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Il disprezzo verso le periferie, da Nuova Ostia al Front National

Per il ponte dell’Immacolata Casa Pound ha organizzato una festa di quartiere a Nuova Ostia, una delle zone più marginali e sconosciute della capitale. Nelle foto pubblicate in internet si vedono bambini sorridenti che fanno ginnastica e addobbano alberi di Natale, e sullo sfondo uno striscione dai caratteri neogotici: “Nuova Ostia rinasce dai suoi figli”. Nuova Ostia, nata all’inizio degli anni Settanta, era stato un baluardo del partito comunista a Roma: la maggior parte dei suoi abitanti ottennero le case con un’immensa occupazione organizzata dalla sezione locale nel 1972. Dal quartiere nacquero un’infinità di iniziative culturali e sociali, sempre autogestite, che andarono avanti fino ai primi anni Novanta, in assenza di qualunque appoggio istituzionale, di fatto “grazie” a quest’assenza.

Si dà spesso per scontato che l’ascesa delle destre in Europa abbia a che vedere con l’abbandono istituzionale delle periferie. Il trionfo del Front National in Francia è visto come il risultato dell’“abbandono delle classi popolari, del proletariato operaio, delle banlieue metropolitane da parte della sinistra socialista” (Alberto Burgio su il Manifesto, 8/12/2015); l’abbandono viene costantemente chiamato in causa per spiegare sia la radicalizzazione islamista che l’islamofobia; invariabilmente qualcuno risponde: quale abbandono, le periferie francesi sono piene di scuole e servizi, le rivolte distruggevano proprio queste strutture. Molti, osservando le conseguenze disastrose della deriva a destra in Francia, non esitano a tracciare apocalittici paralleli con l’Italia, e suggeriscono di rimediare “rammendando” le periferie, per riprendere l’infelice metafora di Renzo Piano.

Ma l’idea dell’abbandono è fuorviante. Qualche mese fa il giornalista francese Jack Dion ha pubblicato un librino in cui collega l’ascesa del FN all’atteggiamento della sinistra verso le classi popolari: lo battezza le mépris du peuple, il disprezzo del popolo. Al centro del suo ragionamento non ci sono le periferie e l’urbanistica; il titolo però richiama una riflessione di molti anni fa sui campi nomadi in Italia: L’urbanistica del disprezzo di Piero Brunello (1996). I campi rom sono stati in gran parte prodotto di amministrazioni di sinistra: a Roma il primo è stato istituito da Rutelli; Veltroni li ha chiamati “villaggi della solidarietà” e li ha spostati ancora più in periferia. Abbandono e disprezzo sono due cose diverse; se proviamo a ricostruire la storia di Nuova Ostia, capiamo la differenza tra questi due concetti.

All’inizio degli anni Settanta a Roma c’erano tantissimi borghetti auto-costruiti. Migliaia di famiglie italiane vivevano nelle baracche: alcune scandalosamente misere, altre dignitosamente povere. Una generazione di militanti politici, di attivisti cattolici, di ricercatori, frequentavano queste zone per alleviare le sofferenze degli abitanti, per dare voce alle loro esigenze o per creare reti di solidarietà. Franco Ferrarotti pubblicò interviste e descrizioni delle abitazioni più misere in uno dei primi libri di sociologia urbana in Italia, Roma da Capitale a periferia; Roberto Sardelli contravvenne agli ordini delle gerarchie ecclesiali trasferendosi a vivere in baracca, dove creò la Scuola 725. La “lettera al sindaco” con cui i bambini della scuola chiedevano case dignitose, restò inascoltata per qualche anno; finalmente la risposta arrivò, e dal 1972 iniziò una grande campagna di demolizioni e trasferimenti, che si concluse a metà degli anni Ottanta con le giunte “rosse” di Petroselli e Vetere.

La città – e soprattutto la sinistra della città, compresi i movimenti di lotta per la casa che avevano rappresentanti in comune – celebrò la soluzione del problema delle baracche; al posto dei tuguri dell’Acquedotto Felice si costruì il Parco degli Acquedotti: verde a perdita d’occhio per i pic-nic e lo jogging (e per la felicità dei proprietari immobiliari della zona). Ma pochi si preoccuparono di cosa succedeva nei posti in cui erano stati mandati i “baraccati”. Non c’erano più le loro case, e questo contava.

I grandi complessi di case popolari di Roma – Corviale, Laurentino 38, Torbellamonaca – nacquero dopo; vi confluirono anche ex baraccati, tra le migliaia di famiglie che provenivano da vicende del tutto diverse. L’unico quartiere composto interamente da ex abitanti dei quartieri spontanei è proprio Nuova Ostia: un complesso residenziale sul litorale, costruito abusivamente alla fine degli anni Sessanta, rimasto invenduto, dove il Pci e le associazioni del quartiere organizzarono un’enorme occupazione di case, di cui si beneficiarono milletrecento famiglie. A seguito di una vertenza, il comune assegnò le case che erano state occupate. Solo gli abitanti dell’Acquedotto Felice ebbero la fortuna di vedersi assegnare una casa; tutti gli altri furono alloggiati attentamente dai militanti della sezione locale, che assegnarono le case secondo i bisogni di ogni famiglia, provvedendo anche agli allacci dei servizi, agli spazi pubblici e a continue mobilitazioni per ottenere scuole e ospedali.

Ma il comune non aveva “abbandonato” il quartiere. Le palazzine non erano state tolte al proprietario e lasciate nelle mani del popolo. Tutt’altro: il comune prese in affitto la maggior parte degli appartamenti, pagando puntualmente al costruttore Renato Armellini la pigione – naturalmente, molto alta. Da allora e fino a oggi, ogni mese centinaia di milioni di lire, ora centinaia di migliaia di euro, piovono nelle tasche del palazzinaro, per delle case costruite senza permessi e fuori dal piano regolatore; mentre tutte le richieste degli abitanti sono sistematicamente disattese, anche per far asfaltare le strade ci sono voluti anni di manifestazioni. In Amore tossico di Claudio Caligari si ritrae piazza Gasparri come una specie di zona franca, off-limits per gli abitanti del resto di Ostia, in cui l’eroina circolava liberamente; solo l’autorganizzazione delle cosiddette “madri coraggio” di Nuova Ostia permise di creare i primi centri per tossicodipendenti.

A metà anni Novanta l’amministrazione propone di “investire” di nuovo nella zona: e parte il progetto del porto turistico di Roma, con la retorica del superare l’isolamento, del portare risorse nelle zone deprivate. Si puliscono le spiagge, si crea una passeggiata, una pista ciclabile, che rende permeabile un lato del quartiere; ma all’interno si continua a vendere e comprare le case popolari senza nessun controllo, e le reti criminali prosperano; strade e piazze diventano meno pericolose, ma le case cadono a pezzi. Nel 2009 il comune fa evacuare una palazzina pericolante, e si scopre che Armellini aveva fatto mischiare la sabbia del mare al cemento. Gli abitanti – quasi tutti muratori, quasi tutti con una lunga esperienza di autocostruzione – lo sapevano e lo dicevano da sempre.

Quest’anno, poi, con la scusa che Ostia è la porta d’entrata della mafia a Roma, l’amministrazione nominata dopo le dimissioni del presidente del Municipio (accusato di corruzione) ha colpito a casaccio, senza comprendere né il quartiere né la sua storia: hanno fatto chiudere una scuola di danza, senza dubbio abusiva (perché occupata dagli anni Settanta dal PSI, poi lasciata al vecchio custode) ma che suppliva alla mancanza di servizi culturali per i ragazzi; la chiesa, ugualmente abusiva (o occupata), è rimasta aperta. E la figlia di Armellini ha alzato l’affitto al comune, anche quando tutti i giornali hanno reso pubblico che, durante tutti questi anni, su quelle case non è mai stato pagato l’Imu. Intanto, emergono le connessioni tra i gruppi politici al governo, gli imprenditori che gestiscono le concessioni sul litorale e i narcotrafficanti. Ma l’accusa di “mafia” è invariabilmente per chi abita nel quartiere, non per chi ne trae enormi benefici.

Il disastro per le periferie non è l’abbandono. Nell’abbandono prosperano le attività criminali, ma anche autogestione e mutuo supporto. Gli spazi lasciati liberi dal controllo istituzionale permettono un certo grado di gestione collettiva del territorio, che in alcuni casi può riuscire anche a controllare, o a contenere, la diffusione della criminalità e della droga. Il disprezzo, invece, è il sistematico supporto delle istituzioni alle forze più antisociali e predatorie della città, che usano a proprio vantaggio i bisogni dei settori più deboli, e che quindi desiderano che i loro problemi non siano mai risolti.

La ricostruzione della storia di Nuova Ostia si basa su un’intervista con Giorgio Jorio, pittore e intellettuale di opposizione di Ostia, realizzata il 18 agosto 2015.

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Il Trullo. Tra poesia, viandanti e street-art

Il nostro viaggio nelle periferie si arricchisce di una nuova meta e stavolta ci porta a scoprire il Trullo: un quartiere di Roma un tempo malfamato, incastrato tra Magliana e Portuense, e oggi alle prese con un riscatto dal basso capace di spazzare via il degrado a colpi di vernice colorata.
Tutto è cominciato circa un anno fa, in un giorno di aprile, quando questo piccolo angolo di città si è risvegliato con i muri colorati di giallo, verde, viola e arancione. Durante la notte, un gruppo di residenti era uscito di casa con vernice e pennelli per colorare i muri grigi delle case popolari, insieme alle stradine e ai vicoli più malconci e dimenticati.
E’ così che sono nati i “Pittori Anonimi del Trullo”, considerati in zona come abitanti storici della borgata, che oltre all’infanzia e ai luoghi della memoria condividono intenti e problemi di vita: il lavoro che va e viene, i soldi che non bastano mai. All’inizio erano solo in tre, oggi più di una ventina.
Senza sosta e con lo stesso entusiasmo continuano a colorare scale, aiuole, muretti e a dare nuova vita a quelle facciate grigie troppo piene di malinconia. «Un tocco di colore –scrivono i pittori sulla seguitissima pagina facebook- Un colpo di ramazza. Non cambiamo quartiere. Cambiamo il quartiere per chi ci vive e per chi ci passa. Per me, per te, per loro, per tutti».
Colorare il quartiere per uscire dal degrado:
Nel giro di pochi mesi, un fiume di vernice e di colori arcobaleno ha inondato gli spazi che circondano la scuola comunale, i giardini davanti la chiesa San Raffaele, le vie accanto al mercato comunale e la piazzetta dell’ex cinema Faro, storico punto di ritrovo per chi vive qui e qui resta.
Nel tempo, l’impresa di strappare la borgata al degrado nel quale da sempre era stata confinata è continuata a crescere fino a che, accanto ai pittori, sono arrivati i poeti. Er Bestia, Er Pinto, Er Farco, Inumi Laconico, Er Quercia, ‘A Gatta Morta, Marta del terzo lotto: sette ragazzi accomunati dalla voglia di esprimersi in versi, di scrivere poesie per non soffocare le emozioni che esplodono dentro.trullo2
Un coro che concepisce il quartiere come un luogo della mente, la periferia come un fiume colorato di versi da far fluire e con cui sporcare i passanti. I “Poeti der Trullo” raccontano una mentalità metroromantica (come loro stessi amano definirla) che vuole cantare l’amore e la rabbia, l’esperienza e la meraviglia, la provenienza e il viaggio.
E’ così che le vertigini del sentimento diventano a volte un tributo all’amicizia, altre il ricordo di un amore passato, altre ancora uno sguardo sulle strade di Roma, protagonista e musa di tante poesie create in questo piccolo pezzo di mondo. I giovani poeti diffondono le rime attraverso la rete, dove vengono accolte da centinaia di followers e condivise attraverso i principali social network.
Un successo talmente contagioso da aver portato alla pubblicazione di un vero e proprio libro, simbolo del quartiere che in tutto e per tutto è complice di questo risveglio culturale.
L’arte urbana al Trullo:
La sfida finale il Trullo l’ha vinta lo scorso mese, ospitando il terzo festival internazionale di arte urbana. Un evento esclusivo che ha unito pittura, musica e poesia, organizzato col sostegno del Municipio XI.
Il tema scelto è stato “viandanti“: il viaggio inteso come migrazione, per riflettere su un tema di scottante attualità, ma anche come ispirazione, ricerca di nuove occasioni, come condizione di chi sogna mete alternative alla paura e alla sfiducia. Acclamati artisti di strada e gruppi musicali di spicco nella scena romana e non solo, hanno trasformato la periferia in un laboratorio creativo a cielo aperto, con concerti, poesie e murales. T
utti hanno lavorato in modo indipendente per sostenere il festival, i pittori utilizzando i propri materiali e i cantanti rinunciando al cachet, allestendo concerti al CSO Ricomincio dal Faro a prezzi stracciati. Quando dici “Trullo” la gente non storce più il naso. L’ispirazione, qui, è di casa.

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Roma gentrificata: lungo la Casilina, tra la Certosa e Torpignattara

I-love-Torpigna-2Tor Pignattara, o Torpigna in slang neo-romanesco, è un quartiere popolarissimo sin dalle sue origini, lungamente guardato con sospetto dai romani e ignorato dai non romani. Fino a non molto tempo fa, anche a causa della sua rassegna stampa quasi del tutto presente in cronaca nera (omicidi, accoltellamenti, ritrovamenti di cadaveri e di serre di cannabis sui balconi), pochi si spingevano a esplorare questa zona incastonata tra l’Acquedotto Alessandrino e la Prenestina, confinante con il quartiere, spesso a sproposito definito “gentrificato”, del Pigneto.

Non sono moltissime le associazioni culturali, tra queste Ottavo Colle, che organizzano passeggiate alla scoperta del quartiere. Per arrivarci dobbiamo percorrere Via Prenestina e lo facciamo salendo da piazza di Porta Maggiore sul pittoresco trenino bianco e giallo della linea Roma Giardinetti – che ai semafori fischia e sembra un trenino dei bimbi. Prima, a piedi, potremmo percorrere Via del Pigneto fino in fondo per ritrovarsi in Via dell’Acqua Bullicante o fare tre fermate in più e scendere proprio a Tor Pignattara per scoprire un mondo vivace e variopinto, una mescolanza di popoli orientali (con netta predominanza di bengalesi), romani di Torpigna e alcuni lavoratori squattrinati afferenti alle cosiddette “professioni creative”, nobile stratagemma per dare una dignità a pluri-dottorati e idee per start up miseramente vanificate perché l’Italia non è certo gli USA.

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Il trenino bianco e giallo della linea Roma Giardinetti

Tor Pignattara è un quartiere popolare in attesa di una futura riqualificazione della qualità urbana che probabilmente, tra non meno di cinque anni, potrebbe portarlo a incamminarsi sulla strada della gentrification che lascerebbe sulla strada le vittime di chi non potrà più permettersi l’innalzamento degli affitti (soprattutto lavoratori stranieri). Nel frattempo è anche location di video musicali come questo dei Calcutta nell’album Mainstream, che provano a raccontare la multietnicità di una città in trasformazione, a partire dal cuore pulsante delle sue periferie, in un centro storico diventato da tempo un simulacro artefatto per turisti di bocca buona. Una multietnicità però che, ad esempio nella cucina, si coniuga bene con la persistenza di osterei di cucina romana ancora tradizionale, come nel caso dell’Osteria Bonelli, dove ordinando da una lavagna trasportabile, si possono mangiare filetti di baccalà, fiori di zucca, la gricia (per chi non la conoscesse è la carbonara senza uovo, solo con pancetta e pepe), e un buon bollito condito semplicemente. Nel raggio di poche centinaia di metri, si può mangiare vero cinese, vero bangla, vero peruviano, vero indiano, a prezzi davvero economici, e provare l’ebbrezza di essere gli unici italiani all’interno del locale.

Proprio a metà di Via Tor Pignattara c’è Spice of India, come recita l’insegna, un “bar ristorante pizzeria”, ma indiano. Il locale ha l’aspetto di un normalissimo bar-tabacchi, di indiano ci sono solo i dolci esposti nella vetrinetta del bancone, i video musicali in tv e, naturalmente, baristi e camerieri. È molto ampio, con circa venti coperti e offre a pranzo e a cena le tipiche specialità indiane: samosa, pollo tandoori, riso byriani e così via.

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Il palazzo di Via Galeazzo Alessi col murales dedicato a Pasolini

Nel mercato coperto di Via Laparelli c’è un ristorante peruviano. L’ambiente nei colori del verde e del giallo è molto gradevole, il menu è composto da piatti unici a base di carne o di pesce, con riso e patate. Sull’altro lato della Casilina, in Via Eratostene, ci sono le luci colorate e le vetrine del ristorante dal nome che è tutto un programma: Eurobangla. Un menu fotografico ci alletta con i suoi “Imboltini di carne, imboltini di verdure e imboltini di patate”.

In uno dei quartieri più pasoliniani di Roma, dove Pier Paolo Pasolini ambientò molte scene dei suoi film e racconti, non poteva mancare la street art, che sta facendo di Roma la capitale europea di questa forma d’arte urbana, con un murales dedicato proprio a lui. Ci ha pensato Nicola Verlato, pittore vicentino che lo ha realizzato in Via Galeazzo Alessi, al civico 215. Grande com’è, su un muro di un palazzo alto dodici metri e largo otto, è impossibile non notarlo. Quel muro l’ha individuato l’artista David Diavù Vecchiato, amico e collega di Nicola. David è il fondatore di MURo, il museo di Urban art del Quadraro. “Gli abitanti del quartiere – ha detto l’artista – mentre passavano e mi vedevano lavorare, hanno ribattezzato il muro la Cappella Sistina di Tor Pignattara”.

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Ma forse l’esempio che più viene citato come riqualificazione – e ripeto per chi ha letto i miei precedenti articoli o il volume Gentrification in parallelo. Quartieri tra Roma e New York, è la zona chiamata Certosa. Si trova in cima a una collinetta racchiusa tra la ferrovia Roma-Napoli, il nostro quartiere di Tor Pignattara e la Casilina. L zona rimane nascosta agli occhi dei più. Dal traffico caotico in basso, basta svoltare su Via dei Savorgnan per trovarsi in un altro mondo. L’atmosfera è quella di un paese il cui centro è Largo dei Savorgnan. Le case, in gran parte edificate in proprio dai primi abitanti, per lo più braccianti agricoli provenienti da altre regioni del Centro-Sud, in quello che era chiamato abusivismo di necessità, nascono alla spicciolata e senza servizi. Succede poi che a metà anni Novanta cinquecento famiglie ottennero case popolari in altri quartieri. Alcune delle case rimaste vuote o sfitte furono occupate da immigrati capoverdiani, altre acquistate da speculatori che creavano mini appartamenti da rivendere. Oggi gli abitanti, vecchi e nuovi, sono meno di duemila, alcuni hanno lasciato il Pigneto per sfuggire al chiasso notturno e allo spaccio. La Certosa è un set a cielo aperto: negli anni Cinquanta Luigi Zampa girò qui Ladro lui ladra lei con Alberto Sordi e Sylva Koscina; più recentemente Daniele Lucchetti ha ambientato qui La scuola e Francesca Archibugi Questione di cuore.

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Periferie: sviluppo locale, innovazione sociale e sicurezza dei territori

Ne parlano:
Augusto Pascucci (UNIAT); Alfonso Pascale (CeSLAM); Marco Corsini (Avvocato dello Stato); Tommaso Capezzone (Giornale delle periferie); Giammarco Palmieri (PresV Municipio di Roma); Esterino Montino (Sindaco di Fiumicino); Sen. Stefano Esposito (Commissario PD Ostia); Padre Fabrizio Valletti (Coop. Soc. La roccia); Pino Galeota (Corviale Domani); Guglielmo Loy (Politiche territoriali UIL); Alberto Civica (UIL Lazio); Luciano Mocci (FederLazio); Alessandro Mauriello (CeSLAM); Leonello Tronti (Università Roma 3); Eugenio De Crescenzo (AGCI); Indra Perera (CNA World Roma); Laura Bongiovanni (Isnet); Umberto Croppi (Federculture Servizi); Angelo De Nicola (UPPI Lazio); Sergio Bellucci (NetLeft); Germana Cesarano (Magliana 80); Giorgio Benvenuto (Fondazione Bruno Buozzi); Paolo Masini (MIBACT); Andrea Masala (ARCI); Giorgio De Finis (MAAM); Massimiliano Valeriani (Regione Lazio); Aurelio Mancuso (Equality Italia)
Da tempo associazioni, comitati, università, gruppi di cittadini, italiani e non, provano a fare breccia nell’agenda delle varie istituzioni, lontane dai territori, chiedendo azioni concrete contro lo stato di abbandono e di sovraffollamento delle periferie. Secondo UNHABITAT (NAZIONI UNITE) il divario urbano che si sta creando tra la città ricca e quella povera è in aumento vertiginoso: 800 milioni di persone vivono negli slums (favelas,bidonville, baraccopoli) e circondano i centri residenziali dei ricchi sempre più protetti da guardie armate. La città europea moderna nella sua progettazione è stata attenta ad evitare condizioni di emarginazione di comunità e popolazioni mettendo molta attenzione alla vita sociale pubblica, ambientale e estetica dei territori urbani. Per queste ragioni negli anni passati si è discusso tanto sul “diritto alla città” e sulle motivazioni alla base della formazione delle disuguaglianze sociali (Henri Lefebvre – Diritto alla città – 1968). Negli ultimi decenni, però, la capacità di combattere le disuguaglianze è diminuita e oggi ci troviamo di fronte all’esplosione di conflitti sociali acuiti dal mancato riconoscimento delle diversità culturali e dall’assenza di strategie e politiche delle istituzioni pubbliche. Le ricadute sociali, economiche e politiche si evidenziano in programmi di governo caratterizzati dalla propaganda che orienta l’azione politica a respingere l’ immigrazione o a chiudere le frontiere piuttosto che a studiare politiche e programmi per attenuare il disagio e la separazione sociale. C’è bisogno di ricostruire la fiducia dei cittadini nei confronti del sistema politico e dei corpi intermedi e di ricomporre il rapporto tra istituzioni (regionali, nazionali ed europee) e società locale (intesa come comunità, società civile ed ente locale di prossimità) in cui le istituzioni mettono a disposizione la prospettiva e i mezzi dell’emancipazione e la società locale riaccende le sue tensioni al cambiamento e si riorganizza per trovare la strada e vincere la sfida dello sviluppo. In Europa le città inglesi, belghe e in primis francesi pagano da tempo i prezzi di queste scelte sbagliate e come si è potuto assistere tristemente nelle banlieue parigine e nei quartieri popolari londinesi e di Bruxelles, la questione dell’odio sociale ha favorito la crescita e l’insediamento di cellule criminali del terrorismo internazionale di matrice islamica connotando le periferie come habitat naturale per persone malfamate , pericolose e soprattutto diverse, quasi sub-normali. In Italia i programmi di rigenerazione urbana sono fermi agli anni 90, con i progetti Urban e al 2002 con i Contratti di quartiere, e il Piano Città dell’ex Ministro Lupi che non è mai decollato. Ciononostante le periferie delle metropoli italiane e soprattutto romane sono in continuo cambiamento, come segnalano Ilardi e Scandurra e guardare Roma è come osservare i mutamenti a livello nazionale. “Dalle borgate dei ragazzi di vita di Pasolini ai centri sociali occupati , dai territori abbandonati ai Rave illegali al movimento Ultras, fino agli anni 2000 con le tristi aggregazioni abitative sorte intorno ai giganteschi centri commerciali, le periferie romane sono state dei laboratori culturali, macchine formidabili che producono metropoli e i suoi potenti immaginari dove sono precipitati molto spesso i simboli dell’intera comunità nazionale” (M. Ilardi, E. Scandurra – Ricominciamo dalle Periferie – 2009).
MATERIALE
Relazione di Alfonso Pascale (CeSLAM)



Corviale…”scusate se esisto”

locandina corviale 18 dic 15




I cantieri da soli non bastano

Senza cittadini coinvolti si fallisce.
Gli urbanisti: “Pochi 500 milioni, ma segnale giusto”. Si moltiplicano le social street.
Dietro l’annuncio di Renzi di destinare 500 milioni di euro aggiuntivi per le periferie ci sono posizionamento politico (anche internazionale, altro che proclami bellicisti) e strategia comunicativa (vedi citazione del «rammendo» di Renzo Piano, ormai di moda). Nessun piano segreto e specifico. Del resto basta fare due conti. I soldi vanno alle città metropolitane (tredici già istituite, la Sardegna potrebbe aggiungere Cagliari), da spendere entro il 2016 per progetti da presentare entro la fine di quest’anno. Meno di 40 milioni per città e 13 mesi per spenderli: tempi e soldi sconsigliano interventi giganteschi. Bisogna recuperare progetti già pronti. «Non c’è cifra che basterebbe a risanare le periferie italiane – dice l’urbanista Francesco Indovina -. 500 milioni sono una goccia nel mare, ma anche pochi soldi servono se spesi bene».

Recentemente Indovina ha pubblicato sulla rivista Archivio di studi urbani e regionali (FrancoAngeli) un saggio intitolato «Il ritorno delle periferie» in cui offre un utile approccio al problema. Innanzitutto bisogna uscire dallo stereotipo «centro bello-periferie brutte». Misurare il degrado urbano ampliando il raggio del compasso sulla mappa può valere per le banlieue parigine, non per le principali città italiane «che invece si presentano sempre più a pelle di leopardo, con diversi centri e diverse periferie mischiate». Renzo Piano docet: il Giambellino, che il suo staff sta «rammendando», nasce come periferia negli Anni 30, ma ormai è semicentrale. E Stefano Boeri, architetto e docente al Politecnico cui fanno torto le eccessive celebrazioni per il «bosco verticale», ha detto di sentirsi più a disagio in piazza Cordusio che in tante periferie.

Nuova e ibrida geografia urbana, dunque, in un contesto di disuguaglianze crescenti, servizi pubblici ridotti, risorse finanziarie scarse. Il rischio che corre il governo è ridurre tutto a un’operazione di riqualificazione edilizia. Accresciuti valori immobiliari di palazzi abbelliti producono come prima conseguenza l’espulsione di una fetta della popolazione, che non può permettersi di «pagare» e si sposta altrove. «Per una periferia risanata se ne crea un’altra degradata», dice Indovina citando Harlem a New York, dove la quota di popolazione nera è calata.

La Regione Lazio ha stanziato 20 milioni per risanare il serpentone di cemento (1 chilometro, 5 mila abitanti, il 30% abusivi) del Corviale. L’Istituto nazionale di urbanistica propone di «creare una vera e propria industria della rigenerazione urbana», attingendo alle risorse private con incentivi fiscali tipo ecobonus, replicati su larga scala ed estesi alla dimensione culturale e sociale.

Ma serve quella che l’urbanista napoletano Aldo Loris Rossi chiama «visione olistica» applicata alle città. Approccio soft, processi partecipati, più servizi e socialità che cantieri. Meglio un piccolo locale riutilizzato da un’associazione di quartiere che un grande centro giovanile gestito da funzionari comunali. Non è sempre necessario guardare lontano, dai quartieri sostenibili di Friburgo ai «bandi del barrio» di Barcellona. Tralasciando le più illuminate iniziative bolognesi degli Anni 70, basta studiare la recente riappropriazione di piazzetta Capuana a Quarto Oggiaro (Milano), la ventennale esperienza di Borgo Campidoglio a Torino, le oltre 400 «social street» nate dal 2011. Gruppi nati su facebook che coniugano attività ludica e sociale, dalle feste di quartiere ai muri tinteggiati, dalla raccolta di cibo in scadenza all’assistenza agli anziani. La social street Baia del Re di Milano si segnala per l’integrazione degli immigrati. «Senza connessione tra le persone, ogni progetto di rigenerazione urbana fallisce», spiega Cristina Pasqualini, sociologa della Cattolica e autrice della prima ricerca sul tema.
E mentre si spendono soldi per periferie degradate, sarebbe il caso di non costruirne di nuove. Nel 1968, fu una grande conquista urbanistica l’obbligo di destinare ai servizi di quartiere almeno 18 metri quadri per abitante. Erano altri tempi e l’urbanistica non era morente come oggi. La Lombardia fu la prima, nel 1975, a portare lo standard a 26,5 metri quadri, seguita negli anni successivi dalle altre Regioni. Nel 2005 la Lombardia formigoniana torna indietro agli standard del 1968. Secondo i conti di Sergio Brenna, docente al Politecnico, a Porta Nuova sono diventati 16 metri quadri, monetizzando (a prezzo irrisorio) la differenza al Comune. E si rischia di peggiorare ancora nei nuovi quartieri pianificati in limine mortis dalla giunta Pisapia, in geometrica continuità con quella Moratti.
Lunga e accidentata la via italiana del rammendo, sia a destra che a sinistra.

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L’ accesso ai trasporti pubblici aiuta la salute mentale

La grande città stressa? Sicuramente! Ma soprattutto se i cittadini non sono in grado di viverla pienamente…

I più perfidi potrebbero pensare che, date le ultime notizie passate anche sulle cronache nazionali, il riferimento sia al sistema dei trasporti pubblico romano. Ma non è così.

Questa volta l’indagine riguarda le grandi città in generale, che si sa sono di per sé motivo di stress e di agitazione quando si tratta di spostarsi a piedi- per le carenze che hanno molti servizi, in auto- per le code chilometriche che si creano in certi orari, ma anche in bici- visto che molte città sono ancora sprovviste di piste apposite.

Vivere in città ha i suoi vantaggi, certo: condurre una vita più stimolante, a contatto con i numerosi eventi che attraversano una grande città ogni giorno è sicuramente l’aspetto più positivo. Ma spesso la difficoltà maggiore è usufruire dello spazio urbano, specialmente per donne e anziani.

E così una recente indagine della Rivista Internazionale dell’Ambiente e della Salute pubblica suggerisce che una buona accessibilità ai trasporti pubblici, così come una struttura urbana “concentrata” ( e non troppo estesa), potrebbe contribuire a ridurre il rischio di depressione, soprattutto nelle donne e negli anziani, aumentando le opportunità di muoversi e di avere una vita sociale attiva.

Per l’indagine, un gruppo di ricercatori con sede in Italia, ha raccolto dati a lungo termine concernenti i residenti della città di Torino. Oltre ai dati demografici di base (come l’istruzione e lo stato del lavoro) e fattori sociali (come ad esempio il tasso di criminalità), essi hanno esaminato cinque caratteristiche dell’ambiente edificato: densità dello sviluppo, armonia nell’utilizzo del territorio, spazio pubblico e verde, servizi culturali, e l’accesso al trasporto pubblico. Essi si sono poi anche concentrati sull’aspetto sanitario, analizzando gli antidepressivi maggiormente prescritti in quest’area.

Tra i fattori ambientali si è visto che la frequenza e l’accesso ai mezzi pubblici “proteggono” la salute mentale, soprattutto nelle donne (di tutte le età) e negli anziani ( di un’età tra i 50 e i 64). I ricercatori hanno appurato che gli antidepressivi normalmente vengono prescritti in misura inferiore a questo tipo di popolazione, se essa risiede in luoghi raggiungibili più rapidamente in autobus o in treno e in luoghi in cui le costruzioni raggiungono altezze perlopiù medie. Il contrario avviene per coloro che vivono in zone periferiche, mal collegate al centro, esclusi totalmente dal fermento, culturale, logistico e sociale del centro.

Per i più anziani, la necessità di guidare o di farsi ‘trasportare’ da qualche parente o amico crea infatti una sorta di isolamento e di tristezza, ma soprattutto d’impotenza nel fare le cose.

Il risultato della ricerca certo non sorprende moltissimo, anche se manca una connessione tra la salute mentale ad esempio e gli spazi verdi, elemento di felicità nella visione comune della realtà. Ma probabilmente la fruizione dei parchi è strettamente legata ai trasporti pubblici e quindi torniamo al primo punto di massima criticità dello spazio urbano.

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Dramma sfratto per 150 mila famiglie

Nel 2014 boom delle richieste per “morosità incolpevole” e quasi 80mila i provvedimenti diventati esecutivi, anche nei confronti di persone in condizioni di estrema difficoltà economica o di salute. Nel frattempo le assegnazioni di alloggi popolari procedono a rilento e le situazioni di disperazione si moltiplicano. Quello della crisi abitativa è un dramma che l’Italia affronta da decenni, ma senza riuscire a venirne a capo. Anche perché le soluzioni si rivelano spesso motivo di nuovi problemi, come dimostrano gli scandali dei piani di zona e dell’edilizia agevolata a Roma.
Piani di Zona, l’ennesimo scandalo romano

di MARIO REGGIO
ROMA – Il Giubileo della “misericordia” è alle porte, ma la spietata macchina degli sfratti non si ferma. Mobilitati gli ufficiali giudiziari e i poliziotti, quando il giudice autorizza l’intervento della forza pubblica. Nel 2014 in Italia le richieste di sfratto sono state più di 150mila. Nella graduatoria in testa la Lombardia seguita dall’Emilia Romagna, la Toscana e il Lazio. Gli sfratti colpiscono soprattutto la grandi città dove si concentrano i casi di “morosità incolpevole”, quelli che riguardano le famiglie colpite dalla crisi e che non possono più permettersi di pagare l’affitto.

Nessun blocco previsto nel decreto milleproroghe, in cambio 446 milioni a favore dei Comuni per fronteggiare l’emergenza. Una goccia rispetto all’onda anomala ormai all’orizzonte. Plaude Confedilizia, cresce la mobilitazione delle associazioni che cercano di difendere gli inquilini. Ci sono soluzioni? Una potrebbe essere quella dei “piani di zona”, vale a dire l’edilizia agevolata con finanziamenti regionali a fondo perduto e affitti calmierati. Ma a Roma, ad esempio, il meccanismo si è trasformato in una grande truffa. Tanto da far dire all’ex assessore all’urbanistica, Giovanni Caudo: “E’ un sistema bacato”.
Case senza strade né fogne, a Roma lo scandalo Piani di Zona

Intanto la Procura ha aperto un’inchiesta e stanno per arrivare i primi avvisi di garanzia. Un’altra soluzione ci sarebbe: trasferire gli sfrattati nei “residence” facendo ingrassare i proprietari, visto che i canoni mensili sfiorano i 2mila euro. L’ormai famosa “vacca da munge” di Mafia Capitale. Come arricchirsi con i poveri, tanto paga la comunità. Dietro ogni sfratto c’è comunque un dramma umano, come quello della signora Silvana Mendico, 73 anni, costretta a chiedere ospitalità alle tre figlie.
Sfrattata dall’ex marito, il dramma di Silvana
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Marina Caprioli, 33 anni, quattro figli, sfrattata con l’ausilio della forza pubblica. Ecco la sua storia. “Abitavo a Giardinetti, una casa di 20 metri quadrati ricavata da un lavatoio, piena di muffa. Lavoravo in un negozio di ferramenta. La padrona del negozio è anche la proprietaria della casa. Contratto registrato per 100 euro al mese, in realtà ne pagavo 500 più 65 di condominio. Soldi che la signora mi tratteneva direttamente dalla paga. Per arrotondare, il sabato e la domenica lavoravo in una pizzeria”.

Come spesso succede la precarietà incide sulle vicende personali. “Mio marito ha chiesto la separazione, ma i 300 euro al mese che mi aveva promesso non li ho mai visti. Faceva l’autista e si era fatto mettere in nero per non tirare fuori un euro. Ogni tanto passava a casa ma erano sempre litigate e volavano gli schiaffi. A quel punto ho chiesto alla proprietaria di venirmi incontro perché non ce la facevo più a tirare avanti. Dal febbraio del 2014 ho smesso di pagare l’affitto e lei ha chiesto lo sfratto. A quel punto le ho fatto la causa di lavoro. E lei mi cacciato dal negozio. Nel frattempo ho trovato un nuovo compagno e sono rimasta incinta”. Il 16 giugno del 2015 arriva l’ufficiale giudiziario con al seguito due camionette della polizia. Per qualche giorno viene sistemata in un residence. Appare anche l’assistente sociale del Comune. “Mi ha promesso di trovare una soluzione perché io lì non ci volevo più stare. Ho aspettato ma ‘sta soluzione non è mai arrivata. Allora ho deciso di tornare a casa dei miei. In quella casa ci viviamo in 11, mio padre e mia madre, mia sorella con il figlio, mio fratello, io e il mio compagno assieme ai quattro figli. Noi dormiamo nel salone ma non può andare avanti a lungo”.

Altra storia particolare è quelle avvenuta, sempre a Roma, il 25 novembre. Alle otto di mattina, in via Fillia, nella zona Collatina, Roberta M., madre di due figli minori, attende l’arrivo dell’ufficiale giudiziario con la forza pubblica. Ha perso il lavoro, quindi rientra nella categoria di quelli che non possono pagare l’affitto per “morosità incolpevole”. Ha chiesto aiuto alla Regione Lazio che ha le ha offerto un finanziamento di 8 mila euro. Ma il gestore del piano di zona “via Longoni” non intende ragioni. Il tribunale civile autorizza quindi lo sfratto esecutivo con la forza pubblica. Passano un paio d’ore ma non si vede nessuno. Angelo Fascetti, coordinatore nazionale dell’Associazione Inquilini e Abitanti, che è andato a trovarla, sta per tornare sui suoi passi. Roberta gli offre un caffè. All’improvviso arriva l’ufficiale giudiziario con i poliziotti. I due si barricano in casa. Sale la tensione, Gli agenti si dicono sicuri di entrare. Ma c’è un piccolo, grande, problema. Nell’appartamento ha iscritto la sua residenza parlamentare Roberta Lombardi, deputata di 5 stelle. Impossibile quindi entrare, salvo l’autorizzazione della Camera. “La truffa dei piani di zona – afferma la parlamentare – deve finire, farò di tutto perché ciò avvenga, Non è possibile che decine di migliaia di cittadini che vivono in case costruite con i contributi pubblici continuino a pagare affitti molto più alti di quelli fissati dalla legge”.

Esempi come tanti altri che alimentano il fenomeno delle occupazioni abusive. Un meccanismo infernale e senza fine. Proprio per affrontare l’emergenza casa, esiste una legge, quella dei “Piani di zona”. Ecco di cosa si tratta. Il Comune individua un’area, mette a bando l’appalto per la costruzione di nuove abitazioni. Il progetto prescelto determina l’esproprio del terreno. A quel punto la Regione finanzia, a fondo perduto, in media al 50 per cento, il costo dell’opera. La cooperativa edilizia, o l’impresa che si aggiudica il cantiere, è obbligata a presentare un piano finanziario nel quale devono essere evidenziati i costi, compresi quelli delle opere di urbanizzazione primaria. Adesso arriva il bello. Nessuno ha mai presentato i piani finanziari al Comune di Roma, che avrebbe dovuto esercitare il controllo. Quasi nessun costruttore ha depennato dai costi il finanziamento a fondo perduto della Regione. Cosa è accaduto allora? La truffa ha permesso a cooperative e imprese di imporre affitti o prezzi di vendita gonfiati. Ma la Regione Lazio e il Comune di Roma, che hanno l’obbligo di controllare tutto il meccanismo, nel frattempo cosa facevano? Nella migliore delle ipotesi chiudevano un occhio.
Roma, sfrattati perché la coop ha aumentato il prezzo di vendita

In via Marcello Gallian fanno bella mostra le palazzine di 5 piani tirate su dalla Lega San Paolo Auto. Una delle coop edilizie più gettonate e che si vanta avere fatto sempre campagna elettorale per il Partito Democratico. “Per diventare soci e prenotare l’alloggio hanno versato dai 159mila ai 250mila euro a testa – racconta Angelo Fascetti, coordinatore nazionale dell’Associazione Inquilini e Abitanti – poi è arrivata la richiesta di versamento fuori sacco di 100mila euro. Una parte dei soci si è rifiutata di tirare fuori soldi in più. La Lega San Paolo li ha cancellati dal libro soci ed ha chiesto ed ottenuto lo sfratto esecutivo. Questo nonostante i vertici della cooperativa siano indagati per truffa, concussione ed estorsione aggravata. Una colossale ingiustizia perché il giudice civile non ha tenuto conto che gli ex soci hanno versato l’intero importo pattuito, mentre la cooperativa – conclude – non ha depurato dai costi il finanziamento a fondo perduto ottenuto dalla Regione Lazio”.

Intanto qualcosa, anche se a fatica, si sta muovendo. A parte l’indagine della magistratura, l’allora assessore all’Urbanistica del Comune di Roma, Giovanni Caudo, ha presentato una delibera, approvata dalla giunta, nella quale si obbligano le coop e le imprese ad adeguare gli affitti e i prezzi di vendita, dopo aver depennato il finanziamento regionale. In caso di mancato adempimento il Comune applicherà le sanzioni previste dalla legge. E si tratta di multe salate. “Nei casi più gravi – si legge nella delibera – si arriverà al sequestro degli immobili”. Ora manca solo la firma del commissario straordinario perché la delibera non è riuscita ad arrivare nell’Aula Giulio Cesare.

Morosità in aumento, Milano in piena crisi

di LUCA DE VITO
MILANO – La signora Liliana Tagliaferri, 82 anni, abita in zona piazza San Giuseppe. Per 40 anni ha vissuto in una casa dell’inpdap. Quando è stato venduto il complesso di case, lei non ha potuto acquistare e oggi – sola, senza figli, mai sposata – vogliono mandarla via. Così rischia di veder arrivare la polizia da un giorno all’altro. Anche la Milano dell’Expo ha le sue contraddizioni e, soprattutto, a cominciare dall’emergenza di chi non riesce più a pagare l’affitto e si ritrova senza casa. Il numero di richieste di sfratto all’ombra della Madonnina è uno di quelli che nessuno vuole maneggiare: nelle 14.766 richieste pendenti al Tribunale, ben 10.707 sono per chi non paga l’affitto, mentre solo 2.791 sono per finita locazione (1.268 per altri motivi). La proporzione tra sfratti per morosità e quelli per termine del contratto di affitto, è in aumento: all’inizio del 2014, infatti, il rapporto era di tre a uno, mentre adesso siamo quasi al quattro a uno. Situazione analoga in provincia, con un totale di 7.061 sfratti, dei quali 4.998 per morosità, 1.679 per finita locazione e 384 per altri motivi. A fine giugno il numero degli sfratti eseguiti con la forza pubblica nel 2015 era di 1.491 (dal 2010 la media annuale è di 2.800).
Sfratti, tra i “dannati” di Milano in coda allo sportello della Sicet
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I numeri che fanno ancora più paura sono quelli che riguardano chi uno sfratto lo ha già subito. A Milano ci sono 270 famiglie con sfratto eseguito – e quindi senza un tetto – con in mano l’assegnazione teorica per un appartamento. Sono i più sfortunati di tutti – si tratta di coloro che hanno chiesto una casa popolare in deroga alla graduatoria perché in situazione d’emergenza – e sono in crescita rispetto ai 150 dello scorso anno. Quando non riescono a trovare una soluzione da parenti o amici, dormono in strada o in comunità. A queste cifre si devono poi aggiungere le oltre 3.064 richieste in deroga che sono giacenti presso gli uffici comunali e non ancora valutate. A conti fatti, una marea umana cresciuta negli anni di crisi perché rimpolpata proprio dalla grossa quantità di sfratti per morosità incolpevole.

“La cosa che fa più male – racconta Leo Spinelli, segretario del sindacato inquilini Sicet Cisl che guida gli sportelli dove ogni giorno si presentano decine e decine di persone in difficoltà – è che in passato una soluzione si trovava sempre. Venivano messi negli alberghi, per un periodo temporaneo, e poi gli veniva assegnata una casa”. Adesso non è più così. Già, ma perché? Tra le tante motivazioni, c’è la fatica, apparentemente insormontabile, nel riuscire a rimettere in circolo quelle case popolari vuote che rimangono sfitte. Quasi 10mila alloggi – fra proprietà del Comune e Aler, azienda regionale per l’Erp – che non si riesce a ristrutturare e assegnare. E che sarebbero oro colato per centinaia di famiglie. L’idea del Comune di Milano, però, è diversa: per affrontare l’emergenza abitativa, spiegano, bisogna fare in modo che i privati affittino le case che tengono vuote (a Milano si parla di circa 80mila abitazioni).

“L’emergenza abitativa si è riversata in blocco sull’edilizia popolare a cominciare dalle famiglie sfrattate – ha detto l’assessore alla Casa Daniela Benelli – Ma rispetto a un patrimonio Erp insufficiente, c’è un bacino molto più ampio di alloggi privati, spesso sfitti, che vogliamo rimettere in circolo. Il nostro obiettivo è intervenire prima dello sfratto, evitando che le famiglie restino senza casa e tutelando i proprietari dal rischio della morosità”. L’idea del Comune è stata quella di avviare l’agenzia sociale per la locazione con l’obbiettivo di mediare tra inquilini e proprietari per evitare sfratti e trovare canoni sostenibili. “Ma a qualche mese dall’avvio dell’agenzia e dello stanziamento di risorse come fondo di garanzia – spiegano dal Sicet – i numeri delle morosità incolpevoli rientrate grazie a questi interventi si contano sulle dita di una mano”.

A Torino alloggi provvisori nei container

di GABRIELE GUCCIONE
TORINO – C’è un titolo che Torino avrebbe fatto volentieri a meno di tornare a possedere: capitale degli sfratti per morosità. Nel capoluogo piemontese l’anno scorso si è registrato uno sfratto ogni 227 famiglie. “Per numero di procedure in rapporto alla popolazione – denuncia Giovanni Baratta, segretario regionale del sindacato inquilini Sicet-Cisl – Torino primeggia tra le grandi città metropolitane. La media italiana è di uno sfratto ogni 334 famiglie”.

La tragica media torinese è il risultato di una crisi che ha segnato profondamente il volto dell’ex città della Fiat e che ha cominciato a mietere le sue vittime a cominciare dal 2008. Da allora le procedure di sfratto iscritte nel mandamento del Tribunale di Torino sono più che raddoppiate: da 2.216 si è passati in sette anni a 4.693. L’incremento è stato del 111 per cento. Palazzo di Città, in questi anni, ha cercato di arginare il fenomeno. Negli ultimi tempi, però, la situazione è peggiorata e anche le occupazioni abusive di immobili, un tempo sporadiche nella sabauda Torino, hanno cominciato a diventare più frequenti. Solo l’anno scorso, riferisce il vicesindaco Elide Tisi, “per far fronte all’emergenza sfratti sono stati assegnati 444 alloggi di edilizia residenziale pubblica, sono stati stipulati 320 contratti convenzionati tramite l’agenzia di locazione del comune e sono stati attivati 95 contratti d’affitto garantiti dal fondo comunale Salva Sfratti, che assicura i proprietari dalla morosità a fronte di uno sconto sull’affitto”. Uno strumento innovativo, quest’ultimo, sperimentato per la prima volta nel 2013, con il contributo delle fondazioni ex bancarie, e poi preso a modello dalla nuova legge nazionale sulla casa.

I 4.693 sfratti dell’anno scorso hanno prodotto 1.144 domande di aiuto alla commissione comunale per l’emergenza abitativa: 1.144 famiglie che hanno provato a bussare alla porta del Comune in cerca di aiuto. “L’accoglienza in housing sociale e in alloggi temporanei ha sostenuto 205 famiglie – racconta il vicesindaco di Torino – mentre 1.794 nuclei famigliari usufruiscono del contributo a sostegno dell’abitazione da parte dei Servizi sociali”. In totale, sommati tutti assieme, la città è intervenuta su 2.800 famiglie.

Il fatto è che il fenomeno non sembra voler diminuire, tanto che l’amministrazione ha deciso, nell’ultima riunione della giunta comunale, un intervento mai immaginato prima: la costruzione di un “rifugio per gli sfrattati” capace di dare ospitalità temporanea a 200 persone. Una struttura che sarà ricavata riutilizzando i container dell’ex accampamento degli operai che hanno lavorato al Passante ferroviario torinese.

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Quando la periferia si impone

Ma che bella sorpresa! Dalle classifiche pubblicate da www.eudoscopio.it, il portale della Fondazione Agnelli, risulta che alcuni dei licei migliori di Roma si trovano in periferia: l’Immanuel Kant a Tor Pignattara, l’Aristofane al Tufello o il Vito Volterra di Ciampino, per fare alcuni esempi. E nonostante tutto scopri, improvvisamente, che esiste anche quella periferia che ridà speranza.

Da un po’ di tempo è tornata di moda, al centro dei discorsi e dell’attenzione. Merito soprattutto di Papa Francesco, diciamoci la verità, che non perde occasione di citarla in ogni luogo e in ogni occasione. Che sia del mondo, dell’esistenza o dell’anima Bergoglio ha messo la periferia al centro del dibattito pubblico, non solo italiano, ovviamente. Chi si candida alle prossime elezioni la cita e la evoca. Chi oggi affronta da vicino la lotta al terrorismo la studia e la analizza. Chi ci abita la ama e la odia. Luoghi “di sofferenza, di sangue versato e di cecità che desidera vedere”, dice spesso il papa venuto proprio “dalla fine del mondo”, ma anche di voglia di riscatto e di emancipazione.

Piena di contraddizioni, spesso dimenticata, una periferia, quella moderna, che si fa sempre più grande, che di fatto ingloba i centri storici delle grandi aree urbane. Periferie diverse l’una dall’altra. Da quelle post-belliche degli anni ’50 e quelle del boom economico, quelle dure degli anni ’70, fino ad arrivare a quelle dei nostri giorni, dispersive e dominate dai grandi centri commerciali, che si fanno essi stessi “centro” delle moderne periferie. Leggere di quei licei che si giocano le prime posizioni dell’eccellenza con scuole di quartieri più “blasonati” ridà fiducia. Merito certamente dei dirigenti scolastici, degli insegnanti, ma anche degli studenti e dei genitori che con il loro lavoro spesso duro, ma silenzioso riescono a compiere questi miracoli. E allora da dove ripartire in una città come Roma se non da qui? Dal tentativo, dice Renzo Piano, di “far guizzare qualche scintilla nella testa dei giovani”. E che potrebbero ridare anche ‘alla cecità la speranza di tornare a vedere’

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Condividere e collaborare a Roma

È nato a Roma un “Coordinamento di realtà collaborative” per collegare in rete le molte esperienze nate in città negli ultimi anni – tra coworking, fablab, riciclo, agricoltura urbana e sociale, welfare comunitario e digital social innovation -, e di dare fiato e gambe a un ecosistema collaborativo di soggetti paritari capace di trattenere nei territori il valore della produzione sociale. Il coordinamento ha già fissato per il week end del 9 e 10 gennaio 2016 un laboratorio di coprogettazione urbana, per immaginare insieme le risposte collettive che è possibile dare in uno dei momenti più drammatici per questa città.
Sono bastate poche affollate riunioni per capire che la strada è lunga e irta di ostacoli, ma non si tornerà indietro. Semplicemente perché tutti sono decisi a percorrerla, ognuno con le sue motivazioni. Parliamo infatti di gente diversa, con storie, culture politiche, professioni e obiettivi diversi, giovani e meno giovani, poveri e meno poveri, militanti e non, precari e non.
Ma di chi stiamo parlando?… Difficile trovare una definizione univoca, dipende dal punto di vista con cui li si osserva. Toni Negri direbbe che sono una forma embrionale di soggettivizzazione della moltitudine, o più puntualmente di cognitariato che si autorganizza per sostituire la logica della cooperazione sociale alla legge del valore. Jeremy Rifkin li chiamerebbe “change makers”, ovvero le legioni di “prosumers” che stanno traghettando il sistema mondo verso la terza rivoluzione industriale: una radicale trasformazione fondata su collaborazione, autoproduzione, indipendenza energetica e sistemi intelligenti, tra big data e internet delle cose, che sta determinando il passaggio epocale da un regime centralizzato, gerarchico e appropriativo di gestione delle risorse e della conoscenza a un regime collaborativo, orizzontale e aperto.
Come correttivo alla visione deterministica e tecno-ottimista di Rifkin, il guru del peer-to-peer Michel Bauwens darebbe una definizione più sfumata, che problematizza la soggettività nell’era del Web interattivo, mettendoci di fronte all’evidenza che le tecnologie in quanto tali hanno in sé stesse sviluppi possibili diametrali. Da un lato verso un’enfasi della centralizzazione appropriativa, dell’approccio estrattivo alle risorse e del controllo sociale esasperato, dall’altro verso un sistema di cooperazione aperto e orizzontale nella dimensione dei commons. Perché il tema del futuro non è se vincerà la collaborazione, ma è quale collaborazione vincerà, e cioè chi controllerà il valore generato dalla produzione sociale. Bauwens innestando il tema della collaborazione in quello dei commons restituisce una dimensione territoriale e politica a questa transizione epocale, e nomina con acutezza le soggettività che stanno giocando la partita: dal capitalismo netarchico degli imperi virtuali, tra Google, Amazon, Facebook, alle comunità resilienti, alle reti dei commons “glocal”, cioè coloro che organizzano localmente una condivisione globale di risorse.
E a Roma cosa succede? Le strutture che praticano questa nuova economia del fare collaborativo producendo commons e relazioni paritarie, cioé il variegato popolo della collaborazione e della condivisione, si stanno mettendo in rete con tante e diverse finalità, ma con una consapevolezza condivisa di essere uno degli attori che si giocherà la difficile partita del futuro. E lo stanno facendo in una fase difficilissima, nella quale i territori sono sempre più abbandonati a loro stessi da un potere che si ritrae dalla dimensione locale, si ricentralizza e si verticalizza.
Dall’anno scorso hanno cominciato a ragionare su come condividere saperi e strumenti, su come generare collaborazione diffusa, su come interagire con le istituzioni sollecitandole a praticare l’innovazione, su come ci si possa organizzare per offrire alla città un welfare collaborativo in maniera sistematica e generalizzata. E recentemente si sono unite in un “Coordinamento di realtà collaborative”, che ha già fissato per il week end del 9 e 10 gennaio 2016 un laboratorio di coprogettazione urbana, per disegnare insieme le risposte collettive da dare in uno dei momenti più drammatici per questa città. In un momento in cui sembrano prevalere soltanto le articolazioni complementari della crisi di sistema: nuove povertà, autoritarismo, austerity, criminalità ed esclusione sociale.
Il primo obiettivo è condividere saperi e pratiche tra le diverse esperienze collaborative e i diversi mondi della cooperazione, nei terreni più diversi. Dal coworking ai fablab, dal mutualismo alla cittadinanza attiva, dalla filiera corta all’open source. E ci sono già alcuni nodi di questa rete che si collocano nella frontiera della sperimentazione, modellizzando le pratiche e intrecciando i diversi contesti collaborativi. Emblematico il caso di Officine Zero, fabbrica recuperata che coniuga l’organizzazione mutualistica del lavoro precario, il coworking, le officine creative di riciclo e il fablab, ma su cui incombe la minaccia di un’asta fallimentare che vorrebbe spazzare via l’esperienza per una valorizzazione immobiliare.
Il coordinamento si è riunito il primo dicembre presso i “laboratori creativi multifunzionali” de “il terzo spazio”, nome evocativo di quel “third space” coniato dall’urbanista americano Edward Soja per indicare gli spazi liberati dalle determinazioni del capitale globale, dove un nuovo immaginario plasma nuove relazioni e accoglie le differenze. E loro s’insediano proprio in una spazialità drammatica, quella di Tor Sapienza, dove il terzo settore non è riuscito a colmare i vuoti delle istituzioni e ad arginare le manifestazioni delle comunità del rancore. E il “terzo spazio” indica la exit strategy: tenere insieme la “cura” e l’“operosità”, per dirla con Aldo Bonomi, hanno creato un ibrido tra un centro sociale e un laboratorio scientifico che coniuga robotica, biohackers, corsi di formazione, scuola popolare e attività per l’infanzia, in una logica di fusione di sociale, cultura, formazione e ricerca.
E non senza significato il coordinamento ha deciso di radunarsi in questo spazio esattamente un anno dopo le note tensioni territoriali con i centri di accoglienza all’immigrazione, perché “il terzo spazio” nasce proprio come risposta a quei giorni drammatici, frutto di una concertazione tra alcune realtà già attive a Tor Sapienza e gli spazi collaborativi di Garbatella, il coworking Millepiani e il FabLab Roma Makers, che dalla loro fondazione sperimentano fruttuosamente lo stare in rete sul territorio. Prese singolarmente queste realtà sembrano solo piccoli “semi di futuro”, ma tenuti insieme a tanti altri nel neonato coordinamento possono aspirare a quello che Alberto Magnaghi definirebbe “progetto locale”. Tra le tante realtà ci sono i coworking che praticano la sharing economy e che diventano hub su scala urbana connettendo saperi e produzioni collaborative territoriali, facendo da incubatori per start-up, orientamento al lavoro, centrali di progettazione e formazione.
In pratica sostituendosi alle istituzioni. E poi i FabLab che stanno diffondendo il verbo e la pratica dell’autoproduzione e della collaborazione open con un’attenta opera di mediazione tra mondi diversi, dalla scuola alle officine di quartiere, alle istituzioni, alla media e grande impresa. E ancora i gruppi e le associazioni che lavorano sui commons immateriali, dall’open source alla digital social innovation, alle infrastrutture cognitive che sotto forma di piattaforme indipendenti configurano nuovi e rivoluzionari geosocial, mappature collaborative che si fanno deposito di conoscenze territoriali e strumento di attivazione di reti. E infine reti intere di recente formazione che aspirano a sovvertire il ciclo di riproduzione agro-alimentare della città, tra agricoltura urbana e sociale, gas, orti condivisi, così come le reti della conoscenza a cui si collegano realtà “business oriented”, che cercano di gettare un ponte tra società e capitale per fare in modo che l’economia si misuri anche in termini di sostenibilità sociale e ambientale.

Sono molte le realtà, e non è necessario nominarle, perché come ogni vera rete collaborativa esse credono nel soggetto anonimo, plurimo, molteplice, acefalo, realmente democratico. Non saranno mai all’ombra del “corpo” del leader, perché rifuggono istintivamente l’organizzazione piramidale, fintamente rappresentativa, di fatto autoritaria. Credono nel qui e ora, nelle relazioni tra pari che praticano, in modi di esistenza concreti e in modi di azione reali. Non saranno mai un brand, una forma chiusa che produce identificazioni immaginarie, perché una vera soggettivazione si realizza nella relazione reale e non nei dispositivi autosufficenti. Con Nicolas Bourriaud sostengono “gruppo contro massa, vicinato contro propaganda, low tech contro high tech, tattile contro visivo”.
A fronte delle mancate risposte della politica della rappresentanza, emerge così una nuova possibilità, quella di comunità di pratiche collaborative che si collocano tra reti digitali e territori, tra globale e locale, contendendo lo spazio ambivalente e conflittuale della sharing economy. Da un lato il modello della collaborazione dominata dal codice proprietario, che estrae valore dalla produzione sociale fondata sulla figura atomizzata del prosumer. Dall’altro il modello di un ecosistema collaborativo che su una base territoriale cerca di trattenere il valore nei territori, per fondare un modo diverso di produrre e stare insieme, generando benessere diffuso, conoscenza condivisa, coesione sociale e sostenibilità ambientale. Perché è uno spettro? Perché è invisibile e potente. Perché è potente? Perché è una soggettivazione basata sul fare e sul desiderio, non solo sulla mancanza e sul bisogno. Perché non solo rivendica diritti, ma li pratica. E fa ora sistema costruendo (e non teorizzando) quel mondo dei commons inteso come matrice di un modello alternativo di economia e di società.

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