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Efficienza energetica e rigenerazione urbanistica nelle periferie

Con il Piano UE 20/20/20, contenuto nella Direttiva europea 2009/29/CE, l’Italia si trova ad affrontare, in maniera sempre più urgente, il problema dell’efficientamento energetico soprattutto per quel che riguarda il costruito esistente.

Si stima, infatti, che sul suolo italiano esistano circa 2.000.000 di abitazioni in precario stato di conservazione, che necessitano di essere demolite e ricostruite o recuperate: ampie aree urbane in cui insistono complessi di edifici che hanno ormai concluso, o stanno concludendo, il proprio ciclo di vita e che sono, dunque, destinate ad una sostanziale riqualificazione. Se lo Stato, da un lato, dovrebbe dare già il buon esempio, risolvendo il problema degli edifici pubblici entro la data di scadenza del 2020, dall’altro lato più del 70% del patrimonio esistente risulta oggi abbandonato a se stesso, non solo per quel che riguarda la manutenzione edilizia ma ancora più per quella energetica. In un paese, come il nostro, in cui lo spazio costruito risulta quasi la totalità della superficie nazionale, appare subito chiaro come il compito di riuscire a riqualificare il patrimonio edilizio sia senz’altro arduo e richieda sforzi non da poco.

Si è, così, di fronte ad una grande opportunità: affrontare il problema con una visione matura che cerchi, sinergicamente, di fare incastrare l’aspetto edilizio, quello urbanistico e ambientale con quello dell’innovazione tecnologica, per poter poi far fronte alle richieste, sempre più pressanti, delle politiche europee, che impongono non solo un cambiamento di rotta per quel che riguarda le risorse utilizzate – dal fossile al sostenibile – ma che, allo stesso tempo e in modo coerente, trattano sempre più temi come l’energia, il cambiamento climatico, le smart city e la sostenibilità, nell’ottica di quella programmazione 2014-2020 che fa, ormai, da obiettivo comune alle politiche direttive degli stati membri.

In una visione più locale, ovvero concentrandoci sui centri abitati italiani, si nota subito come la maggior parte dell’attenzione, in materia di efficientamento o di riqualificazione energetica, venga spesso rivolta o alle nuove costruzioni o agli edifici pubblici esistenti che, spesso, caratterizzano i nostri centri urbani, a volte anche quelli storici. Poche sono invece le idee spese per le aree più lontane dal centro e che costituiscono quelle periferie, spesso degradate e senza servizi, dove invece si concentra un’altissima densità di popolazione. Complessi edilizi da ripensare, da riqualificare o da ricostruire, potrebbero diventare i veri protagonisti di quella class action di rinnovamento energetico allo scopo di creare quartieri finalmente degni di questo nome, con spazi pubblici e privati ripensati in modo smart, in modo “intelligente”, accorciando quella distanza che spesso si è venuta a creare tra il centro, o i più centri, delle nostre città e, appunto, le periferie. Tutto ciò ovviamente non risulta così immediato, soprattutto se si tiene in considerazione il fatto che questa rigenerazione deve essere a bilancio zero, puntando ad abbattere drasticamente il consumo energetico edilizio (in particolare, nel settore civile, i consumi relativi al riscaldamento, al raffrescamento e all’acqua calda sanitaria, rappresentano attualmente il 22% del consumo primario nel Paese) e ponendosi come obiettivo non solo una sinergia tra professionisti ma anche un’attiva partecipazione dei cittadini, giustamente informati, che sono i primi fruitori dei luoghi, anonimi e non. Una trasformazione, questa, che porterebbe alla creazione di veri e propri Eco-Quartieri, come risultato dell’unione tra riqualificazione energetica e riqualificazione urbanistica, all’interno di strategie di intervento coerenti, che portino a tutti quei risultati che i P.R.U. o i P.R.U.S.S.T. non hanno realizzato concretamente, salvo dovute eccezioni, e che potrebbero, altresì, coniugarsi tranquillamente all’interno dei regolamenti edilizi “energetici” stipulati dai Piani d’Azione per l’Energia Sostenibile del Patto dei Sindaci (PAES).

E’ con queste premesse che Audis (Associazione delle Aree Urbane Dismesse) e Legambiente promuovono il progetto Ecoquartieri in Italia: un patto per la rigenerazione urbana, una proposta per il rilancio economico, sociale, ambientale e culturale delle città e dei territori. Il progetto, infatti, inteso a contribuire all’affermazione della rigenerazione urbana e ambientale, come chiave strategica per lo sviluppo e la sostenibilità, si pone l’obiettivo di fare da traino verso una meta più grande: ripensare un nuovo modello di città e di territorio. Del resto è proprio nei quartieri che nascono le comunità, i servizi, i centri culturali e tutto ciò che può determinare un moderno vivere sostenibile. Questa riqualificazione, inoltre, non può essere condotta solo sulla base di interventi puntuali su singoli edifici ne, allo stesso modo, su piccole porzioni di territorio, spesso studiati in modo del tutto separato e sconnesso dal resto della città. Proprio in questo senso i professionisti sono chiamati ad agire su aree più ampie, messe in relazione dinamica con il contesto in cui si collocano, con lo scopo di riportare qualità e identità a quelle periferie dimenticate e facendone addirittura esempi virtuosi per la restante parte delle città. Diversi sono, pertanto, le tipologie di intervento che è possibile ipotizzare:

  • interventi innovativi e rispettosi, ovvero trasformazioni profonde che, tenendo conto della storia del luogo analizzato, servano a pensare a quei caratteri che possano portare ad un nuovo modello di sviluppo sostenibile in situ;
  • interventi che riducano, drasticamente, l’enorme impatto ambientale che hanno, ad oggi, le nostre città sul territorio e che tengano conto, pertanto, della riduzione del consumo energetico del settore edilizio;
  • interventi che, come detto, coinvolgano i residenti, generando coesione e senso di appartenenza di quel luogo. Progettazione partecipata che dia modo ai cittadini, reali fruitori di quel quartiere, di formulare proposte concrete, in totale sinergia con le relative pubbliche amministrazioni e con le competenze professionali locali, uniche e vere risorse in grado di dare vita a progetti che tengano conto di quelle che sono le reali condizioni climatiche, del degrado del patrimonio, dei materiali compatibili con il contesto, del rispetto della storia del patrimonio edilizio esistente.
  • interventi, non in ultimo, che si rendano economicamente autosufficienti in tempi brevi, tralasciando quella burocrazia “delle carte” in cui spesso il nostro Paese ristagna.

Nel concreto, tenendo conto dell’effettiva applicabilità degli interventi, in particolar modo di quelli per l’efficienza energetica, e al loro rapporto costo/beneficio, occorre, dunque, tener conto:

  • dell’involucro edilizio: facendo riferimento ai parametri standard prescritti dal vigente decreto n.192/05, ci si riferisce a opere di coibentazioni dell’involucro, alla sostituzione di infissi, all’introduzione di elementi schermanti, ecc;
  • degli impianti termici ed elettrici. In tal senso l’ENEA, in collaborazione con il CRESME, ha effettuato una ricerca per la determinazione del parco immobiliare nazionale e della sua distribuzione sul territorio nazionale, attraverso lo studio del sistema elettrico italiano, in modo da determinare un quadro generico dello stato di fatto e dare avvio alla progettazione di interventi integrati, come la sostituzione degli impianti termici esistenti con nuovi impianti ad alta efficienza e, laddove sia possibile, con impianti alimentati da fonti rinnovabili.

Proprio in tal senso, il convegno annuale di Italcementi, tenutosi a Bergamo lo scorso 24 gennaio, ha visto la partecipazione di nomi illustri del mondo dell’architettura mondiale, sia nell’ambito dell’architettura che in quello della pianificazione urbana, mettendo in luce una serie di problematiche sulla rigenerazione architettonica ed energetica del territorio, da esempi concreti di città, in cui queste tematiche sono state applicate con dei notevoli risultati, al ruolo dei materiali innovativi e delle nuove tecnologie pro-sostenibilità. “Le nostre città, e in particolare le nostre periferie, hanno bisogno di mirati e studiati interventi di riqualificazione, che portino ad una vera rinascita atta a migliorare la vita delle persone che le vivono“, ha spiegato il presidente  Giampiero Pesenti. Del resto città estere come Berlino, Londra, Marsiglia, Parigi hanno fatto scuola, riqualificando le zone più vecchie e degradate, le quali hanno lasciato il posto a quartieri più sostenibili, ad energia quasi-zero e, dunque, più vivibili, contribuendo, anche, alla rinascita sociale ed economica dell’intera città: si ricordino, tra le prime esperienze, il quartiere Vauban a Friburgo, il Solarcity a Linz, prima città disegnata sull’insolazione di quel territorio, il BedZED a Londra, l’Hammarby Sjostad a Stoccolma o il Gwl Terrein ad Amsterdam. Anche alcune città italiane non sono da meno: Genova si fa strada, tra le città portuali, per la creazione del progetto Porto Green, che prevede l’approvigionamento di energia con microimpianti eolici. Torino, Milano e la stessa Genova hanno firmato un protocollo d’intesa per la realizzazione di piattaforme logistiche per i trasporti e le aree urbane, nell’ottica di trasformare l’ormai ex triangolo d’oro dell’industria italiana, in un’area completamente smart. Padova è diventata il punto di riferimento, a livello nazionale, per il progetto “Cortili Ecologici”, insieme a Milano, Cinisello Balsamo e Roma, per adottare abitudini sostenibili e soluzioni intelligenti, mirate a ottenere il 30% di riduzione del consumo domestico di acqua calda sanitaria e il 15% del risparmio energetico nelle abitazioni e nei rifiuti prodotti. E al sud ? Esempi d’eccellenza non mancano neppure nell’Italia meridionale come la cittadina di Baronissi, in provincia di Salerno, che si contraddistingue per tali tematiche applicate ai quartieri periferici ovvero risparmio energetico, isolamento dell’involucro degli edifici esistenti, differenziazione dei rifiuti con sistemi di raccolta interrati e  illuminazione con lampade a led per i sistemi della mobilità. In quest’ottica, tra gli interventi italiani, quello dell’architetto Mario Cucinella, fondatore della Building Green Future, e da sempre impegnato nel campo della sostenibilità, che ha dichiarato come, spesso, per migliorare la vita di un quartiere, a maggior ragione se periferico, può bastare il “minimo intervento”: un giardino, un orto sociale a km zero, un centro culturale, un percorso studiato, insomma non un intervento da “archistar” ma progetti puntuali, mirati e interconnessi, che favoriscano l’incontro tra le persone, che ne migliorino la qualità della vita e che lo facciano in modo non dispendioso, ne in termini di energia, ne in termini di risorse economiche.

In conclusione, nella visione del progetto “Ecoquartieri italiani”, c’è la chiara consapevolezza di come sia difficilissimo intervenire nelle nostre città, sia per la complessità delle procedure burocratiche da applicare per dare avvio agli eventuali interventi, sia per la gestione e i costi degli stessi, sia per la proprietà frammentata dei quartieri periferici. Sono questi, dunque, i reali motivi di questo vuoto, di quel gap che porta l’Italia ad essere un paese arretrato, sotto il punto di vista dell’innovazione energetica e della sostenibilità, rispetto agli altri paese europei. E, in questo contesto, diventa sempre più pressante l’esigenza di semplificazione, di condizioni di vantaggio per gli imprenditori che intendono investire in questi progetti e, dunque, di un network di professionisti che, con un approccio più sensibile, possa sviluppare idee di intervento concrete, che trasformino l’esistente in edifici a energia zero, sfruttando non solo i nuovi materiali e le nuove tecnologie ma anche i materiali presenti in loco, riscoprendo quelle maestranze e quelle tecnologie costruttive, anche del passato, atte a ottenere l’obiettivo di sostenibilità e di riqualificazione energetica senza, però, perdere l’identità dei luoghi in cui questi interventi andrebbero a collocarsi. E’ necessaria, pertanto, la stesura di una concreta normativa di riferimento, che renda possibili queste trasformazioni, senz’altro complesse, in modo da individuare i parametri da raggiungere, in termini di prestazioni energetiche, di uso e consumo delle risorse naturali, ma anche le procedure di attuazione urbanistica, come ad esempio la cessione gratuita di aree pubbliche o i possibili vantaggi fiscali per coloro che intendessero, nel privato, riqualificare energeticamente la loro proprietà.

Sopra tutto questo, poi, una regia nazionale, con degli obiettivi precisi, che possa coordinare quelle esperienze, per ora rimaste isolate, disseminate nel nostro Paese – e che sebbene siano meritevoli, restano incapaci di dare una vera e propria svolta – senza perdersi nel “mai finito” degli eterni incompiuti italiani.

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In viaggio tra gli eremiti delle periferie

Una web serie in nove episodi per raccontare chi rifiuta la contaminazione della metropoli: filosofi, poeti, vagabondi e pazzi

Selezionata al Festival Tous Ecrans di Ginevra 2014, Ai confini della città racconta di una troupe televisiva inviata nelle periferie della città per intervistare personaggi eccentrici che rifiutano la contaminazione della metropoli: filosofi, poeti, vagabondi e pazzi.

La malinconia fa da sfondo ad un’ambientazione fuori dal tempo. Potrebbe essere un prodotto degli anni ’80. Se si esclude la frammentazione del prodotto nella formula delle webserie, gli elementi presenti richiamano una cinematografia sperimentale del passato dove il ritmo lento e sospeso lascia l’utente spaesato, ma curioso di capire il punto di arrivo.

9 episodi di 5 minuti, scritti, prodotti e diretti da Roberto Di Vito, un filmmaker adulto, come traspare dal suo linguaggio audiovisivo che ha realizzato un prodotto quasi da solo (ha curato anche costumi, il montaggio, la scenografia e le musiche originali).

Roberto vive e lavora a Roma. Ha realizzato numerosi cortometraggi, documentari e backstage che hanno partecipato a vari festival (Locarno, Huesca in Spagna, Montpelier Francia, Bruxelles, e Malaga, Salerno, Fanta-Festival). Ha vinto il premio della critica a Montecatini, il Globo D’oro, Capalbio Festival, Festival di Vedeopolis. Ha realizzato un backstagse su Federico Fellini. Ha auto-prodotto il suo primo film “Bianco”. Distribuito in dvd in italia da Cecchi Gori Home video.

Gli interpreti della web serie sono Giulia Urso, Antonio Prisco, Armando Roscia, Silvana Gasparini, Sestilio Ippoliti E Con Petra Montecorvino, Vittorio Viviani, Gianni Rossi.

Il cast:
Direttore di fotografia:  Mario Amura
Operatore alla macchina: Vittorio Omodei Zorini
Assistente operatore: Mario De Camillis
Aiuto Regia:  Sonia Troiani
Direttore di produzione:   Gianlorenzo Mortgat
Ispettore di produzione: Toni Massara
Segretaria d’edizione:Debora Marone
Fonico di presa diretta: Valerio Brini

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Writing social book 2.0

Ogni realtà organizzativa si trova oggi a comunicare e visibilizzare il proprio lavoro non solo con le modalità tradizionali, ma anche attraverso gli strumenti offerti dalle nuove tecnologie. L’ipotesi è che un uso professionale e competente del web 2.0 possa portare ad un’evoluzione delle modalità di lavoro, permettendo di raccontarsi diversamente (meglio?) a più soggetti, ottimizzando contemporaneamente costi ed energie.

writing social book




Social media strategy in 3 pass

Alla base delle Social Media Relations stanno sensibilità, curiosità, flessibilità, capacità di interpretare i cambiamenti ancor prima che essi avvengano. I Social Media racchiudono in sé, con tutte le loro sfaccettature, pregi e difetti della società contemporanea. E allora la grande sfida è riuscire a interpretarli, gestirli giocando un ruolo di primo piano (noi, Social Media Manager, aziende, utenti) per essere capaci di sfruttarne le infinite potenzialità senza rimanere incastrati nei tranelli in cui è facile incappare se non se ne conoscono bene i meccanismi.

I Social Media come espressione della Modernità Liquida

Estremizziamo. Se i Social Media rappresentano la “liquidità” della società contemporanea (Cfr. Zygmunt Bahuman), non ci sono più confini spazio-temporali: e allora anche l’attività del Social Media Manager non deve porsi limiti, perennemente sospesa in una tensione innovatrice, dialogante e “esperienziale”.

Eppure esiste un modello che riassume bene le principali azioni e linee guida che ogni azienda, società, organizzazione che si vuole promuovere deve seguire sui Social Media. Michele Rinaldi nel suo “Social Media Relations” parla di “Modello ASP” (Ascoltare, Stimolare, Presidiare), che trovo riassuma perfettamente le linee guida chiave di ogni Social Media Strategy che si rispetti.

1. Ascoltare, prima di parlare

Ci dicevano così i nostri genitori, ricordate? Grande lezione, quella, una specie di mantra che ogni Social Media Specialist è bene tenga in mente ogni volta che si mette al computer, smartphone, tablet. Prima di dire la nostra, dobbiamo sapere cosa gli altri dicono di noi. Qualsiasi attività di social media marketing non può prescindere da una costante attività di ascolto web. Conoscere per governare la Brand reputation, sapere cosa pensano di noi i nostri acquirenti (attuali, ma soprattutto potenziali), i nostri competitors, gli influencer.

Dove ascoltare?
Sui social (da Facebook a Twitter, passando per Pinterest e Instagram, finendo con YouTube: anche le immagini e i video dicono moltissimo di come siamo percepiti), nei Forum e Blog, sulle testate online specializzate.

E poi?

Si creano nuovi spunti di comunicazione
Si modula il piano editoriale anche sulla base di ciò che interessa alla rete
Si decide se rispondere, se “entrare nella mischia” e provare a tirare fuori il meglio dalle occasioni offerte dall’attività di altri profili social.
Guardate per esempio cosa è successo quando l’account Twitter di Citroen Italia ha twittato una grafica che rappresenta “la formula del parcheggio perfetto”. Un’azione social corale, geniale proprio perché spontanea, per la quale si meritano un applauso i team social di Citroen, Smart, Martini, San Carlo e Sanbuca Molinari.

2. Stimolare: lo storytelling, l’esperienza, la condivisione.

Dimenticate il marketing tradizionale. La distinzione tra consumatore e produttore. Nel web 3.0 l’utente diventa un po’ produttore, un po’ consumatore di contenuti. O meglio, è l’una e l’altra cosa contemporaneamente. La sua esperienza del Brand e la narrazione che ne consegue sono il fulcro attorno a cui ruota ogni attività di comunicazione.
Così, oltre a monitorare quanto gli utenti prosumer (producer + consumer) dicono delle aziende, queste ultime devono a loro volta creare nuove occasioni di comunicazione grassroots, dal basso. Per non subire ciò che gli utenti dicono di loro, devono portare il pubblico 3.0 a parlare per loro. A costruire storie insieme: lo storytelling diventa allora il linguaggio che crea esperienza tra Brand e cliente, e condivisione e esperienza diventano le parole chiave.

L’azienda diventata Brand si fa narratrice – insieme al prosumer – di tante storie ed esperienze che vengono condivise sui social media, attraverso una strategia precisa. La comunicazione diventa orizzontale e democratica.

Come applicare lo storytelling?
Ecco alcuni spunti:

Raccontare il prodotto: i suoi protagonisti, la sua storia, il backstage (inteso in senso lato, come tutto ciò che di solito “non si vede” e che costituisce valore aggiunto), i suoi segreti.
Raccontare storie che siano credibili, ingegnose, veloci, di forte impatto, facilmente riconoscibili e memorizzabili. Soprattutto, devono essere in linea con ciò che il nostro target crede, senza dare l’impressione di rivolgersi a tutti indistintamente: chi ci legge o “guarda” deve percepire che, attraverso quel racconto, il Brand sta parlando esclusivamente a lui e alla sua “community”, alle loro passioni, al loro modo di interpretare la quotidianità.
Mettere il prosumer nelle condizioni di raccontare la sua esperienza con il Brand nella quotidianità.
Case history: Nutella con la campagna #noilamattina.

Aiutare, grazie al know how proprio dell’azienda, il prosumer “in difficoltà”.
Case history: Barilla e #SOSPasta (ma attenzione agli #epicfail)
“Ingaggiare” (perdonatemi per l’odiata parola, ma proprio l’italiano e le sue sfumature non riescono a rendere ciò che l’inglese fa egregiamente con “engagement”) l’utente e creare contest social ad hoc in cui il Brand chiede al prosumer di condividere conoscenze, esperienze, passioni.
Case history: #KLMIOCERO
3. Presidiare: una strategia social a tutto tondo

Abbiamo parlato di ascolto web e storytelling. Ma nessuna di queste due attività avrebbe senso senza che il brand abbia prima costruito una strategia social a tutto tondo, che comprende il target di riferimento, un piano editoriale diversificato e redatto secondo scadenze temporali predefinite, il tone of voice e il piano di crisis management.

I Social Network, in una parola, vanno costantemente presidiati. Parliamo a un pubblico definito secondo le strategie di marketing e comunicazione dell’azienda, applichiamo la tecnica dello storytelling postando contenuti che mettano al centro l’utente e la sua esperienza con il Brand, ci inseriamo in Community già consolidate (forum, blog, newsgroup, gruppi sui social network, etc) e ne creiamo una nostra.

Dunque?
La nostra Community ora dobbiamo mantenerla, nutrirla, allargarla. E con essa la nostra online reputation.
Due azioni meritano di essere approfondite in tal senso: la risposta ai commenti (negativi) e il coinvolgimento degli influencer.

Social Media Epic Fails: come evitarli?

Se non seguite già questa pagina Facebook, fatelo. Vengono postati ogni giorno i cosiddetti “social media epic fails”, anche conosciuti come “il più grande incubo dei Social Media Manager”. A volte basta pochissimo, una disattenzione di troppo, poca sensibilità sull’argomento, per finire tra i “fallimenti” addirittura “epici” sui social media.

Come evitarli?

Rispondendo ai commenti con sensibilità e intelligenza. Famoso è il caso di Patrizia Pepe, brand di abbigliamento italiano, che ha suscitato 950 commenti negativi in 7 giorni.

Senza mai cancellare i commenti negativi, saranno gli altri utenti a difendere il brand (se il brand è stato capace di costruire dei fan reali)
Evitando di rispondere con i metodi della comunicazione tradizionale, rimandando a uffici informazioni, numeri verdi, siti internet: se siamo stati raggiunti attraverso un tweet, un commento Facebook, i nostri interlocutori si aspettano una risposta diversa, immediata, smart: social.
Tenendo sempre bene in mente che contenuto, strategia, trasparenza, dialogo sono le armi vincenti.
Coinvolgere gli influencer

Mantenere viva la vostra community e tenere alta la brand reputation può essere più facile con l’aiuto, che ci saremo guadagnati con azioni mirate, dei cosiddetti influencer e opinion leader (sì, il mondo delle Social Media Relations è pieno zeppo di neologismi e anglicismi che farebbero rabbrividire qualsiasi purista della lingua italiana. Forse dovremmo un po’ tutti “sciacquare i panni in Arno, ma questo è un altro discorso).
Sono persone (ebbene sì!) che, il più delle volte aprendo un blog (o un canale Youtube, o un account su Instagram) si sono costruite credibilità e influenza riguardo al tema specifico di cui scrivono, commentano, fotografano, recensiscono. “Là fuori” (o dovremmo dire “là dentro?”) è pieno di food blogger, fashion blogger, wine blogger, travel blogger, solo per citare alcune delle aree più popolate in tal senso.

E a noi, azienda che si è fatta Brand, e social, non rimane che coinvolgerli. La loro Community, infatti, è spesso molto ampia, assidua divoratrice di contenuti e instancabilmente alla ricerca dei prodotti-che-poi-sono-esperienze di cui parlano i loro blogger di riferimento.
Il nostro obiettivo diventa coinvolgerli e, ça va sans dire, fare in modo che parlino (bene) del nostro Brand.

Come?
Pur senza voler troppo generalizzare, ricordiamoci che il blogger è persona credibile (specialmente agli occhi della sua Community), egocentrico, appassionato e curioso di conoscere tutte le novità riguardanti il suo ambito d’azione. Ancora meglio se in anteprima.

Una buona azione di digital PR non può prescindere da tre elementi chiave:

I blogger non sono giornalisti: per raggiungerli non vanno adottati metodi di tipo tradizionale. Mai inviare comunicati stampa in maniera indiscriminata. Molto meglio contattarli uno per uno, farli sentire importanti, coltivare la loro passione in relazione al nostro prodotto.
Come i nostri fan, anche per i blogger è importante vivere il Brand come esperienza. Chiediamoci, prima ancora di capire cosa possono fare loro per la nostra campagna, che tipo di esperienza possiamo offrire affinché poi ne possano parlare (bene) sui suoi canali social e sul suo blog.
Anche per i blogger, Content is the king: forniamo loro contenuti interessanti, e facciamolo in anteprima.
Benché agiscano prevalentemente online, i blogger sono persone, non dimentichiamolo. Invitiamoli a eventi dal vivo, conosciamoli, interagiamo con loro anche nella vita offline.
Così abbiamo creato le basi per una strategia social. Ora, però, sarà fondamentale che i vostri contenuti siano visibili e che raggiungano il vostro target: entriamo nel campo del Social Media Marketing.

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Torneremo tutti agricoltori, e sarà la nostra salvezza

Dal biologico alla bioeconomy, l’Italia agricola è in pieno boom, a colpi di saperi e di innovazione.

Forse ha ragione Nietzsche, forse la storia è davvero un eterno ritorno dell’eguale. Negli anni ’50 eravamo una terra di agricoltori diventati operai. Nel giro di vent’anni gli operai sono diventati impiegati. Il problema sono i figli degli impiegati, cui era stata promessa la luna di un lavoro creativo, senza cravatte, gerarchie, noia. E che, complice la crisi economica, si sono ritrovati, molto più prosaicamente, senza un lavoro. Molti di loro ancora non si sono rassegnati a cercare il loro personale eldorado nella giungla del terziario avanzato. Altri, invece, sono tornati al punto di partenza, ai campi e alla terra: nel 2013, le iscrizioni ai dipartimenti di agraria in tutta Italia sono aumentate del 40% circa.
Pauperismo, anti-capitalista? Decrescita felice? Niente di tutto questo. Al contrario, nel 2013, il valore aggiunto dell’agricoltura italiana è cresciuto del 4,7%, mentre il Pil italiano cadeva di quasi due punti percentuali. Nello stesso periodo, anche l’export agricolo italiano è cresciuto del 5%. A differenza di quel che è accaduto in altri settori, questa crescita ha avuto effetti benefici anche sull’occupazione. Nel secondo trimestre del 2014 – periodo di calo del Pil, tanto per contestualizzare il dato – l’occupazione del settore agricolo è cresciuta del 5,6%.
I numeri di un primato
Dati sorprendenti, questi, ma non certo frutto di una strana e fortunata congiunzione astrale. Pochi se ne sono accorti, in questi anni, ma l’agricoltura è una delle poche vere eccellenze che sono rimaste a questo paese. Come ben racconta l’ultimo rapporto di Fondazione Symbola dedicato all’agricoltura, sono ben 77 i prodotti in cui la quota di mercato mondiale dell’Italia è tra le prime tre al mondo, 23 – pasta, pomodori, aceto, olio, fagioli, tra questi – in cui è la prima.

La nostra capacità di primeggiare è figlia, soprattutto, della grande qualità delle nostre produzioni. Non è un caso, peraltro, che non ci sia agricoltura in Europa – e poche al mondo – che abbiano una capacità di generare valore aggiunto quanto quella italiana. Da noi, un ettaro di terra, produce 1989 euro di valore aggiunto: ottocento euro in più della Francia, il doppio di Spagna e Francia, il triplo dell’Inghilterra.

Che ci crediate o meno, la nostra – con le sue 814 tonnellate di gas serra emesse per ogni milione di euro di prodotto – è anche una delle agricolture più “pulite” d’Europa. Molto più di quella inglese, ad esempio, che di tonnellate ne emette 1935, o di Germania e Francia, rispettivamente 1.339 e 1.249. È anche una delle più sicure, nonostante tutto: lo scorso anno, solo lo 0,2% dei prodotti agricoli made in Italy ha presentato residui chimici con valori oltre la norma. In Europa questa percentuale è salita all’1%, sino ad arrivare all’1,9% della Francia e al 3,4% della Germania.

Altro dato piuttosto sorprendente è la nostra primazia nell’economia delle produzioni biologiche. Nessun paese Europeo ha tanti produttori quanti ne ha l’Italia, che ne può contare ben 43.852, il 17% di tutti i produttori europei. Se allarghiamo lo sguardo oltre i confini continentali, siamo anche sesti al mondo per ampiezza delle superfici a biologico, che crescono a un ritmo di 70mila ettari l’anno.

Chiamatela bioeconomy
Il risultato di quest’eccellenza è il frutto dell’innesto di menti giovani e di pensieri innovativi dentro mestieri antichi: oggi, un’azienda agricola su tre è guidata da persone che hanno meno di trentacinque anni. Non ci sono solo loro e non c’è solo l’anagrafe, tuttavia. L’intreccio con nuovi saperi e nuove tecnologie sta davvero cambiando i connotati all’agricoltura: «Un tempo agricoltura era sinonimo di coltivazioni con finalità alimentari, oggi non è più così», spiega Gianluca Carenzo, Direttore del Parco Tecnologico Padano di Lodi, centro di eccellenza nel settore delle biotecnologie e dell’agroalimentare: «Oggi – continua – l’agricoltura è una piattaforma su cui si innestano molteplici tipi di industrie, dalla alimentare alla chimica, dall’energia al tessile».
Ciò di cui parla Carenzo ha un nome: si chiama bioeconomy e comprende tutte le produzioni sostenibili di risorse biologiche rinnovabili e la loro conversione, come ad esempio quella dei flussi di rifiuti in cibo, mangimi, o prodotti bio-based, come le bioplastiche, i biocarburanti e bioenergia. Un macro-settore, questo, che seppur neonato in Italia vale già 241 miliardi di euro e occupa 1,6 milioni di persone. Al suo interno sono nate e crescono colossi come Novamont o piccole realtà innovative come Bio-on, giovane impresa modenese che produce plastiche dagli scarti della lavorazione delle barbabietole da zucchero e che venerdì 23 ottobre 2014 si è quotata con successo in Borsa, nel listino Aim dedicato alle piccole e medie imprese. O ancora, come la bioraffineria di Beta Renewables di Crescentino, in provincia di Vercelli, la prima di seconda generazione al mondo, che produce 75 milioni di litri di etanolo l’anno usando soltanto le biomasse di scarto – paglia di riso, soprattutto – disponibili in un raggio di 70 km dallo stabilimento.
«Nelle start up che incubiamo nel Parco Tecnologico Padano – spiega ancora Carenzo – lavorano assieme giovani laureati in agraria, ingegneri, informatici. Il loro potenziale innovativo sta tutto nel mix delle diverse competenze». Due anni fa, il Parco ha lanciato il concorso Alimenta 2 Talents, finalizzato a offrire formazione, risorse e le competenze dei ricercatori del Parco alle più innovative startup del settore. Tra i finalisti del 2013 ci sono realtà come Orange Fiber, che crea tessili sostenibili da rifiuti di agrumi – 700mila tonnellate solo in Italia – utilizzando le nanotecnologie. O come The Algae Factory che produce pasta, cosmetici e altri prodotti a base di alga spirulina. O, ancora, come Coffee Reloaded, che si occupa di usare i fondi di caffè – in Italia ne vengono consumati 45 quintali al giorno – come fertilizzanti.

Sia che si parli di agricoltura per uso alimentare, sia che si parli di bioeconomy, l’Expo dell’anno prossimo potrebbe davvero essere un trampolino di lancio: «Siamo crescendo – spiega ancora Carenzo – anche se ci muoviamo senza alcuna strategia nazionale sul tema». Per Expo, continua, «dobbiamo farci trovare pronti: è una straordinaria occasione per capire se e come potremo declinare le nostre tecnologie in un contesto globale che ci pone tante domande. Una su tutte, come si possono sfamare, vestire, riscaldare nove miliardi di persone senza distruggere il pianeta». Forse la nuova agricoltura non salverà solo l’Italia, insomma.

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Una politica del cibo per una città più resiliente

Le città, e le aree metropolitane in misura particolare, costituiscono un ambito d’intervento strategico per orientare l’agenda politica verso la resilienza: è attraverso modelli urbani più sostenibili che si può migliorare la capacità di reazione dei territori ai cambiamenti sociali, economici e ambientali in atto. Le trasformazioni connesse all’instabilità dei mercati e ai prezzi dei prodotti agricoli (decisi a miglia e miglia di distanza dai luoghi di produzione e legate in misura crescente a ragioni speculative), la sicurezza alimentare e l’accesso a cibi di qualità a prezzi equi e gli effetti dell’urbanizzazione pongono l’urgenza del riconoscimento degli agroecosistemi e della produzione agricola non come attività antitetiche alla città, bensì come processi determinanti per la costruzione di strategie di resilienza; anche con riferimento al ruolo dei servizi ecosistemici come risorsa strategica per le politiche di sostenibilità urbana e di gestione del rischio per l’adattamento ai cambiamenti climatici.

Questo ancor più in Italia, dove le città sono caratterizzate dalla presenza di considerevoli quote di superfici agricole, la percentuale del rapporto tra aree coltivate e superfici territoriali non è infatti mai inferiore al 30%.
Gli stessi processi di trasformazione che interessano l’attività primaria in ambito urbano e periurbano raccontano di un’agricoltura che, lì dove sopravvive alla pressione insediativa, costruisce – e produce – forme e funzioni molteplici. Un tessuto produttivo che risponde a una domanda urbana che non è esclusivamente alimentare, ma guarda in direzione di bisogni sociali e ambientali con risultati rilevanti in termini di occupazione, di valore aggiunto, di ruoli ecologici e culturali. In questa direzione, si collocano le esperienze di filiera corta, l’autogestione dei rapporti economici e le relazioni solidali tra produttori e cittadini che si instaurano all’interno di dinamiche spontanee, contribuendo alla riscrittura dei comportamenti urbani: il cibo non solo come bisogno ma occasione di incontro, scambio e conoscenza, connessi alla dimensione civica dell’abitare. In questa direzione, si configura la necessità di coordinare azioni sinergiche di tutela e valorizzazione alle diverse scale di governo del territorio, coinvolgendo i soggetti privati e la società civile, agendo sulla partecipazione e sui processi culturali per la resilienza urbana e territoriale, l’equità dei modelli economici e sociali, la conservazione del capitale naturale e il riconoscimento dei servizi ecosistemici.

Il progetto Roma Resiliente, lanciato da Roma Capitale nel quadro della sua partecipazione al programma 100 Resilient Cities, finanziato dalla Fondazione Rockfeller, rappresenta un’opportunità per il potenziamento della capacità istituzionale e la costruzione di una cultura della resilienza fra i cittadini, le associazioni e le imprese.

Durante l’incontro “L’AGRICOLTURA E IL CIBO PER LE CITTÀ RESILIENTI” le istituzioni, la società civile, il tessuto produttivo e la ricerca saranno chiamati a confrontarsi con alcune questioni aperte:

  • ⋅  Quale potenziale per una Politica del Cibo metropolitana che, chiudendo e localizzando i cicli delle risorse, renda l’area romana più resiliente? Quale ruolo per l’azione pubblica?
  • ⋅  Quale il rapporto fra politiche alimentari, politiche della resilienza e pianificazione urbanistica?
  • ⋅  Quale potenziale per una politica di procurement di Roma Capitale – e delle altre istituzioni pubbliche – che investa sull’agricoltura urbana e periurbana? Come rendere più efficienti i flussi e le infrastrutture connesse al

    cibo a Roma?

  • ⋅  Quale il contributo delle esperienze di agricoltura civica alla resilienza sociale dell’area romana? In che modo

    l’azione pubblica può favorire e potenziare questo contributo? Come la Politica del Cibo può fare leva sull’agricoltura civica per migliorare la salute e il benessere dei gruppi sociali a rischio? Come riqualificare le periferie urbane e metropolitane attraverso l’agricoltura urbana e periurbana?

  • ⋅  È possibile immaginare un ruolo strategico delle aree protette rispetto alla costruzione di Roma resiliente?

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Roma cassonetto tour

In giro con Ion, raccoglitore informale di rifiuti per alcuni, parassita della spazzatura per altri, waste picker nei Paesi dove il suo lavoro verrebbe legalizzato.

Quando sei in un periodo della vita in cui non hai molto da fare, può capitarti di decidere di seguire un Rom nel suo tour quotidiano di cassonetti, ed è così che ti accodi a Ion.

Origini rumene, vent’anni e due figli, in Italia fin da bambino, dopo un’infanzia spesa in varie attività Ion ha deciso di fare del rovistaggio la sua occupazione principale.

Raccoglitore informale di rifiuti per alcuni, parassita della spazzatura per altri, waste picker nei Paesi dove verrebbe legalizzato, il suo è un lavoro che solo nella Capitale garantisce un reddito fisso a circa 2.300 rom, organizzati in 570 microimprese. È un’occupazione trasversale: impiega uomini e donne, giovani e adulti. E, per quanto venga considerata un’attività (illegale) di economia sommersa, è sotto gli occhi di tutti.

Un cassonetto per ciascuno
Il cartellino si timbra presto, perché chiaramente il numero di oggetti trovati dipende sì dalla fortuna, ma è anche generalmente proporzionale al numero di cassonetti esaminati. Si parte prendendo l’autobus per qualche fermata: se allarghi il giro puoi sperare di imbatterti in strade non ancora battute da altri. E se incontri un collega? Cambi zona, cambi strada. Di cassonetti ce ne sono per tutti.

Sono solo i Rom a frugare? Macché, ci sono gli immigrati, e anche gli italiani. Noi siamo solo più organizzati.

C’è chi gira direttamente in furgone, il che permette tour completi delle periferie romane e la possibilità di caricarsi direttamente rifiuti ingombranti, dal divano all’elettrodomestico, ma la benzina è cara, l’assicurazione anche e, soprattutto, il furgone bisogna averlo.

Per chi come Ion il giro se lo fa a piedi, lo strumento indispensabile è il passeggino, molto più ambito rispetto al carrello del supermercato, figuriamoci rispetto al carrello della spesa. Mentre i carrelli sono rigidi, hanno un volume fisso, il passeggino steso orizzontalmente nella sua massima estensione è perfetto come piastra mobile su cui appoggiare qualsiasi cosa, anche molto lunga o ingombrante.

E, a dire di Ion, è decisamente più resistente.

Si scende dall’autobus e comincia il giro. Ogni cassonetto viene aperto (quando si può), o ci si affaccia per una veloce perlustrazione. Niente guanti, sì bisognerebbe metterli, ma alla fine sono scomodi se bisogna tastare una busta piena o rovistare un po’ alla cieca. Il tatto è importante, le mani capiscono un sacco di cose. Serve invece una sbarra o una stampella stirata per rovistare da lontano.

Il valore dei metalli
Alla ricerca di metalli, prima di tutto. Perché sono l’oggetto abbandonato più prezioso. Si cercano, si raccolgono, si compattano e una volta in settimana – dipende da quanta fortuna hai avuto – si vanno a vendere agli smorzi o ai “Compro Rottami” della periferia romana. Certo il guadagno è sudato: il rame, il più pagato in assoluto, si vende a 3 euro al chilo. E mettere su un chilo non è proprio facile. Qualche serpentina, fili, per lo più pezzi di motori degli elettrodomestici. Poi vengono l’alluminio, a 50 centesimi, e il ferro, a 15-18 centesimi al chilo. Trovare questi è più semplice: oggettini, pezzi di mobili, materiale edilizio di scarto.

Mentre camminiamo ci chiama un uomo che sta rientrando a casa con le buste della spesa. Ha delle barre lunghe di alluminio, i profili che servono per fare i controsoffitti, avanzate dagli ultimi lavori in casa. Entrate, prendetele. Barre nuove, una dozzina. Camminare con il passeggino ora è un casino, ma il colpo è stato notevole. Ci chiediamo se l’interessamento e l’offerta siano dovuti anche alla nostra presenza (meglio un Rom da solo o un Rom accompagnato da tre perditempo dabbene?), ma Ion sostiene che capita a volte, dopotutto sono anche numerosi i casi in cui i raccoglitori forniti di furgone si sono organizzati in piccoli gruppi di Sgombero Cantine. C’è passato anche lui: bei tempi, dice, una volta abbiamo svuotato la cantina di una ricca signora, c’erano lampadari enormi, divani, tutta roba che abbiamo rivenduto esattamente così com’era.

Le notti al mercato
Insomma, metalli ma non solo. Vestiti, scarpe, padelle, un orologio rotto, due flaconi di shampoo. Qualsiasi cosa può essere raccolta, sottoposta a sommaria pulizia, qualche tentativo di messa a nuovo quando è rotta, e poi rivenduta. I mercati, quasi tutti illegali, sono decine in giro per la città.

Dove vive Ion ogni raccoglitore stipa il suo bottino in un magazzino, un pezzo di terra a cielo aperto diviso con una rete da quello del vicino. Passeggiarci ricorda vagamente quei giardini dei sobborghi residenziali americani, quando si svuotano le villette di tutte le cianfrusaglie e si offrono per qualche dollaro ai vicini. Prenestina’s suburbs.

Si accumula fino al sabato pomeriggio, quando si fa ordine, si sceglie cosa può essere venduto e ci si prepara per il mercato. Verso le due del mattino si parte per Tor Cervara a sistemare il banco, generalmente un telo steso per terra. Il mercato è un’ammazzata, dura tutta la notte di sabato e tutta la mattina di domenica, e coinvolge chiunque della famiglia possa parteciparvi. E gli avventori sono rom, ma anche negri, immigrati, e italiani, i gagè. Tutti alla ricerca del piccolo affare o del colpo di fortuna, dovuto a una svista dei raccoglitori: girano storie su piccoli tesori dimenticati in una vecchia borsa rivenduta per un paio d’euro senza averla nemmeno controllata prima, o di banconote dimenticate nelle tasche delle giacche o nelle tele dei materassi.

E se arrivasse il porta a porta?
Ennesimo cassonetto. Ion apre, sbircia, tasta, a volte si immerge. Se sente che potrebbe esserci qualcosa di interessante tira fuori le buste, le rompe e le svuota sull’asfalto del marciapiede. Fruga, cerca – toh, scarpe, i marocchini ci vanno matti, queste le rimettono a nuovo – poi raccoglie tutto e lo ributta nel cassonetto: quelli che si arrabbiano di più quando ci vedono sono quelli che urlano che lasciamo tutta la spazzatura in giro. Succede spesso? No, non così tanto. Di solito ci ignorano.

Fare il raccoglitore in questo periodo di grandi cambiamenti ti rende più precario del solito.

La gestione dei rifiuti a Roma vive da qualche anno la fibrillazione del cambiamento, saltando di sperimentazione in sperimentazione alla ricerca della giusta pratica. Ogni Municipio ha una sua politica, e la mappa del raccoglitore informale è in perenne cambiamento. La differenziata inizialmente ha facilitato il lavoro: permette di avere una prima selezione dei rifiuti, eliminando carta e cartone che, ormai è chiaro, non ci interessano. Certo restano i famigerati cassonetti gialli, quelli dei vestiti, intoccabili. Ma la vera spada di Damocle è la raccolta porta a porta, l’operazione che impedirebbe completamente il lavoro, dunque la sussistenza, di centinaia di famiglie.

E quindi? Bisogna trovare un’altra occupazione? Ion non sembra entusiasta all’idea

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Welfare, la sfida di Brescia: collaborazione e zero gare

Brescia si prepara a diventare la prima città italiana libera dalle gare d’appalto e dalla competizione al ribasso nei servizi sociali. Una novità che, se avrà successo, ha tutte le caratteristiche per fare scuola e rivoluzionare l’ambito dei rapporti tra le amministrazioni locali, i soggetti che operano sul territorio e le comunità. La parola chiave è «co-progettazione». Che significa: uscire da una logica in cui l’amministrazione comunale individua il bisogno del territorio e affida la gestione del servizio attraverso una gara, per passare a una prospettiva nella quale il Comune incentiva la comunità a progettare insieme e a collaborare.

A lanciare la sfida è l’assessore ai Servizi sociali e alla famiglia di Brescia, Felice Scalvini, 63 anni, uno dei padri della cooperazione sociale italiana e promotore di alcune delle più importanti iniziative di finanza per non profit. Il ‘cantiere’ è stato aperto un anno fa e merita di essere seguito, se non altro per la portata innovativa in un ambito, quello delle gare comunali per i servizi di welfare, che la cronaca recente – si pensi agli scandali di «Mafia Capitale» – ha mostrato aver bisogno di molta manutenzione.

Scalvini, che cosa vi ha spinti a lanciare l’obiettivo ‘zero gare’?
Il contesto è profondamente cambiato rispetto a un tempo. Facciamo un esempio classico, quello delle badanti: è un welfare fai-da-te che in una città come Brescia costa alle famiglie 40 milioni l’anno, più di tutto il bilancio dei servizi sociali del Comune, che è di 27 milioni. Di fronte all’emergere di bisogni nuovi si tratta di trovare nuove modalità di intervento per essere ancora più vicini alle necessità del territorio. Il welfare non può più essere una questione della sola amministrazione comunale, come vorrebbe una visione ideologica superata, ma è la città nel suo complesso, la comunità, che deve mobilitarsi e organizzarsi con le sue istituzioni e le sue realtà locali.

Da che cosa si deve partire per incominciare a cambiare approccio?
Il primo cambiamento è di mentalità. Il Comune deve favorire la collaborazione sul territorio, non la competizione, deve sviluppare cioè la capacità di lavorare insieme. Non si può chiedere ai soggetti del sociale di competere tra loro al massimo ribasso, magari tagliando le buste paga dei lavoratori o lesinando sui servizi che offrono. Non parliamo di eliminare i bandi, che sono il modo per chiamare a raccolta le disponibilità del territorio, ciò di cui vogliamo fare a meno sono le gare, e trattandosi di co-progettazione la normativa lo consente. Il primo passaggio è stato istituire un Consiglio di indirizzo del welfare cittadino, al quale partecipano i ‘portatori di bisogni’, cioè le famiglie, e i ‘produttori’, le fondazioni, le cooperative sociali, gli organismi di volontariato, le associazioni.

Quali sono i primi risultati? Può fare qualche esempio di cosa è cambiato?
Nell’assistenza domiciliare e nel sostegno multiprofessionale ai minori in difficoltà la prassi era indire una gara e poi acquistare ore-lavoro da alcune cooperative sociali che fornivano il personale per il servizio. Al nuovo bando hanno risposto le stesse tre cooperative di prima, ma è cambiato il modo di lavorare. Ci siamo messi a un tavolo insieme, il Comune ha indicato il budget a disposizione, e proprio in questi giorni abbiamo incominciato a ragionare su vari aspetti: le eventuali risorse aggiuntive delle cooperative, la possibilità di attirare altri finanziamenti, la ricerca di soluzioni nuove. Ora partirà una fase di lavoro per progettare insieme gli interventi necessari, con un orizzonte temporale di più di tre anni.

In questo processo scompare la competizione, che tuttavia può anche produrre efficienza e minori costi.
L’efficienza ha molti modi per declinarsi. Se non sono più in competizione tra loro le cooperative possono pensare di riorganizzarsi e anche fondersi per dare alla città soggetti molto più robusti e, soprattutto, specializzati su aree di bisogno e non sull’intermediazione di forza lavoro, capaci di risposte più complete. In questo senso l’amministrazione non ‘chiede’ più persone per fare, ma incentiva la qualificazione dei produttori. Il medesimo approccio di co-progettazione è applicato in diversi programmi rivolti ai giovani e per gli anziani di una zona. Stiamo anche lavorando per promuovere ‘punti comunità’ in ogni quartiere, gestiti in forma auto-organizzata dai soggetti sociali presenti e disponibili: l’obiettivo è ridisegnare le maglie della nostra presenza sul territorio in modo totalmente sussidiario. Un’altra novità riguarda le attività estive (Grest, camp, cre…), intendiamo dare alle famiglie un servizio di informazioni completo, così che sei mesi prima della chiusura delle scuole possano disporre di una grande guida di tutte le iniziative che la città offre per i loro figli, e magari un centro unico di iscrizione. Per farlo abbiamo chiamato a raccolta tutti i soggetti che organizzano centri estivi, associazioni, privati, parrocchie. Il processo ha spinto le realtà a incontrarsi, a riunirsi, a discutere tra loro per avviare forme di collaborazione. Questo è già un grande risultato.

La traduzione di certi principi richiede un cambio culturale forte. Come si comunica la novità e come si superano gli ostacoli?
L’intenzione è superare l’idea di amministrazione comunale come un Grande Vecchio che capisce i bisogni della gente e si preoccupa di ridistribuire le risorse dei cittadini affidandosi al meccanismo competitivo del libero mercato. La concorrenza non è necessariamente sinonimo di trasparenza e imparzialità. Si tratta di evolvere verso un meccanismo di collaborazione e dibattito nella comunità, dove la prima risorsa è la condivisione delle informazioni. Tutti i soggetti devono avere il massimo delle informazioni relative agli ambiti in cui operano, e tutti i buoni progetti dovrebbero essere messi in comune senza il timore che qualcuno li rubi, senza gelosie e con l’idea che insieme possiamo realizzare progetti migliori.

Che cosa la preoccupa più di tutto?
Da un lato si tratta di rimodellare la macchina pubblica, chiamata, nell’insieme e come singoli operatori, a saper svolgere una forte, costante e diffusa azione promozionale. Vi è poi la preoccupazione di fondo che il settore non profit, abituato a rapportarsi in termini competitivi sul territorio, fatichi ad aggiornarsi ora che è scoppiata la pace. Storicamente in Italia il mondo del sociale ha avuto due cattivi maestri: il primo sono le amministrazioni pubbliche, che troppe volte hanno generato relazioni solamente competitive o, peggio ancora, creato canali di relazione privilegiati e poco trasparenti, generando legami collusivi; il secondo è una certa cultura di management proposta al mondo cooperativo e al non profit, per la quale i bravi manager non devono tanto essere organizzatori di risorse e legami del territorio, ma piuttosto far crescere dimensioni e fatturati alla ricerca di presunte economie di scala. Questa impostazione, intrisa di una visione manageriale liberista, ha creato molte distorsioni e tanti problemi al sociale. Il welfare di un territorio ha invece bisogno di coprogettazione e collaborazione, perché questo non è un pezzo di mercato pubblico da conquistare. È per tale ragione che stiamo cercando di cambiare.

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CASE POPOLARI, COSÌ MILANO HA FATTO CRACK

Sprechi clamorosi, scelte dissennate e soprattutto un debito che sfiora il mezzo miliardo di euro. In base ad un report della società di revisione dei conti Bdo rimasto sino ad oggi riservato, sono queste le disastrose condizioni in cui si trova Aler, l’azienda regionale lombarda per l’edilizia popolare. Ben 28.748 unità abitative, si legge nel documento, stanno letteralmente cadendo a pezzi. Un quadro reso ancora più scandaloso in quanto emerge in concomitanza con il dramma degli sfratti e delle occupazioni.

Bocciatura senza appello dai revisori dei conti
di MARIA ELENA SCANDALIATO
MILANO – In Lombardia l’emergenza “casa” è in un vicolo cieco. E non sono gli sfrattati o i comitati degli inquilini a denunciarlo, ma la società di revisione BDO, che nel dicembre 2013 ha presentato alla Regione Lombardia una due diligence di oltre trecento pagine sui disastrati conti di Aler, (Azienda lombarda per l’edilizia residenziale), l’immobiliare pubblica più grande d’Italia e tra le maggiori in Europa.

Il documento – rimasto sino ad oggi riservato, ma di cui siamo riusciti a prendere visione – è stato richiesto dalla Commissione regionale d’inchiesta su Aler, i cui lavori saranno resi pubblici a breve. Il quadro emerso è quello di un colosso sull’orlo del fallimento, che necessita di un miliardo e 264 milioni “solo” per mettere a posto il suo patrimonio immobiliare. Una montagna di soldi che difficilmente saranno iniettati nelle sue casse vuote, gravate da un debito che oscilla tra i 345 e i 500 milioni.

Eppure l’emergenza “sfratti” (di cui Le Inchieste di Repubblica si è occupata recentemente) nasce soprattutto da lì. Dalle case popolari vuote (e inutilmente riscaldate) perché fatiscenti, prive di manutenzione e non assegnabili. A Milano ce ne sono 10mila: 7mila dell’Aler e 3mila di Edilizia residenziale pubblica (Erp). Su richiesta di BDO, Aler ha classificato i suoi immobili in base al livello di degrado, per valutarne le reali esigenze manutentive. Ebbene, le “unità abitative” con un livello di manutenzione “insufficiente” e “scadente” – dove urgono “interventi straordinari per prevenire stati di pericolo quali distacco e caduta di rivestimenti, folgorazione e intossicazione da monossido di carbonio” – sono ben 28.748 per 709 edifici, in buona parte a Milano.

Gli appartamenti in condizioni “mediocri” – dove comunque “non sono da escludere gli eventi indicati per i livelli insufficiente e scadente” – sono 16.214, per 446 edifici, al 44% a Milano. Gli stabili classificati come “buoni”, invece, sono solo 35. Un risultato sconfortante, in una città – Milano – dove 13mila sono gli sfratti in fase esecutiva, centinaia le famiglie già in strada e 23mila in lista per un alloggio popolare.

Fino al primo dicembre scorso, quando le 28mila case del Comune di Milano sono passate alla gestione di Metropolitana Milanese, Aler amministrava 73mila unità abitative, gran parte delle quali in pessime condizioni. Nel bilancio 2013 l’azienda regionale scrive chiaramente di non poter far fronte alle spese necessarie: “Risulta evidente che gli interventi di manutenzione straordinaria non possano essere finanziati se non tramite entrate straordinarie che derivino dalle vendite, in forte rallentamento; o da risorse da reperire sul mercato del credito, soluzione oggi impraticabile”.

E qui si apre il capitolo più scottante della recente gestione Aler. Per quale ragione l’Azienda lombarda non può chiedere prestiti alle banche? Perché, come emerge dalla due diligence, di prestiti ne ha chiesti fin troppi, e si è indebitata fino al collo. Al 30 giugno 2013 Aler aveva in essere ben 48 contratti di mutuo, per 255 milioni di euro. Finanziamenti richiesti per le più svariate ragioni: dalla realizzazione di nuove costruzioni fino alla manutenzione straordinaria e – addirittura – allo svolgimento delle attività correnti, ogni anno più dispendiose. Una montagna di soldi, chiesti a Intesa San Paolo (oltre 78 milioni), alla Banca Popolare di Sondrio (72 milioni, e l’istituto è anche tesoriere di Aler), al Monte dei Paschi di Siena (38 milioni), a Bnl (26 milioni), a Dexia Crediop Spa (sempre Bnl, per 17 milioni), alla Banca popolare di Novara (quasi 10 milioni), alla Cassa Depositi e Prestiti (quasi 9 milioni) e alla Popolare di Milano (oltre 4 milioni).

Questi contratti di mutuo sono in parte a tasso fisso, in parte variabile, ma ancor più interessante è che ad alcuni finanziamenti a tasso variabile – pari al 17% del totale, ovvero 45 milioni di euro – sono stati collegati dei prodotti derivati. Una scelta davvero incomprensibile, visto che, come scrive BDO, “il ricorso a contratti derivati non fa seguito a una logica uniforme”, e che “Aler non dispone di una procedura interna formalizzata relativa al loro utilizzo”. Soprattutto, i tre derivati – due con Intesa San Paolo, uno con Monte dei Paschi – si sono rivelati un magro affare: al 30 giugno 2013 avevano già provocato una perdita di quasi 6 milioni di euro; se Aler li volesse estinguere prima della loro scadenza, anche sulla scia dei pessimi risultati, dovrebbe sborsare 8 milioni. Cifra che, secondo BDO, “corrisponde al valore attuale degli oneri che deriveranno in futuro se tali contratti venissero mantenuti attivi”. I revisori, quindi, consigliano di pagare le penali e chiudere in fretta, rimettendoci complessivamente “solo” 14 milioni di euro.

I problemi, però, non finiscono qui. A garanzia dei prestiti ottenuti Aler ha messo il suo stesso patrimonio immobiliare: al 31 dicembre 2012 risultavano ipoteche sugli alloggi per un valore di 258 milioni di euro. Appartamenti (e terreni) a Milano, Rho, Lainate, Corsico, sul cui destino pende un grosso punto interrogativo. Ecco perché Gian Valerio Lombardi, presidente di Aler, la scorsa settimana ha annunciato la vendita di altri 10mila alloggi popolari: una parte sarà offerta in prelazione agli inquilini che li abitano, i restanti saranno messi all’asta. Una soluzione molto rischiosa e osteggiata, vista la fame crescente di alloggi a canone sociale. Vendere quelli esistenti, soprattutto all’asta, significa toglierli dalla disponibilità di chi ha bisogno. Con la prospettiva di ottenere comunque dei magri ricavi: nient’altro che gocce, nel mare di debiti in cui Aler sta affogando.

La voragine della controllata Asset
di MARIA ELENA SCANDALIATO
MILANO – Come e quando è nata la voragine finanziaria che rischia di inghiottire l’Aler? La risposta è nelle carte della due diligence: il 50% dei mutui è stato stipulato tra il 2006 e il 2007 e i derivati sono agganciati a finanziamenti decorsi tra il 2007 e il 2008. Lo stesso periodo in cui l’azienda intraprende una serie di avventure speculative che oggi pesano sui suoi bilanci come macigni. Basti pensare alle “figlie” di Aler (ora tutte in dismissione), delle quali Asset è la più conosciuta.

Asset è una società controllata al 100% da Aler, creata nel 2005 con finalità che vanno dall’acquisto di terreni alla costruzione, vendita e commercializzazione di immobili, compresi alberghi, centri commerciali, turistici, industriali e ricreativi. Ci si potrebbe chiedere cosa abbia a che fare tutto ciò con l’edilizia popolare. Tuttavia, la certezza che le cose non quadrano sta, come sempre, nei numeri. Dall’inizio, proprio per le finalità speculative previste, Asset acquista una serie di immobili e terreni a Milano e in provincia. Una delle principali operazioni è quella di Pieve Emanuele, nel parco Sud di Milano, dove acquista dall’Enpam (Ente nazionale previdenza medici e odontoiatri) diversi stabili per ristrutturare e vendere alloggi di edilizia pubblica. Per farlo stipula mutui con Intesa San Paolo per 32 milioni di euro, accompagnati da 41 milioni di finanziamento regionale.

Nel 2009, invece, acquista a Garbagnate Milanese un complesso immobiliare interamente destinato alla vendita; anche qui, Asset chiede un mutuo alla Cassa di risparmio di Parma e di Piacenza per 29 milioni di euro, che verranno seguiti da altri 7 milioni nel 2012, per l’acquisto di terreni sempre a Garbagnate (stavolta chiesti a Bnl, finanziamento cui è collegato un derivato). Tra un’operazione e l’altra, Asset si indebita per 66 milioni. Ebbene, a fronte dell’impegno gravoso, che ne è stato delle operazioni previste? Nulla. Ovvero: a Pieve, l’area acquistata non è stata riqualificata, mentre gli appartamenti di Garbagnate non sono stati venduti a causa della crisi. Non solo: a Pieve, Asset ha dovuto demolire a sue spese (con un prestito da Aler di 1,5 milioni) alcuni degli immobili acquisiti, deteriorati a causa del prolungato abbandono.

Dal 2010 a oggi Asset è sempre stata in perdita e Aler ha dovuto ripianarne i buchi con oltre 11 milioni di euro. Tutto perché la controllata è stata utilizzata come una privatissima società immobiliare, i cui investimenti azzardati, però, erano garantiti da soldi pubblici. Nel 2007, addirittura, Asset si è avventurata nella Libia di Gheddafi, in cerca di opportunità speculative; acquisì una partecipazione in Finasset, società che nel paese arabo doveva occuparsi di ristrutturare palazzi ed edifici storici con commesse presidenziali. Anche in quel caso l’operazione è stata un flop con cui Asset ha perso centinaia di migliaia di euro. Senza contare le scelte che la stessa due diligence non riesce a spiegarsi: ad esempio, quella di dare in outsourcing il servizio paghe e contributi di Aler.

Nel 2010 l’azienda regionale appalta questa funzione ad Asset, dietro un compenso di un milione di euro annui. Asset, a sua volta, subappalta il servizio alla sua controllata Cispel Lombardia, pagando 558mila euro. Scrive BDO: “Aler sopporta un maggiore onere pari a 442mila euro […]. Si sottolinea che Asset funge da puro intermediario”. Perché buttare 442mila euro annui? Chissà. Acrobazie contabili, queste, che si ritrovano sparse un po’ ovunque, tra controllata e controllante. Di fatto, il “gioco” è in forte perdita per Aler, che per Asset ha prestato garanzie pari a 145 milioni di euro, di cui 40 milioni si riferiscono a ipoteche su immobili di Milano.

Pensioni fantasma e sprechi in outsourcing
di MARIA ELENA SCANDALIATO
MILANO – Tra le carte a disposizione della Commissione d’inchiesta regionale spunta poi l’ennesimo mutuo (30 milioni di euro) chiesto a Bnl per il fondo pensione integrativo dei dipendenti Aler. Alla fine degli anni ’80 i dipendenti Iacp (Istituto autonomo case popolari, predecessore di Aler) furono chiamati a scegliere se lasciare i contributi presso l’Inps o presso l’Istituto Nazionale previdenza e assistenza dipendenti pubblici. Dato che chi aveva scelto l’Inps rischiava un trattamento svantaggioso, si decise di creare un fondo pensione integrativo, che negli anni, però, fu contabilizzato da Iacp e Aler solo su carta. Nel 2011, invece, l’azienda lombarda fu costretta a versare effettivamente la somma, ricorrendo ai 30 milioni di mutuo concessi da Bnl, messi su un conto vincolato. Ebbene, Iolanda Nanni, consigliera regionale e membro della Commissione di inchiesta sull’Aler, assicura che “il fondo non è ancora stato costituito”, mentre i 30 milioni del mutuo costano “500mila euro di interessi passivi ogni anno”. Di conseguenza, dal 2011 a oggi si sono pagati e si continuano a pagare interessi a vuoto, senza che i dipendenti abbiano visto maturare le loro pensioni integrative.

Per non parlare delle esternalizzazioni. Aler, negli ultimi anni, ha speso ingenti risorse affidando all’esterno – nonostante i 1200 dipendenti – una serie di servizi. Oltre alle paghe e ai contributi sono stati ceduti in outsourcing il servizio di tesoreria (affidato alla Banca Popolare di Sondrio, con cui Aler ha un mutuo da 72 milioni), quello di riscossione crediti e quello di manutenzione del data center (costo 220mila euro alla fine del 2013) e delle postazioni di lavoro dei dipendenti. In particolare, quest’ultimo servizio costa ad Aler 400 euro l’anno a dipendente (quindi 480mila euro annui): una cifra che si potrebbe tranquillamente risparmiare utilizzando l’ufficio informatico interno.

Conti sballati e dirigenti intoccabili
di MARIA ELENA SCANDALIATO
MILANO – Come dimostra il caso Asset, dalla metà degli anni Duemila Aler ha assunto una mentalità speculativa, lanciandosi nella compravendita di aree e immobili. Una scelta che ha sottratto centinaia di milioni al vero core business dell’azienda regionale: offrire affitti popolari a chi non può reggere i prezzi di mercato. Oggi Aler è quasi fallita e l’emergenza abitativa rischia di esplodere in piena Expo. La consigliera regionale del M5S Jolanda Nanni denuncia che “nel 2018 la Lombardia avrà bisogno di 400mila alloggi pubblici e ad oggi Aler ne ha appena 160mila”. Una situazione da risolvere urgentemente, anche se non sembra essercene l’intenzione: “Il piano di risanamento di Aler ci sarebbe, ma è fermo in giunta regionale da mesi”.

Difficile individuare i responsabili: allora (come oggi) Regione Lombardia era governata dal Centrodestra, in particolare dal ventennale governatore Roberto Formigoni, la cui giunta si era spartita le poltrone di Aler come di altri enti. Con Maroni, in carica dal 2013, le cose non sono cambiate. “Aler è sempre stata una cassaforte per la regione, la vicenda di Pieve Emanuele ne è la prova”, ci ha confidato un ex manager dell’azienda che vuole rimanere anonimo. Stando alla sua ricostruzione, l’idea di acquistare quei terreni nacque quando la Regione stava costruendo la sua nuova sede (il Pirellone bis). Allora, alcuni uffici regionali pagavano un affitto molto salato all’Empam per un complesso di edifici tra via Pola, via Rosellini e via Taramelli. Si pensò a una sorta di do ut des: la Regione, tramite Aler e Asset, si sarebbe “accollata” le aree di Pieve Emanuele, che Empam non sarebbe mai riuscito a vendere; in cambio, l’ente avrebbe ceduto alla Regione, a un prezzo molto basso, gli immobili dove gli uffici regionali erano in affitto.

“Altra operazione esemplare è quella di Arconate”, continua l’ex manager. “Nel 2010 Aler acquistò dei terreni proprio in quel comune, per costruire appartamenti di edilizia convenzionata. Accese un mutuo da un milione e duecentomila euro, nonostante avesse già accumulato debiti su debiti”, spiega l’amministratore. “Sapete chi era sindaco di Arconate, allora? L’attuale assessore alla sanità lombarda Mario Mantovani, del Pdl. La cessione di quei terreni rappresentò un vero affare per la sua amministrazione, proprio mentre si preparavano le elezioni che l’avrebbero riconfermato sindaco. Per Aler, invece, fu un magro affare: ad oggi degli appartamenti non c’è l’ombra, mentre gli interessi del mutuo continuano a correre”.

Tra gli amministratori dell’azienda, però, c’è un solo nome che ricorre sempre e ovunque: è quello di Domenico Ippolito, avvocato entrato in Aler nel lontano 1991 per non uscirne più. Lo troviamo prima come responsabile amministrativo, poi come direttore del personale e infine come direttore generale, funzione chiave che riveste dal 1999. Lo scorgiamo, ancora, in Asset dal 2005 come amministratore delegato e in Csi (altra controllata Aler) sempre come amministratore delegato.

Si potrebbe pensare a un manager di altissimo livello, considerata la fiducia reiteratagli (e gli stipendi accumulati). In realtà, i risultati dicono altro. Non solo: Aler in questi anni è stata scossa da numerose inchieste, tra cui quella del 2012 sui voti che l’ex assessore regionale alla Casa Domenico Zambetti avrebbe comprato dalla ‘ndrangheta, promettendo ad esponenti delle cosche appartamenti e posti di lavoro in Aler. Teresa Costantino, figlia del presunto boss Eugenio Costantino, nel 2011 venne contattata personalmente dalla segretaria di Ippolito, Monica Goi, e assunta dall’azienda proprio presso la Direzione Generale. Nelle intercettazioni citate dal pm Giuseppe D’Amico, Teresa raccontava al padre: “… Probabilmente mi mettono alla Direzione Generale…[la segretaria, ndr] ha detto che domani ne parla con il direttore generale […] e poi mi fa scegliere dove andare”.

In merito, Ippolito ebbe a giustificarsi davanti alla commissione antimafia di Milano dicendo che non esistono aziende pubbliche o private in cui non ci siano “referenzialità”, ovvero segnalazioni “particolari”. Nonostante questo e altri nubifragi piovuti su Aler, che hanno portato al commissariamento dell’azienda, Ippolito, che inizialmente era stato rimosso, lo scorso marzo è tornato in pista come direttore degli Affari generali.

Quei 5 miliardi per l’edilizia sociale mai usati
di PETER D’ANGELO
ROMA – L’emergenza abitativa è fuori controllo. Le case perse e messe all’asta: un bollettino di guerra. Tutto questo è ancor più paradossale se si è difronte ad un mole antonelliana di fondi disponibili, oltre 5 miliardi in tutto. Sì, i soldi ci sono. Eppure non vengono usati. Esistono varie tipologie di fondi vincolati all’Edilizia popolare, alcuni noti a pochi altri solo agli addetti ai lavori. Iniziamo da quello a disposizione delle Regioni: il Fondo “Ex-Gescal”, rimpinguato dalle tasche dei lavoratori fino al 1996. Questo fondo risulta vivo sul C/c 20128 della Cassa depositi e prestiti e dalle ultime ricognizioni del 2014 ha ancora a disposizione, tra giacenze (965 milioni di euro) e competenze, ovvero soldi assegnati ma non ancora spesi, (1.537 milioni di euro), circa 2,5 miliardi di euro. Soldi totalmente destinati all’edilizia agevolata. Alcune Regioni li hanno usati, altre invece questi soldi li hanno lasciati fermi da oltre 14 anni.

“Questi soldi sono fermi dal 1996, sul conto corrente della Cdp”. Non ci gira intorno Angelo Fascetti, dell’associazione inquilini Asia-USb. “Se non vengono usati – spiega – è per non fare concorrenza all’edilizia privata”. Le regioni meno virtuose sono la Puglia con 333 milioni da spendere e altri 360 milioni assegnati ma non ancora utilizzati. Segue la Sicilia con 254 milioni tutti da spendere, e altri 259 pianificati ma non spesi. E non mancano tra le altre il Lazio con 191 milioni, la Campania con 131 milioni dove l’emergenza abitativa azzanna la tenuta del tessuto sociale.

A queste somme ingenti vanno poi aggiunte quelle di un altro fondo sottoutilizzato, il Fondo Investimenti per l’Abitare, istituito da CDP Investimenti Sgr a fine 2009. L’obiettivo del Fia è quello di investire nel settore dell’edilizia privata sociale per incrementare sul territorio italiano l’offerta di alloggi per la locazione a canone calmierato e la vendita a prezzi convenzionati. Le risorse a disposizione sono pari a 2 miliardi e 28 milioni di euro, di cui 1 miliardo sottoscritto da Cassa depositi e prestiti, 140 milioni dal ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e 888 milioni da parte di gruppi bancari e assicurativi e di casse di previdenza privata. Sul sito istituzionale, CDP Investimenti Sgr informa che, per conto del Fia, ha assunto delibere definitive d’investimento per 1,18 miliardi di euro, mentre sono inutilizzati 1 miliardo e 10 milioni di euro.

Altro capitolo dei soldi per risolvere la crisi degli alloggi mai utilizzati è quello targato Bruxelles. Nell’ambito dei programmi dei fondi strutturali europei 2014-2020, secondo le stime dell’Associazione Nazionale Costruttori Edili, realizzate sulla base dei documenti sottoscritti tra governo e Ue a ottobre 2014, le risorse destinate ad interventi di riduzione del numero di famiglie con particolari fragilità sociali ed economiche in condizioni di disagio abitativo ammontano a circa 768 milioni di euro. A queste risorse, derivanti dai programmi dei fondi strutturali europei, si potrebbero aggiungere ulteriori risorse prelevabili dai 39 miliardi di euro del Fondo nazionale per lo sviluppo e la coesione.

Grazie ai fondi strutturali europei Varsavia ha cambiato faccia, una rivoluzione copernicana che attraverso l’edilizia ad alta inclusione sociale ha permesso di arginare l’emergenza abitativa. Ma l’Italia, con la quota di edilizia pubblica più bassa d’Europa (siamo al 3,5% degli alloggi) farebbe bene a prendere esempio anche dalla Germania, dove con difficoltà riescono a capire il significato della parola “sfratto”. “Secondo la legge, i comuni sono obbligati a prevenire i senzatetto mettendo a disposizione gli alloggi”, spiega Ulrich Ropertz dell’Associazione inquilini tedeschi. Con il risultato che in Germania, così come in Francia e in Olanda, la percentuale di edilizia pubblica è superiore al 20%.

Dal ministero delle Infrastrutture chiariscono che “dall’agosto 2013 ad oggi sono stati approvati 19 provvedimenti che riguardano la casa per uno intervento globale tra stanziamenti e defiscalizzazioni di circa 2 miliardi e 600 milioni di euro”. Entrando nel dettaglio si vede che di questa somma, ben 2 miliardi di euro sono stati messi a disposizione dalla Cassa depositi e prestiti per tutelare le banche nella concessione dei mutui agevolati, compresi quelli dedicati alle giovani coppie sotto i 35 anni e alle famiglie numerose. Possibilità di finanziamento che le banche hanno sponsorizzato con il mal di pancia. “Con la fame di casa che c’è in molti grandi centri urbani a partire dalla Capitale, questi fondi giacciono inoperosi tra freni burocratici e disinteresse delle banche – denuncia Furio Truzzi di Assoutenti – Qualcuno di voi ha visto spot a sostegno? Una campagna di comunicazione adeguata? Meglio tacere”. Stesse critiche mosse da Marco Paccagnella, presidente di Federcontribuenti. “Le banche – afferma – pur avendone il compito non hanno pubblicizzato ai clienti la possibilità di usufruire di questi mutui agevolati, preferendo spingere mutui ad alto guadagno per le banche stesse”. Critiche su cui abbiamo chiesto invano di conoscere la versione dell’Associazione banche italiane.
I colpevoli vanno cercati al Pirellone

di GIUSEPPINA PIANO

MILANO – Un ex presidente già fedelissimo di Craxi, il socialista Loris Zaffra, rispuntato dalle nebbie della Milano da bere in casa Forza Italia e chiamato nel 2008 da Formigoni alla guida del colosso dell’edilizia pubblica. Manager equamente divisi, ed ecco tra i tanti con il cuore a destra Marco Osnato, genero di Romano La Russa, fratello del sempre presente Ignazio. Un cattolicissimo ex democristiano come Domenico Zambetti, anche lui arrivato nel Pdl, che da assessore regionale alla Casa finì in guai tanto seri da innescare la valanga che portò alla fine del regno ventennale di Formigoni. Ci sono le tante anime della famiglia centrodestra, nell’album delle foto simbolo del carrozzone Aler.

Una storia che oggi finisce nel disastro, con il colosso che gestisce 80mila case popolari tra Milano e hinterland in profondo rosso. Solo il denaro iniettato dalla Regione Lombardia l’anno scorso l’ha salvato dal fallimento, permettendo di pagare fornitori e stipendi, perché un’azienda pubblica come questa non può dichiarare bancarotta. Ma ora il governatore Maroni deve fare il miracolo: far decollare il piano di salvataggio, con soldi pubblici da una parte e una robusta vendita di quasi 10mila alloggi agli inquilini e al mercato. Un’asta sulle case che “rappresenta il primo passo che consentirà il concreto avvio del risanamento aziendale”, ha spiegato il presidente del collegio commissariale Gian Valerio Lombardi. “Aler – ha aggiunto – percepirà risorse da reimpiegare nelle attività di manutenzione, alleggerirà i costi di gestione attraverso l’estinzione dei condomini misti e, infine, offrirà l’occasione di diventare proprietari a condizioni particolarmente agevolate”.

L’azienda dipende dal Pirellone, ed è lì che bisogna guardare per ricostruire la storia recente. A quella Regione governata dal 1995 al 2013 dal centrodestra di Formigoni detto il Celeste. L’Aler è sempre stata terreno di pascolo della politica, tra spartizioni e clientele, safari elettorali e amnesie, tra i 1.200 dipendenti e i sei milioni di euro in consulenze bruciati tra il 2009 e il 2013. Toccava alla Regione scegliere i vertici, e toccava alla Regione dare strategia e far funzionare i controlli. Ma nell’ultimo decennio molto non deve avere funzionato, se i conti di oggi inchiodano all’impietoso crack. Ai 4mila appartamenti occupati abusivamente, tra case di proprietà dell’Aler e case del Comune che l’azienda gestiva fino a due mesi fa quando il sindaco Pisapia, convinto che l’avvilente situazione dei palazzoni popolari non potesse andare oltre, ha deciso di riprendersele. Un divorzio perché “gravi problemi di gestione e manutenzione rimangono irrisolti”, ha detto il sindaco succeduto al centrodestra di Letizia Moratti.

Crack economico, abusivi, ma anche 9mila alloggi vuoti tra Erp e demanio comunale perché così malmessi da non poter essere affittati. E 23mila famiglie in lista d’attesa per una casa popolare. I numeri del caso Milano sono questi. E dicono che negli anni il carrozzone Aler è finito fuori strada, mentre la politica distrattamente o colpevolmente non ha fermato il declino.

Era da poco arrivato nell’ufficio nobile di Palazzo Lombardia, Roberto Maroni, quando fece suonare l’allarme rosso: l’Aler rischia il fallimento. Un’operazione verità non rinviabile, insieme al benservito a Zaffra sostituito dal commissario plenipotenziario Gian Valerio Lombardi, già prefetto di Milano. Ma forse anche un sapiente gioco d’anticipo nel nome della “discontinuità”, per cercare di far uscire la sua Lega da quell’album di famiglia.

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Start up innovative

online i moduli per presentare la domanda.

Sul sito Smart&Start la guida alla compilazione delle domande da inviare dal 16 febbraio.

E’ online la documentazione e tutte le informazioni necessarie per la richiesta delle agevolazioni al programma di incentivazione Smart&Start da 200 milioni di euro destinato alle start-up innovative.

Nella nuova sezione attivata ieri si trovano i moduli da compilare off line e caricare sulla piattaforma, assieme al business plan, dal 16 febbraio 2015 per l’ammissione alle agevolazioni.

Le informazioni richieste per la presentazione del piano d’impresa e della domanda di agevolazione sono diverse per una start-up innovativa già costituita o per una start-up che deve nascere; di conseguenza anche la modulistica sarà diversa a seconda che si tratti di società costituita o non ancora costituita.

E’ possibile trovare anche un facsimile di domanda, ovvero un pdf che evidenzia tutte le informazioni che verranno richieste al momento della compilazione della domanda digitale.

Infine è presente un’utile guida alla compilazione della domanda per consentire agli utenti una corretta stesura della richiesta.

Smart&Start Italia consiglia di approfondire questa documentazione così da redigere la domanda in maniera completa e corretta ed avere accesso alle agevolazioni.

Inoltre si precisa che il 16 febbraio non è un click day, ma solo la data d’inizio per l’invio delle richieste; perciò non bisogna compilare i moduli con fretta a discapito della completezza delle informazioni.

Tutti i business plan ricevuti da Smart&Start Italia saranno valutati in base all’ordine di arrivo.

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