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La periferia è politica

Renzo Piano, autorevole interprete di un sobrio “rammendo”, lo dice con chiarezza: è quello delle periferie il grande pro­getto del nostro Paese. La città del futuro, quella che lasce­remo in ere­dità ai nostri figli. Eppure, non appena è calata l’intensità dei riflettori dell’emergenza mediatica, le periferie sono tornate nell’ombra. Chi ne porta la responsabilità politica pare voler lasciare discretamente la scena al protagonismo degli architetti. Non saranno i progetti, tuttavia, a render più libera la gente, ricorda Foucault. Affron­tare la peri­fe­ria solo con lo sguardo dell’architetto ne impe­di­sce la necessaria let­tura com­plessa. Tra le con­di­zioni che distin­guono le peri­fe­rie odierne da quelle degli anni ’50 e ’60 c’è la cre­scita pro­gres­siva delle disu­gua­glianze sociali. Che non verrà più sanata da alcuno sviluppo. Un tema di scarso interesse, affidato a improbabili soluzioni specialistiche da una scelta miope perché è il prezzo della disuguaglianza, come sostiene Stiglitz, il vero motore delle rivolte

Ces­sato l’allarme, la “que­stione peri­fe­rie” torna nel cono d’ombra dei media come fosse stata un feno­meno iso­lato e pas­seg­gero, un capric­cio di una parte della città delusa e abban­do­nata. Ora c’è il “pro­getto di ram­mendo” affi­dato a Renzo Piano e al suo gruppo di lavoro G124, e così la poli­tica passa volen­tieri la mano (meglio sarebbe dire la palla) all’architettura e all’urbanistica, rinun­ciando al suo ruolo guida.

È invece utile non sot­to­va­lu­tare quanto è suc­cesso nelle nostre peri­fe­rie (e quello che potrebbe ancora acca­dere) ricor­dando le parole di una lunga inter­vi­sta a Fou­cault («spa­zio, sapere e potere»), a chi gli chie­deva quale fosse il ruolo dell’urbanistica e dell’architettura nella società moderna: «All’inizio del XVII secolo si smette di con­ce­pire la città come un luogo pri­vi­le­giato, come un’eccezione all’interno di un ter­ri­to­rio costi­tuito da campi, fore­ste e strade. D’ora in poi le città, con i pro­blemi che sol­le­vano e le con­fi­gu­ra­zioni par­ti­co­lari che assu­mono, ser­vono da modelli per una razio­na­lità di governo che verrà appli­cata all’insieme del territorio».

E del resto lo stesso Renzo Piano con­ferma come «il grande pro­getto del nostro Paese sia quello delle peri­fe­rie: la città del futuro, la città che sarà, quella che lasce­remo in ere­dità ai nostri figli. Sono ric­che di uma­nità, qui si trova l’energia e qui abi­tano i gio­vani cari­chi di spe­ranze e voglia di cam­biare». Tut­ta­via incal­zato dai suoi allievi che gli chie­dono se certi pro­getti archi­tet­to­nici pos­sono rap­pre­sen­tare delle forze di libe­ra­zione o, al con­tra­rio, delle forze di resi­stenza, Fou­cault risponde: «La libertà è una pra­tica. Dun­que può sem­pre esi­stere in effetti un certo numero di pro­getti che ten­dono a modi­fi­care deter­mi­nate costri­zioni, ad ammor­bi­dirle, o anche ad infran­gerle, ma nes­suno di tali pro­getti, sem­pli­ce­mente per pro­pria natura, può garan­tire che la gente sarà auto­ma­ti­ca­mente più libera».

Il con­tri­buto di Renzo Piano al pro­blema delle peri­fe­rie , sia pure mosso da buoni pro­po­siti, ha il punto debole (non impu­ta­bile a lui) nell’affrontare la que­stione solo nella dire­zione dell’architettura e dell’urbanistica: «Si deve inten­si­fi­care la città, costruire sul costruito, sanare le ferite aperte. Di certo non biso­gna costruire nuove peri­fe­rie oltre a quelle esi­stenti: devono diven­tare città ma senza espan­dersi a mac­chia d’olio, vanno ricu­cite e fer­ti­liz­zate con strut­ture pubbliche.È neces­sa­rio met­tere un limite a que­sto tipo di cre­scita, non pos­siamo più per­met­terci altre peri­fe­rie remote, anche per ragioni eco­no­mi­che». Su que­sta que­stione, nel pro­ce­dere dell’intervista, Fou­cault si esprime con molta deter­mi­na­zione: «Penso che l’architettura (e l’urbanistica, ndr) possa pro­durre, e pro­duca, degli effetti posi­tivi quando le inten­zioni libe­ra­to­rie dell’architetto coin­ci­dono con la pra­tica reale delle per­sone nell’esercizio delle loro libertà».

Ora biso­gna rico­no­scere che Renzo Piano è uno dei più bravi archi­tetti ita­liani per cul­tura, serietà e pro­fes­sio­na­lità, ma ha ragione Ema­nuele Picardo ad affer­mare  (il mani­fe­sto del 30/12/2014) che: «Affron­tare la peri­fe­ria solo con lo sguardo dell’architetto è un pec­cato ori­gi­nale che ne impe­di­sce una let­tura com­plessa e arti­co­lata». E qui è neces­sa­rio resti­tuire di nuovo la parola a Fou­cault: «L’esercizio della libertà non è del tutto insen­si­bile alla distri­bu­zione degli spazi, ma esso può fun­zio­nare sol­tanto dove si dà una certa con­ver­genza; se vi è diver­genza o distor­sione l’effetto pro­dotto è imme­dia­ta­mente con­tra­rio a quello ricer­cato». Que­sto è quello che è acca­duto al pro­getto rutel­liano delle «cento piazze». Alcune di esse, come a San Basi­lio, hanno avuto un certo suc­cesso; altre, come al Quar­tic­ciolo, stanno per essere sman­tel­late per­ché gli abi­tanti le sen­tono estra­nee e vogliono ritor­nare alla piazza che c’era negli anni ’50.

Dun­que un pro­getto architettonico-urbanistico o viene con­ce­pito e rea­liz­zato diret­ta­mente (e auto­ri­ta­ria­mente) dal Prin­cipe, oppure, in epoca moderna, non può che sca­tu­rire (sia pure con l’autonomia neces­sa­ria) all’interno di una cor­nice poli­tica che detta una pro­pria visione della società, una poli­tica intesa come media­zione di inte­ressi in gioco, inter­pre­ta­zione dei biso­gni, espli­citi o meno, degli abi­tanti che quei luo­ghi li abi­tano e li attra­ver­sano quo­ti­dia­na­mente. Se la poli­tica delega in toto la solu­zione dei pro­blemi sociali all’architettura e all’urbanistica, il pro­getto che ne con­se­gue risulta monco, affi­dato al libero arbi­trio (ed estro) del suo Pro­get­ti­sta che viene gra­vato di un com­pito impro­prio e improbo, ovvero quello di risol­vere que­stioni sociali che non gli com­pe­tono diret­ta­mente, il che facil­mente dege­nera in opere auto­ce­le­bra­tive che a Roma, per fare un esem­pio, si chia­mano la “Nuvola” o lo “Sta­dio del nuoto” (e rimane solo da spe­rare che tra di esse non com­paia infine anche il nuovo sta­dio della Roma a Tor di Valle).

È vero che il “pro­getto di ram­mendo” delle periferie di Piano ha una sen­si­bi­lità diversa e si rivolge ai quar­tieri peri­fe­rici senza cer­care effetti sor­pren­denti né sen­sa­zio­na­li­smi e uti­liz­zando poche risorse (poco più dello sti­pen­dio di sena­tore a vita messo a dispo­si­zione da Piano), ma è la cor­nice poli­tica che manca, ciò che a suo tempo dava senso alle geniali ini­zia­tive di Nico­lini nello sce­na­rio poli­tico impo­stato da Petro­selli. Per­ché a fronte di tante dema­go­gie popu­li­ste biso­gna pur affer­mare e difen­dere l’autonomia delle scelte pro­get­tuali — archi­tet­to­ni­che o urba­ni­sti­che — che mai deb­bono essere pie­gate al volere dei poteri domi­nanti quale che siano, come avve­niva già nel Rinascimento.

Una delle prin­ci­pali con­di­zioni che distin­gue le attuali peri­fe­rie da quelle degli anni ’50 e ’60 è la cre­scita pro­gres­siva delle disu­gua­glianze sociali. Anche nelle prime peri­fe­rie urbane, la causa del degrado nasceva dalle con­di­zioni di povertà ma, all’epoca, c’era l’attesa e la quasi cer­tezza che lo svi­luppo e il benes­sere prima o poi, avrebbe rag­giunto tutti gli strati sociali. Que­ste con­di­zioni di povertà sono diven­tate ora strut­tu­rali, cro­ni­che, fisi­che, esi­sten­ziali, tra­sfor­mate in con­di­zioni di mise­ria, senza che si abbia più la per­ce­zione che esse pos­sano miglio­rare, in un qua­dro sociale imbar­ba­rito dove pre­vale il morbo indi­vi­dua­li­sta del «spe­riamo che io me la cavo».

E al tempo stesso la que­stione sociale al cen­tro di tante e famose opere let­te­ra­rie dell’800 e della prima metà del ’900, da Zola a Stein­beck, da Bal­zac ad Hugo, come affer­mava qual­che giorno fa Alberto Asor Rosa su La Repub­blica, «non vive più nelle coscienze delle per­sone. La per­ce­zione e la con­danna delle disu­gua­glianze sociali è stata respinta ai mar­gini, non inte­ressa». La stessa sorte capita agli urba­ni­sti, ai socio­logi, agli antro­po­logi per i quali la que­stione delle disu­gua­glianze in quanto sud­di­vi­sione della società tra chi pos­siede molto e chi non pos­siede niente, si con­suma e si dis­solve nella ricerca di impro­po­ni­bili solu­zioni specialistiche.

Per­fino i gio­vani ricer­ca­tori la aggi­rano: anche loro inda­gano casi par­ti­co­lari, seg­men­ta­zioni sociali, quasi che que­sti fos­sero iso­la­bili dal con­te­sto sociale più gene­rale. Ci si occupa di rifu­giati, pro­fu­ghi, Rom, bar­boni, occu­panti di case, sto­rie iso­late di vicende per­so­nali. È come se que­sta società si fosse fatta distratta, avesse rimosso il tema del con­flitto sociale e non tenesse più in conto di quello che Sti­glitz chiama il prezzo della disu­gua­glianza, il vero motore delle rivolte. Se il mondo diventa sem­pre più duale e la peri­fe­ria rap­pre­senta quel 99% di chi non pos­siede niente che asse­dia le comu­nità blin­date di quel l’1% che pos­siede tutto, la solu­zione può essere solo quella di cam­biare dire­zione, e politica.

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Criteri ambientali minimi per l’acquisto di articoli per l’arredo urbano

MINISTERO DELL’AMBIENTE E DELLA TUTELA DEL TERRITORIO E DEL MARE
DECRETO 5 febbraio 2015 (GU n.50 del 2-3-2015)
 
                      IL MINISTRO DELL'AMBIENTE 
                    E DELLA TUTELA DEL TERRITORIO 
                             E DEL MARE 
 
  VISTO l'art. 1, comma 1126, della legge 27 dicembre  2006,  n.  296
che prevede la predisposizione da parte del Ministero dell'Ambiente e
della Tutela del Territorio e del Mare, con il concerto dei  Ministri
dell'Economia e delle Finanze  e  dello  Sviluppo  Economico,  e  con
l'intesa delle Regioni e le Province Autonome di Trento e di Bolzano,
del "Piano d'azione per  la  sostenibilita'  ambientale  dei  consumi
della pubblica amministrazione" (di seguito PAN GPP); 
  VISTI i commi 1126  e  1127  dell'articolo  1  della  citata  legge
296/2006 che stabiliscono che detto  Piano  adotti  le  misure  volte
all'integrazione delle esigenze di  sostenibilita'  ambientale  nelle
procedure d'acquisto pubblico in determinate categorie  merceologiche
oggetto di procedure di acquisti pubblici; 
  VISTO quanto previsto  dall'art.  7,  comma  8  del  D.Lgs.  163/06
concernente l'obbligo di comunicazione all'Osservatorio dei contratti
pubblici delle informazioni riguardanti i bandi di gara  per  lavori,
servizi e forniture; 
  VISTO il decreto interministeriale dell'11 aprile 2008 del Ministro
dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare,  di  concerto
con i Ministri dello  Sviluppo  Economico  e  dell'Economia  e  delle
Finanze che, ai sensi del citato articolo 1, comma 1126, della citata
legge 296/2006, ha adottato il PAN GPP; 
  VISTO il decreto del Ministro  dell'Ambiente  e  della  Tutela  del
Territorio e del Mare del 10 aprile 2013 recante "Piano d'azione  per
la sostenibilita' ambientale dei consumi nel settore  della  pubblica
amministrazione - Revisione 2013", che aggiorna il citato PAN GPP  ai
sensi dell'art. 4 del decreto interministeriale dell'11 aprile 2008; 
  VISTO il decreto del Ministro  dell'Ambiente  e  della  Tutela  del
Territorio e del Mare GAB/DEC/2014/000188 del 21 luglio 2014  con  il
quale si integra  e  si  sostituisce  il  Comitato  interministeriale
(denominato Comitato di gestione)  che  secondo  quanto  indicato  al
punto 6 del citato PAN GPP,  sovraintende  alla  gestione  del  Piano
stesso; 
  VISTO l'articolo 2 del  citato  decreto  interministeriale  dell'11
aprile 2008, che prevede l'emanazione di "Criteri Ambientali Minimi",
per le diverse categorie merceologiche indicate al punto 3.6 PAN GPP,
tramite  decreto  del  Ministro  dell'Ambiente  e  della  Tutela  del
Territorio e del Mare, sentiti i Ministri dello Sviluppo Economico  e
dell'Economia e delle Finanze; 
  PRESO ATTO che,  in  ottemperanza  a  quanto  disposto  dal  citato
articolo 2 del decreto interministeriale  dell'11  aprile  2008,  con
nota del 13/10/2014 DVA-2014-0032855 e' stato  chiesto  al  Ministero
dello Sviluppo  Economico  di  formulare  eventuali  osservazioni  al
documento dei Criteri Ambientali Minimi: "Acquisto  di  articoli  per
l'arredo urbano"; 
  CONSIDERATO che entro il termine indicato  nella  citata  nota  non
sono pervenute osservazioni dal Ministero dello Sviluppo Economico; 
  PRESO ATTO che,  in  ottemperanza  a  quanto  disposto  dal  citato
articolo 2 del decreto interministeriale  dell'11  aprile  2008,  con
nota del 13/10/2014. DVA-2014-0032858 e' stato chiesto  al  Ministero
dell'Economia e delle Finanze di formulare eventuali osservazioni  al
documento dei Criteri Ambientali Minimi: "Acquisto  di  articoli  per
l'arredo urbano"; 
  CONSIDERATO che entro il termine indicato  nella  citata  nota  non
sono pervenute  osservazioni  dal  Ministero  dell'Economia  e  delle
Finanze; 
  VISTO il documento tecnico allegato al presente  decreto,  relativo
ai Criteri Ambientali  Minimi  "Acquisto  di  articoli  per  l'arredo
urbano", elaborati nell'ambito del citato Comitato di gestione con il
contributo  delle  parti  interessate  attraverso  le  procedure   di
confronto previste dal Piano stesso; 
  RITENUTO necessario procedere all'adozione dei  Criteri  Ambientali
Minimi in questione; 
 
                               DECRETA 
 
                               Art. 1. 
                      Criteri Ambientali Minimi 
 
  1. Ai sensi dell'articolo 2 del decreto  interministeriale  dell'11
aprile 2008 e s.m.i. che prevede l'emanazione dei "Criteri Ambientali
Minimi" per le diverse categoria merceologiche indicate al punto  3.6
del PAN GPP,  sono  adottati  i  criteri  ambientali  minimi  di  cui
all'allegato tecnico del presente decreto, facente  parte  integrante
del decreto stesso, per i prodotti/servizi: "Acquisto di articoli per
l'arredo urbano"; 
 
                               Art. 2. 
                            Monitoraggio 
  1. Per consentire l'attuazione del monitoraggio previsto  al  punto
6.4 del PAN GPP, di cui al decreto ministeriale del 10  aprile  2013,
ai sensi dell'art.  7  comma  8  del  D.  Lgs.  163/06,  le  stazioni
appaltanti  debbono   comunicare   all'Osservatorio   dei   contratti
pubblici, nel rispetto delle modalita' indicate nelle apposite schede
di  rilevamento  predisposte  dal   citato   Osservatorio,   i   dati
riguardanti i propri acquisti relativi all'applicazione  dei  criteri
ambientali minimi adottati con il presente allegato. 
 
                               Art. 3. 
                              Modifiche 
 
  1. I  criteri  ambientali  minimi  verranno  aggiornati  alla  luce
dell'evoluzione tecnologica, del mercato e  delle  indicazioni  della
Commissione europea. 
  Il presente  decreto  unitamente  all'allegato  saranno  pubblicati
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana. 
 
    Roma, 5 febbraio 2015 
 
                                                Il Ministro: Galletti 
                                                             Allegato 
 
              Parte di provvedimento in formato grafico
 



Un artista a colloquio con Le Corbusier

Cristian Chironi abiterà in 30 case progettate da Le Corbusier in giro per il mondo. La prima tappa si è appena conclusa a Bologna, al Padiglione Esprit Nouveau. Qui l’intervista all’autore

È partito da Bologna, per l’esattezza dal Padiglione Esprit Nouveau, il progetto a lungo termine “My house is a Le Corbusier” ideato da Cristian Chironi con il sostegno della Fondazione Le Corbusier. L’artista sardo s’insedierà, come in una performance dilatata nel tempo, nelle numerose abitazioni progettate in tutto il mondo dal celebre architetto svizzero.
 Saranno circa 30, in 12 nazioni differenti, le tappe abitative che Chironi farà rivivere in una sorta di grande mostra “work in progress”, un cantiere espositivo di idee, installazioni site-specific e performance. La prima residenza è durata circa tre settimane, dal 7 al 31 gennaio 2015, e ha coinvolto il Padiglione Esprit Nouveau, originariamente realizzato da Le Corbusier nel 1925 per l’Esposizione Internazionale di Parigi, e ricostruito nel 1977 davanti all’ingresso della Fiera di Bologna. Più che una casa, un vero e proprio manifesto dell’architettura come teoria sociale, che Cristian Chironi ha occupato in collaborazione con MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna e Xing in occasione di Art City 2015, percorso di eventi e mostre collegato ad Arte Fiera. Al primo step farà seguito l’occupazione dell’appartamento-studio di Le Corbusier all’interno dell’edificio denominato Molitor in rue Nungesser et Coli a Parigi, previsto per aprile/maggio 2015.

In attesa che inizi, abbiamo chiesto all’artista qualche dettaglio in più sul progetto generale:

L’anno scorso hai vinto una borsa di studio alla Fondazione Le Corbusier, com’è coinvolta esattamente quest’ultima nel progetto “My house is a Le Corbusier”?
Il progetto iniziale che avevo proposto alla Fondazione Le Corbusier riguardava l’analisi di una serie di relazioni legate al concetto di comunicazione, lettura e interpretazione, con conseguenti implicazioni linguistiche e socio-politiche. L’interpretazione può incidere, infatti, anche nel rapporto tra una forma di architettura ideale e la sua funzionalità popolare, e dare luogo a una sorta di scollamento tra opera e fruitore. Utilizzo la figura di Le Corbusier come uno strumento, per parlare di questioni collegate all’abitare contemporaneo. Una volta ottenuta la borsa di studio, ho proposto al direttore della Fondazione Michel Richard e all’architetto conservatore Bénédicte Gandini l’idea di poter fare un’esperienza diretta nelle numerose case progettate da Le Corbusier, confrontandomi con le diverse culture di ogni paese. Calandomi, in un periodo storico di difficile e precaria stabilità economica, nell’impossibilità di possedere una casa di proprietà e prendendomi la libertà di abitare le case di Le Corbusier.

Per questo progetto ti sei ispirato a un fatto realmente accaduto, un caso di “cattiva traduzione” che coinvolge l’artista sardo Costantino Nivola, tuo conterraneo, e un progetto di Le Corbusier, di cui era molto amico. Ce lo vuoi raccontare?
Nella seconda metà degli anni Sessanta, Costantino Nivola, originario di Orani come me, affidò al fratello “Chischeddu” il progetto di una casa di Le Corbusier, con l’auspicio che, insieme ai figli muratori, seguisse scrupolosamente le istruzioni contenute al suo interno. L’importanza di questo lascito non fu però capita. Tempo dopo Costantino, visitò la casa e notò che non corrispondeva alle caratteristiche del progetto iniziale che, a detta della famiglia “non aveva né porte né finestre e assomigliava più a un tugurio che a una casa vera e propria”. Costantino Nivola reagì riprendendosi il progetto, di cui oggi non si conosce più il destino.

Hai parlato di queste abitazioni come “postazioni di osservazione privilegiate”, cosa esattamente si può vedere (e fare) in questi luoghi?
Viaggiando di casa in casa, mi sarà possibile rendermi conto delle dinamiche che caratterizzano quel determinato contesto e i differenti ambienti di vita. Quando parliamo delle case di Le Corbusier è più corretto usare il termine “opere abitabili”. Abitare un’opera significa che ogni azione quotidiana assume un senso diverso. Vivere all’interno di una casa di Le Corbusier è un privilegio, anche se, in generale, oggi è già un privilegio possederla una casa! Durante le residenze, raccolgo suggestioni e input e li restituisco attraverso approcci creativi interdisciplinari tra installazione, video, fotografia, opere su carta e performance.

Vuoi citarci alcune tra le abitazioni più interessanti, progettate da Le Corbusier nelle 12 nazioni, che My house is a Le Corbusier intende coinvolgere il futuro?
Ogni casa ha la sua particolarità. Sono interessato a percorrere soprattutto la geografia dettata da queste abitazioni, quindi dopo l’Esprit Nouveau a Bologna e il Molitor a Parigi, vorrei spostarmi in Svizzera, Giappone, Germania, Belgio, India, Stati Uniti, Argentina, Tunisia, Russia, Iraq. Le ultime tre nazioni, per diverse ragioni, sono problematiche da affrontare, e andranno sicuramente vissute diversamente dalle altre: sono Villa Baizeau a Cartagine, il Centrosoyuz a Mosca e lo Stadio di Baghdad.




Produzione rifiuti urbani nelle quattro più grandi città italiane.

I numeri del 2014.

Prendiamo Roma, Milano, Torino e Napoli come campione significativo per analizzare i numeri della produzione complessiva di rifiuti urbani a livello nazionale. Nelle quattro città i rifiuti urbani sono diminuiti complessivamente dello -0,29%.

Le quattro più grandi città italiane mostrano dati contrastanti rispetto alla produzione di rifiuti urbani nell’anno 2014 se paragonate all’anno precedente. Napoli e Milano mostrano un aumento della produzione di rifiuti urbani. In particolare Milano ha un aumento più consistente pari al +2,37% mentre quello di Napoli è più contenuto, solo un +0,83%. In tonnellate il capoluogo lombardo ha prodotto 665.461t (un aumento di 15.803t rispetto al 2013) mentre quello campano ha prodotto 50.1665t nel 2014 (un aumento di 4.165t rispetto all’anno precedente).

Nelle altre due città di riferimento, Roma e Torino, l’andamento è negativo. Nella Capitale è stata registrata, rispetto al 2013, una diminuzione di rifiuti urbani prodotti pari al -1,56%, mentre nel capoluogo sabaudo la diminuzione è stata del -0,59%. In tonnellate a Roma sono state prodotte, nel 2014, 1.728.000t (una diminuzione di 27.000 tonnellate rispetto al 2013), mentre a Torino i rifiuti urbani prodotti sono stati 413.309t (2.441t in meno rispetto al 2013). Bisogna precisare che l’andamento della produzione dei rifiuti urbani di Roma nel 2013, rispetto a quello del 2012, è stato in controtendenza rispetto a quello nazionale segnando un aumento della produzione dei rifiuti urbani.

Se si sommano i dati della produzione dei rifiuti urbani nelle quattro città, si nota che complessivamente i rifiuti urbani prodotti sono diminuiti del -0,29% (una flessione di 9.473 tonnellate rispetto al 2013, anno in cui invece i rifiuti erano diminuiti più sensibilmente rispetto al precedente).

Nelle quattro città si concentra l’11% della popolazione residente nazionale pari a 6.078.739 abitanti (dati Istat), e se paragoniamo i rifiuti urbani prodotti nel 2013 dalle quattro città ovvero 3.318.088t con quelli prodotti dalla nazione Italia sempre nel 2013 (29.594.665t, dati Ispra) a loro volta i rifiuti urbani prodotti dalle quattro città rappresentano l’11% del totale.

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PARROCCHIETTA: DOVE I RAPPORTI SI COLTIVANO CON I CAVOLI

A Roma, grazie al progetto Amarcord, 17 orti urbani producono verdura biologica, ma anche amicizia, cura del territorio e salute.

Quando tutto ebbe inizio, dodici anni fa, l’orto non era neppure tornato di moda. La moglie del presidente degli Stati Uniti, Michelle Obama, non aveva ancora sdoganato la moda di coltivare broccoli e zucchine da sé, possibilmente vicino casa e rigorosamente col metodo dell’agricoltura biologica. Eppure, già a quell’epoca, l’associazione di volontariato Parrocchietta delle Gocce aveva compreso quanto possa essere rivoluzionario piantare un orto su un territorio strappato all’incuria e al degrado. Un’intuizione che questa organizzazione, figlia di un attivo quanto battagliero comitato di quartiere, ha trasformato col tempo in una parte essenziale della sua mission. Tanto che un anno fa, con il progetto Amarcord, ha fatto nascere 17 orti urbani, coltivati da pensionati e persone uscite prematuramente dal mercato del lavoro. Che insieme alle verdure di stagione hanno imparato i semi per una nuova e più fruttuosa vita.

Contro il degrado e contro la crisi
Siamo a Roma, nell’omonimo quartiere Parrocchietta, un pugno di case tra Via del Trullo e Viale Newton, nell’attuale XI Municipio (ex XV). «L’esperienza degli orti è cominciata nel 2003, quando l’associazione era stata fondata da poco, l’orticultura era considerata un’attività estremamente di nicchia e noi eravamo visti come un gruppo di stravaganti – ricorda il presidente Paolo Lugni –. All’epoca andavamo nelle scuole elementari, dove le attività di manutenzione delle strutture erano già allora piuttosto carenti, proponendo di recuperare gli spazi abbandonati per farne degli orti che i ragazzi avrebbero gestito insieme ai nonni». La creazione dell’orto andava, infatti, a coronare quello che era già l’impegno a riqualificare gli spazi lasciati al degrado proprio dell’associazione, che oggi conta una sessantina di volontari attivi a cui si aggiungono altrettanti associati che beneficiano delle varie attività ricreative.

«All’inizio gli orti rappresentavano soprattutto un modo per coltivare i rapporti intergenerazionali – riflette il presidente –. Ma poi con l’arrivo della crisi tutto è cambiato». E gli orti sono diventati meta non solo di anziani in pensione, ma anche di cassaintegrati e di persone uscite dal mercato del lavoro prima del tempo, che nel quartiere non trovavano altra chance se non il gioco delle carte al centro anziani. «I nostri non sono soltanto degli orti urbani dove gli “ortisti” lavorano ciascuno il proprio pezzo di terra – prosegue –. Perché i nostri “ortolani volontari”, oltre a prendersi cura del proprio appezzamento di terreno, si occupano anche della manutenzione degli spazi circostanti, accessibili all’intera popolazione residente. Che qui può seguire corsi di compostaggio, coltivare i fiori che poi verranno piantati nelle aiuole del quartiere o semplicemente partecipare a momenti di convivialità».

I raccolti della solidarietà
Gli orti sorgono su un terreno di pertinenza di un asilo nido, prima lasciato in disuso: circa 1.200 metri quadrati situati nella Valle dei Casali, cui dopo un po’ se ne sono aggiunti altri 800 di proprietà di un privato confinante, che ha concesso l’area in comodato d’uso gratuito all’associazione in cambio della buona manutenzione del terreno. Attualmente gli ortolani volontari sono 15, tra cui due donne, hanno un’età compresa tra i 60 e i 78 anni e nella loro vita lavorativa occupavano la posizione di impiegati, artigiani, operai non qualificati. Ma oltre agli appezzamenti personali, c’è anche un orto affidato a una cooperativa sociale che si occupa di persone con disabilità e un altro coltivato in comune e destinato a chi, nel quartiere, non riesce a sbarcare il lunario.
Le attività che ruotano attorno agli orti creano socialità
«Il “raccolto della solidarietà” viene portato nella sede dell’associazione dove poi viene consegnato alle persone in difficoltà economica – spiega Lugni –. Di solito è il presidente del centro anziani a segnalarle. Noi prepariamo delle buste, che si arricchiscono sempre dei prodotti provenienti dagli orti dei volontari». E si tratta di prodotti non solo a chilometro zero, ma anche rigorosamente biologici che gli “ortolani” hanno imparato a coltivare anche grazie al supporto di tecnici che hanno messo a disposizione le loro competenze. Un lavoro e una cura quotidiana che ha determinato un notevole beneficio personale, in termini di salute fisica e psichica. Con risultati tangibili e sotto gli occhi di tutti: «Abbiamo visto tornare il sorriso sul volto di gente indurita dalla vita – conclude il presidente –. Alcuni sono dimagriti e altri hanno diminuito l’uso dei farmaci, ma soprattutto tutti sono diventati amici e hanno trovato spazi di aggregazione, rompendo l’isolamento in cui si cade con la fine del lavoro».

Coltivando, insieme a patate, broccoli e zucchine, una nuova vita di relazione e di cura del territorio.

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Con Uber, contro il mercato delle tribù

In questi anni il mercato è divenuto sempre più incontrollabile. Staccatosi da una dimensione tutta reale, fatta di luoghi, documenti cartacei e strumentazioni, s’è spostato su Internet ed esiste sotto forma d’app. Una legislazione arcaica e restrittiva come quella italiana, che tende a creare categorie entro le quali far agire il cittadino per tassarlo e regolamentarne l’azione, non riesce più a star al passo con quella forma di libero mercato fatta di collaborazioni e di condivisione, e che si svolge in una sorta di zona grigia, al limite con l’illegalità.

Finora avevano beneficiato tutti della zona grigia. I barbieri tagliavano i capelli a domicilio, rigorosamente in nero. Pensionati con abilità pratiche s’improvvisavano tuttofare e arrotondavano la pensione facendo riparazioni domestiche. Tassisti facevano pagare un po’ di più il turista straniero, con la connivenza di tutti i colleghi, o si offrivano di trasportare in giro carichi poco legali o signorine troppo procaci. Il tutto accadeva nell’ombra, col beneplacito delle autorità — impossibilitate a controllare tutti per ovvi motivi pratici — e con grande spirito di collaborazione tra i coinvolti. L’idea alla base di tutto era che bisognava mangiare tutti, e ha funzionato finché gli attori sul mercato sono rimasti sempre gli stessi.

> Uber e il neoluddismo di un Paese in fuga dalla realtà

Poi sono arrivate le app per smartphone, ed è arrivata sul mercato una generazione di disoccupati che sa usare benissimo Internet e ha bisogno di campare esattamente come tutti gli altri. Il problema di questa nuova generazione è che ha sfruttato la zona grigia in modo massiccio, industriale, sistematico, organizzandosi su Internet. Ne ha fatto non più una stradina dissestata per pochi, ma una grande via consolare lastricata per molti. Per tutti, anzi. Nascono così UberPOP, Airbnb, BlaBlaCar e tutti quei servizi che permettono a chiunque di divenire un fornitore di servizi.

La recente protesta dei tassisti contro UberPOP — l’ennesima — sembra ancor una volta dimostrare che i tassisti non vogliono la legalità totale nell’esercizio della loro professione: vogliono semplicemente che la concorrenza sia dichiarata illegale dalle autorità. La categoria dei tassisti pretende che vengano effettuati controlli sulle app, e non in modo generico sulla loro attività di trasporto pubblico. Un controllo generico metterebbe in pericolo la zona grigia nella quale molti di loro hanno sempre operato senza scatenare alcuna protesta. Di tanto in tanto, in passato, c’era qualche sciopero contro i tassisti abusivi, coloro che si fingevano tassisti senz’averne la licenza. Anche in quel caso, i tassisti regolari chiedevano alle forze dell’ordine e alle autorità di scacciare dal mercato la concorrenza sleale; ma non hanno mai chiesto di controllare quelli che, tra di loro, commettessero quelle piccole irregolarità che permettono a tutti di campare e sulle quali si tace di comune accordo. Eppure queste irregolarità, quando scoperte, danneggiano l’immagine dell’intera categoria: perché non ci sono state proteste? Come detto, le piccole irregolarità commesse nella zona grigia non intaccavano pesantemente l’intera categoria. Erano al massimo una rogna per quei pochi colleghi che operavano nelle stesse zone, ma in linea generale il mercato non ne usciva modificato.

> Uber non è illegale, ecco perché

Uber, invece, è giunto a modificare totalmente gli equilibri e ha trasformato la zona grigia non più in un rifugio temporaneo per pochi, ma nell’unica zona in cui operano centinaia di nuovi fornitori di servizi. Non c’è più l’abusivo che finge d’appartenere alla categoria privilegiata, ma c’è qualcuno che si tiene ben distante dalla categoria e che anzi offre i suoi servizi mascherandoli da semplice favore che viene poi ripagato da chi lo riceve. Un do ut des che ha la pretesa di restare fuori dall’àmbito commerciale e che giunge sul mercato come nuova forma di collaborazione tra cittadini/utenti. Una collaborazione organizzatissima, cui le categorie tradizionali non possono opporsi.

Per i tassisti, Uber è lo straniero che è venuto a rubare il lavoro, senza sottomettersi ai piccoli cartelli locali e a quelle leggi non scritte del «come si è sempre fatto». È un po’ come il medico giunto nel villaggio in cui il monopolio delle cure era in mano allo sciamano da secoli. Per quanto lo sciamano possa additare il nuovo giunto come servitore del demonio, è solo questione di tempo prima che gli utenti si rendano conto della maggior efficienza del medico e abbandonino il vecchio monopolista.

Il fenomeno della zona grigia non ha colpito solo i tassisti, sia chiaro. Ultimamente sono sempre più frequenti gli «home restaurant», servizi di ristorazione a domicilio. Dei perfetti sconosciuti s’incontrano a casa di un cuoco improvvisato, previo accordo, e mangiano esattamente come si farebbe al ristorante. Nulla impedisce, infatti, alle persone di ricevere gente in casa e d’offrirle un pranzo o una cena, e nulla impedisce ai convitati di pagare il cuoco per il servizio offerto. Dopotutto, è ciò che si fa spesso tra amici. In molte zone d’Europa, gli home restaurant si stanno organizzando in grossi network che controllano persino la qualità dei pasti offerti e garantiscono sui prezzi. Insomma, il fenomeno s’è esteso, facendo leva sull’impossibilità di controllare ogni ricevimento privato e sul diritto di ricevere in casa chiunque si desìderi, amico o straniero. In Italia c’è stata già qualche lieve protesta contro gli home restaurant, e probabilmente tra qualche anno assisteremo a uno sciopero nazionale dei ristoratori, che chiederanno al governo maggiori controlli sulle app che permettono l’incontro fra domanda e offerta di servizi di ristorazione a domicilio. Sosterranno che si tratta di una pratica abusiva che va sradicata, ma non pretenderanno mai che i controlli siano effettuati sui locali di tutti i ristoranti, per capire chi svolge la professione in locali abusivi o chi paga l’affitto in nero: questo sarebbe troppo. L’unica preoccupazione è scacciare la concorrenza con la legge.

> Uber è solo l’inizio

Uber non è semplicemente un’azienda in crescita: è un fenomeno. È il mercato del nostro secolo, di un mondo interconnesso che tenta di sfuggire ai lacci dello Stato e d’organizzarsi in tanti porti franchi nei quali l’aspetto volontaristico e la fiducia prevalgono sulle garanzie che lo Stato si arroga d’offrire. Opporsi a Uber sarebbe come opporsi all’invenzione della stampa con la sola motivazione che essa avrebbe tolto il lavoro ai copiatori di libri. Purtroppo o per fortuna, il progresso mieterà sempre delle vittime, ma a nessuno è vietato adeguarsi: semplicemente, fa più comodo protestare coi governi e chiedere di fermare il mondo per fare un favore a pochi.

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CORVIALE – Il serpentone – 2001

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CORVIALE, il serpentone (2001)
from heidrun holzfeind on Vimeo




fatto@scampia

La Cooperativa Sociale “La Roccia” ha per scopo il perseguimento dell’interesse generale della comunità locale mirato alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini attraverso lo svolgimento di attività finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. La cooperativa opera sul territorio di Scampia, periferia a nord della città di Napoli, ed è retta da principi di mutualità e solidarietà; non ha fini di lucro e persegue lo scopo mutualistico nell’interesse e per il vantaggio di tutti i soci ed al suo interno esistono due realtà produttive, i laboratori di sartoria e di cartotecnica.

Il laboratorio di sartoria nasce nel 2004, all’interno della Cooperativa Sociale “La Roccia”, a seguito di un corso di formazione per Sarte della Regione Campania che ha coinvolto un gruppo di ragazze di Scampia interessate all’inserimento lavorativo in questo campo professionale; esso si trova presso il Centro “Alberto Hurtado” e si propone di formare al lavoro ragazze e donne del quartiere Scampia. In particolare, oltre al trasferimento delle competenze professionali specifiche, lo scopo è offrire un’esperienza di serena crescita nei valori della cultura del lavoro e della legalità.
Il laboratorio di cartotecnica della Cooperativa Sociale “La Roccia” di Scampia, nato nell’anno 2009, si trova presso la “Bottega artigiana per il libro” nella ex casa del custode della Scuola Elsa Morante in viale della Resistenza. Ne sono promotori e protagonisti 4 giovani, ai quali sono state trasferite le competenze, durante una formazione biennale, da un allievo della scuola del grande maestro napoletano Michele Eliseo. Il progetto nasce da un importante finanziamento della Fondazione Vodafone Italia e dalla collaborazione della Provincia di Napoli che ha concesso i locali della ex casa del custode all’interno della Scuola Elsa Morante.
Nel corso di questi anni i laboratori di sartoria e di cartotecnica della Cooperativa Sociale “La Roccia” sono cresciuti, grazie allo sviluppo professionale e personale delle persone che ne fanno parte: la formazione sul campo ha permesso alle nostre sarte e ai nostri artigiani un incremento delle competenze professionali, attraverso un confronto costante con la realtà del mercato e le problematiche legate al lavoro quotidiano, attraverso la possibilità di sperimentare lo spirito della cooperazione e condividere le responsabilità dell’attività professionale.
Il marchio fatto@scampia veicola l’idea di un prodotto completamente made in Scampia, progettato e realizzato secondo lavorazione artigianale, e legato inestricabilmente al territorio in cui nasce ed opera la realtà cooperativa, il cui scopo è certamente quello di contribuire allo sviluppo e al radicamento della cultura del lavoro e della legalità sul territorio.
Dal 2013, con il negozio online fatto@scampia, la Cooperativa Sociale “La Roccia” affronta una nuova sfida: l’e-commerce, la nuova frontiera del mercato.

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Milano: presentato il Piano urbano mobilità sostenibile per i prossimi anni

L’assessore alla Mobilità e Ambiente Pierfrancesco Maran del comune di Milano ha illustrato alla Giunta il Piano della Mobilità Sostenibile (PUMS). Il documento è frutto di un approfondito confronto aperto con la città e con gli enti coinvolti avviato nel 2013 ed è stato redatto sotto la supervisione di un Comitato Scientifico. Il piano è destinato a ridisegnare la mobilità di Milano nei prossimi 10 anni e ridefinisce i confini della Città metropolitana, andando a servire e collegare ampie zone extraurbane.
“Abbiamo di fronte a noi una grande sfida: riuscire a garantire dei servizi ancora più efficienti e sostenibili ad un maggior numero di persone – ha dichiarato l’assessore Maran -. Oggi Milano è già un punto di riferimento a livello internazionale per le politiche di mobilità, ma la nascita della Città metropolitana ha ridefinito i confini comunali, rendendo indispensabile una rimodulazione dei servizi in base alle reali esigenze di chi ogni giorno vive e transita a Milano. Il Piano va proprio in questa direzione, aumentando i servizi nelle periferie e verso la Città metropolitana”.
“Il Piano – prosegue Maran – non è una scatola chiusa, ma può essere ancora arricchito grazie al contributo che le associazioni di categoria, comitati, cittadini e consiglieri comunali vorranno apportare nei prossimi 60 giorni”.
Dopo la delibera di presa d’atto della Giunta, infatti, la prossima settimana il documento, insieme al rapporto ambientale e alla sintesi tecnica, verrà messo a disposizione per 60 giorni presso gli uffici del Settore Pianificazione e Programmazione Mobilità e del Settore Politiche Ambientali ed Energetiche e pubblicato sul sito del Comune di Milano e di Regione Lombardia, in modo che chiunque possa prenderne visione e presentare le proprie osservazioni sulla procedura di VAS.

Allo scadere dei 60 giorni il PUMS verrà adottato in Consiglio Comunale con le eventuali modifiche apportate. Il Piano verrà nuovamente messo a disposizione per altri 60 giorni per le osservazioni sui contenuti, per poi essere approvato definitivamente dal Consiglio Comunale.
A livello di trasporto urbano, il piano prevede il potenziamento della rete con il prolungamento di alcune le linee metropolitane oltre i confini comunali, in particolare: la M2 da Cologno Nord a Brugherio e da Assago a Rozzano, la M3 da San Donato a San Donato est, la M5 da San Siro a Settimo e la M4 da San Cristoforo a Corsico – Buccinasco. A questo si aggiunge la progettazione di una sesta linea, lungo la connessione radiale Nord-Ovest, Sud-Est, con servizio sugli assi Certosa/Sempione e Tibaldi/Quaranta. Il documento prevede inoltre la modernizzazione della M2, con il rinnovo del materiale rotabile, l’impermeabilizzazione delle gallerie e il restyling delle stazioni.
Ovviamente sul reperimento delle risorse, che per questi investimenti sono sempre stati in larga parte statali, il piano non ha titolo per entrare nel merito. Tuttavia per la prima volta negli strumenti di piano vi è un allegato dettagliato che analizza l’utilità marginale di ogni singolo investimento e che potrà aiutare Comune di Milano, Città Metropolitana, Regione e Governo a definire costi benefici di ogni investimento per orientare le scelte e l’allocazione delle risorse disponibili nei prossimi anni.
Alcune delle attuali linee tranviarie vedranno inoltre allungare il loro percorso e si trasformeranno nelle cosiddette Linee T, linee di forza più veloci e complementari alla rete delle metropolitane.
Il Piano considera poi di istituire sistemi rapidi su gomma per collegare la città ad alcune importanti direttrici ad oggi non ancora servite: Arese – Lainate, Vimercate, Segrate – Pioltello, Paullo, Binasco e del Cusago.
Per quanto riguarda l’offerta di parcheggi, il PUMS ne prevede la realizzazione in funzione dei prolungamenti delle linee metropolitane a Monza Bettola, lungo la direttrice di via Novara, San Donato Est, Corsico- Buccinasco e Lambrate. Il PUMS indica inoltre la necessità che i parcheggi vengano realizzati lungo le direttrici ferroviarie dell’hinterland, intercettando l’utenza quanto più possibile in prossimità dell’origine del viaggio.
Si ritiene di mantenere Area C, fino alla realizzazione di M4, ai suoi attuali confini alla Cerchia dei Bastioni. Il Piano individua come azione prioritaria la realizzazione di una Low Emission Zone posta in prossimità del confine comunale ma all’interno della cerchia delle tangenziali. Uno strumento che prevede l’installazione di varchi elettronici in grado di controllare in maniera automatica il rispetto delle regole adottate dalla Regione Lombardia sulla circolazione veicolare, in funzione delle classi emissive Euro, consentendone un effettivo controllo sul territorio comunale di Milano, nonché il controllo di camion e veicoli di ampie dimensioni, seguendo il modello londinese.
Il PUMS promuove l’ulteriore diffusione dei mezzi in condivisione. Già oggi Milano è, con Parigi e Berlino, un punto di riferimento europeo per questi servizi, che verranno estesi al punto che con ogni probabilità nei prossimi anni ogni cittadino sarà registrato ad almeno un servizio di sharing.

E’ un’evoluzione già in corso, grazie all’avvio del car sharing nel 2013, e che nei prossimi mesi vedrà l’aggiunta dello scooter sharing e delle bici a pedalata assistita, con l’estensione di Bikemi fuori dalla cerchia della 90/91.
Un altro aspetto fondamentale del Piano è la valorizzazione dello spazio urbano, attraverso interventi di moderazione della velocità veicolare (zone 30 e isole ambientali) che renderanno la città più sicura e sostenibile. ” Tra le grandi città italiane, Milano è quella che registra il più basso indice di mortalità sulle strade. La nostra priorità è rendere le strade di Milano sempre più sicure attraverso provvedimenti mirati a ridurre la velocità stradale” , sottolinea l’assessore Maran. Parallelamente il PUMS incentiva la mobilità dolce, rafforzando o la rete ciclabile e prevedendo una rete di itinerari pedonali.
Il Piano cerca di rendere anche più efficienti le imprese milanesi e lombarde attraverso una gestione più smart della logistica merci, che sviluppi alcuni progetti sperimentali già in corso, integrandoli con la low emission zone e consentendo una migliore gestione dei sistemi di carico e scarico.
Il Piano renderà Milano una città accessibile a tutti. In questo contesto si inserisce l’elaborazione del Piano di Eliminazione delle Barriere Architettoniche (PEBA), che prevede l’offerta di applicazioni tecnologiche in grado di fornire informazioni sulle condizioni di accessibilità dei percorsi stradali, oltre ad interventi puntuali per le aree di interscambio del trasporto pubblico.
La piena attuazione del PUMS avrà come effetti positivi la riduzione del 25% del traffico nelle zone a velocità moderata, l’aumento della velocità del trasporto pubblico del 17%, il decremento della congestione da traffico dell’11% e la riduzione delle emissioni di gas climateranti del 27%. Inoltre il PUMS porterà un aumento della popolazione con buona accessibilità al trasporto pubblico del 142%. Il valore dei benefici complessivi per la collettività, secondo il documento presentato, risulta essere oltre il doppio del valore dei costi per la collettività, comprensivi degli investimenti.

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A Firenze l’ufficio urbanistica utilizzerà i droni. Come sfruttarli in città

Monitorare i monumenti, l’andamento dei cantieri e gli eventuali abusi edilizi con i droni. L’idea dell’assessore all’Urbanistica, Elisabetta Meucci.

Dopo essere stati utilizzati per creare modelli 3D, monitorare i cantieri di Expo Milano 2015 e anche per ispezionare zone di difficile accesso per gli essere umani, i droni sbarcano ora anche nella città di Firenze.

L’assessore all’Urbanistica, Elisabetta Meucci, vorrebbe infatti predisporre un progetto speciale per l’utilizzo dei droni per monitorare la trasformazione della città e far partecipare i cittadini ai cambiamenti in atto e in tempo reale.

L’idea è quella di monitorare i monumenti, l’andamento dei cantieri e gli eventuali abusi edilizi nella città e mostrarli tramite la rete civica del Comune ai cittadini in tempo reale. L’innovativo strumento di controllo è previsto dal nuovo regolamento urbanistico, di recente approvato dalla giunta e ora in attesa dell’ok del consiglio comunale (leggi qui).

DRONI. I SAPR (Sistemi Aerei a Pilotaggio Remoto) dotati di sensori ottici (fotocamere) oppure di LIDAR (Laser Imaging Detection And Ranging), riescono oggi a colmare quel vuoto tra il rilievo di precisione con tecniche manuali (ad esempio tramite la stazione totale) e la fotogrammetria aerea (per giustificare il quale servono ampie estensioni di terreno da coprire in ogni missione).

I SAPR riescono bene dove occorrano rilievi di elevata precisione e risoluzione su estensioni fino ad alcuni chilometri quadri.

Tuttavia – spiega l’ing. Maurizio Vannucchi che ha coordinato la presenza del Collegio degli Ingegneri e Architetti di Milano a DroneItaly – l’utilizzo professionale dei SAPR è soggetto a specifiche normative quali il Codice della Navigazione Aerea, i regolamenti ENAC, e a problematiche connesse alle procedure di autorizzazione al volo, alla privacy in tema di dati personali raccolti con videoriprese, alla sicurezza intrinseca dell’apparato e del suo funzionamento oltre a quella relativa al contesto nel quale va ad operare che spesso sono disattese dagli operatori non qualificati e possono portare ad un quadro sanzionatorio molto elevato”.

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