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Una boccata d’ossigeno per Corviale

Al via il restyling del piano basso del Serpentone. Vince il progetto «Respiro» presentato dall’architetto Peretti. Nasceranno parco e piazza.
Si dice che la speranza è l’ultima a morire. Corviale da ieri ha trovato il suo Respiro. Anche se solo un pezzo. È stato decretato il vincitore del bando dell’Ater per il Concorso Internazionale di Progettazione «Rigenerare Corviale», promosso e finanziato dalla Regione Lazio con la consulenza scientifica e l’assistenza dell’Area Concorsi dell’Ordine degli Architetti di Roma e Provincia. 9,5 milioni di euro lo stanziamento in essere per la realizzazione. 45 progetti pervenuti e quattro giorni di lavoro intenso con una giuria internazionale ha individuato i sei progetti più meritevoli. A sbaragliare è stato quello coordinato da Laura Peretti dello Studio Insito, architetta di origine vicentina trapiantata nella Capitale, che ha chiamato il suo lavoro proprio così: «ll Respiro di Corviale» «perché questo è un quartiere che non respira», ha spiegato, tenendoci a ringraziare gli organizzatori. Medaglia d’argento al progetto coordinato da Abdr architetti associati, che affronta il tema della riconnessione dell’edificio inteso come elemento autonomo inserito nel tessuto urbano. Terzo posto a quello coordinato dall’architetto Juha Samuli Miettinen. I riconoscimenti sono stati assegnati nel corso dell’incontro stampa all’Acquario Romano di piazza Fanti alla presenza di Fabio Refrigeri, assessore regionale alle Infrastrutture, Politiche abitative e Ambiente, Giovanni Tamburino e Claudio Rosi, commissario straordinario e direttore dell’Ater Roma. Il progetto interessa la modifica del piano terra, senza toccare le abitazioni. Per adesso il famoso quarto piano, che secondo il progetto originario doveva essere il centro pulsante di Corviale, pieno di negozi, rimane, dunque, ancora nelle mani degli abusivi che ne hanno preso possesso nel tempo, con gli ascensori periodicamente distrutti e tutto il degrado che negli anni le pagine di cronaca hanno raccontato senza fine.

Corviale, il Serpentone dei romani; per tutti l’emblema del malessere sociale della Capitale sulla via Portuense nella periferia sud-ovest della città, alveare umano lungo un chilometro tra incuria e storie disagiate su uno sfondo di acciaio, pannelli di cemento armato e pareti vetrate, con i servizi mai finiti. Storia nota. Nacque sul filo dell’avanguardia: lo progettò la squadra diretta dall’architetto Mario Fiorentino nel 1972 per conto dell’allora Iacp, nove piani, 6 lotti per oltre 6.000 persone, più di 120 famiglie. E si è trasformato in un ghetto che oggi fa oltre 5 mila abitanti. Per molti, da tempo immemore, il simbolo della depressione capitolina, tanto da far lanciare la proposta all’allora assessore regionale alla Casa Teodoro Buontempo:«Demoliamolo e ricostruiamo un quartiere a misura d’uomo».

A breve, il piano terra, avrà un volto nuovo. Peretti ha immaginato una grande piazza che, interrompendo la linearità seriale dell’edificio, ricostruisce un pezzo di città con un sistema chiaro di relazioni degli spazi pubblici e della circolazione e nuovi servizi, con un centro della biodiversità che sarà il cuore civile dell’impianto. Cambiando l’asse di arrivo: la strada non più parallela e rigida, si entra attraverso un parco; ad ogni gruppo di abitazioni sono associati corpi scala, atri per produrre avvicinamento, puntando alla riconnessione del suolo dell’Agro romano. «Si è chiesto al mondo dell’Architettura di trasformare Corviale da città fortificata a complesso permeabile e accogliente, riversando al suo interno funzioni nuove, tutte le attività piccole e grandi che possono rendere il luogo vitale giorno e notte. Con questo Concorso il progetto di recupero e riqualificazione di Corviale diventa la prima sperimentazione, e senza dubbio la più significativa e complessa, di rigenerazione urbana delle periferie romane», ha sottolineato l’architetto Paola Rossi, Coordinatrice Area Concorsi dell’OARPPC.

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Un sistema di piazze per rompere la «corazza» di Corviale

Il progetto vincente del concorso promosso dall’Ater.
Il progetto coordinato da Laura Peretti si è aggiudicato il concorso internazionale di progettazione con 45 proposte in gara. Secondo classificato Abdr, terzo Jaha Samuli Miettinen.
Il progetto coordinato dall’architetto Laura Peretti si è aggiudicato il concorso internazionale promosso dall’Ater di Roma per Rigenerare Corviale. Il progetto vincitore propone una grande piazza e collegamenti per rendere permeabile la lunga stecca del complesso di edilizia popolare. Secondo la giuria, l’architetto Peretti è quello che «meglio affronta i temi richiesti dal concorso perché esprime la capacità di controllare alle varie scale la sua complessità, a livello paesaggistico, urbano, della circolazione interna all’edificio e dello spazio pubblico». Il progetto di Peretti, si legge ancora nella motivazione della giuria, «parte dal considerare Corviale come una struttura urbana piuttosto che un edificio. Per questo elabora con molta attenzione gli elementi di piccola scala».
Secondo Paola Rossi, dell’Ordine degli architetti di Roma, il progetto «interrompendo la linearità seriale dell’edificio, ricostruisce un pezzo di città con un sistema chiaro di relazioni degli spazi pubblici e della circolazione».

Il team di progettisti
Il progetto premiato è stato coordinato da Laura Peretti e vede la partecipazione anche degli architetti Giuseppe Di Costanzo, Giulia Fortunato, Erik Ingvert, Andrea Amelio, Silvia Milesi e Leonardo Ricci. I consulenti sono l’artista Mimmo Paladino, gli ingegneri Paola Caputo e Andrea Cinuzzi, gli architetti Carlotta de Bevilacqua, Mara Filippi e Nicola Fiorillo e il dottor Irene Ranaldi.

Gli altri cinque progetti selezionati dalla giuria
Al secondo e al terzo posto della classifica si trovano i progetti, rispettivamente, dello studio romano Abdr e dell’architetto Juha Samuli Miettinen. La giuria ha inoltre assegnato tre menzioni ai progetti meritevoli: coordinati dagli architetti Filippo Lambertucci, Emiliano Aurigemma e Francesco Careri.

Selezione tra 45 progetti in concorso
I concorrenti che hanno presentato una proposta entro il termine del 18 novembre scorso sono stati 45, provenienti da vari paesi. L’obiettivo del concorso internazionale di progettazione “Rigenerare Corviale – Look beyond the present ” è di ripensare gli spazi comuni al piede del maxi-complesso di edilizia popolare alla periferia sud-ovest della Capitale. Il concorso è stato bandito dall’Azienda per l’edilizia territoriale di Roma lo scorso 27 luglio.
Si tratta del secondo concorso lanciato per migliorare il mega complesso di Corviale , che segue quello bandito nel 2009, sempre dall’Ater di Roma, per riqualificare un piano occupato abusivamente all’interno del maxi complesso.

Gli architetti in giuria
L’Ater ha chiamato in giuria il progettista di Palazzo Italia, Michele Molè, dello studio Nemesi, Julia Bolles, architetto dello studio tedesco Bolles + Wilson, e Bart Aptroot, dello studio olandese One Architecture. Come membri supplenti sono stati coinvolti anche i progettisti Floriana Marotta (architetto palermitano socio di Mab Arquitectura) e Marc Jay, di We Architecture.

Sacchi (Architetti di Roma): concorsi sempre per riqualificare le aree urbane decentrate
«Sono fermamente convinto che la pratica del concorso, da attuare nella massima trasparenza e serietà e nel rispetto dei tempi previsti, sia la via migliore da applicare anche in altri contesti – commenta Livio Sacchi, presidente degli architetti Roma e provincia -.
A Roma esistono moltissimi edifici e strutture che necessitano di interventi urgenti, specialmente nelle aree urbane periferiche e meno fortunate, e sarebbe il caso di bandire nuovi concorsi per la loro rigenerazione. Le aree urbane più degradate sono purtroppo molto spesso luogo di emarginazione e disagio sociale che possono contribuire a generare episodi di insofferenza. Nostro obiettivo è quello di contribuire alla trasformazione delle cosiddette periferie in aree urbane decentrate, che abbiano la stessa dignità della aree centrali della città».
«Al mondo dell’architettura è stato chiesto di trasformare il Corviale da “città fortificata” a complesso permeabile e accogliente riversando al suo interno funzioni nuove, tutte le attività piccole e grandi che possono rendere il luogo vitale giorno e notte, per regalare finalmente al complesso quella qualità di vita cui tutti hanno diritto – ha spiegato Paola Rossi, coordinatrice dell’area concorsi dell’Ordine degli architetti di Roma -. Con questo concorso il progetto di recupero e riqualificazione di Corviale diventa la prima sperimentazione, e senza dubbio la più significativa e complessa, di rigenerazione urbana delle periferie romane.

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Corviale, al via i lavori di rigenerazione

I lavori stanno iniziando ed è una risposta della Regione al gesto di minaccia che ha subito pochi giorni fa Corviale e il campo dei miracoli, luogo-simbolo della voglia di cambiamento non solo del quartiere. Tanti gli interventi previsti per dare un nuovo volto e un nuovo futuro a Corviale
19/11/2015 – Al via la prossima settimana i lavori di manutenzione straordinaria a Corviale. Gli interventi dureranno circa due anni e rientrano nel piano complessivo di rigenerazione urbana di Corviale che la Regione ha finanziato per dare un nuovo volto e nuove opportunità a questo posto.

I lavori prevedono in particolare:

Il recupero delle 5 vetrate del fabbricato principale poste sul retro, lato via Ferrari;

il recupero delle porzioni di calcestruzzo armato e vetrocemento in cattivo stato;

il rifacimento di parti delle coperture;

il rifacimento del ponte pedonale in ferro;

il recupero dell’anfiteatro al terzo lotto;

il rifacimento delle coperture dei corpi scala del Fabbricato 2.

Al via la prima fase da 3 milioni di euro, su un investimento totale di 19 milioni di euro, per la messa in sicurezza e la riqualificazione di alcune aree di Corviale. I lavori stanno iniziando ed è una risposta della Regione al gesto di minaccia che ha subito pochi giorni fa Corviale e il campo dei miracoli, luogo-simbolo della voglia di cambiamento non solo del quartiere ma di tutta la città. Tra le altre cose sarà a disposizione anche un infopoint dell’Ater in cui sarà possibile prendere visione del progetto ed essere informati, in tempo reale, sull’andamento dei lavori.

Tra i prossimi interventi:

La ristrutturazione degli alloggi: 4,5 milioni ad integrazione del finanziamento di ristrutturazione edilizia con cambio di destinazione d’uso dei locali del piano libero. E poi saranno ristrutturati gli appartamenti ricavando 103 nuovi alloggi.

Un concorso europeo per rigenerare Corviale. A disposizione dalla Regione 517 mila euro per un concorso europeo di idee “Rigenerare Corviale”, di cui a breve sarà annunciato il vincitore. Saranno poi investiti 9,6 milioni che andranno a costituire il primo stralcio di intervento del concorso internazionale di progettazione “ Rigenerare Corviale”.

“Oggi rompiamo un tabù- lo ha detto il presidente, Nicola Zingaretti, che ha aggiunto: questo luogo è stato oggetto per anni a livello internazionale di discussioni ma mai si era riusciti ad invertire la tendenza, invece oggi è la dimostrazione che questo famoso parlare delle periferie non è più solo un parlare ma un intervento concreto che vuole sfatare un mito che le cose non cambiano mai o cambiano in peggio”.

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Corviale, la grande ambizione

Il recupero del «grattacielo orizzontale» lungo un chilometro sulla via Portuense realizzato nel 1982, trent’anni dopo il modello francese di Le Corbusier a Marsiglia.
Mentre a Marsiglia gli appassionati di architettura si recano in pellegrinaggio per ammirare nell’Unité d’habitation di Le Corbusier uno splendido esempio di domicilio «collettivo», Roma è la meta di chi intende constatare le conseguenze che può avere la cattiva gestione su un apprezzabile progetto dello stesso tipo. Corviale, il «grattacielo orizzontale» lungo un chilometro sulla via Portuense, realizzato (1982) trent’anni dopo il modello francese, riceve un flusso continuo di studenti e studiosi divisi tra l’apprezzamento per l’opera di Mario Fiorentino e lo sconforto per le sue condizioni.

Ma quello che è stato per tanti anni un ghetto del malessere sociale con il tempo ha ripreso le sue funzioni tornando a diventare un «quartiere concentrato». Le forme abitative degli inquilini (oggi 5 mila) sono via via migliorate fino a spingerne il 70% a pagare l’affitto. Da anni sono arrivati il mercato, scuole, servizi sportivi, spazi sociali, uffici comunali. Il IV piano, che doveva essere il centro pulsante del gigantesco edificio con i suoi negozi e servizi pubblici, resta ancora nelle mani degli abusivi. Gli ascensori vengono periodicamente distrutti e non manca chi vive malamente. Ma dal momento che «todo cambia» (come cantava Mercedes Sosa), anche per Corvialone le cose stanno per cambiare. Da un paio d’anni Regione e Ater hanno deciso di trasformare la tipologia del flusso di visitatori del maxi-edificio: verranno a vedere come si rigenera un quartiere speciale finito nel degrado. L’ambizione è grande: far diventare Corviale un modello di recupero architettonico, urbanistico e sociale. Tutto sembra pronto per l’inizio dei lavori: verranno fatti seguendo una visione organica che superi la logica dei «rattoppamenti», da attuarsi in tre fasi scandite da concorsi internazionali. La spesa, una ventina di milioni.

Domanda inevitabile: per una somma in fondo così modesta si è consentito di far nascere e dilagare il mito di un quartiere malnato e peggio vissuto, luogo di alienazione e disperazione? Se fra due-tre anni, quando sarà rigenerato, Corviale diventerà un’unità di abitazione modello verrà confermata una tragica e splendente verità: sono le incapacità, le incompetenze, le male intenzioni politiche e amministrative a degradare la città, i suoi quartieri più fragili, i suoi edifici più significativi. I soldi sono un problema minore, spesso un alibi dell’inerzia. Quando ci sono buoni progetti e buoni propositi le cose possono cambiare. Anche per Corvialone. Ma bisogna vigilare per mantenere questa speranza.

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Come frenare le sirene maligne delle periferie

Il presidente del Consiglio sta guardando con grande temperanza alla terribile crisi che l’attacco terroristico a Parigi ha aperto. L’uso misurato delle parole, l’insistenza sulle prevenzioni e sulla costruzione di alleanze e lo sguardo che dalla politica estera sa riandare alle crisi delle nostre periferie sono indirizzi politici sensati.

Le immagini di St. Denis, dei quartieri di Bruxelles, le biografie dei terroristi, le nostre paure mentre camminiamo nelle zone meno protette delle nostre città ci evocano le periferie in senso negativo. E stentiamo ancor più a viverle come «nuovi centri», luoghi di promesse e invenzioni da esplorare, anche quando lo sono. Al contempo, proprio le promesse già in campo e gli attori positivi delle nostre periferie si confrontano davvero con territori più sofferenti, dove non vi è stata inclusione e vera cittadinanza e dove può crescere e poi esplodere una tremenda carica distruttiva.

Ben prima degli eventi parigini, i dati Istat, le nostre cronache, le esperienze diffuse di tanti esperti sul campo ci consegnano, al contempo, storie di riscatto e storie di difficoltà e frustrazione.

Ci sono migliaia e migliaia di storie di vita, spesso di giovani – in tanti le seguiamo in ogni parte d’Italia – nelle quali l’esclusione multi-dimensionale che si protrae nel tempo a un certo punto conosce un peggioramento e fa entrare in una zona di maggiore fragilità e pericolo. Per molte ragioni: il grado elevato della fatica di «stare a galla» dal punto di vista del lavoro e del reddito, il ripetersi di frustrazioni severe che offendono l’amor proprio, il mancato consolidamento, in età precoce, di uno «spazio pensante» e anche di regole interne sufficienti per dare parola alle cose, trovare una strategia per «aspirare a» e per sostenere il peso di difficoltà continue, il venire meno sia dell’accoglienza che dei limiti che può dare la comunità perché anche essa è troppo frammentata e impoverita di sapienza e di risorse.

Molte storie così si trascinano, malamente. Minano la fiducia e la coesione sociale, allontanano dalla partecipazione alla formazione, al lavoro, al progetto comune, alle regole.

Una politica troppo distante da questi territori e sciatta e burocratica nel proporre misure e azioni certo non aiuta, anzi…

Poi – in questo paesaggio – un numero minoritario ma purtroppo crescente di storie conoscono uno scarto. Vanno oltre. Prendono, per strani o futili o apparentemente secondari motivi, le vie maligne dell’esplosione folle individuale o delle bande violentemente fuori controllo o del malaffare. Sirene estreme chiamano ad andare oltre. Nascono sintomi feroci di malattie divenute croniche e poi aggravate.

Nei territori dell’esclusione, qualcosa oggi può andare – più facilmente che in passato – oltre gli ultimi argini. E siamo in tanti a pensare che già da tempo stiamo entrando in una nuova dimensione del pericolo, al quale vanno date risposte nuove.

Fa bene il presidente del Consiglio a ritornare a parlare al Paese delle nostre periferie. Perché il loro sviluppo è volano di sviluppo generale. Perché i tessuti ricostruiti della coesione sociale favoriscono crescita economica e lavoro nelle sue nuove forme. Perché la potente crisi che viviamo in questi giorni ci sta confermando che bisogna presto riprendere – proprio nelle periferie – a pensare a come migliorare scuola e formazione, dare reddito chiedendo responsabilità, trovare vie nuove per creare lavoro insieme ai nostri ragazzi. Lo si fa già in tante parti d’Italia. Lo si può fare di più e meglio se si abbandona un sistema di stereotipi e vincoli che non funziona più, se si ricreano circuiti di confronto sulle cose da fare nel concreto, se si creano regìe in ogni quartiere e città. E se si costituisce presto una vera regìa nazionale per usare più fondi ottimizzando le risorse anziché sprecarle in mille rivoli e indirizzandole verso ciò che già funziona, verso chi sa fare, controllando i risultati. Ma, per fare questo, dobbiamo riguardare a come siamo, come educhiamo i nostri ragazzi, come si discute e si impara a scuola, e anche a cosa dobbiamo tenere per sacro, a come presidiare i limite nella vita di ogni giorno, a come mettere insieme norma e accoglienza, a come ridare luoghi, lavoro e parole alle comunità, a come sostenere adesso e non domani i sogni dei nostri ragazzi di periferia.

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La bellezza per fermare il fanatismo distruttivo

Sono figlio della periferia, bisogna portarci la bellezza per fermare il fanatismo distruttivo.
“Settant’anni senza che nessuno se ne occupasse. Parlo del Giambellino, ma da lì il messaggio è universale. Al Giambellino ci sono seimila persone di venti nazionalità diverse”, integrazione e condivisione sono possibili, “sono valori”.

Lo racconta al Corriere della Sera, l’architetto e senatore a vita Renzo Piano, che sta chiudendo in questi giorni un progetto al Giambellino di Milano.

“Io sono un figlio di periferia – spiega Piano -, la periferia genovese, e le periferie sono nel mio cuore”. Sono fabbriche di desideri, dice il senatore avita, “nel bene e nel male. Sono la fonte di energia della città. Ma bisogna buttare acqua, non benzina sul fuoco, in un attimo tutto si infiamma”.

La colpa, aggiunge, è “anche nostra. Bisogna cercare le perle, smetterla di denigrare le periferie e decidersi ad amarle. Giovedì di questo parlerò al presidente Mattarella”. “La vicenda di Parigi – dice anche l’architetto che nella capitale parigina vive – è talmente grande che il silenzio è per me l’unica dimensione ammissibile”.

In un colloquio con la Stampa, Piano invita “a portare la bellezza nelle periferie per fermare il fanatismo distruttivo”. Sul nuovo Palazzo di giustizia che costruirà in una banlieue parigina, osserva: “Bisogna prendere coraggio di fertilizzare le periferie. Nel nuovo Palazzo di giustizia lavoreranno tremila magistrati, ruoteranno diecimila persone… Certamente c’era chi non voleva che fosse costruito in quella zona, e si è opposto, ma non l’ha avuta vinta. Le idee giuste vanno sempre avanti. Il cambiamento trova inevitabilmente degli oppositori, ma non c’è arte che non si alimenti del dovere di cambiare, di rappresentare il cambiamento”.

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La scoperta dell’Europa e della sua periferia

Venti anni fa usciva il film “l’Odio” di Kassovitz, film che prendeva spunto dalle rivolte nelle banlieues parigine seguite all’uccisione di un loro abitante. Quel film è stato un punto di riferimento per tutta una generazione, soprattutto per chi allora era attivo nei movimenti e negli spazi sociali delle periferie metropolitane in Italia. Quella rivolta a Parigi era qualcosa di nuovo, qualcosa in cui vedevamo forti continuità e ancor più forti discontinuità col ciclo di lotte degli anni 70/80: ribellismo pauperistico e anarcoide, lotta di classe primitiva, rivendicazione comunitaria, riot americaneggiante (più Malcolm che Martin), dialettica conflittuale centro-periferia…c’era, o ci vedevamo, un po’ di tutto questo.
Anche l’Islam c’era, ma era, o lo vedevamo come, solo uno dei collanti comunitari, testimonianza di una condizione subalterna, grammatica comune degli esclusi.
Dieci anni dopo un’altra rivolta in banlieue. Tornando trovammo una situazione meno anarchica e più organizzata, una coscienza magari non di classe ma di comunità subalterna molto forte, direi una coscienza di luogo, se la intendiamo come categoria geo-socio-culturale.
Una rivolta più organizzata, più indirizzata e con delle leadership che si confrontavano e scontravano in nome di culture politiche e indirizzi diversi. Il fondamentalismo islamico era uno di questi.
Non maggioritario e sicuramente politicamente non attrezzato a dirigere quella rivolta, ma capace di legami profondi in quella comunità, in orizzontale e in verticale, e soprattutto capace di unire, idealmente ma anche nella predicazione, quella comunità con altre comunità subalterne nelle periferie metropolitane europee.
Tra questa rivolta e la strage di Parigi ci passano altri dieci anni e la storia contemporanea: la globalizzazione, l’11 settembre, internet, i social, i drammatici errori di guerra e gli ancor più drammatici errori di dopoguerra dell’Occidente in Medio Oriente.
I protagonisti del film di Kassovitz sono i fratelli maggiori dei protagonisti della seconda rivolta e i padri degli attentatori del 13 novembre.
A scanso di equivoci: per la maggior parte sono i padri di tantissimi ragazzi per bene, di musulmani pacifici, di persone che cercano di uscire dalla subalternità banlieuesard con i percorsi che le democrazie europee mettono a disposizione. Ma sono i padri anche di quella minoranza in cui la predicazione jihadista attecchisce.
Ma qui vanno dette alcune cose per capire il fenomeno, e in questo ci aiutano le biografie degli attentatori: molti hanno in comune la piccola criminalità e il carcere, e proprio in carcere si viene in contatto con la predicazione jihadista, molto più che in moschea. Questo dato dovrebbe dirci molto sul fenomeno che abbiamo davanti, almeno nella sua incarnazione nelle metropoli europee (diverso è naturalmente il caso dell’arruolamento negli altopiani afgani o nel deserto libico). Per questi giovani l’adesione alla jihad è un sentirsi finalmente parte di qualcosa, è una giustificazione alla violenza e all’odio con cui vivono e l’estremo sacrificio è vissuto come un momento di protagonismo reale altrimenti negato dalla società in cui vivono.
C’è un secondo profilo di jihadista europeo oltre a quello sopra descritto ed è quello più evidente nelle stragi di Londra del 2005. Non più giovani subalterni ma seconde o terze generazioni integrate, colte, con profili lavorativi dignitosi o proprio di successo, fedina penale intonsa: una sorta di media borghesia dell’immigrazione. In loro non c’è una rivolta verso la società che li esclude, piuttosto un romanticismo naif, un’adesione ideale ad una comunità globale, ad un progetto mondiale e persino non transeunte. Come i giovani borghesi europei dell’800, sono pronti a partire, in nome di quell’ideale, verso la Siria o l’Iraq.
Ora il punto centrale sta proprio qui, in questo paralleo politicamente asimettrico: i giovani Europei dell’800 partivano per la Grecia o l’Italia in nome della libertà, i giovani Europei del ‘900 si rivoltavano nelle periferie in nome dell’emancipazione. E gli ideali di libertà ed emancipazione si sono concretizzati nella costruzione europea nelle forme della democrazia e dei diritti, i Paesi Europei, l’Europa stessa è stata per lunghi decenni la Patria della democrazia e dei diritti, questi erano la sua identità, il motivo per cui i tanti senza diritti e libertà venivano da noi.
Lo sono ancora?
Formalmente sì, ma sostanzialmente il modello europeo di promozione sociale è in crisi in tutti i suoi Paesi (ognuno col suo modello specifico, ognuno in crisi) da almeno 20 anni, da quando cioè Kassovitz gira il suo film ma soprattutto da quando comincia la costruzione dell’Unione Europea. Non voglio dire che quella costruzione mette in crisi quei modelli, al contrario, dico che si è cominciata quella costruzione unendo Paesi con i rispettivi modelli sociali in crisi, si sono sommate debolezze sperando che la semplice unificazione monetaria, con la sua mano invisibile, le facesse superare.
Le ha invece approfondite, così da venti anni abbiamo società in cui la ricchezza si redistribuisce verso l’alto, la forbice ricchi-poveri si allarga, la classe media scompare, i pochi che hanno accesso alle reti (globali, finanziarie, sociali, culturali, perfino dei diritti) le difendono come privilegi e chi ne è escluso, chi non ha l’accesso si sente estraneo, straniero.
Le nuove forme dell’esclusione, figlie della crisi del modello di promozione sociale europeo, producono un deficit di cittadinanza: ci si sente stranieri nel posto in cui si vive, a prescindere da dove si è nati. Quanti Italiani se ne vanno sentendosi non voluti dalla loro patria?
E se va in deficit il concetto di cittadinanza col corredo di diritti che porta con sé allora saltano i patti sociali.
E se si inceppano i meccanismi di emancipazione e di promozione sociale, allora si incrina l’edificio della democrazia.
Un edificio che ha due pilastri: libertà e emancipazione, ma quest’ultimo è quello dinamico, concreto, è la democrazia operante nelle vite di ciascuno. Se salta questo pilastro la democrazia non si riconosce più, non basta la libertà, questa è un ideale sacrosanto e irrinunciabile, ma senza emancipazione rischia di essere percepita come un lusso dai subalterni, da chi non ha accesso ai suoi benefici.
Se si vuole sconfiggere lo jihadismo in Europa, l’Europa deve lavorare su questa sua identità, deve rinnovarla, rimetterla in moto, ritrovare un modello di promozione sociale (e culturale) efficace e brandirlo come la prima delle sue forze e dei suoi tratti identitari.
Non dico che basti questo, dico però che questo è essenziale.
Non serve brandire la croce, e il Papa lo va ripetendo da molto, come vorrebbero gli imprenditori della paura, serve invece quella giustizia sociale che proprio i partiti di quegli imprenditori hanno smantellato in tutta Europa. Solo che anche questo sembra dirlo solo il Papa.
E questo è un male: le forze laiche, civili, politiche, istituzionali, sono afasiche, sanno parlare solo di guerra (e non sto dicendo che non serva anche un livello militare, magari aiutando le Kurde e i Kurdi al confine del califfato), sanno parlare solo di ipersorveglianza, di libertà in cambio di sicurezza.
Nella Roma ormai invasa dai barbari, Rutilio Namaziano scrive che “gli uomini della fede sono feroci e gli uomini del dubbio sono stanchi”, si sa come andò a finire.
Ma non è scritto che debba finire così anche stavolta, c’è stato un tempo, ed era poco tempo fa, che gli uomini del dubbio erano fieri di esserlo e su questo hanno costruito società più aperte, aperte a tutti, più ricche e libere per tutti.
È su questo per tutti (fur alle-fur ewig) che si vince la sfida.

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Un ecobonus ad hoc per quartieri e parti di città’

La proposta: individuare nuovi parametri, come la qualità dei suoli, la resilienza naturale e sociale, sui quali applicare gli incentivi fiscali.
Potenziare e calibrare gli strumenti tecnici, fiscali e normativi per fare salire “l’industria della rigenerazione urbana” dalla dimensione micro dove è attiva e produttiva, grazie agli ecobonus per le ristrutturazioni edilizie, a una scala più ampia, che guardi ai quartieri e alle aree urbane, e che si utile a rigenerare parti di città.

È questa la proposta che l’INU – Istituto Nazionale di Urbanistica ha presentato ieri nell’ambito della dodicesima edizione di Urbanpromo, alla Triennale di Milano.

Gli standard urbanistici
Il ragionamento parte dal DM 1444/1968 che fissa gli standard da applicare per la realizzazione di pezzi di città. Il provvedimento – ricorda l’INU – stabilisce che, al momento di costruire nuove parti di città, ogni nuovo abitante ha diritto a 18 metri quadri complessivi di parcheggi, verde pubblico, scuole e attrezzature collettive in generale. Si è trattato di una grande conquista per l’urbanistica, perché ha sancito l’ineludibilità della città pubblica.

Oggi, tuttavia – affermano gli urbanisti -, il mondo è cambiato, l’edilizia è in mutamento, è riconosciuto da più parti che occorre orientarsi verso la riqualificazione della città esistente piuttosto che sull’espansione. Occorrono – secondo l’INU – nuovi standard, che non cancellino quelli che conosciamo ma che ne costituiscano in qualche modo un perfezionamento alla luce delle nuove tendenze ma anche dei nuovi bisogni dei cittadini.

La proposta dell’INU
I nuovi standard – si legge nella proposta – dovrebbero quindi essere in grado di stabilire nuovi parametri e renderli misurabili: parametri come la qualità dei suoli, la resilienza naturale e sociale, il grado di innovazione tecnologica.

Una volta stabiliti questi parametri e i criteri di misurazione, si possono stabilire dei livelli minimi da conseguire, che i singoli Comuni possono adottare come riferimenti al momento di dare il via agli interventi. Sono i Comuni, quindi, in futuro attraverso piani urbanistici rinnovati e innovativi, ora con procedure che individuano e delimitano le aree degradate da riqualificare (anche attraverso le proposte di cittadini o gruppi di imprese disposte a intervenire) a dare il via alle operazioni di riqualificazione.

Nuovi incentivi fiscali
Su queste aree delimitate andrebbero applicati nuovi incentivi fiscali, una evoluzione degli ecobonus, da integrare quindi con le risorse dei cittadini e con fondi europei, che otterrebbero quindi il risultato di andare a beneficio di porzioni unitarie di città e che sarebbero più in grado di attrarre le risorse private delle imprese e delle Esco.

Incentivi – secondo l’INU – da modulare per interventi sulla base dei parametri dei nuovi standard, che quindi aiuterebbero a intervenire su fattori come la qualità dei suoli, sulla prevenzione del rischio idrogeologico, sulla qualità della rete Internet, sulla mitigazione dei rischi ambientali, sull’inclusione sociale.

La proposta è parte del ‘Progetto Paese’ che l’INU presenterà a Cagliari al suo XXIX Congresso, il 29 e il 30 aprile 2016.

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Rigenerazione urbana e innovazione sociale

Un ossimoro?
Negli ultimi anni in Italia e più in generale in Europa si è assistito ad un proliferare di iniziative dal basso che si descrivono e vengono descritte come motori di rigenerazione urbana. Esperienze di autorganizzazione, forme di impresa sociale, professionalità ancora non ancora “codificate” e competenze variegate che si mettono in gioco come agenti di sviluppo territoriale. In molti casi c’è uno spazio fisico da rigenerare che fa da “innesco”, in altre situazioni parliamo di riattivazione di spazi già in uso ma che necessitano di nuova linfa per diventare sostenibili (pensiamo ad alcuni comuni in spopolamento o ai centri storici in crisi).

Progetti che interessano un quartiere, parti di città, ma allo stesso tempo le città nel loro complesso.
In Italia proliferano esperienze di questo genere. A Milano possiamo prendere ad esempio KCity, società che “riunisce competenze multidisciplinari per l’innovazione urbana e lo sviluppo integrato del territorio” oppure il caso di Ex Ansaldo che ha visto la collaborazione tra soggetti privati e not for profit e l’amministrazione comunale per l’avvio di uno spazio creativo nel cuore della città. A Torino pensiamo allo sviluppo della rete delle Case di Quartiere come esito di un processo di policy di lungo periodo e che ha visto una collaborazione virtuosa tra pubblico e privato not for profit. In Puglia l’esperienza Bollenti Spiriti che sembra aver lasciato sul territorio e all’interno delle istituzioni competenze inedite e capacità di cambiamento.

Tali progettualità si sviluppano in un contesto sociale e urbano in profondo mutamento: in Europa assistiamo oggi ad un rapido aumento della polarizzazione sociale e spaziale (Marcuse; van Kempen, 2000; Van Haam, 2015). In quartieri sempre più caratterizzati da diversità (culturali, sociali, di classe, di atteggiamenti) si sovrappongono complesse questioni sociali come povertà ed esclusione sociale o concentrazione delle provenienze nazionali. Allo stesso modo, complice soprattutto la crisi ma non solo, la capacità dello Stato di rispondere a bisogni emergenti è fortemente limitata. È sicuramente in crisi il sistema di welfare ma lo è anche la capacità del pubblico di attivare processi virtuosi che sappiano riprendere in carico e quindi rigenerare spazi fisici e sociali in disuso, senza identità, in degrado.

È in questo contesto che pratiche professionali e forme di rivendicazione sociale entrano in sinergia, nella maggior parte dei casi a partire da una conoscenza diretta del luogo e mettendo al centro una dimensione operativa, più che analitica, dell’agire professionale. Sono regimi di azione che vedono la partecipazione di soggetti eterogenei e dove l’iniziativa privata trova spazio in particolare in un momento di crisi di ogni forma di investimento pubblico.

Alcune questioni rimangono aperte e sono in continuo dibattito quando ci occupiamo di rigenerazione urbana e innovazione sociale. Quali sono le ricadute socio-spaziali di tali azioni di rigenerazione dal basso? Cosa significa, associata a tali pratiche, il termine innovazione sociale? Quale la relazione tra iniziative dal basso e istituzioni? Quando parliamo di soggetti privati, a che tipo di privato ci stiamo riferendo? Questo breve articolo propone alcune riflessioni su questi temi.

Mi soffermerò in particolare sulla relazione tra pratiche dal basso e istituzioni. La letteratura sull’innovazione sociale che trovo più interessante sostiene che tali spinte siano socialmente innovative se dirette a modificare sia l’agire dei soggetti che si muovono dal basso sia delle istituzioni. Il rapporto di mutuo apprendimento tra “basso” e “alto” può infatti da un lato riconoscere l’emergere di nuovi arrangiamenti istituzionali, formali e informali, dall’altro generare processi di upscaling per ampliare progressivamente in senso universalista le richieste e i riconoscimenti (Boltanski, Thévenot, 1991).

Senza rapporto, non per forza pacificato, con le istituzioni a mio parere tali pratiche dal basso rischiano di mancare di sostenibilità e di peccare di “privatismo”.

Un recente contributo di Paola Savoldi entra nello specifico di questo punto problematico: l’autrice sostiene che una pratica è pubblica se promuove l’accessibilità di pubblici diversi, se le sperimentazioni (spaziali e sociali) si aprono ad usi e fruibilità esterne e non della sola comunità che le ha prodotte. Una pratica è pubblica se è capace di produrre beni e servizi anche per chi non ha direttamente attivato tale sperimentazione (Ostanel, Iannuzzi, 2015).

Alcune città, dopo l’esempio di Bologna, hanno approvato il “Regolamento per la gestione dei beni comuni”, patti di collaborazione che regolano gli interventi di cura occasionale da parte dei cittadini, di gestione condivisa di spazi pubblici o di spazi privati ad uso pubblico, interventi di rigenerazione di spazi collettivi (ivi, 2015). Possono questi momenti di produzione normativa essere momenti di apprendimento collettivo? Quando invece hanno l’effetto di delegare al privato la risoluzione di problemi sociali complessi e che necessiterebbero di un nuovo sistema di welfare?

Se pensiamo che il rapporto di apprendimento per e con le istituzioni sia importante ci troviamo quindi a dibattere sul tipo di figura professionale che solitamente facilita processi di rigenerazione urbana dal basso. È questa figura un tecnico? Ha invece una responsabilità politica nel fare città dal basso in particolare in città sempre più caratterizzate da polarizzazione sociale?

Il tema di cui stiamo trattando ha rilevanza anche per l’agibilità in termini di risorse e finanziamenti. Pensiamo ad esempio all’ultimo bando culturability promosso dalla Fondazione Unipolis che ha finanziato “proposte innovative con l’obiettivo di riqualificare spazi urbani abbandonati o degradati, creando occasioni di rigenerazione urbana e di sviluppo a vocazione culturale”.

Uscendo dal contesto nazionale, nella nuova programmazione Europea 2014-2020 si assiste in generale ad un rafforzamento dell’approccio place-based e di sviluppo urbano integrato che chiede di agire simultaneamente in settori di intervento trasversali (es. capitale umano, inclusione sociale, innovazione, politiche energetiche, ambiente e smart building).

La città, affrontata e letta secondo un approccio integrato, ha un ruolo centrale nella nuova Politica di Coesione. Pensiamo che le città italiane potranno accedere, tra il 2014 e il 2020, a fondi europei per la rigenerazione urbana per almeno 1,05 miliardi cui si andrà ad aggiungere una quota di cofinanziamento nazionale (fonte AUDIS).

Una rinnovata attenzione al tema della rigenerazione urbana quindi, ma in un contesto sociale in profondo cambiamento e all’interno di una mappa degli attori sempre più complessa. Quali competenze devono essere mobilitate affinché tali spinte dal basso siano motori di sviluppo territoriale sostenibile? Come favorire la coesione sociale di territori in crisi senza generare fenomeni di esclusione? Quali sono gli inneschi da mobilitare per riattivare uno spazio pubblico in disuso? E quali le professionalità/sensibilità da coinvolgere? Quale la capacità mobilitante dello spazio e dei suoi abitanti?

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La città che apprende

È dal 2004 che l’amministrazione della città di Cork organizza il ‘learning festival’ per promuovere l’apprendimento fra i suoi cittadini. Cork è una città dell’Irlanda, seconda come densità demografica dopo Dublino. Come tante altre città nel mondo, Cork nello scorso mese di marzo, dal 23 al 29, ha celebrato il suo dodicesimo festival dell’apprendimento.
Cittadini, istituzioni, associazioni e organizzazioni hanno promosso eventi, hanno aperto i loro spazi per offrire alla gente un saggio di tutte le opportunità di apprendimento disponibili in città. Per una settimana l’apprendimento si è presentato al pubblico con spettacoli gratuiti, dibattiti, sessioni di prova, visite guidate, mostre e dimostrazioni. Centri per le famiglie, comunità, biblioteche, teatri, musei, parchi, campi sportivi, scuole e università i luoghi coinvolti. ‘Indaga, partecipa, celebra l’apprendimento’, il motto del festival di quest’anno, che come sempre si propone di motivare i cittadini di ogni età, con capacità e interessi molto diversi, a condividere le proprie competenze e ad acquisirne di nuove.
L’apprendimento è condivisione
La Commissione dell’Unione Europea da tempo ha coraggiosamente affermato che l’apprendimento continuo non è più solo un aspetto dell’educazione e della formazione: deve diventare il fondamento, il principio guida dell’intero sistema formativo, dell’intero sistema di erogazione e di partecipazione sullo spettro totale dei contesti di apprendimento.
L’enfasi va posta sui diritti dell’individuo come discente, sullo sviluppo del potenziale individuale, su sistemi formativi fondati sul diritto universale ad apprendere, sul piacere, sul promuovere e certificare il successo anziché, come ancora accade nelle nostre scuole, sanzionare l’insuccesso, sull’abbattere le barriere dell’apprendimento, sulla soddisfazione dei bisogni e delle istanze di chi apprende, sul celebrare l’apprendimento con festival dedicati all’apprendimento.
In questa prospettiva è evidente che tutta la società deve farsi apprendimento, perché gli individui e la scuola con le solo loro forze non sarebbero in grado di risolvere tutti i problemi della conoscenza.
In questa dimensione l’apprendimento è condivisione, è cura, è evento quotidiano gestito dalle persone, anziché processo che avviene in modo quasi esclusivo all’interno delle istituzioni scolastiche.
Diventare una Learning City
Secondo il programma della Commissione dell’Unione Europea una ‘learning city’, una città che apprende va al di là del proprio compito istituzionale di fornire istruzione e formazione, crea un ambiente partecipativo, culturalmente consapevole ed economicamente vivace, attraverso la fornitura e la promozione attiva di opportunità di apprendimento in grado di sviluppare il potenziale di tutti i suoi abitanti.
Riconosce e comprende il ruolo fondamentale dell’apprendimento per la prosperità, la stabilità sociale e la realizzazione personale, mobilita creativamente e sensibilmente tutte le risorse umane, fisiche e finanziarie per sviluppare appieno il potenziale umano di tutti i suoi abitanti.
Le partnership locali per l’apprendimento continuo sono le scuole, le università, le imprese, gli enti locali e regionali, i centri di formazione per gli adulti e le associazioni di volontariato.
La città della conoscenza incoraggia lo spirito di cittadinanza e il volontariato, i progetti che permettono di attivare l’impegno, il talento, l’esperienza, le conoscenze presenti nelle comunità.
La città della conoscenza estende il numero dei luoghi in cui avviene l’apprendimento, in modo che i cittadini possano riceverlo dovunque, quando e come vogliono. L’apprendimento è considerato creativo, appagante e piacevole. Ogni aspetto della comunità fa parte integrante del programma di apprendimento. Le biblioteche, i musei, i parchi, le palestre, i negozi, le banche, le aziende, gli uffici municipali, le fattorie, le fabbriche, le strade e l’ambiente forniscono opportunità di apprendimento, strutture e servizi per autodidatti.
Festeggiare l’apprendimento
Nel nostro Paese si tengono ogni anno i festival della letteratura, della filosofia e ancora altri, perché allora non unire in una rete, in un disegno coerente le tante opportunità offerte dalle nostre città per celebrare il Festival dell’Apprendimento capace di far incontrare e dialogare la scuola, la città, le istituzioni culturali, i piccoli e i grandi, gli studenti e gli adulti in una esperienza di condivisione, di interesse comune.
Questo vuol dire confrontarsi in concreto con l’idea di città della conoscenza.
Si tratta di procedere oltre i progetti e i programmi di lifelong learning orientati a riprodurre modalità tradizionali di intervento formativo, troppo simili a quelle predefinite dai sistemi scolastici, ovvero dai principi che regolano i percorsi di istruzione, compresi quelli dell’istruzione superiore, ovviamente anche universitaria, dunque un momento decisivo per il ripensamento dei modi, dei tempi e dei luoghi dell’apprendimento.
In questa cornice i festival dell’apprendimento costituiscono l’occasione per festeggiare e promuovere l’apprendimento, per veicolare il messaggio dell’apprendimento a un gran numero di cittadini, esaltare il piacere di imparare, conoscere i benefici che ne derivano per la città e i suoi abitanti.
Festival in tutto il mondo
Il prototipo di “learning festival” è stato sviluppato in Giappone, il cui governo ha sponsorizzato e finanziato, tra la fine degli anni Ottanta e la fine degli anni Novanta, varie città che tenevano a turno un festival dell’apprendimento ogni sei mesi. Con il festival di Sapporo, nell’isola settentrionale di Hokkaido, più di sessantamila adulti sono rientrati nel circuito dell’apprendimento continuo.
Ma questi eventi si possono utilizzare anche per tanti altri scopi come mostra il caso del Marion festival. Marion è uno dei più grandi sobborghi della metropoli di Adelaide, nel South Australia e ospita uno dei più importanti centri di apprendimento continuo. Il “Marion City Lifelong Learning Festival” dura una settimana, si tiene ogni settembre a partire dal 2002. Tra le numerose attività del festival ci sono esibizioni di cori di tutte le età, bande, gruppi jazz, orchestre da camera, gruppi di danza classica, moderna, gruppi teatrali e ginnici. Nelle strade si esibiscono prestigiatori, trampolieri, danzatrici del ventre, cantanti e mangia fuoco. Gli scrittori parlano dei loro romanzi e i poeti recitano le loro poesie. Diverse decine di corsi vengono messi a disposizione di quanti vogliono imparare dai rudimenti dello spagnolo alla cucina, alla disposizione dei fiori, alla navigazione in internet, fotografia, astronomia, ecc.
Un centinaio di stand presidiati dai rappresentanti dei principali fornitori di apprendimento, formali e informali, scuole, università, centri di formazione professionale, centri di istruzione per gli adulti, centri di comunità, gruppi di volontariato e portatori di interessi specialistici.
Altri stand con asili, aziende come la Mitsubishi, gruppi teatrali, enti benefici, centri di assistenza sanitaria, borse di studio, palestre, circoli sportivi, chiese, servizi statali e locali, gruppi familiari, agenzie di viaggio e turismo, l’esercito, l’università della terza età. Tutto progettato in modo da esaltare il piacere dell’apprendimento.
A Mount Isa nel South West Quennsland, una regione prevalentemente agricola e mineraria, il festival si incentra sulle scuole, intese come “hub di comunità” e si tiene su un treno itinerante sponsorizzato dalla Quennsland University of Technology. Il festival organizza pure la “family maths night”, che pare richiamare talmente tanta gente da costringere gli organizzatori a prolungare l’attività oltre la fine del festival. Inoltre nell’ambito di questa iniziativa viene sviluppato il progetto satellitare NASA, portato avanti in collegamento con alcune scuole degli USA e sempre in collaborazione con la Quennsland University of Technology.
È sufficiente navigare in internet digitando ‘learning festival’ per rendersi conto della diffusione di tale evento in diverse città sparse per il mondo, dalla Francia, all’Irlanda, alla Scozia. L’ Unesco con un sito appositamente dedicato ha fatto del ‘Festival de l’apprentissage’ una iniziativa di portata mondiale.
E in Italia?
Nel nostro Paese nulla di tutto questo accade, fatta eccezione per il festival dell’apprendimento che da due anni viene organizzato nel mese di ottobre a Padova per iniziativa dell’Associazione italiana formatori (AIF), si tratta di una serie di seminari e lezioni che in realtà sono distanti dallo spirito dei ‘learning festival’ come finora l’abbiamo illustrato.
Il tema della conoscenza nel nostro Paese è così settorializzato, frantumato che si fatica ad assumere l’idea che l’interazione tra i luoghi del sapere, la loro cura e diffusione, nei fatti, non fa altro che tessere quel grande territorio e contenitore entro il quale si svolge l’istruzione permanente di ognuno di noi. Di conseguenza i temi della tutela e valorizzazione dei beni culturali, della scuola e dell’università non vengono pensati e considerati dalla politica come tra loro interdipendenti, come un unico discorso a vantaggio della comunità e dei singoli cittadini.
La comunità che apprende
Si continuano a praticare politiche settoriali, a se stanti; i beni culturali in funzione del turismo, la scuola per i giovani, l’università per l’istruzione terziaria, rinunciando ad avere una visone di insieme e, quindi, un progetto di più largo respiro. Si perde regolarmente di vista la comunità che siamo, la possibilità di una più ampia fruizione di saperi, conoscenze e informazioni come risorse che devono essere fatte circolare, messe a disposizioni di tutti, per la crescita economica, sociale, culturale di tutti e di ciascuno. I mezzi ci sono, per questo è nata la rete mondiale delle “Città che apprendono”, patrocinata dall’Unesco.
Sarebbe davvero auspicabile che l’iniziativa dei festival dell’apprendimento partisse direttamente dalle nostre scuole, in ogni città per far incontrare e dialogare la scuola, l’università, le istituzioni culturali, i piccoli e i grandi, gli studenti e gli adulti in una esperienza di condivisione e di interesse comune. Sarebbe l’occasione per riconoscere concretamente e pubblicamente quanto la città considera importante il lavoro, l’intelligenza e la fatica quotidiana delle nostre bambine e dei nostri bambini, delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi, di quanti, a qualunque età, sono impegnati a fare di ogni città una città che apprende.

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