per prevenire e curare le malattie delle piante.
7) Lavaggio degli ortaggi
Il buon senso suggerisce di lavare accuratamente tutti gli ortaggi, sia quelli da noi acquistati che quelli che coltiviamo nel nostro orto. Se si tratta di un orto di città, gli esperti dell’Università della California suggeriscono di rimuovere le foglie e le parti più esterne degli ortaggi prima del lavaggio, con particolare riferimento alla buccia. Per una maggiore sicurezza, gli esperti raccomandano di effettuare dei test di valutazione dell’inquinamento sui prodotti del proprio orto.
8) Igiene personale e degli attrezzi
Se non siete certi della composizione del terreno del vostro orto e dell’eventuale presenza di contaminanti, ricordate di indossare dei guanti durante la semina, la raccolta e il trapianto. Lavate sempre molto bene le mani dopo aver lavorato nell’orto e cambiatevi le scarpe prima di entrare in casa. Come suggeriscono gli esperti californiani, è bene evitare che i bambini ingeriscano accidentalmente della terra raccolta nell’orto. Inoltre, è molto importante mantenere puliti gli attrezzi e rimuovere la ruggine.
9) Coltivazione
Nella scelta degli ortaggi da piantare, ponete attenzione alle tipologie e alle zone più a rischio dell’orto, ad esempio, se una parte di esso risulta più esposto al traffico. Le varietà che rimangono maggiormente a contatto con la terra sono gli ortaggi da radice e i tuberi, come le carote, le patate, i ravanelli, l’aglio e le cipolle. Un minor contatto è previsto per le piante che possono crescere in altezza, come pomodori, zucchine e altri rampicanti, che risulteranno meno esposte alle contaminazione. A parere degli esperti, il livello intermedio di rischio riguarda lattughe, insalate, cavoli e broccoli.
10) Protezione
Ricordate di proteggere il più possibile il vostro orto di città. Per gli orti veri e propri, è molto utile creare delle barriere naturali verso l’esterno, che possono essere costituite da siepi, cespugli e recinzioni, che limiteranno l’esposizione diretta ai gas inquinanti emessi dal traffico. Per quanto riguarda l’orto sul balcone, scegliete uno spazio che non si affacci direttamente sulla strada, proteggete le piante con retine e tessuto non tessuto e create un angolo dedicato ad esse, magari protetto verso l’esterno da un paravento o da una piccola serra.

Di Marta Albè
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Si fa presto a dire green job. Da MCE la guida alle vere professioni verdi

green economyCome orientarsi nell’ambito della green e white economy, settori che creeranno oltre 1.300.000 posti di lavoro in Europa entro il 2020
L’Italia è uno dei paesi leader su scala mondiale per quanto riguarda la progettazione, sviluppo e distribuzione di tecnologie e prodotti relativi all’efficienza energetica. E’ uno dei settori che rappresentano il fiore all’occhiello dell’eccellenza italiana agli occhi del mondo.
Un settore così dinamico porta con sé la creazione di nuovi posti di lavoro. Non è però così facile sapersi districare nella burocrazia che legifera in materia di aggiornamento professionale, patentini per ingegneri, certificatori, impiantisti e altre figure chiave che operano in questo settore. Il risultato è che il più delle volte un neolaureato interessato a intraprendere una delle sopracitate carriere si trova disorientato.
Per questo motivo Mostra Convegno Expocomfort, la più importante manifestazione biennale nell’impiantistica civile e industriale, nella climatizzazione e nelle energie rinnovabili, ha elaborato una guida contenente i consigli per sapersi orientare nel labirinto della normativa italiana e iniziare a intraprendere una fruttuosa e stimolante carriera nella white e green economy.
La «Green Economy» creerà fra oggi e il 2020 oltre 250.000 posti di lavoro in Europa, a cui sono da aggiungere altri 1.061.000 posti che saranno creati dalla White Economy, cioè nel settore dell’efficienza energetica.
Le figure professionali della green economy
Le professioni «green» si identificano in circa 54 figure professionali differenti. Secondo lo United Nations Environmental Programme (UNEP) si definiscono green jobs molteplici lavori diversi nel settore agricolo, manifatturiero, della ricerca e sviluppo, amministrativo e delle attività di servizio che contribuiscono sostanzialmente a preservare e rafforzare la qualità dell’ambiente, a proteggere l’ecosistema e la biodiversità, a ridurre i consumi di energia, materiali e materie prime come l’acqua a minimizzare e a ridurre i processi di inquinamento dell’ambiente.
Ciò porta allo sviluppo della green e white economy influenzando l’occupazione in due modi: la creazione di nuove professionalità come l’Esperto di Gestione dell’Energia, l’Energy Auditor e il Certificatore Energetico; la trasformazione e l’adattamento di figure professionali esistenti che richiedono nuove qualifiche, come il Frigorista e l’Installatore.
La guida sottolinea che la grande maggioranza delle occupazioni create dallo sviluppo delle fonti rinnovabili sono in realtà lavori tradizionali (commessi, meccanici, camionisti). Ci sono perciò professioni che non richiedono l’acquisizione di nuove competenze per lavorare in un’azienda green.
Altre figure invece provengono da altri settori in crisi e godono di una condizione di rivitalizzazione grazie all’acquisizione di nuove competenze.
Infine, ci sono coloro che lavorano a diretto contatto con le nuove tecnologie verdi e che per questo hanno anche bisogno di qualifiche, corsi di formazione e di aggiornamento.
I processi in cui sono coinvolte le professioni green e white
Le aziende green si occupano solitamente di un unico processo. L’insieme di questi processi crea un unicum che va a formare una intera filiera di settore. Ogni processo, indispensabile per la vitalità e mantenimento dell’intera filiera, necessita di figure professionali differenti: Ricerca e Sviluppo; Manifattura; Project development; Procedure per le autorizzazioni; Finanziamenti; Installazione; Operatività e mantenimento; Regolazioni; Commercio e certificati green.
L’aggiornamento
Un settore così innovativo richiede un continuo aggiornamento delle figure professionali coinvolte. L’offerta formativa conta di innumerevoli corsi. A fine 2009 si contavano già 2033 percorsi diversi, fra i quali diventa difficile orientarsi. Fra questi 1129 erano corsi di formazione, 696 corsi universitari, 208 percorsi post-laurea.
Le professioni del futuro
Fra le professioni che richiedono un alto grado di specializzazione green e necessarie certificazioni e qualifiche, la guida di MCE annovera le seguenti figure.
Manager del Governo del Territorio: opera in connessione con la pianificazione del territorio e delle infrastrutture, con la pianificazione urbanistica, con la promozione dello sviluppo economico. Coordina la promozione all’uso delle diverse risorse. Formazione: Laurea di 2° livello in Ingegneria dell’Ambiente e del Territorio, Master di 2 anni in temi di gestione delle risorse, dell’ambiente, del rischio, della sostenibilità.
Manager esperto nella Programmazione energetico-ambientale-territoriale: programma, gestisce e coordina gli interventi relativi alla produzione e all’utilizzo di energie rinnovabili nel territorio. Formazione: Laurea 2° livello in Ingegneria Meccanica, dell’ambiente e del territorio; Master di 2 anni in temi di gestione dell’energia, delle risorse, della sostenibilità.
Esperto di Progettazione di Sistemi di Energie Rinnovabili: gestisce e coordina la progettazione di diversi sistemi di energia rinnovabile, intervenendo sulla distribuzione delle energie in un determinato territorio e sulla loro composizione/combinazione. Formazione: Laurea di 2° livello in Ingegneria Meccanica. Master in Fonti Rinnovabili.

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