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La rivolta gentile del Trullo, quartiere metroromantico

Non solo degrado, scarabocchi e insulti sui muri, palazzi grigi e strade lerce. Non solo rabbia, conflitto, disfattismo. Una periferia può essere anche altro. Colori, versi, solidarietà, relazioni amicali. È la lezione del Trullo, quartiere difficile di Roma in cui si scrivono storie esemplari. Qui sono nati i Poeti e i Pittori Anonimi, qui si organizzano festival di poesia di strada e street art, qui si insegna il senso del rispetto per i luoghi e le persone. Dove la politica non arriva, i cittadini si organizzano da sé.
QUANDO L’ARTE RISCATTA LA PERIFERIA
Ci sono luoghi che raccontano un’altra verità. Antagonisti per definizione, dove l’essere “contro” diventa l’essere “con”, e le ragioni del conflitto incontrano le modalità del dialogo, un codice condiviso, un ordine alternativo fiorito nel disordine stratificato.
Luoghi che all’emergenza sociale rispondono con l’urgenza della cultura. Intitolati a una realtà ruvida, di aculei, di strappi e di improvviso tepore. È da qui, da questi centri vitalissimi e marginali, che sorge l’idea di quel nuovo “realismo” a volte divenuto una faccenda estetica, filosofica, intellettuale. Ma questo è un passaggio successivo, che attiene giusto alla teoria. Qui, intanto, si registrano i fatti. Cronaca di un quartiere che rinasce, a suon di versi e di immagini sui muri. Fenomenologia di una periferia in transito, fuori dai cliché politico-mediatici.
Il Trullo è un posto così. Roma, municipio XI, una realtà popolare con tutte le asprezze del caso: tra piccola borghesia in lotta contro i colpi della crisi, disoccupazione, criticità sociali, spaccio, emarginazione, solitudini e scarsezza di servizi, il Trullo racconta anche storie di solidarietà, di generosità, di militanza, di genuinità. E soprattutto di coraggio, laddove non si lascia spazio alla resa. E racconta, sorprendentemente, storie di rinascita dal basso, mediate dalla pratica dell’arte. Fra scrittura e pittura.

I POETI DER TRULLO. VERSI FRA LE STRADE DI UN QUARTERE
Nel 2010 nascevano, un po’ per caso e un po’ per urgenza d’espressione, i Poeti der Trullo. Ragazzi del quartiere ma anche di zone limitrofe, come Corviale, trovatisi a condividere l’amore per il verso. Non la droga, non le aggressioni pseudo-ideologiche tra fazioni rosse e nere, non il vuoto quotidiano e la disillusione. La poesia, piuttosto, come provocazione dolce e scommessa affilata.
Loro sono Er Bestia, Er Quercia, Er Pinto, Inumi Laconico, ‘A Gatta Morta, Marta der III lotto, Er Farco. Giovani, ironici, cocciuti sognatori metropolitani. O come amano definirsi: “metroromantici”. Che sono i figli di un romanticismo urbano, senza fronzoli né metriche polverose, senza retoriche, artifizi e stilemi: un modo contemporaneo d’essere ottocenteschi, impastati d’emotività e di inquietudine, di empatie e di minime ispirazioni, d’infinito, d’utopia e di malinconia sottile, scegliendo la strada come spazio d’avventura.

I Poeti der Trullo restano anonimi, scrivono parole sui muri, sfrecciano su Internet e impazzano sui social, raggiungendo oggi quasi 150mila like sulla loro pagina Facebook. Nel 2015 pubblicano un libro, totalmente autoprodotto e andato letteralmente a ruba. Perché i Poeti diventano, prestissimo, un fenomeno mediatico. Aiutati dal gioco della segretezza, insoliti nella loro vocazione lirica, intimamente popolari, seducono, conquistano, spargono mucchietti di parole fra i cieli di una Roma proletaria e i muri sgualciti di un quartiere-nido, giardino, isola, rifugio.
“Il Trullo è un luogo della mente”, scrive Inumi, “e tutta la periferia esistente può essere seme e frutto di poesia. Noi esistiamo per dimostrarlo. Noi esistiamo per sporcare i passanti e i vicini del colore che ci è esploso dentro. Abbiamo deciso di lasciarlo fluire e di non arginarlo”.
Quei versi mezzo romaneschi e mezzo italiani – di un italiano un poco ruvido, screziato d’amarezza e joie de vivre– hanno inseguito l’obiettivo: parlare alla gente, attecchire fra il cemento e la distrazione diffusa, incidere gli interstizi dello spazio pubblico con versi, storie, assalti laterali, pause d’introspezione. Roba che richiede attenzione e che provoca stupore.

I PITTORI ANONIMI DEL TRULLO. TUTTE LE STORIE DIETRO I COLORI
In principio fu il verbo. Il verso poetico come pozione insolita, per curare l’apatia di un quartiere, il suo grigiore. Poi, qualche tempo dopo, seguirono i colori: rulli, pastelli, acrilici, pennelli. I Pittori Anonimi del Trullo sono un’altra germinazione felice di questo tessuto sociale disagiato, solo apparentemente infruttuoso.
Era il 2013 quando Mario D’Amico, un sessantenne dalle lunghe chiome canute e gli occhi infinitamente buoni, decideva di aprire un nuovo capitolo della sua vita un po’ sbilenca, da combattente e solitario freak, ai margini del mondo e nel cuore del quartiere. Così, perseguì il suo credo: agire, invece di voltare lo sguardo; unire, anziché distruggere; seminare, per non soccombere al degrado. Un luogo lo si ama anche e soprattutto prendendosene cura. E insegnando agli altri come si fa.

Mario, nato e vissuto al Trullo, amabile sciamano dalla vita irregolare, insieme a un gruppetto di coetanei prese a dipingere i muri dei palazzi, le panchine, le scale, preoccupandosi prima di pulire, cancellare, sistemare le aiuole. Operazioni di riqualificazione notturna, svelando al risveglio piccoli teatri variopinti. Il Trullo diventava, via via, un altro luogo. Monocromi pastello, intrecci geometrici, rettangoli rosa, azzurri, verdi e gialli, pattern e raggiere: una serie di esperimenti d’astrazione divoravano lo scempio di scritte politiche, ingiurie, scarabocchi, cartacce.
La nuova legge era stabilita, prima tacitamente, poi chiarita a gran voce: niente svastiche, falci e martelli, scritte calcistiche, manifesti. L’armonia del colore sanciva la deposizione delle armi. Basta gang, fazioni, piccoli branchi di pischelli o adulti rabbiosi. Basta alla tirannia del brutto e del volgare.
Mario e i suoi amici, a un certo punto, uscirono alla luce del sole. E iniziarono a discutere coi residenti. Perché la conseguenza migliore di tutto questo non fu la bellezza ritrovata del quartiere, quanto l’energia che ne veniva. Qualcuno, afferrando un pennello, ritrovava la voglia di evadere dal baratro quotidiano; qualcuno iniziava a scambiare opinioni coi vicini sulla scelta di un colore, sulla facciata pulita, sul Trullo che cambiava. E c’era chi offriva un piatto di spaghetti ai pittori in azione, chi si fermava a sbirciare, chi si lasciava contagiare partecipando al gioco. La pittura come attivatore sociale.

C’erano – e ci sono – ragazzini incattiviti, che alle tinte pastello preferiscono lo sfregio e il pugno duro; a questi ragazzi Mario mette i colori tra le mani e prospetta un’alternativa, sul piano della creatività e della partecipazione. Certi si salvano, altri restano attaccati al loro destino di micro criminalità e di vuoto affettivo. Ma la battaglia è in atto: Pittori e Poeti stanno provando a costruire una comunità. E versi e colori non sono che la scorza. Dietro ci sono storie, vicende private, possibili riscatti, distanze e appartenenze.
I Pittori Anonimi del Trullo, oggi, vanno in giro per tutta Roma. Li chiamano le scuole per colorare le pareti insieme ai bambini. E loro vanno, spesso senza nemmeno una copertura spese. Una specie di missione. Là dove lo Stato non c’è, il cittadino – a volte – risponde con l’esempio. Lo scontro politico è già bypassato. Perché mentre la politica muore, fra talk show e manifesti elettorali (abusivi), magari sta già risorgendo in forme autonome e micro comunitarie.

STREET POETRY E STREET ART. IL FESTIVAL
“Ecco la Street Art, ar popolo appartiene / Potenza nelle vene che spezza le catene / Ner monno che se spegne è foco nella strada / Che ‘n giorno apre l’occhi e se trova tatuata / Non conosce serrature e orari de chiusura / De ‘n museo a cielo aperto indomabile creatura”. Così si chiude una poesia di Er Bestia, che bene racconta il legame resistente del quartiere con l’arte di strada. Amicizie, frequentazioni, passaggi di artisti e progetti comuni. Come nel caso di Solo, street artist con la passione per i fumetti, anche lui figlio del Trullo, nato qui 33 anni fa, cresciuto in mezzo a quei ragazzini che oggi si reinventano Poeti e in mezzo a quei Pittori che un tempo erano gli amici del papà, prima che la vita se lo portasse via, prematuramente. Legami e ancora legami, tra biografie private e intrecci professionali.
Solo, nel 2014, insieme ai Poeti, i Pittori, allo studio Trasformazioni Urbane e al lettering artist Pepsy, ha regalato al suo quartiere la splendida Nina, opera corale e simbolica, divenuta simbolo di questa rigenerazione attiva.

E c’è anche la Street Art al centro della terza edizione del Festival Internazionale di Poesia di Strada, approdato – dopo Milano e Genova – proprio in questo angolo di Roma, fra il 17 e il 19 ottobre scorso. Declinando il tema dei “Viandanti”, street artist e street poet hanno lavorato in coppie, tra muri di palazzi e saracinesche di negozi. Effetto didascalico evitato. Pittura e scrittura si sono tenute insieme a partire da un’urgenza di fondo: leggere l’anima del Trullo e restituirla in una forma creativa. L’alchimia è sgorgata da sé.
Dal ritratto di Mario nei panni di scrivano, magistralmente dipinto da Gomez sul filo di un toccante componimento del Poeta del Nulla – opera dedicata alla potenza dell’ombra come altro da sé, racconto intimo, linguaggio notturno – all’efficace intervento dei milanesi Ivan e Piger: una membrana di calligrammi rossi e azzurri, a ricalcare un frammento architettura, nascondendo parole chiave e versi di resistenza lungo un tappeto di scrittura goticheggiante, preziosamente contemporanea.

E poi Solo – parte attiva dell’organizzazione del Festival – che nella piazza principale ha dipinto un ritratto oversize di Laura, vecchia amica del quartiere, scomparsa di recente; Moby Dick, col suo omaggio allo sguardo magnetico delle donne d’Oriente, creature in fuga, in cammino, in trincea; Diamond, che sulla facciata di una scuola ha tracciato con maestria i profili di un uomo e una donna, agganciati in un romanico stemma d’antan; Mr. Klevra, col suo angelo custode, raffinata apparizione spirituale; Bol23, col suo iconico pappagallo; Marcy, che ha sospeso un funambolo nello spazio, sulle orme di un “coraggio clandestino”; Gio Evan, col suo inno alla gioia per i ragazzi di strada, impreziosito da un dipinto di Jerico… Giunti da tutta Italia i poeti – tra gli altri anche Ste-Marta, Factory Wrting, M.E.P, Mr. Caos, Alfonso Pierro… – per una piccola Woodstock di periferia nutrita di parole, ritmi, haiku. sonetti. Una grande festa creativa, ma soprattutto umana.

I concerti al Cso Il Faro, intanto, hanno supportato l’operazione con gli incassi, grazie alla generosità dei musicisti, privatisi dei cachet. Cantautorato romano, indie, tanto rap e come special guest i Colle der Fomento, sempre travolgenti.
“Ci ancoriamo per navigare altrove” è il verso di Poesie Pop Corn inciso sul muro di Diamond. Forse la sintesi migliore di questo festival e di tutta la mitologia urbana fiorita intorno al Trullo. Essere insieme, per affrontare traversate difficili, per inventare viaggi collettivi, laddove è nella collettività che si definiscono la rotta, le pratiche di navigazione, i codici d’attraversamento, gli orizzonti possibili e le traiettorie giuste. Immaginando d’essere guerrieri di una guerra di quartiere, di una rivolta gentile. Combattuta a colpi di piccole poesie e di visioni monumentali.

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Stasera mangiamo InGalera

Il ristorante nel carcere di Bollate.
I detenuti cucinano e servono ai tavoli. Giuseppe, 23 anni: «Sono emozionato».
Nel menu non ci sono gli spaghetti alle vongole fujute (scappate) o le pennette al 41 bis, come sarebbe piaciuto all’ispettore Vincenzo Ormella, responsabile del settore esterno. I piatti vanno dalle pappardelle di castagne con ragout di cervo con grappa e ribes alla faraona farcita con belga e nocciole. Dodici euro piatto unico del pranzo, trenta-quaranta euro una cena completa, con la carta dei vini che non fa torto a nessuna regione.
Un nuovo ristorante a Milano. Anzi a Bollate. Anzi, dentro il carcere di Bollate. Il primo in Italia. Si entra dalla guardiola, ma non si lascia il documento, basta aver prenotato: una stagista dell’Istituto alberghiero Paolo Frisi accoglie gli ospiti e li accompagna «InGalera», tavolo d’angolo con vista cortile, le sbarre alle finestre, tovaglie di stoffa immacolate la sera e tovagliette di carta a mezzogiorno con le foto delle prigioni d’Italia e del mondo: Regina Coeli, Dorchester, San Vittore.

La brigata di sala e cucina
Massimo Sestito, 46 anni, è il maître, food & beverage manager: praticamente in sala comanda lui. È un uomo libero, come lo chef, Ivan Manzo, una roccia di 140 chili per 185 centimetri. I due camerieri, i due aiuto cuoco e il lavapiatti che li assistono no, loro sono detenuti. Uomini che hanno sbagliato, e molto, ma che in prigione si stanno conquistando una seconda possibilità.
Hanno scontato un terzo della pena quindi hanno diritto all’articolo 21 dell’Ordinamento penitenziario, cioè a uscire dal carcere per lavorare.
Le loro condanne sono lunghe, proporzionate al reato commesso: fine pena nel 2027, 2023, 2025, dipende. Racconta Giuseppe, 23 anni, in prigione da sette. «Se sono contento? Cavolo, sì! È il mio terzo giorno, sono emozionato. Questa è una soddisfazione anche per la mia famiglia, finalmente. Non mi sento giudicato e i clienti mi trattano da persona sociale».
I requisiti dei detenuti-lavoratori
Silvia Polleri è la responsabile della cooperativa Abc che ha assunto il personale, sette in tutto, al quale si aggiungono le hostess e quattro tirocinanti-detenuti del Frisi. «Era necessario che avessero tutti ancora molti anni da scontare, per garantire continuità al loro lavoro e un senso al nostro investimento. Al bando, all’inizio, avevano risposto in 90 per due posti. Un ufficio specifico della polizia penitenziaria ha fatto la prima scrematura: i candidati non dovevano avere dipendenze da alcol o da droga e non dovevano assumere psicofarmaci. Il salario di ingresso è pari al 65 per cento dello stipendio base. A seconda dei ruoli parliamo di 600-700-1.200 euro al mese».
Il vero senso della pena
Un ristorante così non si improvvisa. È l’evoluzione di un progetto formativo avviato quando la cooperativa Abc ha cominciato a far lavorare i detenuti per servizi di catering, nel 2004. Si è rafforzato con l’arrivo della succursale dell’alberghiero, nel 2012. E, infine, ha potuto contare sul supporto indispensabile di PwC (network di servizi di revisione e consulenza legale e fiscale), di Fondazione Cariplo e Fondazione Peppino Vismara. Ognuno ha fatto la sua parte, compreso il direttore Massimo Parisi, che ha concesso in comodato d’uso i locali della sala convegni della polizia penitenziaria. Dice: «Dobbiamo riflettere sul senso comune della pena e chiederci che cosa ci aspettiamo davvero da un carcere. Io mi aspetto che i detenuti, una volta usciti, non commettano altri reati». Missione, per adesso, compiuta: il tasso di recidiva, a Bollate, è del 17 per cento.
«InGalera» sarà inaugurato oggi, anche se ha aperto in sordina un paio di settimane fa (e ha già ricevuto la visita della polizia annonaria: tutto ok). Passate parola.

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I frigoriferi della solidarietà

Dopo il caso della Spagna, anche in Brasile arrivano i frigoriferi della solidarietà. La nuova iniziativa è nata nella località di Goiás. L’idea di per sé è semplice ma molto efficace.

Lungo le strade si installano dei frigoriferi dove chiunque può lasciare del cibo che altrimenti vorrebbe buttare. Tutti possono partecipare, dai comuni cittadini ai ristoranti. L’iniziativa nasce sia per ridurre gli sprechi alimentari che per aiutare le persone in difficoltà economiche.

Il primo frigorifero della solidarietà di questo progetto è stato installato su un marciapiede da Fernando Barcelos, uomo d’affari brasiliano. Voleva fare qualcosa per aiutare i bisognosi e ha preso spunto dai frigoriferi della solidarietà già installati in altri Paesi, come la Spagna, l’Olanda e l’Arabia Saudita.

Gettiamo nella spazzatura ogni anno un terzo del cibo che acquistiamo. Proprio il cibo avanzato potrebbe diventare una risorsa per nutrire chi non può permettersi di fare la spesa. Il frigo della solidarietà non rimane mai vuoto e tutte le persone che abitano in quel quartiere cercano di dare il proprio contributo.

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Il documentario che viaggia con il baratto

Unlearning è il documentario di una famiglia Genovese (mamma, papà e bimba di 6 anni) che ha lasciato per sei mesi la città (casa e lavoro) alla ricerca di una vita più a misura d’uomo.
Un viaggio per scoprire un’Italia di uomini, donne e bambini che, all’omologazione, hanno risposto facendo della propria esistenza un inno alla diversità per aprirsi al cambiamento.

Usando il baratto e la sharing economy, hanno spesso, in tre, 600 euro in sei mesi.
E lo raccontano in un appassionante documentario di 74′
Prodotto dal basso (gli utenti hanno comprato il documentario in anteprima su internet per coprire le spese tecniche di realizzazione) e in crowdsourcing (durante la lavorazione sono state organizzate proiezioni dove gli spettatori hanno partecipato alla realizzazione del “taglio finale”) Unlearning è finalmente pronto e sarà proiettato in oltre 50 città italiane, un calendario che si va a estendere di giorno in giorno: infatti il documentario non si può comprare.
L’unico modo di vederlo è invitare gli autori presso il proprio cinema / associazione / teatro (ma anche piazza, salotto, cantina!) per barattare con loro la visione di Unlearning ed un un incontro di presentazione con una cena e una notte di ospitalità (seguendo la formula del couchsurfing).

Un esperimento per distribuire un film usando i metodi più antichi (il baratto e l’ospitalità) con le moderne tecnologie (i social media).

Per saperne di più, scoprire il progetto e le date

Unlearning è un invito gentile alla disobbedienza, una proposta per tutte le famiglie stanche della propria vita ripetitiva che da sempre si chiedono se un’altra vita è possibile.

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L’ albergo delle piante

Creare il primo vivaio pubblico e comune di Roma. Recuperare uno spazio urbano controverso come la piazza del mercato di Corviale. Farlo dal basso, con la partecipazione degli abitanti del quartiere ed affidarlo alle cure degli ospiti degli utenti del Centro Diurno Mazzacurati, quelli del Cism Asl Roma D, quelli del Centro di aggregazione giovanile Luogo comune di Arci solidarietà, oltre che di ogni persona che vorrà prendere parte al progetto. Una serie di elementi che insieme vanno a creare “L’albergo delle piante”. L’idea è semplice e avrà inizio venerdì pomeriggio, dopo due anni di gestazione, quando gli abitanti del quartiere, chiamati a raccolta dall’artista di origini lucane Mimmo Rubino ed Angelo Sabatiello, porteranno le proprie piante per disporle sugli spalti abbandonati che circondano la piazza. Una pianta un vaso, per fare del luogo un giardino pubblico e restituirlo alla quotidianità dei residenti. La chiamata è aperta a tutti.

“L’unica regola è che le piante siano in un vaso, in modo da poter essere disposte da <> il centro dell’anfiteatro”, è il messaggio dell’ideatore Mimmo Rubino, conosciuto negli ambienti artistici underground come Rub Kandy, ma soprattutto “il progetto si svolge senza bando e senza budget, l’opera è aperta e chiunque può partecipare, un seme alle condizioni giuste si sviluppa e noi ci auguriamo che sia così per questo giardino”. L’obiettivo è di fare degli spazi inutilizzati della piazza un luogo verde, in cui gli ospiti del centro di salute mentale e del centro diurno possano trascorrere piacevolmente il tempo, come tutti i residenti, potendo leggere, ascoltare musica, giocare, senza però stravolgere la conformazione del luogo.

Siamo nell’epoca dove parole come recupero o trasformazione degli spazi urbani sono ormai un mantra, ma spesso viene trascurata la componente principale di questo tipo di progetti, ossia il coinvolgimento delle persone che ne dovrebbero beneficiare. Per questo motivo la raccolta delle piante che costituiranno “l’albergo” è già iniziata da alcuni giorni e vengono costantemente distribuiti volantini nei palazzi della zona per informare più persone possibili. Venerdì, dalle quattro, si darà il là ad un progetto che andrà avanti fino a quando ci sarà la partecipazione del quartiere.

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Il gemello

piacca
Corviale cena cineforum 1° edizione 2015
30 ottobre ore 19.00 Piacca – Arvalia




Il barbiere di Siviglia

INVITO ALL’OPERA. Il barbiere di Siviglia di G. Rossini

Renato Nicolini – lunedì 26 ottobre , ore 20:00
Serata inaugurale X^ edizione 2005 – 2015 la proiezione sarà preceduta dalla preziosa introduzione del professor Massimo Laurenza.
Quest’anno “ Invito all’Opera” compie 10 anni e la biblioteca Nicolini insieme al curatore Prof. Massimo Laurenza vuole dedicare la rassegna a Roman Vlad, compositore, musicologo e pianista scomparso nel 2013.

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Dall’11 al 15 novembre torna “Visioni Fuori Raccordo”

Una quattro giorni al cinema Farnese dedicata a documentari incentrati su periferie e marginalità, intese in senso tanto geografico quanto esistenziale.

Tossicodipendenza, emigrazione, marginalità sociale: sono questi i temi dei dodici documentari selezionati, offrendo una visione approfondita e ampia dell’Italia di oggi, dei bisogni dei suoi abitanti, delle sue contraddizioni e profonde spaccature sociali.

«La selezione di quest’anno – dichiara Giacomo Ravesi, Coordinatore Artistico del Festival – attesta l’esplosione del concetto di periferia in innumerevoli rappresentazioni urbane, esistenziali e concettuali, che lontane dal decretarne la sparizione ne testimoniano la perenne rivoluzione. In questo scenario di crisi e rinnovamento il documentarismo italiano contemporaneo inquadra una società in trasformazione che rinegozia le proprie tradizioni ricercando una nuova identità individuale e collettiva. Sperimentando linguaggi ed esplorando paesaggi violentati e corpi ignorati, i documentari scelti propongono la sfida antropologica e storica, estetica e politica di guardare alla contemporaneità con uno sguardo infranto e rigenerato».

La giuria del “Visioni Fuori Raccordo Film Festival” sarà composta dal commissioning editor del programma DOC3 Fabio Mancini, dalla regista e vincitrice della passata edizione del festival Valentina Pedicini e dalla direttrice della fotografia Sabrina Varani. Spetterà a loro assegnerare il premio Migliore Opera e le eventuali menzioni speciali.

Tra i titoli di quest’anno ci sono “Dal ritorno”, di Giovanni Cioni, “Uomini Proibiti”, di Angelita Fiore, “Samara Diary”, di Ramchandra Pace, “Roma Termini” di Bartolomeo Pampaloni, “Habitat – Note personali”, di Emiliano Dante, “Doris e Hong”, di Leonardo Cinieri Lombroso, “La malattia del desiderio”, di Claudia Brignone, “The Perfect Circle”, di Claudia Tosi. Ognuno dei documentari selezionati ci mette a confronto con realtà sociali ed esistenziali tanto urgenti quanto troppo spesso ignorate, che si tratti della convivenza tra etnie, delle evoluzioni socio culturali di una città, o della sofferenza fisica e psichica di malati o tossicodipendenti.

Il Festival si aprirà presso il cinema Farnese, per poi spostarsi presso il Cineclub Detour.

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Racconto le periferie prima del botto

“Viva la sposa” è nato tra la gente e i palazzi, nei bar. Perchè la realtà sta al telegiornale come il calcio all’album delle figurine.
Nicola è sempre seduto a un bar. Dice che vuole smettere di bere, ma non smette mai. E stando al bar incontra tante persone. Ascolta le loro storie. C’è un piccolo delinquente che tenta di truffare la assicurazioni buttandosi sotto ai motorini. C’è una prostituta che ha paura dei cani, e ha un figlio da lasciare a qualcuno mentre lavora. C’è la ragazza che dice di partire per la Spagna, ma non parte mai. Su tutto questo, per la strada o in tv, passa una sposa americana che sta girando l’Italia in abito bianco. Una visione consolatoria e di speranza, forse. Storie comuni, storie di periferia. Ascanio Celestini ha scritto “Viva la sposa” ascoltando le storie nei bar del Quadraro, di Ciampino, di Morena. Partendo dal basso. E girando nel quartiere dove sono nate, al Quadraro, quartiere romano con una sua “grande bellezza”, lontanissima dai palazzi barocchi del centro, eppure piena di storia. E di storie. Abbiamo parlato con Ascanio Celestini di questo. E di alcuni dei grandi temi che ha trattato nelle sue opere. “Viva la sposa” è nelle sale dal 22 ottobre.

Quanto è importante che un film come questo nasca sul territorio, nei bar del Quadraro, di Morena, di Ciampino? Che storie si trovano in questi luoghi?
«Forse sono le storie che troviamo in tante altre periferie. Luoghi che non per forza si trovano fuori dai centri storici, ma forse soltanto fuori dal centro del mirino dell’informazione, della narrazione globale alla quale siamo abituati ad assistere. Della periferia se ne parla solo quando esplode. Io vorrei raccontare quello che succede prima del botto».

E quanto è stato importante girare nei luoghi dove sono nate le storie, lontani dalla “grande bellezza” di Roma, eppure a loro modo bellissimi, carichi di vita? Come hanno partecipato gli abitanti?
«Gli abitanti erano incuriositi. Sono abituati al cinema. Alcuni di loro ci hanno lavorato come generici, qualcuno ha avuto ruoli di responsabilità. Gli stabilimenti di Cinecittà si trovano a poche centinaia di metri. Ma erano incuriositi lo stesso. Ma quando hanno capito che non giravamo tra quei palazzi per raccontare una storia qualunque, che ci eravamo venuti proprio per il valore che il colore di quei muri, la geometria di quelle prospettive sapevano raccontare era come se si sentissero dire che a Roma non c’è solo San Pietro, ma anche il bellissimo condominio di Selinunte numero 49.
Per quanto riguarda la bellezza io non credo che la grandiosità delle chiese barocche o del Colosseo renda grandiosi anche quelli che ci abitano davanti. E a me interessa raccontare l’essere umano e se riesce a umanizzare anche i mattoni della casa in cui vive: meglio!»
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Roma. Ascanio Celestini
durante le riprese del film Viva la sposa

Viste da lei che ci vive, quali sono le peculiarità di quartieri come il Quadraro e Cinecittà?
«Non è facile dire cosa sia Cinecittà o il Quadraro. Chi vive a via dei Quintili o a via dei Laterensi si sente quadrarolo. In fondo a via dei Consoli la gente vive a Don Bosco e oltre via degli Angeli gli abitanti sono di Tor Pignattara. Eppure qualcuno che viene da fuori potrebbe dire che si tratta sempre di Cinecittà.
Vista da fuori è come una matrioska che appare coma una sola bambola, ma dentro ce ne sono tante che per il distratto non esistono. I luoghi sono soltanto spazi da attraversare per arrivare da un’altra parte o, nel migliore dei casi, palazzi e monumenti che fanno stupire i turisti. Ma il luogo nel quale si vive ha due peculiarità in più: il tempo e le storie. Vivendo nel tempo, lo spazio si riempie di accadimenti. Non è più solo un luogo, ma anche le cose che in quel luogo accadono. E quando si passa oltre gli accadimenti, questi possono essere raccontati. I luoghi sono libri pieni di pagine bianche che col tempo si riempiono di parole e disegni».

Nel mondo che racconta c’è una piccola e sincera solidarietà tra gli ultimi, i soli. È una sua visione, da autore, o davvero questa solidarietà è possibile in quartieri come questi, lontani dai “Palazzi”? Ne ha viste tante di storie di questo tipo?
«C’è violenza e solidarietà. A volte le due convivono. Ovviamente c’è anche la solitudine e la distrazione. È facile uscire di casa e passeggiare incontrando persone quando abiti a piazza Navona o anche a piazza Vittorio. Nelle periferie dove le piazze sono parcheggi e alla chiusura dei negozi sembra che una saracinesca cali su tutto… è un po’ più difficile creare relazioni. Ma dove ci sono gli esseri umani c’è sempre una possibilità per crearne. Ci vuole coraggio e curiosità».

Uno degli aspetti della solidarietà di cui parliamo è anche il formarsi di famiglie non di sangue, ma di affetti. Crede che sia una risposta ad alcuni dei problemi di oggi?
«In generale la famiglia è il nucleo fondamentale della nostra società. Lo è nella maggior parte dei casi. Dobbiamo però riconoscere che non è possibile riconoscerla solo nella sua forma standardizzata e ipocritamente venduta come “naturale”. La famiglia oggi ha bisogno di essere riconosciuta in tutte le sue possibili forme».

Nel suo racconto la figura dell’ubriacone ha quasi una sua sacralità. È un po’ una sorta di custode del quartiere, un sostegno per tutti, una memoria storica della gente che ci passa?
«L’ubriaco è attratto dal bar più di chiunque altro. E nel bar, soprattutto quando il resto del quartiere attorno si spegne, è il primo che resterebbe per un ultimo bicchiere e poi per un altro ultimo ancora, per un altro… come per allungare il tempo».
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Roma. Ascanio Celestini, Francesco De Miranda e Mimmi Gunnarson
in una scena del film

Come mai ha scelto di ambientare alcune delle scene della sposa a L’Aquila? Forse perché il terremoto del 2009 è una delle tante rimozioni del nostro Paese? A sei anni di distanza, quali crede siano le responsabilità dei media e della politica?
«I media giungono in un posto quando accade qualcosa di eclatante, la raccontano e poi se ne vanno via. Raccontato così il fatto è decontestualizzato. I media dovrebbero raccontare meno e raccontarlo meglio. È un po’ come accade con le figurine. Il telegiornale mette in fila francobolli di notizie che raccontano pezzetti di verità. La realtà sta al telegiornale come il calcio all’album delle figurine.
La politica sfrutta questa semplificazione e spesso si pone nei confronti dell’informazione e della realtà come il giornalaio che vende l’album al bambino e le figurine nelle bustine».

In uno dei suoi film ha detto “Parole sante” a proposito del mondo del lavoro. Crede che la nuova riforma del lavoro possa portare a qualche miglioramento, o il precariato è una di quelle congiunture destinate a non mutare per molto tempo?
«In “Parole sante” ho fatto parlare dei lavoratori che si sono autoorganizzati e hanno compreso che il proprio problema dovevano incominciare a risolverselo da soli. L’idea di cambiare una legge ingiusta ci pone davanti ad una salita difficilmente percorribile. La lotta importante è nel fare in modo che la legge non venga nemmeno pensata. E questo è possibile se i lavoratori dimostrano di non essere docili e addomesticabili. Lo devono dimostrare non quando vengono attaccati, ma per non essere attaccati. Penso al movimento in Val Susa. Seppure il governo e i privati riuscissero nel loro intento, sarebbe l’ultima volta che tenteranno di contrapporsi a qual territorio che ha dimostrato di non essere affatto docile».

Ne “La pecora nera” ha raccontato in modo magnifico la malattia mentale e il mondo dell’ospedale psichiatrico. Crede che in Italia si stia riuscendo ad andare oltre gli ospedali, o la soluzione è ancora lontana?
«In Italia si è fatto molto. Molto più che in altri paesi. La legge 180 del 1978 è stata una rivoluzione. Ovviamente chiudere i manicomi non significa superare il disagio mentale. Ma nei manicomi i pazienti non erano curati, ma sedati e archiviati. Risvegliarli è stato un atto di grande umanità e responsabilità. Tenerli chiusi dietro un muro crea un apparente senso di sicurezza, ma è un modo nazista di relazionarsi tra esseri umani».

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Pontili – Laboratorio di co-progettazione

Il Dipartimento di Architettura e Progetto – Sapienza Università di Roma, il Municipio XI e l’Agenzia della Mobilità di Roma Capitale e RomaNatura hanno avviato un progetto per migliorare l’accessibilità del quadrante urbano di Corviale.

Il progetto intende promuovere e attivare una nuova rete di spazi verdi di connessione attraverso i quali raggiungere i servizi (scolastici, culturali, sportivi, socio-sanitari, ecc.) e la rete di trasporto pubblico (nuovo tram Corviale-Bonelli, ferrovia metropolitana) in maniera sostenibile (a piedi e in bici) e sicura. Questi spazi li abbiamo chiamati PONTILI perché sono connessioni dirette e privilegiate tra quartieri, servizi e area metropolitana.

Il progetto vuole favorire il movimento e l’attività fisica quotidiana, recuperare e riqualificare lo straordinario patrimonio di aree verdi pubbliche dell’XI Municipio attualmente sottoutilizzate, abbandonate e insicure. L’obiettivo da raggiungere è quindi la realizzazione di un insieme di spazi lineari attrezzati, presidiati, disponibili per usi e attività collettive che gli abitanti utilizzeranno e gestiranno.

Abbiamo quindi organizzato un Laboratorio sperimentale di progettazione al qualesiete invitati a partecipare direttamente e attivamente, insieme agli altri soggetti collettivi presenti sul territorio: asso­ciazioni sportive, scuole, terzo settore, comunità religiose, associazioni culturali e artistiche, biblioteche e ludo­teche, fattorie sociali, enti parco, presidi sanitari e socio-assistenziali,associazioni diortisti e coltivatori diretti, ecc.

Vorremmo infatti coinvolgervi direttamente nella progettazione di nuovi spazi verdi vitali e frequentati e percorsi confortevoli e sicuri che possano accogliere le attività e consentire gli spostamenti quotidiani degli abitanti del quartiere (bambini, famiglie, anziani, studenti). Nel Laboratorio decideremo insieme dove e come realizzare questa nuova rete verde affinché sia realmente attuabile, utile, frequentata e facile da mantenere.

Il Laboratorio si terrà nelle seguenti date e luoghi del quartiere Corviale:

23 Ottobre ore 14.00-18.30. Sala Incontro della Biblioteca comunale Renato Nicolini

24 Ottobre ore 09.30-13.00. Sala polivalente del Centro Nicoletta Campanella

ore 15.00-19.00. Sala del Consiglio del Municipio XI

6 Novembre ore14.00-18.30.Sala Incontro della Biblioteca comunale Renato Nicolini

7 Novembre ore 09.30-13.00. Sala polivalente del Centro Nicoletta Campanella

ore 15.00-19.00. Sala del Consiglio del Municipio XI

Gruppi di lavoro tematici e momenti di confronto e discussione plenaria porteranno alla definizione della proposta progettuale individuando le aree coinvolte, gli interventi necessari, le attività da prevedere, l’iter procedurale (fattibilità tecnica, amministrativa e finanziaria) e le modalità di gestione necessarie alla realizzazione e alla manutenzione dei PONTILI.

organizzazione e contatti:

Diap Sapienza Università di Roma

Lucina Caravaggi lucina.caravaggi@uniroma1.it

Cristina Imbroglini cristina.imbroglini@uniroma1.it

Anna Lei anna.lei@uniroma1.it

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