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Street Art a Roma. l’altro turismo

È una mappa in movimento: mutante, mercuriale, imprevedibile. Cambia di giorno in giorno, anzi dalla notte al giorno. Alzi gli occhi e l’intera facciata di un palazzo ha un altro volto, senso, aspetto. Roma è arrivata tardi rispetto alle altre capitali europee ma oggi è una delle città più sintonizzate sui fermenti della arte pubblica urbana. Un museo a cielo aperto, muri che parlano, quartieri trasformati da artisti di livello internazionale.

Si chiamano Blu , Borondo , Roa , Sten & Lex , Agostino Iacurci , Mr. Klevra , Seth , Lucamaleonte , Tellas , Philippe Baudelocque , Herbert Baglione , Omino71 . Una lista parziale, in continuo divenire, che si accresce grazie a contributi che si intersecano, talvolta in contraddizione, talaltra in aperto conflitto. Tra di loro c’è chi ha scelto la via antagonista della creatività come logo politico, fieramente illegale, senza passaporti, bolli, accrediti ufficiali. Altri invece dialogano con le istituzioni e sul crinale complesso del “media-messaggio” si rivolgono a un pubblico globale, incarnando più istanze. Sia come sia è una vivacità insperata in una metropoli sostanzialmente conservativa come questa, poggiata con statica mollezza su sé stessa e sulla retorica della Caput Mundi.
Benvenuti allora. Benvenuti nell’altra Roma, quella che si batte e combatte. Ieri quasi ghetto, oggi quasi centro nel divenire fluttuante di una città che non ha più ceti sociali ma strappa le distanze, le riduce, le ricuce in forma di grotteschi paradossi, si cresce addosso. Una tavolozza da occupare fuori e dentro i 68,2 chilometri del Gra, Grande Raccordo Anulare, la cinta che dovrebbe contenere senza riuscirci i fianchi dell’Urbe, creatura bulimica che straborda metastatica verso i caselli autostradali, i Castelli, il mare: hinterland perpetuo Gli artisti urbani, attraversando questa Roma mastodontica, le restituiscono in fondo un’interezza smarrita: la possiedono, ne narrano le contraddizioni e le schizofrenie, ne ridisegnano la geografia usando spray, texture, carte veline, stencil, sticker, oppure litri di tempere, acrilici, pennarelli, gessi. Rivoluzione centripeta. Avanguardie dinamiche sostenute da gallerie di creativi come Wunderkammern o 999 Contemporary , oppure che trovano casa, asilo concettuale, rifugio e paradigma sociale nell’unico museo abitato/occupato: il Maam , luogo di frontiera rispetto all’arte ufficiale.
Fuori e dentro. Ogni artista qui ha il suo segno, come un marchio. Realizzano opere destinate a sgretolarsi, alla mercé dei tag dei writers, dei manifesti pubblicitari, dello sfregio o degli agenti atmosferici, ma che sopravvivono sul web anche quando vengono cancellate grazie a foto e video. Arte come atto di rivolta e denuncia, gesto anarchico coniugato al plurale, creatività nata senza mercato e che tuttavia qualcuno cavalca e che fa gola ai mercanti. Arte che ha fatto i conti con denunce, censure, multe e che adesso le amministrazioni hanno sdoganato per colorare pezzi di città, riqualificare l’edilizia popolare, cambiare le prospettive in quartieri dimenticati come San Basilio o Tor Marancia . I risultati sono stupefacenti e spesso realizzati di concerto con chi abita i palazzi dell’Ater, quel popolo di lotte per la casa che ha guadagnato ogni centimetro di tetto sopra la testa attraverso battaglie memorabili, deportazioni, occupazioni, liste, fatica. Dunque Roma ha oggi molte nuove pelli da mostrare. Tanto che anche il turismo d’élite se n’è accorto e cerca oltre il centro-cartolina. Cerca e trova murales immensi, opere minimali, segni da ammirare, fotografare, vedere. E farsi raccontare. Testaccio, Ostiense, Quadraro, Pigneto, Casilina, San Lorenzo, San Paolo, Tor Bella Monaca, Ottavia, Trullo. Avanti il prossimo. Più è periferia, più c’è spazio per dire una storia, interpretare una metafora. Se ne sono accorti i tipi di NotForTourist , agenzia di viaggi specializzata in tour alternativi che organizza visite guidate nelle zone più “calde” dell’arte di strada romana. Esattamente come accade a Berlino, Londra, New York o Parigi. Nessun finto centurione, zero souvenir, un’altra città. C’è richiesta, e loro la soddisfano. Su TripAdvisor gli escursionisti commentano soddisfatti. Scrive FrancYTravel: “Il tour è stato interessante e stimolante… camminando nei quartieri di Ostiense e Garbatella abbiamo scoperto, grazie alla nostra guida, degli angoli nascosti in cui l’arte, libera di esprimersi, è alla portata di tutti. Il percorso era ben organizzato e ci ha permesso di ammirare davvero tanti tesori! Sicuramente lo raccomando per conoscere una Roma diversa e speciale”. Stanchi del Colosseo o di Fontana di Trevi? Provate con Blu al Porto Fluviale. Spiega bene il senso e il concetto David Diavù Vecchiato, artista e insieme curatore del M.U.Ro. Museo di Urban Art al Quadraro che semina colori fino a Borghesiana, Torpignattara, piazza Epiro : “ Dove si dipingono murales si verifica una riappropriazione da parte dei cittadini di territori e spazi spesso dimenticati e lasciati all’incuria. C’è inoltre riappropriazione del concetto stesso di arte, perché possono trovare opere in strada anche coloro che non sono avvezzi a visitare musei e gallerie. E anche gli artisti si riappropriano di qualcosa. Di un ruolo sociale che deve saper creare partecipazione, condivisione, dibattito”. Includere, tracciare linee, riannodare identità. Il M.U.Ro. è visitabile passeggiando, oppure in bici, o grazie a pacchetti speciali pensati per le scolaresche . Fate voi. L’associazione “ Roma a piedi ” naturalmente propone itinerari “per chi viaggia con lentezza”. Sul sito è scaricabile gratuitamente un kit di sopravvivenza che offre consigli e percorsi anche per chi desidera approcciare la street art romana. Così complessa, variegata, esplosiva. Gli ideatori di APPasseggio hanno fatto di più: con il il sostegno dei Go Teller, guide intelligenti e di alto livello, hanno mappato l’arte urbana nei vari quartieri, e creato itinerari appositi, ricchissimi di contenuti, storie, aneddoti. Molti gli incontri anche gratuiti che organizzano. Basta cercare in Rete, le proposte sono molte. Perché sappiate che a Roma c’è un’altra Roma. È una città che ha respiro lungo, ley-lines cangianti. È marginale, furiosa, graffia ogni centimetro a disposizione, ruba spazi, guarda in alto, aggredisce il cielo. Ed è fatta di muri che non dividono.

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Frutta urbana

Preservare gli alberi da frutta in ambito urbano, nelle proprietà pubbliche e private;
Aumentare il numero di alberi da frutta nella proprietà pubblica, privata e nelle scuole;
Documentare una parte del patrimonio botanico della città grazie alla mappatura e all’identificazione degli alberi da frutta lungo le strade, nei parchi, nei giardini pubblici e privati;
Sviluppare attività di cura e potatura degli alberi da frutta e ridurre l’impatto di malattie e parassiti utilizzando metodi biologici;
Aumentare la quantità di frutta raccolta a beneficio della comunità, sviluppando e promuovendo delle azioni collettive;
Distribuire gratuitamente la frutta raccolta sviluppando collegamenti tra chi ha la frutta e chi ne ha bisogno;
Creare comunità, rinforzando le connessioni tra le persone e organizzando interventi ed eventi collettivi sulla cura, la raccolta e la conservazione della frutta;
Creare occupazione durante i periodi di raccolta e distribuzione della frutta e affidando la manutenzione ordinaria e straordinaria dei frutteti a figure professionali che coordinino il lavoro dei volontari.

Reintrodurre nel suo ambito d’elezione una delle tessere di paesaggio periurbano più tipico del bacino del Mediterraneo: il frutteto promiscuo.
Reintrodurre i valori ecologici, di cui i frutteti sono portatori (servizi ecosistemici, aumento della complessità di specie e di habitat, nonché della resilienza dell’ecosistema urbano).
Reintrodurre i valori culturali di cui i frutteti sono portatori (saperi agronomici, botanici, gastronomici, di educazione alimentare e di condivisione)
Creare di una rete di frutteti urbani integrando quelli nuovi e quelli preesistenti, mappandone gli elementi a tutte le varie scale, in tutte le configurazioni spaziali e le fasi storiche per creare un pomarium urbano diffuso,
Diffondere e salvaguardare l’ampia biodiversità del nostro territorio, recuperare frutti e sapori antichi, creare di nuove aree verdi a bassa manutenzione, ma con un importante ruolo nell’ecosistema urbano.
Proporre alle scuole e a chi fosse interessato una didattica nuova, ricca di storia, tradizioni e cultura.
Sensibilizzare l’opinione pubblica sui temi della sicurezza alimentare e sulla riduzione dell’impatto ambientale negativo legato alla produzione convenzionale della frutta.

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Edilizia: nuovi modelli unici semplificati per CIL e CILA

I nuovi modelli sono stati redatti in conformità alla nuova Legge 160/14 che ha modificato l’intervento edilizio relativo alla Manutenzione Straordinaria. In particolare con la nuova normativa è possibile il frazionamento delle unità immobiliari anche con l’aumento della SUL e l’accorpamento con aumento del carico urbanistico. Quindi la Manutenzione Straordinaria ora prevede interventi edilizi che sono anche onerosi. Nel caso di Roma Capitale oltre agli oneri concessori, nel caso di aumento del carico urbanistico, è necessario calcolare gli oneri della monetizzazione calcolati in base alla deliberazione di C.C. n. 73/2010.
Con la vecchia procedura questo era possibile sono con la presentazione della DIA al municipio di appartenenza, attendere 30 gg. per l’inizio dei lavori. Ora la CILA elimina i tempi di attesa per l’inizio dei lavori, riduce i costi relativi ai diritti di segreteria e rende più snella la procedura per il cittadino in quanto nei modelli è stata eliminata la dimostrazione della legittimità del fabbricato poichè i titoli edilizi essendo in capo all’A.C. non devono essere più forniti dal cittadino.
Pertanto la nuova modulistica è più gravosa per l’Amministrazione Comunale, in termini di verifiche tecniche ed amministrative, in quanto dovrà verificare in tempi stretti se la documentazione è completa, se devono essere acquisiti pareri di Enti alla tutela dei vincoli, e se l’immobile risulta legittimo. Ciò comporta che i Municipi dovranno modificare la loro organizzazione a tal fine.

La nuova modulistica qui pubblicata è attualmente in fase sperimentale presso i Municipi ed entrerà in vigore a partire dal 1 marzo 2015.

Documenti scaricabili:
modello-cil
modello-cila

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La carta dei giardini urbani condivisi

La diversità botanica, sociale, culturale è un valore importante da difendere e una risorsa per l’arricchimento del vivere urbano. Così come per la natura, anche la società e la cultura si evolvono da sempre in una dinamica continua, riflettendo esigenze, sinergie, esperienze sempre diverse. Di conseguenza anche l’identità dei luoghi è legata a processi evolutivi in divenire e quindi a un cambiamento continuo.

Nel 2001, l’UNESCO ha ampliato il concetto di sviluppo sostenibile indicando che “la diversità culturale è necessaria per l’umanità quanto la biodiversità per la natura […] È una delle radici dello sviluppo inteso non solo come crescita economica, ma anche come un mezzo per condurre una esistenza più soddisfacente sul piano intellettuale, emozionale, morale e spirituale”. (art 1 e 3 della Dichiarazione Universale sulla Diversità Culturale, UNESCO, 2001).

Attraverso la valorizzazione della diversità, si può creare una nuova cultura del giardino insieme a un nuovo linguaggio per la convivenza civile e l’abitare. Crediamo quindi nell’importanza del rispetto di tutte le culture per rinforzare la condivisione e la partecipazione degli spazi pubblici della città.

Promuovere i valori della biodiversità e quindi dell’eterogeneità ambientale, favorisce una maggiore eterogeneità sociale: in un sistema multiculturale, come quello in cui viviamo, è fondamentale trovare metodi e tecniche per parlare a tutto il mondo.

Una nuova tipologia di giardino deve potersi esprimere in maniera irregolare, in costante evoluzione, in modo non ripetitivo, per diventare un vero e proprio laboratoro socio-culturale di sperimentazione e qualità. Lontano dalla ricercatezza e dal conformismo del giardino pubblico tradizionale o dalla maglia fissa e geometrica degli orti urbani comunali.

Nel giardino multietnico, fondato sulla comunicazione e sull’appartenenza, è importante lasciare spazio alla creatività e all’inventiva che si modellano sullo spirito dei luoghi e su chi li abita. Nella precarietà e nella marginalità si esprimono una libertà creativa assoluta e una ricchezza di valori sperimentali, non contaminati e non convenzionali, che sono un’inesauribile fonte di risorse e di soluzioni tecniche ed estetiche.

È importante difendere questi valori per migliorare l’ambiente, per le generazioni presenti e future, attraverso idee e progetti innovativi, punto di partenza per pensare e ri-pensare alla sostenibilità sociale e ambientale della città.
Nuovi giardini devono poter creare una rete di connessioni urbane per inserire la natura in città e con l’obiettivo di far crescere la città in sintonia con questi obiettivi.

Per questi motivi anche Linaria è un’organizzazione in costruzione permanente e in continua evoluzione. Non vuole offrire solo i risultati compiuti di una ricerca o di un progetto, ma indicare possibili terreni di indagine e nuovi strumenti che siano conformi a un oggetto, il giardino, il paesaggio, la città, in costante divenire.

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Federica Galloni risponde. Prima intervista al direttore generale per l’arte contemporanea

Artribune domanda, il Direttore Generale per Arte e Architettura Contemporanee e Periferie Urbane del Ministero per i Beni Culturali risponde”. Così scrivevamo il 6 febbraio, pubblicando le risposte di Federica Galloni ad alcune domande raccolte da vari operatori dell’arte durante ArteFiera a Bologna. Le ritrovate qui, insieme ad altre cinque domande e altrettante risposte. Se sarà adottata la medesima rapidità nella pratica, non possiamo che aspettarci grandi cose…

Quali sono le istituzioni pubbliche che promuovono le attività degli artisti italiani? In particolare, esiste una precisa strategia del Mibact a tale riguardo, in termini di indirizzo e coordinamento di iniziative sul territorio?
Rimane prioritario il ruolo indiscusso che le istituzioni pubbliche svolgono all’interno del sistema museale italiano. Va inoltre riconosciuto quello più dinamico e di ricerca delle fondazioni e delle gallerie di arte contemporanea che contribuiscono a promuovere gli artisti italiani e a sviluppare una rete del contemporaneo.
Se di strategia dobbiamo parlare, penserei non solo e non tanto a un’azione di indirizzo e coordinamento delle iniziative e/o degli interlocutori, ma anche a una condivisione di indirizzi, una concreta e condivisa sinergia tra pubblico e privato. Per fare un esempio, il Piano per l’arte contemporanea, oggi decisamente ridotto nell’importo complessivo rispetto a un decennio fa, si rivela uno strumento ancora valido e consentirà alla Direzione generale l’incremento delle collezioni statali – anche tramite il sostegno di mostre e concorsi – e la promozione dell’arte italiana all’estero. Colgo l’occasione per ringraziare i colleghi del Mibact che in questi anni hanno lavorato con successo su questi temi.
Il Ministero e la Siae hanno recepito in termini restrittivi per le gallerie la direttiva 2001/84/CE sul Diritto di Seguito, obbligando le stesse alla pubblicazione – unico esempio in Europa – delle proprie fatture di vendita sul sito Siae. Il Ministero è al corrente del fatto che ciò lede il diritto alla privacy? Sempre in merito al Diritto di Seguito, perché le gallerie lo devono far pagare anche per le opere vendute, ma che erano in galleria soltanto a titolo di rappresentanza di un artista? L’acquisto di un’opera d’arte da parte di un privato costituisce un fatto segnalato nel redditometro fiscale, disincentivando gli acquisti: tale fatto sarà confermato anche in futuro?
Sui quesiti di natura fiscale, legati a scelte economico-politiche, mi impegno a farmi portavoce col Ministro affinché possa valutare le soluzioni più opportune.

Il progetto di William Kentridge per i muraglioni del Tevere
Esiste una eccessiva discrezionalità delle Soprintendenze in merito ai criteri di notifica e di esportazione temporanea, e delle Dogane in merito alle aliquote fiscali per le esportazioni: il Ministero ha intenzione di emanare delle direttive al riguardo?
“Migliorare le procedure per la circolazione dei beni” è uno degli obiettivi prioritari nell’atto di indirizzo politico emanato dal Ministro con DM 23 settembre 2014. Dal canto mio ritengo che il prestito debba essere incentivato in quanto forma importantissima di promozione dell’arte, ovviamente con tutte le cautele del caso, prima fra tutte la verifica dello stato di conservazione e il pieno rispetto degli standard museali.
Quali sono le competenze del Ministero in merito al tema delle Periferie Urbane? Si tratta di dare un indirizzo di politica urbanistica per la riqualificazione di aree degradate, di segnalare dei casi virtuosi, di supervisionare i piani regolatori dei Comuni?
Le competenze del settore Periferie Urbane sono indicate, al livello generale, all’art. 16 DPCM n. 171/2014 e nel DM del 27/11/2014.
Visto che la competenza urbanistica è evidentemente una prerogativa territoriale, cosa intende fare il Ministero nei rapporti con tali enti? È previsto o prevedibile un vincolo nei casi di “brutti” interventi di nuove costruzioni o di riqualificazione? Se sì, in base a quali criteri porre il vincolo?
Il vincolo include un bene, riconosciuto di particolare interesse, nel patrimonio culturale della nazione; se capisco bene la domanda: devo quindi intendere che, in questo caso, per vincolo si pensi a un potere di veto “nei casi di brutti interventi di nuove costruzioni o di riqualificazione“. Per non scadere nel “mi piace / non mi piace“, penso che i nuovi interventi debbano essere regolati su larga scala da una legge sulla qualità architettonica intesa come ricerca progettuale e tipologica (la qualità è nemica della quantità) come pure, più in generale, di wellness dell’abitare (ecocompatibilità, ecosostenibilità), la verifica della effettiva realizzazione dei servizi alla residenza e certamente molto altro.

Ludo a Torpignattara – foto Alberto Blasetti
Il tema delle Periferie Urbane è oggetto di molteplici studi e analisi da parte di università italiane, Ordine degli Architetti, istituti di urbanistica: intende il Ministero coordinare le attività di tali prestigiosi attori e dare un indirizzo comune?
Fra gli obiettivi operativi della linea d’azione, il censimento e la collaborazione con i soggetti che già operano nel settore è fondamentale e doverosa e alcuni contatti sono già stati avviati. Anche in questo caso non penso proprio di coordinare un lavoro svolto da altri, quanto piuttosto di trarne spunti comuni di scambio e di conoscenza al fine di programmare interventi condivisi ottimizzando così le risorse, strumentali e umane, che hanno già prodotto risultati.
Ammesso che il Mibact abbia dei fondi per le Periferie Urbane, come intende spenderli senza correre il rischio di finanziare interventi effimeri e scoordinati con gli enti territoriali?
Assegnate le risorse finanziarie, non si potrà certo prescindere da un censimento delle realtà locali. Attraverso un bando pubblico, i Comuni presenteranno le proprie proposte; una commissione individuerà quelle ritenute più meritevoli e quindi, tenendo sempre presente il bilanciamento territoriale (nord, centro e sud), l’amministrazione finanzierà o concorrerà al finanziamento per l’effettiva realizzazione.
Di quali risorse umane e culturali intende dotarsi la sua Direzione? Si stanno già cercando figure professionali competenti all’interno del Ministero?
La Direzione Generale ha assorbito il personale (circa 15 unità) del Servizio Arte e Architettura Contemporanee, l’organico prevede la nomina di due dirigenti per i rispettivi servizi: Arte e Architettura Contemporanee e Periferie Urbane. Successivamente saranno avviate le procedure di mobilità volontaria del personale di profilo tecnico e amministrativo che dovrà formare un organico di circa 29 unità. Ulteriore personale qualificato sarà reclutato e formato in linea con la riforma della pubblica amministrazione.
Le competenze del settore Periferie Urbane:
www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sito-MiBAC/Luogo/Uffici/Struttura-organizzativa/visualizza_asset.html_263742727.html

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Smart cities, per farle decollare servono nuovi modelli di business

Secondo il rapporto di Osborne Clarke serve una partnership fra settore pubblico, privato, banche e fondi di investimento per sviluppare nuovi modelli di business. L’Italia si piazza ai primi posti per incentivi a smart meter e riqualificazione energetica degli immobili pubblici.

La tecnologia da sola non basta per trasformare una città in una smart city. E’ vero, lo sviluppo di dispositivi e sistemi innovativi e intelligenti è sicuramente il primo passo per poter ‘pensare’ a un modello urbano smart, ma affinché questi vengano implementati ed inseriti all’interno di un progetto complesso serve di più. Servono un quadro normativo condiviso e un sistema di finanziamenti e incentivi, insomma servono nuovi modelli di business in grado di spingere la domanda dei consumatori.

A rivelarlo è l’ultimo report redatto dallo Studio legale Osborne Clarke, intitolato “Smart cities in Europe”, che raccoglie opinioni e testimonianze di 300 dirigenti di società tecnologiche, fondi di investimento, banche, società di consulenza e esponenti governativi di 11 paesi europei, tra cui l’Italia. Lo studio parte da alcuni dati: il 51% delle 468 città europee con più di 100mila abitanti viene considerata smart, ma soltanto il 28% di queste ha effettivamente sviluppato un piano effettivo, perché il restante ha sviluppato progetti ancora in fase pilota o addirittura non ancora messi a punto.

Mancano investimenti in progetti smart
Sono quattro i settori che sono stati analizzati come concetti-chiave della smartness urbana: smart grid, stoccaggio energetico, efficienza degli edifici e mobilità sostenibile. Chiamati ad identificare i più grandi ostacoli che limitano un reale sviluppo dei singoli comparti, gli intervistati hanno identificato la mancanza di investimenti come la principale causa di rallentamento nel settore della mobilità sostenibile, mentre nel settore dell’energy storage e dei sistemi efficienti per edifici la mancanza di sistemi di finanziamenti è riconosciuto come l’ostacolo, rispettivamente, numero 2 e 3.

La migliore soluzione è il project financing
Il miglior modo per colmare questa mancanza di investimenti è lo sviluppo di partnership pubbliche-private, che secondo tre quarti degli intervistati sarà l’unico strumento in grado di guidare lo sviluppo di programmi infrastrutturali smart nei prossimi tre anni. Sempre secondo i risultati dello studio è soltanto attraverso una collaborazione fra il settore privato e quello pubblico, banche, fondi di investimento e aziende che sarà possibile sviluppare dei modelli di investimento che possano soddisfare tutti i soggetti coinvolti. Secondo il 69% del campione è il project financing l’unico strumento in grado di dare un reale contributo al cambiamento.

Tutti i soggetti coinvolti dovrebbero sviluppare nuovi modelli di business
Le tecnologie ci sono, sottolinea lo studio legale, ciò che manca è la domanda dei consumatori, sopratutto per ciò che riguarda l’implementazione di smart meter e di sistemi di building control. Le aziende produttrici sono state impegnate, in tutti questi anni, nello sviluppo di nuove tecnologie e di sistemi innovativi, ma hanno investito poco nel lancio di modelli di business attrattivi per utilizzatori e investitori. Modelli che dovrebbero ovviamente essere supportati a livello governativo, sia centrale che locale.

L’Italia fra i primi posti per modelli incentivanti
Il report cerca anche di tracciare un quadro della situazione a livello europeo, identificando i paesi che si stanno muovendo maggiormente verso la creazione di modelli per smart cities. E a sorpresa l’Italia è una delle nazioni che ‘incassa’ i migliori risultati, con il 75% delle città con più di 100mila abitanti che vanta iniziative smart. Il Bel Paese si distingue sopratutto nel campo dell’efficienza energetica, con il 90% delle utenze dell’elettricità gestite da smart meter, di contro a una media europea dell’80%, con paesi come la Germania e l’Inghilterra piuttosto indietro. Altro ‘vanto’ per l’Italia le varie tipologie di incentivi previste per la riqualificazione energetica, primo fra tutti l’obbligo per la PA di riqualificare almeno il 3% degli immobili pubblici.

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Ibrahim, l’uomo che coltiva il deserto

«Noi rappresentiamo l’Islam moderato e moderno. Gli uomini dell’Isis sono solo terroristi». Ibrahim Abouleish invoca spesso Allah, quando parla della sua incredibile avventura umana, imprenditoriale e ambientale, l’aver trasformato 20.000 ettari di deserto del suo Egitto (partendo dai primi 70 conquistati a 60 chilometri a nordest del Cairo) in terreno fertile coperto da filari di alberi ad alto fusto, coltivazioni rigorosamente biodinamiche, allevamenti di bufali egiziani, fabbriche di tisane, scuole, asili nido e ora anche L’Università di Eliopoli per lo Sviluppo sostenibile («è la prima nel mondo», sorride soddisfatto). L’opera si chiama Sekem, in egiziano antico «vitalità del sole».

Ibrahim Abouleish è il relatore-simbolo del convegno internazionale «Oltre Expo-Alleanze per nutrire il Pianeta, sì è possibile» organizzato dall’Associazione per l’agricoltura biodinamica, col patrocino del Fondo Ambiente Italiano, della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli e con la partecipazione di Slow Food. L’Aula Magna Gobbi dell’Università Bocconi è strapiena, in prima fila Giulia Maria Crespi, da sempre aperta e combattiva sostenitrice dell’agricoltura biodinamica che ha fortemente voluto questo appuntamento. La scommessa è esplicita, dimostrare cioè che il futuro dell’Italia sta nelle sue stesse radici: agricoltura, alimentazione, paesaggio, artigianato e quindi turismo in un ambiente tutelato. Sul palco Carlo Triarico, presidente dell’Associazione per la biodinamica: «L’Italia ha il primato europeo nell’uso dei pesticidi, 10 chili a ettaro. La Francia ne usa la metà però attira il doppio del turismo. Penso che il nesso sia chiaro. All’agricoltura va restituita la dignità che le spetta».

Tanti i relatori italiani e internazionali. In questo quadro spicca Ibrahim Abouleish, mite signore di quasi ottant’anni, eleganza europea, occhiali sottili, sguardo penetrante, studi giovanili in Germania, due lauree in Medicina e Ingegneria che hanno sostenuto la sua vocazione: «Quando nel 1977 tornai in Egitto trovai un Paese distrutto da tre guerre. Ripensai alle parole del profeta Maometto: “Quando si avvicina l’Apocalisse, la fine del mondo, coltiva la terra e vedrai che non ti abbandonerà”. La terra è una madre dal grande cuore. Anche quando i suoi figli la maltrattano lei perdona e offre altre possibilità».

Poco prima aveva scoperto l’esistenza, e il fascino, dell’agricoltura biodinamica proprio in Italia grazie a Giulia Maria Crespi: «Mi spiegò bene di cosa si trattava, ma quando le parlai del mio progetto per il deserto mi disse che ero un pazzo». Cominciò un’avventura difficile, all’inizio ebbe contro anche gli Imam che lo ritenevano un adoratore del sole per i principi antroposofici alla base della coltivazione biodinamica, poi arrivò una targa ufficiale degli Sceicchi islamici in Egitto che definiva la sua opera «una iniziativa islamica». Oggi Sekem significa 20.000 ettari di ex deserto coltivati con 85 aziende, 10.000 lavoratori musulmani ma non mancano cristiani ed ebrei (il 40% donne) in tutto l’Egitto, 2.000 dipendenti impegnati a Sekem nella trasformazione dei prodotti (800 donne). Le scuole della comunità accolgono ogni giorno 600 studenti. Ha convinto l’intero Egitto che l’uso dei pesticidi nella coltivazione del cotone è dispendioso, dannoso per raccolto e ambiente: la soppressione biologica dei parassiti ha portato a un aumento del 30% della resa del cotone grezzo.

Ora Abouleish è soddisfatto dei proseliti che raccoglie: «Centinaia di migliaia di ettari in Egitto sono stati sottratti al deserto. Dopo l’Europa, siamo il luogo al mondo in cui più si usa l’agricoltura biodinamica». Guarda con affetto alle nuove generazioni: «Sono certo che tutta l’agricoltura si riconvertirà così. Quella tradizionale si sta rivelando sempre più costosa, per gli antiparassitari, dannosa per l’acqua, per l’aria, per la terra stessa e per la salute dei consumatori. La natura è il nostro vero, sicuro futuro».

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Open Data Day, in Italia dieci appuntamenti per la trasparenza

Sabato 21 febbraio è la giornata internazionale dei dati aperti. Le occasioni per discutere le opportunità dell’uso intelligente dei dati per migliorare la qualità della vita.

Gli Open Data non servono a niente se non migliorano la vita delle persone. Forti di questa convinzione, sono molti quelli che sabato 21 febbraio parteciperanno al terzo evento italiano dedicato ai Dati Aperti. L’Open Data Day celebrato a livello internazionale, è un’occasione di incontro, distribuita in Italia tra dieci città, per costruire, secondo gli organizzatori, un modo nuovo e diverso di pensare la relazione reciproca tra informazione, diritti e conoscenze, al fine di migliorare il rapporto tra Pubblica Amministrazione, imprese e cittadini.

Un obiettivo da raggiungersi proprio attraverso un uso diverso della enorme mole di dati che tutti noi produciamo a lavoro o nel tempo libero, interagendo con strumenti digitali, banche dati, uffici, spazi pubblici e privati. Ma quando si parla di dati aperti si parla anche dei dati ambientali generati dal monitoraggio del livello d’acqua nei fiumi, di quelli sulla qualità dell’aria, dei dati sulla frequenza delle corse del trasporto pubblico, dello stato del patrimonio artistico o dei crimini commessi in un certo lasso di tempo all’interno di un certo territorio.

Dati che sono in genere prodotti, gestiti e pagati da enti pubblici, e che sono pubblici per legge, e che dovrebbero essere utilizzabili da chiunque, per decidere, ad esempio, se e dove impiantare una certa attività commerciale, piuttosto che per realizzare interventi socioabitativi o reindirizzare le politiche di sicurezza nel caso di enti territoriali e di governo. Per gli esperti questi dati devono diventare occasione per innovare prodotti e servizi privati ed aumentare l’efficienza e l’efficacia dei servizi pubblici, ma anche, come sostiene l’Associazione degli Stati generali dell’Innovazione (SGI), per “migliorare la trasparenza ed il controllo democratico, e favorire la partecipazione alla vita pubblica.” E qui un bell’esempio è il lavoro che sui dati comunali e ministeriali effettua l’associazione Open Polis che li offre ai cittadini per promuovere la partecipazione civica attraverso la conoscenza degli atti, dei comportamenti, e delle decisioni dei nostri rappresentanti. Secondo SGI però i dati aperti “Necessitano di maggiore traduzione e diffusione, cosa spesso non garantita, che va a scapito dei cittadini e delle opportunità che gli vengono così precluse”.

Gli fa eco Ernesto Belisario, avvocato, esperto di dati aperti nella Pubblica Amministrazione: “L’Open Data Day sarà importante solo se riuscirà ad essere l’occasione per uscire dalla ristretta cerchia degli addetti ai lavori, se rappresenterà il momento in cui fare capire ad amministratori, cittadini e imprenditori il valore dei dati aperti per la trasparenza e la crescita economica.” Diversamente? “Se dovesse diventare un evento autoreferenziale “per iniziati” sarebbe l’ennesima occasione perduta.”

Per questo, poiché la politica ci ha abituati al mantra dell’innovazione tecnologica che non si realizza, c’è da chiedersi come possano effettivamente migliorarci la vita i dati aperti. Secondo Morena Ragone, giurista, esempi virtuosi ce ne sono eccome: “Il notissimo Open Coesione, che rende accessibile ai cittadini i dati relativi all’impiego del fondi strutturali europei; oppure Confiscati Bene ­ che mappa, monitora e rende disponibili ed intellegibili i dati dei beni confiscati alle mafie ­, e ancora Open Pompei, che interessa un settore, quello dei beni artistici, tanto prezioso e delicato.” Quindi i dati aperti non sono più solo una parola ad effetto. Certo necessitano di standard unici, di protocolli di qualità e una chiara esposizione di scopi e utilità e della lorro effettiva messa in comune da parte di chi li produce. L’International Open Data Day 2015 può essere l’occasione per farlo di più e meglio.

L'”evento hub” italiano si svolge a Roma, ma uno dei momenti più partecipati sarà a Bari, presso il Politecnico, dove nel promeriggio si svolgeranno gli hackaton: momenti di lavoro collettivo in cui sviluppatori di software, programmatori, appassionati, lavoreranno sui temi del monitoraggio ambientale, dell’infomobilità e dei beni culturali.

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POETITALY al PALLADIUM

Cinque appuntamenti dal 23 febbraio all’8 giugno 2015 al Teatro Palladium di Roma.

piazza Bartolomeo Romano, 8 – tel.  06 57067761

 

Lunedì 23 febbraio 2015

ESILI

primo appuntamento in collaborazione con  R.A.P. Roma Action Poetry. La parola e le altre

ore 17:30 omaggio a Amelia Rosselli

ore 20:30 letture con Mariella Mehr, Mariangela Gualtieri, Gian Maria Annovi e Laura Pugno

INGRESSO GRATUITO

vedi programma dettagliato

 

ESILI, SAPERI, INTERAZIONI, CONFLITTI e DESIDERI: queste le cinque evocative parole chiave degli appuntamenti, sui temi-guida prescelti per ciascun evento tra lezioni, dibattiti e incontri di approfondimento sulle principali discussioni di poetica degli ultimi anni.

Dopo la prima edizione nel quartiere romano Corviale, dove la manifestazione ha avuto luogo nel settembre 2014 riscuotendo un buon successo di pubblico e di critica, l’itinerante POETITALY cambia “casa” e torna ancora nella Capitale con i nuovi 5 appuntamenti di POETITALY al PALLADIUM, ospitati nel cuore della Garbatella all’interno del primo tra i teatri romani di ricerca, grazie alla collaborazione con l’Università Roma Tre.

Oltre ad importanti voci della poesia italiana come Valerio Magrelli, Patrizia Valduga, Milo De Angelis e Gabriele Frasca, durante la rassegna saranno presenti anche grandi poetesse e poeti stranieri del calibro di Mariella Mehr e Durs Grünbein per dare voce a ideazioni performative all’interno di serate in cui si eseguiranno delle vere e proprie messinscene teatrali della parola poetica, con l’apporto delle arti figurative e delle nuove ricerche musicali.

Un esperimento, questo, che recupera la tradizione della multimedialità già propria delle avanguardie, pur superandone un certo rigore elitario ed aprendosi ad un nuovo pubblico, il più possibile composito, che va dagli studenti ai tradizionali fruitori di esperienze teatrali di vario tipo.

L’intento, infatti, è quello di fissare lo sguardo su un panorama in costante evoluzione, con una prospettiva il più possibile ampia e spettacolare, anche in vista della ridefinizione dell’io poetico.

La rassegna è curata da Simone Carella in collaborazione con Andrea Cortellessa, Gilda Policastro e Lidia Riviello e rappresenta una nuova tappa del progetto POETITALY, un format pensato come organismo “nomade” capace di portare la vitalità e trasversalità della poesia italiana contemporanea a contatto con molteplici luoghi della penisola, riservando una particolare attenzione alle diverse e variegate “periferie” d’Italia.

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DISPERSIONE SCOLASTICA: PER COMBATTERLA IL TERZO SETTORE È NECESSARIO

Quasi il 18% dei ragazzi abbandona gli studi troppo presto. Serve una strategia tra scuola, famiglia, non profit ed ente locale.

La dispersione scolastica è uno degli scogli più forti all’integrazione e un indicatore potente del futuro percorso di successo o emarginazione dei giovani.
Ne abbiamo discusso il 20 gennaio scorso in occasione della presentazione di: “LOST-Dispersione scolastica: il costo per la collettività e il ruolo di scuole e terzo settore”, ricerca nazionale realizzata con particolare riferimento a quattro città (Milano, Roma, Napoli e Palermo) per indagare quanto è grave e quanto costa questo fenomeno al nostro Paese. La ricerca della Fondazione We world, Fondazione Agnelli e Associazione Bruno Trentin ci conferma un dato purtroppo conosciuto e molto penoso rispetto al tasso di dispersione scolastica presente nella scuola italiana, che stenta ad avvicinarsi agli obiettivi dell’Unione Europea per il 2020. D’altro canto ci dice di scuola e terzo settore impegnati a fondo per affrontare la questione e, forse per la prima volta, indaga a fondo anche sui costi di questo impegno.
«La dispersione scolastica in Italia ha dimensioni allarmanti. Con il 17,6% di ragazzi che abbandonano gli studi, l’Italia è in fondo alla classifica europea la cui media è pari al 11,9% , e continua a scontare un gap con gli altri Paesi, come ad esempio la Germania dove la quota è sensibilmente più bassa (9,9%), o la Francia (9,7%) e il Regno Unito (12,4%). Un divario che aumenta se guardiamo al Sud ed alle Isole, dove vi sono regioni ben lontane dalla media europea (Sardegna 25,5% – in aumento, Sicilia 24,8%, Campania 21,8%, Puglia 17,7% – in aumento). Il problema è comunque nazionale; tra le regioni in cui i ragazzi completano gli studi troviamo il Molise (solo il 10% di abbandoni), tra quelle invece in cui il successo formativo rischia di divenire un miraggio la Valle d’Aosta (21,5%). La crisi economica rischia di compromettere i passi in avanti fatti dal 2000, quando gli early school leavers (coloro che abbandonato precocemente la scuola, secondo al definizione in uso in Europa per la dispersione scolastica) risultavano il 25,3%. L’Italia è tuttora lontana dagli obiettivi della strategia di Europa 2020 nel campo dell’istruzione che prevedono una riduzione del tasso di abbandono scolastico al di sotto del 10%.»

A Roma c’è più rete

La presentazione nella sala della Piccola Protomoteca in Campidoglio ha discusso  i dati della ricerca con particolare riferimento alla situazione di Roma, dove esiste e opera un ricco e ponderoso scenario di attori che, in maniera istituzionale, non formale e volontaria si sono organizzati per agire sui territori più scoperti e può costituire un rilevante punto di partenza, a partire dalle scuole stesse.
Abbiamo chiamato a confrontarsi sui dati presentati i rappresentanti delle reti del volontariato come Scuolemigranti, attiva per l’inclusione degli stranieri con l’insegnamento dell’italiano L2; la rete dei Centri di Aggregazione giovanile diffusa in tutto il territorio con funzione di prevenzione e recupero; i progetti di mediazione sociale; i movimenti educativi che hanno approfondito l’utilizzo dei metodi dell’educazione attiva come Cemea e MCE, le scuole di ogni ordine e grado che aprono le loro porte al territorio e attivano la cittadinanza e la solidarietà vicinale, i centri di formazione professionale, il sistema di educazione degli adulti, le forze sindacali, e l’Università.
I contributi hanno evidenziato che non siamo davanti ad “una emergenza”, ma a un dato strutturale di sistema e che solo un’azione sinergica di tutte le forze coinvolte può arrivare ad un risultato. Se l’obiettivo è il cambiamento dei destini educativi delle fasce più fragili e degli stranieri che ormai stabilmente frequentano (e vivificano) il nostro sistema scolastico, quello che serve è un reale cambiamento della capacità di accoglienza, delle metodologie educative e didattiche, del clima complessivo del sistema dell’Istruzione.
Graziella Conte dell’MCE e Annamaria Berardi dell’Arciragazzi hanno ricordato il ruolo delle scuole popolari e l’apporto dei movimenti educativi per una scuola che accolga i diversi linguaggi e permetta un migliore coinvolgimento e riuscita di chi ha difficoltà con la pura lingua scritta, auspicando una formazione congiunta tra scuola ed extrascuola, che “apra” alla città, consapevole della sfida dell’educazione al quotidiano.

No alla pedagogia della taglia unica

Fiorella Farinelli della Rete Scuolemigranti ci ha descritto con grande forza il costo nascosto della dispersione occulta e delle ripetenze (più funzionali al mantenimento dell’organico che al successo formativo degli studenti) denunciando il fallimento dei grandi progetti nazionali, che necessiterebbero di un intervento deciso del Miur di monitoraggio sui contenuti educativi e non solo sugli aspetti formali.
Da più parti è emersa la questione dei compiti a casa, che trasferisce sulla famiglia la responsabilità dell’aiuto allo studio, contribuendo ad accentuare il divario tra chi ha un background forte e chi invece si trova solo e a rischio.
Alessandro Iannini del Borgo don Bosco, che accoglie stranieri, italiani e Rom in un percorso di seconda opportunità e professionale, parla del fallimento della “pedagogia della taglia unica” e della necessità di adattare l’insegnamento agli studenti e mantenere un dialogo aperto con le famiglie (dove spesso manca il padre).
La Rete dei centri di Aggregazione Giovanile rinforza la nozione di prevenzione e di apertura della scuola al quotidiano dei giovani, spesso impostato su canali comunicativi alternativi se non osteggiati dalla scuola stessa.
L’esperienza delle Scuole Aperte riportata dall’esponente della scuola Di Donato, esperienza ricca di attività e risultati con un coinvolgimento progettuale delle famiglie, mostra la difficoltà per gli studenti di ritrovare un protagonismo e una capacità di parola in una scuola spesso avvertita come passiva e gerarchica.
L’Arci riporta l’esperienza di rete nazionale sui “drop-out” presa a modello della strategia 2020 sulla dispersione, con metodi di peer education e tutoring. Confrontarsi tra modelli ci aiuterà a fare sistema.

Fabrizio Da Crema, responsabile istruzione Cgil Nazionale, ha detto che è necessario investire in maniera convergente, che sono necessarie politiche nazionali di investimento e l’integrazione di risorse per rinforzare decisamente la scuola dell’infanzia e sviluppare coerentemente l’educazione permanente, per mantenere flessibili e aggiornate le competenze sviluppate. Per agire insieme serve che ci sia un Piano per indirizzare gli interventi, confrontare i risultati, sviluppare modelli di intervento migliori.

Il vero problema è la sofferenza scolastica

Secondo Piero Lucisano, dell’Università La Sapienza, la dispersione scolastica è un epifenomeno di una “sofferenza scolastica” che coinvolge l’intero apparato e che forse quel 20% che sceglie di andarsene ha più capacità reattiva di chi ci resta. I nostri dirigenti attuali sono “i nostri studenti” e non dimostrano una “capacità di studiare”, che è sempre capacità di collegare il passato al presente, per evolverlo e ricordarlo. «Ragionare sul valore economico della dispersione rischia di volgarizzare elementi valoriali e affettivi, che non possono essere limitati a questi parametri», sostiene Lucisano, «ma quando parliamo di produttività, se non esoneriamo dall’indagine i “costruttori dei contesti”, ne ricaviamo interessanti riflessioni. Il Terzo settore può aiutare a cambiare prospettiva, dire che le passioni i giovani le vivono, raccontare come si applicano nella loro ritrovata progettualità, cercare di ritrovare un filo tra trasmissione e elaborazione». Questo, tra l’altro, «ci permetterebbe di evitare di insistere con un sistema che toglie passione e fa sentire inadempienti e inadeguati coloro che non riescono ad adattarcisi». Cambiare l’impianto non significa buttare tutto, ma cominciare a ricostruire un senso di congruità tra piacere di insegnare (fatto di valori, stabilità, condizioni di funzionamento adeguate) e voglia di imparare (composta da pratica, curiosità, capacità di indagine, possibilità di interazione e espressione di pensiero divergente, ecc.)

Gli enti locali per un’azione congiunta

Elisabetta Salvatorelli, dell’Assessorato Politiche Educative e Scolastiche, ha sottolineato come già si stia lavorando sull’idea di scuola bene comune, come luogo di aggregazione per il territorio aperto al territorio, con responsabilizzazione degli studenti, costruito insieme con tutte le componenti.
Mario De Luca dell’Assessorato alle Politiche Sociali ha registrato la necessità di una maggiore presenza politica dell’Ente Locale in questo dibattito sul contrasto alla dispersione scolastica, che ridia corpo al dettato Costituzionale. «Ci sono oggi le consapevolezze per ricalibrare l’azione che, pur avendo avuto il Piano Infanzia e Adolescenza fin dal 1999, ci faccia marciare verso un Piano Strategico dei Diritti e sviluppare un’azione congiunta cui partecipino Famiglie, Enti, Terzo Settore e Ente Locale promossa insieme dai due Assessorati».
L’incontro si è chiuso con queste due prese di posizione strategiche da parte dei rappresentanti degli assessorati: è un elemento di grande interesse perché proprio le politiche pubbliche possono giocare un ruolo cruciale nel miglioramento dei risultati di questa grande profusione di energie e innovazione educativa e didattica. L’amministrazione, con una sinergia inedita e fruttuosissima tra politiche sociali ed educative può incidere su questo tema della dispersione scolastica, che è sempre anche e soprattutto dispersione di cittadinanza.

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