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Dai centri storici alle periferie come difendere e rilanciare le nostre città

Due esempi sul come difendere e rilanciare le nostre città ci vengono da Firenze e Roma.
Firenze con un regolamento, non a caso chiamato Unesco, difende l’identità del suo centro storico con la salvaguardia dei suoi negozi storici.
Roma, con un’apposita legislazione regionale, punta – per tenere lontano i giovani dalla droga nelle periferie – alle palestre popolari.
L’impressione che siamo all’inizio di una nuova politica di salvaguardia dell’anima delle nostre città nasce dalla consapevolezza che – continuando a rendere tutte le città turistiche uguali con le stesse vetrine, gli stessi marchi, le stesse merci – cada il motivo stesso per cui esiste il turismo: la curiosità cioè di vedere e vivere mondi e realtà diversi da quello quotidiano in cui viviamo.
Per cui la difesa di Firenze è difesa del turismo, oltre che dell’identità e della cultura, e quindi difendendo la nostra idea di città difendiamo anche la nostra economia.
L’esperimento di Roma invece punta a contrastare il deserto delle periferie creando dei centri di aggregazione che, abituando i giovani alla competizione e al sacrificio che sono alla base dello sport, li attrezza ad entrare nel duro mondo della vita non attraverso le facili e illusorie scorciatoie della droga e dello spaccio, ma con l’attitudine a misurarsi con le sfide per conquistare un ruolo e un’identità nella realtà.




A Tor Pignattara nasce il primo “Ecomuseo”

Walk-around, percorsi e app per scoprire la periferia.
Dal parco di Centocelle a villa Gordiani tra laboratori e passeggiate esplorative.
Una delle ultime tracce dell’Agro romano immerso nel contesto urbano. Un’area che si estende dal parco di Centocelle, sulla Casilina, fino a Villa Gordiani, sulla Prenestina, includendo le vie di Torpignattara, Acqua Bullicante e Tor de’ Schiavi. Qui nasce “l’Ecomuseo Casilino Ad duas Lauros”, un progetto che parte da lontano e che oggi prende forma e che si basa sull’idea della musealizzazione diffusa del territorio inteso non solo come paesaggio ma anche come tessuto di relazioni tra i suoi abitanti, cultura, memoria, eredità storica.

Dal 2009 antropologi, archeologi, storici, urbanisti e cittadini hanno studiato documenti, tragitti, strade e l’intero patrimonio di questo spicchio di V municipio. E attraverso dei laboratori partecipati delineeranno sei percorsi che verranno inaugurati a luglio con passeggiate esplorativi, tour e walk around insieme ai relativi hot spot, ovvero luoghi simbolo segnalati “on the road” attraverso totem e rappresentantivi non solo di un percorso ma dell’intero quartiere, spazi del sentimento e dell’immaginario condiviso: luoghi delle memoria, della storia, della cultura, dell’arte, delle identità.

In particolare, saranno realizzati un percorso antropologico (convivenza tra storie, nazioni, religioni diverse), quello archeologico (che spaziia dal mausoleo di Sant’Elena alle ville romane del Parco di Centocelle, dal Colombario di Largo Preneste al sepolcro dei Gordiani), il percorso culturale (dai murales alle librerie indipendenti, dagli spazi associativi ai co-working), quello sacro
(con luoghi di culto cattolici, musulmani, induisti), quello storico (dalla nascita dei quartieri al protagonismo durante la resistenza) e il percorso urbanistico e paesaggistico (per censire aree verdi e luoghi urbani “vuoti” salvaguardandoli da speculazioni future).

Inoltre, grazie ai fondi messi a disposizione dalla campagna di ascolto “Acea per Roma” di cui il progetto è risultato tra i vincitori, verranno creati una App e un portale web.

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Ostia, periferia e bellezza di una città dilatata’

Venerdì l’Assemblea del volontariato.
Venerdì 22 gennaio la XXIII Assemblea territoriale del volontariato presieduta dal direttore della Caritas Diocesana di Roma monsignor Enrico Feroci nel salone della parrocchia di Santa Monica alla presenza delle associazioni, dei cittadini dell’Idroscalo, delle persone senza dimora e degli immigrati senza residenza, delle autorità regionali, comunali e municipali.
‘Ostia: periferia e bellezza di una città dilatata’ dà il nome alla XXIII Assemblea del volontariato organizzata dalla commissione ‘Carità e territorio’ della XXVI Prefettura Diocesana di Roma-Ostia che si svolgerà venerdì 22 gennaio, alle ore 18.30 – 20.00, presso il Salone della chiesa di Santa Monica in piazza S. Monica, 1, a Ostia. A presiedere l’incontro il direttore della Caritas Diocesana di Roma monsignor Enrico Feroci.

L’ASSEMBLEA – All’assemblea partecipano le associazioni e i gruppi di volontariato dei Centri di ascolto Caritas e servizi della XXVI Prefettura, le istituzioni che operano nel sociale sul territorio del X municipio.

‘SGOMBERO SENZA ALTERNATIVA – “La Caritas, in questa Assemblea, vuole sottoporre all’attenzione la situazione di grave disagio che una politica dello ‘sgombero senza alternativa’ sta provocando in tanti cittadini-persone senza che si aprano tavoli di confronto e di dialogo sulle potenzialità collaborative che i cittadini stessi sono disposti a mettere a servizio del bene comune in vista di una dignitosa alternativa: una paura angosciante che all’improvviso, senza alcun preavviso, ci si trovi circondate da numerose forze di polizia in assetto di sommossa: per i più ‘deboli’ un fuggi fuggi qua e là senza il tempo di raccogliere i propri documenti e le povere cose essenziali per vivere; per i più ‘forti’ un opporre il proprio corpo a difesa dell’unico rifugio!”, spiega don Franco De Donno, responsabile Caritas XXVI Prefettura di Ostia.

LO STORICO – “E’ in corso una ‘rivoluzione strisciante’ – afferma lo storico dell’architettura Fulvio Irace: “Un tempo le periferie erano considerate zone da cui fuggire, ora ci si è resi conto che sono piene di potenzialità. Il degrado non si rottama, si valorizza”. “La politica allarmistica che, dato il degrado dovuto all’incuria, istericamente si lancia nella polemica e chiede che si faccia terra bruciata, non fa che causare danni. Era già successo a Matera negli anni Cinquanta, quando hanno strappato dai Sassi, effettivamente insalubri e degradati, i loro abitanti e li hanno portati in nuovi quartieri dove non si sono più sentiti a casa loro. E oggi i Sassi, rinnovati, sono divenuti una bellezza da ammirare”, prosegue il dottor Irace.

IL DEGRADO – “Il degrado va affrontato non con la rottamazione o con gli sgomberi forzati, ma con la manutenzione. Aiutando gli abitanti a prendersene cura. Il problema è che ci sono regole stringenti, apparati burocratici e appetiti finanziari che spesso frenano le iniziative e impediscono di rivalorizzare luoghi e edifici. Non è più tempo di abbattere per ricostruire. E’ tempo di gestire e valorizzare. Quel che si chiamava ‘periferia’ può diventare la ‘città del futuro’”, sottolinea lo storico dell’architettura.

LA CARITAS – “La Caritas dichiara inoltre con fermezza che la mancanza di ‘residenza’ e il rifiuto di essa da parte delle Istituzioni mantiene le persone nella clandestinità che rischia di trascinarle verso la criminalità”, afferma don Franco De Donno, che nei giorni ha condannato lo sgombero nella pineta delle Acque rosse.

L’assemblea avrà luogo venerdì 22 gennaio 2016 alle ore 18.30 presso il salone S. Monica p.zza S. Monica, 1, Ostia. Presiede il direttore della Caritas Diocesana di Roma, monsignor Enrico Feroci.

IL PROGRAMMA Moderatrice: Maria Stella Fabbri, della Comm. ‘Carità e Territorio: presenta l’Assemblea (5’) d. Franco DE DONNO, responsabile della Caritas di Prefettura: lettura da Matteo 21, 33-36 (3’) d. Salvatore TANZILLO, Parroco-Prefetto apre l’Assemblea con breve commento al brano biblico (5’) I – TESTIMONIANZE – LAMPO (5’) su: rilievi di ‘criticità’ e germi di ‘speranza’ a) Usura, mafia e racket: rel. Ass. ‘Volare’ antiracket b) Tossicodip. e alcolismo: rel. SerT , CdA ‘In dialogo’ , AA c) Senza dimora: rel. L’Alternativa, Com. S. Egidio, CRI giovani d) Prostituzione : rel. Progetto ‘Alina’ – FF.OO. e) Emarginazioni ‘ignorate’: Idroscalo : rel. Coordinam. Territ. – Idroscalo = 60’ Centro Socio abitativo (Vittorio Eman.): rel. Rom : rel. Mario Conclave f) Centro per la Vita g) Caritas Diocesana (Mensa e Centro di Prima Accoglienza) INTERVENTO DI SINTESI da parte di d. Enrico FEROCI (10’) II – QUALI RISPOSTE ’AUTOREVOLI’ e ‘CREDIBILI’? ( Interventi brevi e ‘concreti’ (5’) da parte di autorità presenti in Assemblea ) = 20’ INTERVENTO di SINTESI da parte del VESCOVO (10’) d. Enrico chiude l’Assemblea (5’).

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A Corviale filosofia, psicologia, scienza e teologia s’incontrano

La riqualificazione di Corviale, un quartiere alla periferia della Capitale, non passa soltanto per il restyling del mattone. Mentre strade, parchi e palazzi si rifanno il look, Corviale pensa anche ad incrementare il fervore della sua anima culturale. Filosofia, psicologia, medicina e teologia si sono dati appuntamento in un unico evento, organizzato dall’associazione culturale Organon (Consultorio filosofico e antropologico esistenziale: http://www.consultoriofilosoficoorganon.it).

“Medicina ed esistenza sul senso del vivere”: è questo il titolo dell’imperdibile appuntamento fissato per sabato 6 febbraio 2016, presso la biblioteca comunale di Roma Renato Nicolini, in via Marino Mazzacurati 76.

“Il convegno vuole essere un’opportunità per cercare di comprendere l’innegabile disagio che attraversa la società attuale – spiega Esper Russo, consulente filosofico, presidente di Organon – un invito a riflettere sui nuovi problemi con cui siamo posti a confronto. E’ in atto un cambiamento che costringe a porsi alcuni interrogativi: abbiamo di fronte una vera e propria trasformazione qualitativa della sofferenza, un malessere il cui contenuto è svuotato di senso”.

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Oltre al presidente di Organon, che introdurrà i lavori, parteciperanno al covengno anche Padre Roberto Fornara, teologo, Maria Teresa Russo, docente di filosofia morale e bioetica presso l’Università di Roma Tre, Ferdinando Brancaleone, psicoterapeuta, direttore scientifico Isue e Serena Mosti, neurologa della fondazione Santa Lucia di Roma.

Scopi e motivazioni che spingono queste professionalità lungo i propri percorsi di cura, potrebbero sembrare molto distanti tra loro. Ma è soltanto una questione di apparenza. La domanda di senso, infatti, sottende tutte le altre domande: è la domanda religiosa, è la questione spirituale, è l’interrogazione filosofica ed è anche la domanda della medicina. E, cambiando l’ordine della questione, è necessario domandarsi se la medicina oggi, orientata ad un approccio metrico ed economico, lasci spazio e possa ancora riuscire ad essere la fonte della cura dell’uomo ed avere gli strumenti per prendersene cura e possa tornare ad integrarsi con altri domini di conoscenza, per medicare il malessere dell’uomo recuperando risorse che le appartengono essenzialmente.

“Il convegno, dunque – ha continuato Esper Russo – vuole in ultima analisi rappresentare un momento di incontro per interrogarsi sull’idea di uomo e di malattia che sottende alla cultura dell’ attuale medicina, chiedendosi se quell’ approccio ad un corpo, visto come macchina che si rompe, sia in grado di dare ancora oggi risposte esaustive e soddisfacenti ad un’umanità sempre più sofferente e ferita. L’intento – ha concluso il presidente di Organon – è praticare una riflessione congiunta tra più discipline, per arricchire ed estendere il campo d’indagine e d’intervento”.

Medicina ed esistenza sul senso del vivere

Introduce Esper Russo, presidente di Organon

Relatori:

Roberto Fornara, teologo, teresianum: Parola, Carne e Gloria: Umanità di Dio e dività dell’uomo

Maria Teresa Russo, docente di filosofia morale e bioetica presso l’Università di Roma Tre: “Il doppio occhio clinico: la malattia tra medicina e filosofia”

Ferdinando Brancaleone, psicoterapeuta, direttore scientifico Isue Napoli:”Cura e Malattia secondo l’ottica antropologica neo-esistenziale”.

Serena Mosti, neurologa, fondazione Santa Lucia Roma: “Neuroscienze e dolore”

Coordina Isabella Faggiano, Organon

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Radio Impegno

Proposta di progetto: Radio Impegno, una WebRadio nottura in diretta streaming dal Campo dei Miracoli di Calciosociale a Corviale, Roma

Cosa vuole essere Radio Impegno: una diretta streaming notturna dal Campo dei Miracoli di Corviale per dare spazio alla nostra voce e per mostrare che anche di notte noi siamo presenti. Perché di notte hanno voluto colpire il Campo dei Miracoli, atto infame e intimidatorio contro di noi e contro tutti gli uomini e le donne che provano ogni giorno a cambiare questa città. Anche noi scegliamo la notte, per mostrare il lato migliore di noi, la nostra capacità di far rete, di unirci solidali, per rispondere insieme e più forti contro chi vuole distruggere i nostri sogni. Per la prima volta a Roma, numerose associazioni potranno unirsi insieme per dare una scossa, non si tratta solo di Corviale, ma della nostra città.

Facciamo appello a tutti voi per realizzare insieme il progetto della WebRadio notturna: Radio Impegno.

Perché Radio Impegno oggi e a Roma:

Custodire il Campo dei Miracoli, bene simbolo della rinascita di un quartiere.

Costruire una rete di tutti quei soggetti impegnati a diffondere la cultura della legalità.

Costruire una rete di associazioni e cittadini impegnati sui temi dell’ambiente, della cultura, dell’informazione, dei diritti civili e della povertà. Ascoltare “il Respiro della Città”.

Costruire un canale informativo libero ed indipendente.

Denunciare le piccole e grandi prepotenze della criminalità e stimolare la partecipazione e l’impegno della gente comune alla vita sociale e politica della città.

Accendere i riflettori sui lavori di riqualificazione di Corviale e coinvolgere la cittadinanza nel progetto di cambiamento del quartiere.

Tenere accesa l’attenzione su ogni grande appalto in corso nella città, per evitare che si trasformi nell’ennesima opera pubblica mancata e nell’ennesima occasione persa di rinnovamento per ogni singolo quartiere.

Offrire un servizio notturno in collaborazione con le Asl e i municipi di assistenza alle persone più in difficoltà.

Radio Impegno ha senso solo se è realizzata insieme ad un grande numero di associazioni

Una voce sola non basta, solo una rete solida e motivata di associazioni potrà dar vita ad un progetto collettivo così ambizioso. Per questo facciamo appello a tutti voi, con un impegno minimo e ben distribuito si potrà realizzare una grande iniziativa. Ogni associazione inoltre potrà essere protagonista col proprio palinsesto, raccontando la propria esperienza e dando il proprio unico contributo.

Dettagli tecnici:

Radio Impegno andrà in streaming da mezzanotte alle 7.00 del mattino. Sarà possibile effettuare dirette esterne tramite semplici collegamenti col cellulare, anche da fuori Roma. Sarà possibile creare “un filo diretto” con i potenziali ascoltatori tramite una segreteria di supporto. E’ possibile mandare in onda oltre 3 ore di musica. Sono previste delle ore di formazioni prima dell’avvio del progetto e un’assistenza tecnica di supporto per la preparazione e svolgimento di ogni puntata.

SCHEDA DI ADESIONE

Nome associazione o singolo: ………………………………………………………………………………….

Attività e scopo associativo o del singolo: ………………………………………………………………….

Contatto email: …………………………………………………………………………………………………………

Telefono: ………………………………………………………………………………………………………………….

Adesione al progetto Radio Impegno: Si No

Se no, perché? …………………………………………………………………………………………………………….

L’impegno richiesto è di una notte ogni due mesi, così da coprire 6 notti all’anno per ogni associazione e da garantire la sostenibilità della Radio Impegno. Tale frequenza è stata tarata in caso di adesione di almeno 60 associazioni/persone. In caso di un maggior numero di partecipanti, si potrà ridistribuire l’impegno.

Chi è Calciosociale

Calciosociale è una società sportiva dilettantistica presente a Roma dal 2005. Lavoriamo affinché le persone recuperino il gusto dell’onestà e siano esempi positivi per la corretta crescita dei bambini. Per questo operiamo in contesti giovanili ad alto rischio di devianza proponendo un’attività educativa e pedagogica che coinvolge a 360 gradi il ragazzo e la sua famiglia. Ci rivolgiamo a uomini e donne, ragazzi e ragazze, giovani con disabilità e ragazzi con problemi di droga, precedenti penali, disagio familiare e senza alcun limite di età. I principi e i valori proposti da Calciosociale si esprimono attraverso il gioco del calcio inteso come metafora della vita: riusciamo così a promuovere i valori dell’accoglienza, del rispetto delle diversità, della corretta crescita della persona e del sano rapporto con la società. Ogni nostra iniziativa ha uno scopo prettamente pedagogico, di elevato spessore qualitativo e dal valore psico-terapeutico: la nostra attenzione è rivolta sulle capacità e non sugli handicap presenti nei soggetti considerati difficili.

Responsabile di progetto e contatti Calciosociale:

Massimo Vallati – Presidente Calciosociale: direzione@calciosociale.it

Matilde Santarelli – Resp. Radio Impegno: tilduccia43@hotmail.it

Matteo Capozzucca – Resp. Radio Impegno: matteocapo@outlook.it




Corviale: da qui per ripartire

Esperti e abitanti uniti nella rinascita di un complesso che può diventare esempio di rigenerazione.
Nel passaggio drammatico che la nostra città sta vivendo il suo giornale ha colto un aspetto cruciale, che sfata un mito e può contribuire a demolire un alibi, quello secondo il quale Roma sarebbe una ingovernabile. Non è vero, appunto.

E le sue risorse – culturali, economiche, umane – sono così grandi che basta toccare i tasti giusti per rimetterla in movimento. È dunque possibile agire su frammenti significativi, che prefigurino soluzioni generali, senza per questo ipotecare le scelte strategiche che resteranno prerogativa della politica. Un esempio particolarmente significativo, su cui poter agire subito, è quello di Corviale.

Intorno al complesso divenuto, a torto, simbolo del degrado urbano si sono accumulati una mole di esperienze che possono trasformarlo in breve tempo nel suo contrario: uno straordinario esempio di rigenerazione. Esistono già tutti gli strumenti. Il comitato che si occupa di immaginarne il futuro ha individuato nelle
sue strutture le caratteristiche che consentono di sperimentare tutte le nuove forme di sostenibilità: autonomia energetica, sharing economy, riuso di spazi comuni, iniziative culturali aggreganti. Intorno a questa idea sono stati coinvolti esperti di diverse discipline e soprattutto i residenti.

Ci sono risorse stanziate, sono stati individuati canali di finanziamento europei. Basta pochissimo per portare a termine un processo ormai arrivato a maturazione.

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EU Urban Agenda

Through the EU Urban Agenda, national governments, the European Commission, European institutions and other stakeholders will be working together for a sustainable, innovative and economically powerful Europe that offers a good quality of life.

More and more people are living, working and spending their leisure time in cities. Cities also offer space to establish businesses, and innovation flourishes in an urban environment. With the current (European) trend towards urbanisation, the importance of cities is set to continue to grow. At the same time, growth is accompanied by complex issues, including an ever greater risk of segregation, increased criminality and environmental problems.

International research has revealed that cities are of huge importance to Europe. They are the powerhouses of economic growth, innovation and employment opportunities. Cities are the living environment for 72% of all Europeans. This percentage is expected to rise to 80% by 2050. The developments in the cities are increasingly indicative for the quality of human life. Cities are facing ever greater social challenges in respect of the environment, transport and social cohesion. The EU Urban Agenda aims to address those challenges.

Check the City Makers Agenda, a step towards developing a strategy for City Makers, which will allow them to develop their position within the world of urban development and policy making. From citizen engagement to citizen empowerment.

EU Urban Agenda

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Quarto e Colonia due aspetti della stessa periferia

Quarto e Colonia due periferie uguali e simmetriche c’indicano quelli che saranno le linee del nostro futuro.
Sembrano quasi la trama di uno di quei film di fantascienza in cui storie diverse s’intrecciano duplicando nella stessa trama mondi diversi ma espressioni della stessa realtà.
Una realtà che ci fa paura ma con cui dobbiamo imparare a confrontarci se non vogliamo nascondere la testa sotto la sabbia.
Quarto (Città metropolitana di Napoli) – Primo genere di periferia – La periferia territoriale
Voi pensate che il tema dell’agenda politica nazionale siano le riforme costituzionali o le politiche da adottare sul tema dell’immigrazione conseguente ai conflitti religiosi del medio oriente con possibili conseguenze anche sulle nostre politiche energetiche?
Vi sbagliate completamente: l’agenda politico_istituzionale delle periferie territoriali italiane come Quarto è come gestire il campo sportivo, a chi dare in appalto l’illuminazione pubblica, a chi conferire il business del caro estinto.
Colonia (Renania Settentrionale-Westfalia) – Secondo genere di periferia – La periferia antropologica
Voi pensate che il tema dell’agenda politica europea sia come bilanciare la necessità di contenere i debiti di bilancio con l’esigenza di una politica di svilupppo che dia più slancio all’occupazione o come avere una politica estera che si contrapponga al filibustering russo senza pregiudicare le esportazioni europee all’est e le forniture di gas?
Vi sbagliate completamente: l’agenda socio-comportamentale del cuore dell’Europa più ricca ed evoluta è come contemperare le pulsioni sessuofobiche dei giovani migranti magrebini con le necessità umanitario/demografiche di accoglienza alle masse di rifugiati che premono alle frontiere.
Una sola risposta non è possibile, occorre fare delle scelte. Non possiamo recedere dai principi fondativi della nostra civiltà. E se tra questi principi c’è sia l’accoglienza che la libertà e se chi beneficia della nostra accoglienza non ha la nostra stessa concezione della libertà come la mettiamo?
È questo il dilemma che le nostre periferie, territoriali e antropologiche, da Quarto a Colonia, ci pongono.
È a questa domanda che il centro deve una risposta, è una domanda che sale dalle nostre periferie, è una risposta che tocca ai nostri centri, nazionali, europei, internazionali.




Radio impegno

La radio di chi di notte custodisce.
Sta nascendo a Roma, al Corviale grazie ad associazioni e cittadini che non sono disposti a tenere la bocca chiusa.
“Vince solo chi custodisce”. È il motto di Calciosociale, una società sportiva dilettantistica presente a Roma dal 2005, con l’obiettivo di trasformare il gioco del calcio da sport competitivo a palestra di vita, arricchendolo con attività sociali per ragazzi e famiglie. E da anni lo fa in uno dei quartieri più a rischio della capitale, il Corviale, regno di clan criminali e degrado urbano. Un monopolio che nel 2014 Massimo Vallati (presidente di Calcio Sociale) insieme ad altri giovani hanno voluto strappare alla malavita consegnando al quartiere il “Campo dei Miracoli”, una struttura eco-sostenibile diventata luogo di incontro, gioco e socializzazione per gli abitanti della zona. Nella notte tra il 12 e il 13 Novembre 2015 il centro subisce un atto intimidatorio e una parte di esso va in fiamme. Consapevoli della solidarietà di cittadini e istituzioni, Massimo e gli altri volontari del centro decidono di investire le loro forze su un nuovo progetto. Mettere in piedi una web-radio notturna che trasmetterà programmi di informazione e intrattenimento, in diretta dal Campo dei Miracoli, coinvolgendo associazioni, cooperative, onlus e diverse realtà della capitale. Radio Impegno nascerà per dire al Corviale e a Roma che anche di notte c’è chi costruisce e custodisce.
Corviale
L’incendio doloso al Campo dei miracoli di Corviale

Cos’è cambiato dopo l’attentato?
«Una settimana dopo l’incendio abbiamo voluto organizzare una fiaccolata di solidarietà, invitando tutti coloro a cui stavano a cuore i valori della legalità e del rispetto dei luoghi comuni. In quell’occasione abbiamo preso consapevolezza che sono in tanti a sostenerci. Padri, mamme, bambini di Corviale e degli altri municipi di Roma, associazioni, autorità e semplici cittadini hanno rotto quel muro di omertà che da troppi anni regnava all’interno del quartiere».

E l’idea di Radio Impegno, com’è nata?
«La fiaccolata è stata un segnale talmente forte, che invece di darla vinta ai mafiosi facendo un passo indietro faremo tre passi in avanti. Metteremo in piedi una web-radio notturna per dire a chi vuole distruggere che noi invece, di notte, vogliamo costruire. E lo faremo con i valori della legalità, del senso civico e della solidarietà».
Radio Impegno nasce al Corviale per “custodire” le notti, ma anche i giorni
Radio Impegno nasce al Corviale per “custodire” le notti, ma anche i giorni

Chi farà parte di Radio Impegno?
«L’idea è quella di costruire un grande movimento cittadino di contro-informazione che denunci tutto ciò che non va in questa città, ma allo stesso tempo faccia emergere il coraggio di uomini e donne che vogliono cambiare le sorti di Roma. Il prossimo 21 Gennaio al “Campo dei Miracoli” avremo un incontro organizzativo a cui potranno prendere parte tutti, con maggior attenzione alle associazioni che operano sul territorio romano: da quelle culturali a quelle sportive, dalle cooperative sociali a quelle rivolte all’infanzia. Ogni associazione prenderà in carico una notte di trasmissione (dalle 00.00 alle 07.00) decidendo i contenuti e i programmi del palinsesto, sia di informazione sia di intrattenimento. Creeremo anche delle rubriche comuni all’interno delle quali affronteremo dei temi da sollecitare all’opinione pubblica. Ci auguriamo di coinvolgere almeno 60-70 associazioni così da poter affidare ad ogni realtà un massimo di 5-6 notti l’anno».

Calcio Sociale è presente al Corviale dal 2005. Che contributo avete dato al quartiere?
«Grazie al supporto della regione Lazio abbiamo accettato la sfida di riprenderci un quartiere per troppo tempo gestito dalle associazioni criminali. Il “Campo dei Miracoli” che nel 2014 abbiamo consegnato alle famiglie di Corviale è diventato il simbolo del riscatto di questa zona, un posto dove far crescere i propri figli in modo sano. Un polmone verde eco-sostenibile in mezzo al cemento delle abitazioni abusive, per far attività sportiva ma anche sociale. Ci sono accanto le istituzioni e le forze dell’ordine: tra tutte, in modo particolare, il Prefetto di Roma, che si è impegnato a condurre una delle notti radiofoniche».
Campo dei Miracoli è una struttura ecosostenibile
Campo dei Miracoli è una struttura ecosostenibile

A chi ha tentato di ostacolarvi nel vostro progetto, cosa rispondete?
«Se volevano tenerci la bocca chiusa distruggendo un progetto messo in piedi con tanta fatica, hanno ottenuto l’effetto contrario. Non solo ci riprenderemo il quartiere di notte, ma saremo in tanti a denunciare, a parlare e a guardare quello che succede attorno al Corviale e in tutta Roma».

Se vuoi prendere parte a Radio Impegno – come associazione o come privato – puoi inviare una mail a segreteria@calciosociale.it o telefonare ai numeri 3402627939 – 0665198597. Il Campo dei Miracoli – centro sportivo Valentina Venanzi – si trova a Roma in Via Poggio Verde 455.

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Conoscere le periferie, per cambiarle

Negli ultimi mesi le cronache giornalistiche hanno investito di un’attenzione rinnovata le periferie delle nostre città, trattandole perlopiù come quinte sceniche davanti le quali fenomeni come la gestione dei flussi migratori, i disservizi nei trasporti o nel trattamento dei rifiuti, le infiltrazioni mafiose e molti altri sono stati mescolati e confusi nella grande narrazione del ‘degrado’ contro il ‘decoro’. Da Tor Sapienza a Quinto di Treviso, sono molti i quartieri sbattuti in prima pagina – in netto contrasto con l’oblio nel quale sono solitamente relegati – a causa di una questione come quella dell’accoglienza dei richiedenti asilo, che nel nostro Pese si è tramutata, più o meno artificialmente, in un’emergenza.

Stando alle descrizioni fornite dai media mainstream che ormai si sono impossessate del senso comune, le periferie sembrano essere proprio il terreno dell’emergenza, mentre chi per primo le vive sa bene che, una volta spente le telecamere e chiusi i taccuini, rimane una realtà forse molto più difficile da analizzare e raccontare, ma anche ben più problematica.

Quello di giornali e tv si rivela semplicemente un modo di raccontare le nostre città che certo può risultare efficace per catturare click o aumentare lo share di qualche punto, ma che ha un’utilità quasi nulla nel capire quali siano gli effettivi problemi che affliggono le periferie e quali possono essere le strade per risolverli.
Una storia di periferia

Periferia, dal greco περὶ φέρεια, significa letteralmente “linea curva che tornando sopra se stessa racchiude uno spazio, forma una figura”, un concetto sostanzialmente autonomo – e abbastanza generico – che tuttavia non corrisponde con il significato che ha via via acquisito il termine in italiano. Solitamente tendiamo a definire la periferia per contrasto rispetto al centro: periferia è ciò che sta fuori, che è marginale, lontano, rispetto ad esso. Il centro viceversa non si definisce tanto in opposizione alla periferia quanto per le sue qualità intrinseche: un insediamento storico, la presenza di edifici pubblici e privati importanti e delle funzioni che essi contengono, l’accessibilità rispetto ai mezzi di trasporto e così via.

Quella della periferia come opposto del centro è evidentemente una definizione efficace e immediata, che allo stesso tempo rivela un dato molto importante: definendo la periferia in ragione del centro tendiamo a guardare tutto dalla prospettiva di quest’ultimo. Almeno secondo questa definizione – stando cioè nei perimetri di questo frame cognitivo – la periferia in sé non esiste, ma soprattutto sembra non poter esistere come oggetto di ricerca autonomo, dotato di una sua dignità al di là della subordinazione al centro in termini di localizzazione, accessibilità, presenza di servizi, qualità del costruito e via dicendo.

Limitandoci geograficamente all’Italia e temporalmente a partire dal secondo Dopoguerra possiamo individuare – con un buon grado di approssimazione – due fasi diverse dello sviluppo delle periferie, legate all’estensione e alla ritrazione (e riarticolazione) dello sviluppo urbano del Paese (per una rassegna più completa, segnaliamo questo link).

La prima fase è quella del boom economico e demografico che si protrae con accenti diversi fino a tutti gli anni ’70 e che è caratterizzata da una grande estensione fisica delle città. Interi quartieri vengono costruiti – spesso pressoché da zero – per soddisfare le esigenze di una popolazione e di un’economia in crescita: al centro di questo processo ci sono da un lato il tentativo di calmierare gli squilibri del libero mercato garantendo un’abitazione alle classi sociali più basse, spesso in stretta connessione, anche fisica, con gli insediamenti industriali nei quali gli stessi abitanti dei quartieri periferici erano impiegati; dall’altro gli interessi sempre più forti dei grandi costruttori. È proprio in questa fase che l’espansione urbana fornisce un contributo determinante alla crescita ipertrofica del settore edile, che con il tempo diventerà strategico per il suo peso specifico all’interno dell’economia del Paese.

Questa crescita esponenziale delle città, e delle periferie, è spesso descritta come uno degli ingredienti principali del cosiddetto ‘Miracolo italiano’: dietro la patina positiva si nascondono tuttavia fenomeni molto diversi tra loro, dall’iniziativa pubblica a quella speculativa privata, fino ai molti casi di abusivismo edilizio su larga scala. L’apice di questa fase di espansione è simbolizzato dalla costruzione in molte città italiane, tra la fine degli anni ’60 e la metà degli anni ’70, di grossi agglomerati di edilizia razional­funzionalista: dallo Zen di Palermo al quartiere Corviale a Roma (ma quasi ogni città della Penisola può citare il proprio esempio), che costituiscono anche l’emblema del fallimento delle politiche abitative di quegli anni.

La seconda fase, con differenti tendenze dagli anni ’80 in poi, è caratterizzata da una stabilizzazione demografica e da una serie di crisi economiche, che si possono collocare nel più ampio ambito della transizione dal modello fordista a quello postfordista. Dentro questo processo lo sviluppo urbano assume due tendenze che si susseguono e in parte si intrecciano tra loro: la prima è quella della dispersione urbana, ovvero il trasferimento di residenze, attività produttive, funzioni e servizi fuori dai perimetri consolidati delle città, in un territorio più vasto segnato linearmente dalle direttrici infrastrutturali; la seconda è quella della rifunzionalizzazione di grandi aree della città consolidata, i cosiddetti processi di ‘rigenerazione urbana’ che, definendo in molti casi nuove centralità, ovvero nuove aree sulle quali l’interesse pubblico e – in maniera sempre più pervasiva – quello privato hanno rivolto la loro attenzione, hanno di converso definito altrettante nuove marginalità.

L’esempio più emblematico di dispersione urbana in Italia è quello del Veneto centrale, dove tra i capoluoghi di Vicenza, Padova, Venezia e Treviso i processi di urbanizzazione si sono notevolmente intensificati a partire dagli anni ’80, accompagnando un massiccio trasferimento di popolazione e di attività produttive dai capoluoghi alle campagne. Per quanto riguarda i processi di rifunzionalizzazione, dagli anni ’90 in poi molti di essi sono stati ‘pilotati’ dal programma europeo Urban: un esempio noto è quello del piano Urban di Bari con il recupero del centro storico di Bari Vecchia. Altri processi di rifunzionalizzazione sono stati determinati da grandi lavori di adeguamento infrastrutturale, ad esempio la ristrutturazione della Stazione Tiburtina a Roma.
Scampia, foto per gentile concessione di Daniele Napolitano Scampia – ph Daniele Napolitano
Fabbrica e Periferia

La lente migliore per leggere le diverse fasi dell’evoluzione delle periferie in Italia è probabilmente quella dell’evoluzione del modello produttivo: con l’industrializzazione fordista del secondo Dopoguerra la città si espande ‘a immagine e somiglianza’ della grande fabbrica, con grandi agglomerazioni e uno sfruttamento intensivo del suolo; con il declino del modello fordista, assieme alla grande fabbrica ‘esplode’ anche la città, con fenomeni di dispersione e di sfruttamento estensivo del suolo e grandi riarticolazioni delle funzioni dentro la città consolidata. Non è stato esclusivamente il legame con la sfera della produzione a mutare le nostre città e lo sviluppo urbano, ma il binomio fabbrica-­città è efficace nel descrivere tali trasformazioni e in particolare l’evoluzione delle periferie. La periferia infatti ha rappresentato, in particolare nel corso dell’affermazione del modello fordista, la naturale prosecuzione spaziale della collocazione sociale della classe operaia, e le lotte per l’estensione del welfare state che hanno trovato nel corso degli anni una lenta e faticosa concretizzazione proprio nei contesti periferici sono, di converso, il segno dello sviluppo di un sistema di controllo sociale delle masse operaie sempre più articolato.

La seconda parte dell’evoluzione delle periferie ci consegna degli elementi d’analisi più complessi e in parte contraddittori: viene di fatto definitivamente sconfessata la marginalità, intesa dal punto di vista meramente spaziale, come metro di classificazione della periferia. La periferia non è semplicemente “lontana dal centro”, e a volte non lo è affatto. L’esplosione della città fordista e l’ascesa della dispersione urbana hanno di fatto dimostrato che ‘tutto è periferia’, che la ridefinizione di centralità molto deboli attorno ad alcune direttrici di trasporto hanno sostanzialmente fatto scomparire il centro così come è stato sempre inteso nel corso della storia delle città italiane (ed europee). La scomparsa e la disarticolazione del centro cittadino come spazio pubblico predominante ha inoltre cambiato profondamente i connotati del conflitto sociale, facendolo riemergere in forme più carsiche ma più dirompenti anzitutto perché più inedite. La riarticolazione delle funzioni dentro la città consolidata, spinta sempre più anche da un insieme di interessi privati, ha dimostrato che la nascita di nuove centralità o il deciso rafforzamento di quelle vecchie determina il sorgere di nuove marginalità, a volte per nulla distanti dalle centralità stesse: pensiamo all’uso dello spazio pubblico, in particolare da parte dei migranti, nei pressi immediati delle stazioni, o le speculazioni sui prezzi degli affitti, spesso in nero, in molte zone universitarie.

Insomma, pare che le evoluzioni più recenti dello sviluppo urbano in Italia abbiano tolto di mezzo anche quelle poche certezze che potevamo desumere fin qui. Eppure, sgomberare il campo può essere utile ad allontanarsi definitivamente dall’idea che la marginalità spaziale sia un criterio sufficiente per definire le periferie, e per abbracciare come strumento di ricerca la marginalità sociale nelle sue varie declinazioni.
Scampia, foto per gentile concessione di Daniele Napolitano Scampia – ph Daniele Napolitano
Mercato e Stato, un duplice fallimento

Quando sentiamo la parola periferia solitamente tendiamo a collegarla ad accezioni negative, dal degrado all’assenza di servizi, dai problemi di integrazione alla mancanza di sicurezza. Si tratta di un collegamento molto spesso legittimo, che rappresenta il fallimento di questo modello di sviluppo della città. Ma, più esattamente, stiamo parlando del fallimento da parte di chi? Si tratta di un fallimento duplice, che riguarda in diverse accezioni tanto il libero mercato quanto lo Stato. Alla base del primo fallimento c’è una semplice assunzione: il libero mercato non è strutturalmente in grado di garantire un alloggio dignitoso e una qualità urbana accettabile a tutti, e peraltro non è nemmeno interessato a farlo. Non si tratta di un problema di scarsità in senso stretto: pensiamo soltanto al fatto che in Europa vi sono 11 milioni di case vuote a fronte di 4,1 milioni di senzatetto. Questo dato, che esemplifica in maniera drammatica il fallimento del mercato, rappresenta esclusivamente la punta dell’iceberg di una generale incapacità di garantire uno sviluppo urbano equilibrato, sostenibile e soprattutto socialmente equo.

A fronte di questo fallimento ne subentra un secondo: quello dello Stato come calmieratore degli squilibri del mercato, come regolatore di ultima istanza del modello capitalista, come garante di quel compromesso capitale/­lavoro che ha generato le proprie conseguenze anche sullo sviluppo urbano e del quale oggi assistiamo a una profondissima ristrutturazione. Se negli anni che sono stati espansivi anche dal punto di vista della conflittualità sociale si sono prodotti diversi avanzamenti nel campo del welfare, del diritto all’abitare e via dicendo, questi sono stati in larghissima parte spazzati via dal processo di ristrutturazione che, apertosi dagli anni ’80, continua ancora oggi nell’ambito delle misure di austerità e in particolare della riduzione drastica della capacità di spesa degli Enti Locali.

Questo fallimento tuttavia non si limita all’incapacità di conservare quel compromesso, rafforzarlo o estenderlo: anche negli anni più importanti dal punto di vista della conquista dei diritti nell’ambito della questione urbana e non, il ruolo dello Stato era già caratterizzato da limiti macroscopici, tanto rispetto al modello cognitivo e decisionale da applicare nella progettazione urbana, quanto rispetto al ruolo del pianificatore e in generale del progettista dentro quel modello.

Possiamo in sostanza affermare che dentro il compromesso capitale/­lavoro non si è sviluppato soltanto un preciso ambito di competenza dello Stato – l’edilizia pubblica popolare, la fornitura dei servizi etc. – ma anche un peculiare modello di approccio cognitivo ai problemi (di fatto quello razionalista e procedurale) e un modello dall’alto verso il basso di definizione ed esecuzione dei progetti, modelli nei quali il ruolo dell’urbanista è quello del tecnico preposto a dare esecuzione a scelte politiche prese nell’ambito della democrazia rappresentativa liberale.

L’estrema attenzione al disegno, dunque all’esito progettuale per giunta limitato ai suoi aspetti formali, ha prodotto in diverse occasioni delle situazioni paradossali: ad esempio, in molti dei casi citati sopra come esempi dell’architettura razional­funzionalista applicata all’edilizia popolare, l’attivazione dei servizi, l’attrezzatura degli spazi pubblici, l’insediamento delle funzioni diverse da quelle residenziali sono arrivati dopo anni, se non addirittura decenni, dall’arrivo dei primi residenti.

Il fallimento dello Stato è dunque ben più ampio dell’incapacità di dare seguito al compromesso capitale­/lavoro, ma riguarda proprio la definizione di quel compromesso come dispositivo – secondo la definizione foucaultiana del termine – che ha orientato un’intera strategia di sviluppo urbano.

Per tornare al problema della ridefinizione del concetto di periferia, potremmo affermare che periferia è lì dove i fallimenti del mercato e quelli dello Stato si incontrano: ritorna il paradigma della lontananza, applicato però alla distanza dalla risoluzione effettiva dei problemi, una distanza massima nel caso delle periferie. Le periferie continuano ancora oggi ad essere l’emblema del fallimento di quel ‘sogno urbano’ che anche nel nostro Paese aveva spinto milioni di persone a emigrare in cerca di una vita migliore. Se, come si suol dire, l’aria della città rende liberi, ciò che noi possiamo intendere come periferia si colloca al di fuori di questo perimetro, a prescindere dall’effettiva collocazione spaziale. Le periferie sono oggi anzitutto i luoghi dei senza potere, per cui la prima preoccupazione di chi vuole provare a cambiare questa condizione dovrebbe essere quella di come restituire la capacità di decidere del proprio territorio e della propria condizione a chi oggi non la ha più.
Periferie e resilienza

Privilegiare la dimensione sociale rispetto alla dimensione fisica nella definizione di cos’è periferia oggi non significa semplicemente recepire una tendenza storica, quella della fine dell’espansione della città occidentale per come l’abbiamo conosciuta nel corso del XX secolo. Si tratta più che altro di riconoscere come strategica la categoria multidisciplinare della resilienza. Resilienza è un termine che proviene dall’ambito ingegneristico e che rappresenta la capacità di un corpo di tornare ad uno stato di equilibrio a seguito di un evento stressante, ad esempio la capacità di assorbire una deformazione elastica. Il termine in seguito si è esteso al campo della psicologia, e poi ad altre discipline. In latino, il verbo resalio indicava il gesto del risalire sulla chiglia di un’imbarcazione dopo che essa era stata rovesciata dalla forza del mare.

Costruire società resilienti significa fare i conti con un termine polisemico, anche se molto spesso in ambito urbanistico è collegato esclusivamente alla dimensione ambientale: in questo campo, la resilienza di un insediamento è legata alla capacità di reagire e riorganizzarsi a seguito di turbamenti climatici o ambientali di ampia portata, ad esempio frane o inondazioni, quindi attiene all’aumento dalla superficie permeabile o al rispetto delle caratteristiche idrologiche del territorio.

In una dimensione sociale e culturale, invece, la resilienza allude alla capacità delle comunità locali di definire reti di solidarietà e inclusione capaci di affrontare, riconfigurandosi in maniera creativa, le fasi di stress (crisi economica, mutazioni nella composizione della popolazione insediata, usi conflittuali dello spazio etc.). Riprendendo la definizione di territorio come uso che se ne fa – sulla quale torneremo successivamente – l’idea dovrebbe essere quella di restituire agli abitanti la capacità di ridefinire collettivamente e in maniera continua l’uso degli spazi, rafforzandone le capacità di autorganizzazione e di scambio di competenze, conoscenze, tempo a disposizione: gli esempi delle banche del tempo, dei gruppi di acquisto solidale, dell’associazionismo culturale e ricreativo, sono molto significativi da questo punto di vista.

Rispetto alla resilienza culturale, risulta interessante capire come tradizioni, usi e memorie locali possono essere un materiale utile per operare processi differenti da quelli delle chiusure localistiche tipiche del contrasto all’insediamento di nuove popolazioni, diverse per etnia e cultura, come quelle dei migranti. In questo caso lo scarto tra resistenza e resilienza è evidente: se l’ambito della resistenza allude a una dimensione puramente contrappositiva – e a un bagaglio retorico che è quello della ‘difesa dall’attacco esterno’, al quale attingono continuamente movimenti e partiti razzisti e xenofobi – l’ambito della resilienza indica invece la possibilità di uscire dal binomio annullamento/difesa dell’identità locale, per concepire la base culturale locale come punto di partenza per il confronto e la contaminazione tra differenze.
Scampia, foto per gentile concessione di Daniele Napolitano Scampia – ph Daniele Napolitano
Conoscere le periferie, per cambiarle

Abbiamo già appurato come non esista – forse in realtà non sia mai esistita – la Periferia con la p maiuscola, intesa come modello assoluto di configurazione spaziale e sociale, come modalità peculiare di insediamento delle classi subalterne nell’area urbana: si tratta di un miraggio che appartiene ad un’altra epoca e che è stato definitivamente sconfessato dalla fine del protagonismo del pubblico nell’edilizia popolare, dall’esplosione del fenomeno della dispersione, dai massicci fenomeni di riconfigurazione della città consolidata. Siamo così dentro un apparente paradosso: una domanda crescente di conoscenza e di maggiore consapevolezza dei differenti problemi che attraversano questi contesti urbani si scontra con l’incapacità di definire modelli di lettura validi in termini assoluti. Possiamo tuttavia provare a fare ordine e a indicare alcune direzioni di ricerca che possono essere utili per conoscere le periferie.

La prima suggestione è quella di provare a non leggere i fenomeni che attraversano le periferie osservandoli dal centro, da un punto di vista che presuppone in sé subordinazione e marginalità rispetto ad un altrove. Questo sforzo indica la necessità di raccontare la ‘storia’ delle periferie in modo diverso, ovvero di costruire nuove metafore generative, secondo la definizione di Schön. “Ogni storia costruisce la propria visione della realtà sociale attraverso un processo complementare di naming (denominazione) e framing (configurazione). Le questioni sono selezionate accuratamente e nominate in una modalità tale da corrispondere alla cornice costruita per l’occasione. Insieme, questi due processi costruiscono il problema a partire dalla realtà vaga e indeterminata che John Dewey chiama la ‘situazione problematica’”. In sostanza, Schön afferma che le situazioni problematiche non sono realtà date, ma dipendono, in particolare nella capacità successiva di individuare soluzioni ai problemi stessi, dalla modalità con la quale sono conosciuti e descritti. “Non chiedere: ‘Qual è il problema?’. Chiedi ‘Qual è la storia?’. Solo così scoprirai qual è davvero il problema”, sottolinea John Forester.

Rispetto al nostro caso, dunque, non trattare le periferie ‘come periferie’ non significa, ovviamente applicare le stesse letture e le stesse soluzioni che si individuano per i centri storici, come ci insegnano molti fenomeni di gentrification – aumento dei valori immobiliari ed espulsione progressiva delle popolazioni storicamente insediate in determinate aree per fare spazio ad abitanti più facoltosi e alle loro attività e servizi – legati alla riqualificazione fisica ed economica di alcune aree urbane, in particolare nei Paesi anglosassoni. Significa invece che, lungi dal dover essere negati o sminuiti, i problemi che incontriamo in periferia possono essere letti in maniera radicalmente diversa dalla semplice marginalità, lontananza o subordinazione rispetto al centro, il che significa innanzitutto fare un lavoro di indagine accurata all’ombra di grandi definizioni come quelle della ‘città delle reti’ o della ‘città postfordista’ – come proposto di recente anche dalla sociologa Saskia Sassen-, letture che spesso si concentrano sulle dinamiche che si sviluppano nei centri delle grandi città finanziarie, relegando i fenomeni ‘di periferia’ in una dimensione quasi meccanica di crescente marginalità. Semplificando, le risorse per la risoluzione dei problemi che affliggono le periferie si trovano in qualche modo già dentro le periferie stesse, e il modo di raccontare questi problemi, che muta radicalmente se prodotto a partire da fuori o da dentro le stesse periferie, è la prima grande risorsa per risolverli.

La seconda suggestione, strettamente legata alla prima, è che per costruire queste nuove storie è necessario che il punto di osservazione sia il più possibile interno a luoghi e fenomeni che si vogliono indagare. Le letture dal centro sono inefficaci nella risoluzione dei problemi soprattutto perché sono operate da fuori, dall’esterno dell’oggetto dell’indagine. Per questo motivo la partecipazione della cittadinanza ai processi decisionali è innanzitutto un processo di apprendimento collettivo. Non è affatto una semplice tecnica procedurale, e proprio per questo motivo non può essere relegata esclusivamente a un uso preliminare o di ultima istanza, o semplicemente per la risoluzione dei conflitti più difficili e aspri, né essere sfoderata come abbellimento di progetti preconfezionati in contesti dove la conflittualità è più attenuata. Nessuno conosce meglio un quartiere di chi ci abita o lo vive nelle più diverse modalità (ci si sposta, ci lavora, ci studia, ci gioca etc.). La conoscenza diffusa e collettiva, i cosiddetti saperi locali, sono una risorsa non sostituibile, e non si acquisiscono da nessuna parte se non nell’interazione quotidiana sul territorio: il che non significa che sono un prodotto casuale dell’interazione, ma piuttosto che possono essere un prodotto eventuale dei processi di partecipazione. Spesso le istituzioni vedono le mobilitazioni locali come un’inutile deviazione, un ostacolo o addirittura un nemico da fronteggiare: si tratta viceversa di una risorsa, difficilmente estraibile ma altrettanto preziosa. La vera sfida è far emergere questi saperi nei contesti più difficili, quelli dove il capitale sociale o la disponibilità alla cooperazione appaiono più deboli, che sono poi quei contesti dove questa risorsa è estremamente determinante nella risoluzione dei problemi. Spesso siamo portati a pensare che questa scarsa disponibilità alla cooperazione derivi da una forma accentuata di familismo amorale: molto più spesso, come nota Marianella Sclavi in “Avventure Urbane, Progettare le città con gli abitanti (Eleuthera 2006)”, si tratta di “carenza di linguaggi e modalità organizzative e decisionali adeguati a rendere operativa e quindi efficace la comunicazione sugli ambienti, beni e diritti comuni”.

Terza suggestione: una rilettura radicale delle questioni di periferia non può che passare da una definizione decisamente utilitaristica del territorio, nell’accezione positiva del termine. Utilizzando infatti una definizione elaborata da Pier Luigi Crosta, “il territorio è l’uso che se ne fa”. Dunque il territorio non è un elemento statico e dato ma è il frutto dell’interazione di diversi attori, e in termini collettivi di diverse popolazioni, ovvero di gruppi più o meno omogenei che fanno usi diversi e quindi hanno visioni diverse dello stesso territorio. È collocandosi dal punto di vista di questi attori collettivi che si possono comprendere in maniera più chiara le dinamiche che attraversano un determinato territorio. Lì dove c’è uso dello spazio, e soprattutto lì dove gli usi dello spazio sono diversi tra loro, c’è interazione sociale: si tratta di un’ottima risposta a chi, con una visione dal centro, analizza le periferie come una tabula rasa dal punto di vista dell’interazione sociale, avendo in mente il modello canonico di relazioni sociali dei centri cittadini.

Questa suggestione diventa particolarmente potente se applicata a diversi casi concreti di convivenza tra popolazioni diverse: ‘autoctoni’ e migranti; vecchi e giovani; residenti e utenti di un centro commerciale; e così via. Pensiamo ad esempio all’uso radicalmente diverso dello spazio pubblico – delle panchine in una piazza, o degli spazi comuni in un condominio – effettuato da molte comunità straniere e dalla popolazione autoctona, usi che riflettono culture e modi di vita diversi e che, a volte, confliggono in un determinato spazio. La questione diventa particolarmente interessante quando questi usi diversi che si concentrano nello stesso spazio devono fare i conti con un’altra dinamica, spesso frutto di quel fallimento dello Stato esemplificato dai grandi progetti di edilizia popolare degli anni ’70: nelle nostre periferie convivono usi senza spazi e spazi senza usi. Una delle grandi sfide contemporanee della pianificazione consiste nel fare i conti con ciò che è già stato costruito e provare a renderlo compatibile con le esigenze e le aspirazioni delle diverse popolazioni. Locali commerciali sfitti che possono essere messi a disposizione della popolazione per usi ricreativi o di aggregazione; spazi comuni che possono essere ripensati come luoghi di interazione tra culture e tradizioni differenti; aree verdi abbandonate che possono essere curate dagli stessi abitanti per realizzare orti urbani; e così via. Si tratta di processi trasformativi che coinvolgono in maniera più diretta le pratiche di uso del territorio piuttosto che la progettazione fisica in senso stretto.

La quarta e ultima suggestione parte proprio dal riconoscimento del territorio come produzione sociale e dal fatto che questa produzione sociale è spesso conflittuale. Questa considerazione è utile per inquadrare il ruolo dei tecnici che a vario titolo sono chiamati a intervenire su un determinato territorio, e in particolare il ruolo dei pianificatori territoriali, come un ruolo ‘di parte’, fuori da una dimensione meramente tecnica. La pianificazione può essere dunque considerata come un processo sociale, di relazione conflittuale tra interessi a volte contrapposti, nel quale il pianificatore assume un ruolo attivo, di riconoscimento delle differenze; sono necessari infatti strumenti di pianificazione forti per riconoscere e difendere il valore delle pratiche deliberative, spesso non istituzionali, diffuse nel tempo e nello spazio. In sostanza, la prospettiva può essere esemplificata nel restituire potere a chi non l’ha più, e nell’agevolare la (ri)costruzione della società, cioè di una rete in grado di trattenere localmente potere, nei contesti nei quali, in particolare negli ultimi anni, è stato negato ogni spazio – fisico e non – a questo processo di (ri)costruzione. Quando Margareth Thatcher affermava che “la società non esiste. Esistono gli individui, gli uomini e le donne, ed esistono le famiglie”, stava in realtà rivelando un programma politico chiaro che in larga parte si è drammaticamente avverato. Lavorare in direzione opposta a questo programma politico a partire dalle periferie significa concepire la pianificazione dentro – non contro, né sopra – quello sviluppo continuo di relazioni di potere, in uno spazio per nulla asettico e indifferente. Si tratta, dunque, di riconoscere che proprio nel territorio, proprio in quell’intreccio di conflitti, tensioni, gerarchie, riconoscimenti, reti, aggregazioni e simboli, un intreccio apparentemente illeggibile e intrattabile, proprio lì si cela il potenziale necessario per trasformare l’esistente.

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link al dossier di versus sulle periferie