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Renzi: “Contro il terrorismo diamo tanti soldi alla cultura”

Il premier alla riunione sulla sicurezza con i capigruppo «Al momento nessuna minaccia specifica all’Italia».
Cultura, cultura e ancora cultura: per contrastare l’emergenza terrorismo bisogna anche «mettere denari veri sulle aree urbane», parola del premier Matteo Renzi, che così ha voluto aprire la riunione sulla sicurezza con i capigruppo parlamentari a palazzo Chigi. «Serve un gigantesco investimento in cultura, sulle periferie urbane, un investimento sociale – ha sottolineato il premier – Continuo a pensare che l’aspetto educativo per sconfiggere minacce nate e cresciute in Europa sia fondamentale».

E ancora: «Abbiamo, come tutti i partner, messo in campo tutte le misure di sicurezza necessarie, anche se non risulta ad ora una minaccia specifica in Italia», è stata una lunga riunione, oltre due ore, ieri mattina a Palazzo Chigi con i capigruppo di maggioranza e opposizione sulla sicurezza interna del Paese, all’indomani degli attentati che hanno colpito aeroporto e metropolitana di Bruxelles.

«Occorre stringere sui meccanismi di intelligence fra i Paesi europei e non solo, valorizzare Europol, lavorare su una struttura condivisa. E mettere denari veri sulle aree urbane. Serve un gigantesco investimento in cultura, sulle periferie urbane, un investimento sociale. Continuo a pensare che l’aspetto educativo per sconfiggere minacce nate e cresciute in Europa sia fondamentale», ha specificato il premier.

Il presidente del Consiglio ha ribadito ancora la necessità di superare le «divisioni politiche e partitiche» per poter recuperare il «senso di comunità» necessario a fare fronte alla minaccia terroristica. Ecco, allora, la decisione di riconvocare il vertice che, in passato, è seguito alle giornate drammatiche di Parigi, ma che era stato convocato più volte per tenere aggiornati i gruppi Parlamentari sullo stato dell’arte per quel che riguarda la sicurezza.

Allo stesso tavolo, oltre ai capigruppo, sedevano il premier, i ministri Alfano e Gentiloni, il sottosegretario con delega ai servizi Marco Minniti. Nella stessa riunione è stata data anche la notizia che ci sarebbe – il condizionale è d’obbligo a verifiche in corso – una vittima italiana tra quanti hanno perso la vita negli attentati. Si tratterebbe di una donna, che ha perso la vita nell’esplosione della metro di Molenbeek, risultata dispersa e il cui corpo è stato reso irriconoscibile dalla violenza della deflagrazione. I famigliari sono ora al consolato per avviare le procedure per il riconoscimento, ha riferito il presidente dei deputati Ncd, Maurizio Lupi.

«Ci hanno aggiornato sulle ultime notizie e una riunione riservata e compito nostro non divulgare informazioni delicate», ha tenuto a dire il capogruppo di FI al Senato, Paolo Romani: «Ci è stato fornito un aggiornamento efficace ed efficiente. Il ministro Alfano ci ha rassicurato su un’opera di prevenzione che viene fatta nel nostro Paese».

«Il problema è capire se l’attentato avvenuto ieri è stato in conseguenza dell’arresto di Salah o se fosse preordinato. Probabilmente c’era una progettualità già in campo che ha subito una accelerazione dall’arresto», è stata la risposta di Alfano. «Il fatto sorprendente è che Salah è rimasto lì a poche centinaia di metri da casa sua…».

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La comunità musulmana a Roma

Breve viaggio all’interno dei luoghi di aggregazione della comunità dei musulmani della Capitale. Come vivono? Quanti sono? Qual è il rapporto con il resto della società?
All’interno della complessa struttura dello scheletro sociale della Capitale, vivono più di 100.000 musulmani, a stretto contatto con le altre comunità, ben radicati e inseriti nei contesti quotidiani dei quartieri romani.

Nell’ombra di una città che mostra una doppia faccia nei loro confronti, come nei weekend le targhe alterne delle auto che affollano viale Marconi, la presenza musulmana a Roma comincia a espandersi a metà degli anni Novanta, anche grazie all’inaugurazione della Grande Moschea, nel 1995.
L’Imam della Moschea di Magliana
Erano pochi quando arrivarono, alcuni senza documenti, molti non sapevano nemmeno parlare l’italiano e non possedevano un lavoro, come mi racconta Sami Salem, Imam della Moschea di Magliana, a sud ovest della città, fin quando, con la fatica e le difficoltà che incorniciano tutti i processi di integrazione, cominciarono ad ottenere tutta la documentazione necessaria e a cominciare un cammino: “[…]piano piano tutti sono diventati regolari, lavoratori, hanno imparato la lingua e hanno studiato, la maggior parte sono qualificati. Alcuni sono anche nati qui […]”. Nelle scuole del quartiere, due parti complementari del mondo giocano insieme fra i banchi, studiano sugli stessi libri e disegnano un futuro felice, distanti dai dibattiti e dal vocio della politica.

Sono le 19,30 di un freddo marzo e l’Imam mi accoglie nella sua moschea offrendomi del tè, non prima di essermi slacciato le scarpe. Il luogo è semivuoto, è tardi e non è nemmeno venerdì, giorno di preghiera collettiva.
Sono tempi difficili, ma “stiamo cercando di costruire qualcosa in questo paese, in questa città” mi dice, “dobbiamo collaborare, è una società unica quella in cui viviamo”.
La parola “integrazione” pare sia stata ampiamente superata e sostituita, ma va interpretata sotto due significati: quella degli immigrati e quella degli italiani. “Noi abbiamo fatto la maggior parte del lavoro: abbiamo imparato la lingua, le legge, la Costituzione, abbiamo trovato un lavoro, spesso senza ricevere nessun aiuto e abbiamo sofferto per legalizzare la nostra posizione, con i documenti e tutto il resto”. E’ tardi per tornare indietro. La nuova parola chiave ora è “costruire”, insieme. Mi elenca tutti i progetti svolti con le amministrazioni capitoline precedenti, con le associazioni e con il governo e mi dice che sua figlia fa volontariato con la Comunità di Sant’Egidio, per gli anziani. Se non è integrazione questa.

Sono stati proprio questi ultimi a tender loro una mano, quando vent’anni fa arrivarono centinaia di egiziani, marocchini, tunisini e bengalesi, e come una coincidenza a verifica della veridicità delle sue parole, in quell’esatto istante bussa alla porta della moschea un esponente dell’Ong.
Non riesce a capire quali siano le motivazioni che spingono una parte della popolazione ad emarginare la comunità islamica, specialmente quando afferma di volermi spiegare bene come funziona: “E’ inutile tentare di dividerci. Posso dire che uno straniero che sceglie di vivere qui, in Italia, ha più voglia di dare un contributo alla società rispetto a chi in questa società ci è nato, non per sua volontà. E se parliamo di criminali ti dico una cosa: un criminale è un criminale, punto. Non ci sono altri titoli da aggiungere: che sia ebreo, cristiano, musulmano non importa.
preghiera musulmana in moscheaQuegli individui che noi definiamo terroristi sono dei fantasmi invisibili: non frequentano nemmeno la comunità, non pregano con noi in Moschea, stanno ai margini. Ci sono delle persone che interpretano le Scritture in maniera più radicale rispetto agli altri, ma non sono terroristi. Presto questo centro diventerà un ospedale e già ora facciamo la donazione del sangue, destinato ad ogni anima che ne abbia bisogno, musulmana o no.” Le colpe sono individuali, non sono da addossare ad un’intera comunità, allo stesso modo di come fece l’Europa per gli assassini compiuti dal fondamentalista cristiano Anders Breivik il 22 luglio del 2011 in Norvegia. All’epoca il dibattito si concentrò principalmente sulla lucida follia del terrorista ma nessuno diede la colpa all’intero Occidente per la morte di 77 persone. Quando il 25 aprile del 2015 invece, la Polizia arrestò a Torpignattara Niaz Mir, un ragazzo pakistano sospettato di esser membro di un network terroristico affiliato ad Al-Qaeda, l’opinione pubblica puntò il dito su tutta la collettività araba del paese. I due pesi e le due misure dell’Occidente.

La religione musulmana impone ai fedeli di partecipare alla vita della comunità e conseguentemente di rivolgere un pensiero alla costruzione di un futuro che offra condizioni sociali dignitose. Mi ripete più di volte di amare Roma, di considerarla come la città dell’accoglienza, della misericordia, della tolleranza e del dialogo, ma troviamo un nemico comune: l’ignoranza, matrice d’odio, creatrice di falsi idoli e nemici fittizi che può servire solamente a farcire asettici talk show. Prima di salutarci ci tiene a ricordarmi una cosa: “Noi stiamo insegnando ai nostri fedeli ad essere come la pioggia: esserci sempre dove sarebbe davvero utile. Per il bene di tutti.”
Torpignattara

Lascio la moschea di Magliana e il mio viaggio non può che passare proprio per Torpignattara, dove i cittadini sembrano quasi infastiditi dalle mie domande, ma dove si respira un fortissimo senso di comunità che anima la vita del quartiere.
La comunità musulmana non è composta solamente da moschee, istituzioni religiose e politiche, ma anche da centri di accoglienza, spesso i primi porti nei quali i migranti approdano.
Baobab

Il “Baobab” di via Cupa, centro multiculturale ripensato e riadattato ha accolto 35000 persone in pochi mesi ed è un esempio calzante di una capitale europea che accoglie, che abbatte i muri e che si dimostra solidale, una Roma che capisce che le differenze culturali sono delle opportunità da cogliere, e non degli ostacoli.

In un soleggiato pomeriggio di marzo invece, in un caffè di San Giovanni incontro Sara El Debuch, siriana, studentessa di Giurisprudenza e attrice, di vent’anni. Ha vissuto la metà della sua vita in Toscana, fin quando i suoi genitori non hanno cambiato lavoro e si sono stabilizzati a Roma. Nota alle cronache recenti per la sua scelta di non portare più il velo, mi racconta la sua storia. Ha cominciato a fare cinema circa 4 anni fa, con “Border”, un film di Alessio Cremonini che le ha aperto una strada, fornendole nuove opportunità.

“Non sentivo di rispettare il velo con i miei atteggiamenti: non si trattava solamente di coprire i capelli ma anche di coprire determinati comportamenti.” I ragazzi di seconda generazione come Sara vivono una sorta di doppia identità, tra i genitori attaccati alla loro tradizione, complessa, diversa e non uniforme e la società in cui sono proiettati, che tende ovviamente ad assimilarli. La sua famiglia non ha accettato di buon grado la scelta di non portare più l’hijab, specialmente perché ha deciso di toglierlo durante il ramadan. Mi racconta di non aver mai subito atti di razzismo, a differenza di alcuni sue coetanee, spintonate sugli affollati autobus di Roma ma “un po’ è anche colpa dei musulmani che tendono a ghettizzarsi, che non parlano con le persone che non conosco personalmente”.

Sara è una ragazza decisa e convinta delle sue scelte anche se mi confessa di sentirsi in colpa per essersi distaccata dalla sua tradizione, per aver abbandonato la politica del suo paese e per essersi tolta il velo. “Portavo indirettamente un messaggio, e anche per il lavoro che svolgo, molti musulmani si affidavano alla mia figura”. Il simbolismo della religione però, lascia il tempo che trova, e di certo contribuisce all’impoverimento del dibattito, favorisce l’espansione degli stereotipi e distorce le analisi, almeno fin quando ogni cristiano devoto non indosserà un crocifisso al collo.

“L’Italia mi ha dato tanto, sono quel che sono anche grazie a questo paese, e così tanti giovani come me, che lo sanno perfettamente e ricambiano il favore”. Tutto dipende dall’ambiente, dallo spazio culturale in cui la società ti costringe a vivere, che contribuisce a portare confusione anche nel lessico politico. La parola “jihad”, per esempio, viene interpretata come un qualcosa di esclusivamente negativo mentre il Corano in realtà, ne fa riferimento solamente cinque volte, nessuna delle quali in senso militare e offensivo. Sara infatti mi spiega che “jihad non vuol dire uccidere, significa “sforzo”, ed è lo sforzo che fa mio padre per portare i soldi a casa, che fa mia mamma per cucinare la sera. Tutti conduciamo il nostro jihad quotidiano […] Se continuiamo a farcire la testa delle persone con la convinzione che tutti i musulmani sono terroristi, conseguentemente in loro cresce un senso di resistenza e di difesa che accumulano e infine diventano davvero ciò di cui sono accusati. Quelli che diventano “terroristi” hanno delle crisi di identità, non riescono a capire più chi sono, e si attaccano a qualcosa per farlo, come alla religione. Non si sentono accettati nella società e iniziano a vedere attorno ad essi soltanto nemici.”

Sara pensa che nel modo in cui stiamo procedendo, non arriveremo da nessuna parte perché “le guerre in corso le abbiamo fomentate noi, e ce lo dimentichiamo. Abbiamo depredato l’Africa per secoli, è normale che centinaia di persone vengano qui in cerca di un futuro migliore. Mio fratello per esempio ha 8 anni, e da quando è nato ha sentito parlare solamente della guerra, e questo deve cambiare. Smettiamola di essere egoisti e individualisti”.

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Immigrazione e periferie, nei quartieri di Milano arrivano gli psicologi di strada

Il piano parte dal quartiere con più alta densità di stranieri. L’obiettivo è sviluppare nuovi modelli di integrazione e gestire potenziali tensioni.
Una squadra di psicologi “di strada” per intercettare bisogni e problemi di chi vive in via Padova, il quartiere più multietnico della città. La proposta è dell’Ordine degli psicologi e ha avuto il finanziamento del consiglio di Zona 2. Per tre mesi un gruppo di esperti parlerà con i cittadini e con i rappresentanti delle comunità straniere e delle associazioni di volontariato. Al termine di questi incontri e dialoghi a più voci, si cercherà di fare una mappa dei temi da approfondire e anche una prima proposta di iniziative per far fronte ai disagi che potranno emergere nei colloqui.

Il piano che parte dal quartiere con più alta densità di immigrati in realtà è stato pensato per tutte le periferie milanesi, “luoghi in cui, ogni giorno, la contaminazione tra idee, nazionalità, costumi e religioni si traduce in opportunità per lo sviluppo di nuovi modelli di integrazione e in potenziali tensioni da gestire, anche sul piano del benessere mentale”, spiegano all’Ordine degli Psicologi della Lombardia che ha in mente un approccio nuovo di lavoro, col metodo della prossimità ai cittadini e della presenza capillare, concreta, in sinergia con i consigli di Zona, che sono poi i terminali dell’istituzione locale dove la gente va a presentare le sue richieste e doglianze.

Gli psicologi sonderanno bene la zona attorno al Parco Trotter, luogo di ritrovo delle famiglie con i bambini, ma anche dei giovani delle comunità sudamericane. “Crediamo che iniziative di welfare integrativo reale possano e debbano nascere a partire dalla comune volontà di depositare piccoli semi, anche economici, in grado però di far sbocciare grandi cambiamenti nel vissuto delle famiglie, delle comunità, dei quartieri – dice Riccardo Bettiga, presidente dell’Ordine – Le periferie metropolitane possono essere straordinari laboratori, in cui realizzare progettualità inedite, immaginare risposte nuove a nuove esigenze, incrociare energie e far crescere idee”.

Quello della “Psicologia di Zona” è uno dei progetti all’interno della piattaforma generale per una “psicologia sul territorio della città”, con cui gli psicologi si sono offerti di presidiare e dare attenzione alle zone più decentrate della città di Milano, in collaborazione col Comune e le zone. “L’obiettivo è quello di
comprendere e rispondere in modo sempre più articolato ai bisogni di cura e di benessere mentale dei cittadini invitati a partecipare a gruppi di discussione e a immaginare soluzioni tutti assieme”, conclude Bettiga. La logica è quella della prevenzione dello scontro sociale con l’ascolto e con le risposte concrete a problemi che magari non sono di grande entità: questioni di normale convivenza in un territorio delicato per mescolanza etnica, religiosa e culturale.

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Adozione di aree verdi

Deliberazione n. 207

Linee guida in materia di “adozione di aree verdi” di Roma Capitale in consegna al Dipartimento Tutela Ambientale – Protezione Civile.

Premesso che l’ente ad Ordinamento Speciale Roma Capitale rappresenta il più vasto Comune Italiano per estensione territoriale ed uno dei maggiori Comuni a livello europeo, peraltro, recando una estensione di aree a verde tra le più rilevanti a livello mondiale;

Che,  nell’ambito  della  circoscrizione  territoriale  di competenza  dell’ente  Roma Capitale,  allo  stato,  il  solo  Dipartimento  Tutela  Ambientale  –  Protezione  Civile, Direzione Gestione Territoriale Ambientale e del Verde, detiene in consegna circa 45 milioni di metri quadri di verde, capillarmente diffuso su tutto il territorio cittadino e variamente articolato per tipologia al suo interno in parchi, giardini, ville storiche ecc.;

Che, al netto della conformazione delle aree a verde di maggior pregio e consistenza di cui alla precedente alinea, residuano comunque, nell’ambito delle superfici in consegna al Dipartimento Tutela Ambientale – Protezione Civile, ampi spazi verdi omogeneamente diffusi nei vari quadranti territoriali della città di Roma, in gran parte recanti le caratteristiche tipiche del verde di quartiere (piccoli parchi con o  senza aree giochi, aiuole, spartitraffico, rotatorie a verde ecc…), che, ove non adeguatamente manutenuti, contribuiscono significativamente alla dequotazione degli standard qualitativi “percepiti” con riferimento alla manutenzione del verde cittadino da parte della cittadinanza e, comunque, dei soggetti a vario titolo presenti in città;

Che costituisce dato documentalmente e contabilmente indiscutibile quello secondo cui, nel corso degli ultimi esercizi finanziari, le risorse economiche stanziate in Bilancio per la cura e la manutenzione del verde cittadino, così come sopradescritto e con riferimento a quello in consegna alla U.O., Verde Pubblico, hanno registrato una contrazione di circostanza quest’ultima che si riverbera sugli standard di qualità manutentoria del verde, soprattutto ove questo non evidenzi natura di verde di pregio;

Che, nel quadro della situazione sopradescritta, emerge la necessità di sviluppare ogni virtuosa iniziativa finalizzata a contrastare la citata tendenza, implementando, anche sulla base di un adeguato sviluppo di modelli di sussidiarietà orizzontale e potenziamento degli schemi operativi di partenariato sociale pubblico-privato, tutte le forme di collaborazione che possano utilmente interagire nella materia in parola e parallelamente coniugarsi con la limitatezza delle risorse economiche disponibili per l’Amministrazione Capitolina;

Che un modello già in parte sperimentato in passato, anche in altri contesti urbani di varie dimensioni e consistenza, à quello rappresentato dalla c.d. “adozione delle aree verdi”,  che  costituisce un  istituto  nel perimetro  del quale  un  soggetto  (adottante)  si obbliga, mediante il perfezionamento di apposito atto d’impegno a mantenere un’area verde  cittadina  (adottata)  in  conformità a specifici  standard  tecnico-operativi definiti unilateralmente dal competente Ufficio Comunale (manutenzione verde orizzontale e/o pulizia e/o eventualmente custodia) per un periodo di tempo determinato, il tutto senza oneri finanziari a carico dell’Amministrazione;

Che detto  modello  è in  grado  di rappresentare, ove dettagliatamente definito  e regolato in armonia con i vigenti principi di diritto comunitario e nazionale regolanti i rapporti tra P.A. e soggetti privati, un utile strumento in grado di supportare, compatibilmente con il riscontro assicurato dai privati, il rilancio dell’attività di cura di alcune  aree  verdi  cittadine  tra  quelle  non  di pregio restituendo  le  stesse  anche  alla migliore fruibilità da parte dell’utenza in generale;

Che, inoltre, il modello in parola deve necessariamente contemperare anche evidenti finalità di natura non economica e comunque politicamente apprezzabili, correlate al più soddisfacente utilizzo  delle  aree a  verde da parte dell’utenza,  favorendo  la coesione sociale attraverso la gestione diretta della cosa pubblica, la prevenzione di eventi criminosi/vandalici legati al deperimento degli spazi verdi, influendo conseguentemente anche sull’innalzamento della soglia di decoro urbano e sui livelli di sicurezza percepita da parte della cittadinanza;

Che,  ciò  non  di  meno,  la  strategia  sopradescritta  passa  inevitabilmente  per  la

definizione di alcune precise e cogenti linee guida attraverso le quali si articola e si snoda il modello dell’adozione in argomento, al fine di procedere ad una rivisitazione dell’impianto generale del modello stesso, conformandolo anche a precisi rilievi della giurisprudenza amministrativa e contabile;

Che la definizione delle linee guida in oggetto si ispira, facendo contestualmente riferimento, ad unitari principi di massima che di seguito per capi si enunciano:

  1. possono costituire soggetti adottanti, Organismi, enti, associazioni o persone fisiche, che evidenzino un interesse alla manutenzione dell’area per finalità dichiaratamente ed effettivamente no-profit;
  2. l’oggetto dell’adozione consiste nell’assunzione dell’impegno da parte del soggetto adottante a mantenere, per un periodo di tempo determinato, l’area verde cittadina specificatamente individuata (adottata), curandone il verde orizzontale e/o la pulizia e/o  eventualmente  la  custodia,  esclusa  la  manutenzione  degli  alberi,  secondo  un livello quali-quantitativo di interventi, conforme a standard definiti nell’apposito disciplinare manutentivo che il medesimo soggetto adottante dovrà sottoscrivere al momento dell’assegnazione;
  1. l’adozione non prevede alcun vantaggio economico per il soggetto adottante, né dà diritto al riconoscimento  di alcun  importo  a qualsiasi titolo  e/o  ragione da parte dell’Amministrazione Capitolina, neanche a titolo di semplice rimborso spese, né alla realizzazione di qualsivoglia forma di pubblicità diretta e/o indiretta mediante l’apposizione di cartellonistica, fatta eccezione per quella istituzionale di Roma Capitale, recante l’apposito logo istituzionale dell’ente e contenente le indicazioni operative afferenti l’adozione dell’area;
  2. le aree adottate restano potenzialmente utilizzabili da parte di soggetti eventualmente interessati senza prelazione alcuna per il soggetto adottante, presentando all’Amministrazione istanza  di  occupazione  del  suolo  pubblico  in  coerenza  con quanto previsto nel vigente Regolamento in materia di occupazione di suolo pubblico (OSP) e del canone (COSAP) di cui alla deliberazione del Consiglio Comunale n. 75 del 30/31 luglio 2010 e ss.mm.ii.;
  3. in ragione del carattere di partenariato pubblico-privato, l’iniziativa in  materia di adozione spetta di norma al singolo organismo  che presenta richiesta per adottare un’area e, solo ove per la medesima area sussistano – anche in via temporalmente dilazionata – più richieste, l’adozione verrà riconosciuta da parte dell’Ufficio al soggetto   che   offra   il   miglior   progetto   di   manutenzione   sotto   il   profilo quali-quantitativo;
  4. sarà garantita adeguata pubblicità alle aree date in adozione mediante il costante aggiornamento dell’apposita sezione presente nel sito istituzionale di Roma Capitale, nell’ambito delle pagine del Dipartimento Tutela Ambientale – Protezione Civile;
  5. viene garantito all’Organismo adottante, per tutto il periodo di durata dell’adozione,

un rapporto di diretta e proficua interlocuzione con l’Ufficio Territorialmente competente della U.O. Gestione Verde Pubblico (Servizio Operativo Municipale – S.O.M.), affinché siano sviluppate, in un’ottica di collaborazione e tutoraggio, tutte le opportune   sinergie   operative,   sia   con   riferimento   alle   prestazioni   oggetto dell’adozione stessa (soprattutto  cura del verde orizzontale) sia con riferimento  a quelle escluse dall’oggetto dell’adozione (manutenzione del verde verticale);

Vista la legge 7 agosto 1990, n. 241 e ss.mm.ii.;

Visto il Decreto Legislativo 18 agosto 2000, n. 267 e ss.mm.ii.;

Visto il Decreto Legislativo 12 aprile 2006, n. 163 e ss.mm.ii.;

Visto   il   vigente   Statuto   di   Roma   Capitale,   approvato   con   deliberazione

dell’Assemblea Capitolina n. 8 del 7 marzo 2013;

Atteso che in data 19 giugno 2014 il Dirigente della U.O. Gestione Verde Pubblico del Dipartimento Tutela Ambientale-Protezione Civile ha espresso il parere che di seguito si riporta integralmente: “Ai sensi e per gli effetti dell’art. 49 del D.Lgs. 18 agosto 2000 n. 267, si esprime parere favorevole in ordine alla regolarità tecnica della proposta di deliberazione indicata in oggetto.




Gentrification: tutto quello che avreste voluto sapere ma non avete mai osato chiedere

Se volete sapere qualcosa di più su: gay gentrification, pink economy, social mixing, marginal gentrifier, studentification, family gentrification e new cultural class, sicuramente il libro di Giovanni Semi, Gentrification. Tutte le città come Disneyland? (ll Mulino, 2015) fa al caso vostro. Vi troverete molte risposte ma al contempo finirete per concluderne la lettura con nuovi dubbi su cause ed effetti delle trasformazioni nella città contemporanea occidentale. L’autore partendo da un’ampia (e aggiornata) rassegna della letteratura internazionale e dalle osservazioni attente di quattro casi studio di città italiane (il Centro storico di Genova, il Quadrilatero Romano e San Salvario a Torino, il quartiere Isola a Milano, il Pigneto e il rione Monti a Roma) si interroga sulla gentrification (il processo di riqualificazione edilizia e di sostituzione sociale osservato dalla sociologa Ruth Glass nel 1964) tentando di rispondere alle sempre ricorrenti domanda sul tema: si tratta di un fenomeno positivo o negativo? E positivo o negativo per chi? Da quali punti di vista? Va combattuto? Può essere innescata e/o controllata da adeguate scelte di politiche urbane? Qual è il ruolo del pubblico nel supportarla o arginarla?

Per l’Italia, se si esclude forse il caso milanese, opportunamente rilevato da Semi, ci troviamo quasi sempre di fronte ad una soft gentrification, non troppo stravolgente, con deboli processi di espulsione degli abitanti tradizionali, che però provoca omologazione nel tessuto commerciale (negozi vintage, botteghe finto-tradizionali, ma anche marchi internazionali) e nell’uso del patrimonio abitativo, riconfigurando i quartieri coinvolti rispetto a loro caratteristiche identitarie. In uno scenario di progressiva trasformazione della qualità della vita, delle abitudini e dei consumi a livello urbano (aumento del tempo libero, sviluppo del turismo e delle spese culturali), si è assistito, anche nel nostro Paese, a una nuova attenzione, da parte di molte città, verso alcune componenti immateriali dello sviluppo e verso processi di rigenerazione urbana, talvolta indotti (o favoriti) da interventi di politiche pubbliche, altre volte più orientati da dinamiche di mercato. In particolare, le aree centrali divengono nuovamente desiderabili, vengono percepite nell’immaginario collettivo con una nuova immagine, più dinamica, come catalizzatori di nuovi utenti, nuovi fruitori temporanei, ma anche mode e tendenze, e se ne apprezza l’autenticità. Tutto ciò avvia processi di riqualificazione edilizia e ricambio commerciale e sociale.

Semi sembra rifiutare le letture più “radicali” che interpretano la gentrification come un fenomeno che ha quasi unicamente caratteristiche negative (venir meno dello spirito pubblico, declino delle consuetudini comunitarie, erosione dei codici di base della cittadinanza), intrise di visioni nostalgiche e vernacolari del passato. Lo spazio pubblico è in rapida evoluzione, si ridefinisce continuamente, nella sua conformazione fisica e in quanto a modalità d’uso e di fruizione, come luogo delle relazioni sociali e delle forme di aggregazione. Le città (almeno quelle occidentali) dimostrano continuamente una straordinaria vitalità e una sorprendente capacità di mettere in atto strategie di rilancio e rappresentano un luogo straordinario d’innovazione, offrono chance ed opportunità di crescita economica e sociale a milioni di individui. Per questo mutano in continuazione e occorre saper leggere questi cambiamenti.

Il rischio maggiore è quello di interpretare la realtà secondo vecchie categorie arrivando a risultanti fuorvianti e distorti: occorre continuamente cambiare le lenti degli occhiali per leggere le trasformazioni in corso. Gli ambiti urbani centrali non sono in crisi, ma si trasformano: l’insediamento in zone e quote di patrimonio abitativo degradato non è più una scelta di ripiego per fasce di popolazione debole e marginale, ma è condizione ideale per giovani coppie senza figli e single di buon livello culturale, con forti bisogni di interazione e rappresentazione sociale, attratti da valori storico-culturali e ambientali e da zone centrali, i quali sono contemporaneamente mossi dalla ricerca di investimenti, non solo monetari, ma anche simbolici, remunerativi.

Nel libro i territori della gentrification emergono anche come ambiti ricchi di conflitti: l’apertura di nuovi locali “alla moda” e in generale l’evoluzione del tessuto commerciale in funzione dei nuovi fruitori genera frequenti tensioni fra vecchi e nuovi residenti (ognuno di questi gruppi si caratterizza per stili e tempi di vita diversi), fra popolazioni stabili e temporanee, le proteste dei residenti per il rumore dei locali notturni hanno come effetto rivendicazioni sull’amministrazione pubblica con richieste di maggiori regole, impianti di videosorveglianza, interventi sull’illuminazione pubblica, nuovi regolamenti sull’uso dei parcheggi e più in generale, degli spazi pubblici.

Nella parte iniziale sulle origini storiche del fenomeno, il saggio di Semi constata come la costruzione della città occidentale vede da secoli un ruolo attivo della borghesia (la radice gentry della parola che lo indica può essere un sinonimo di upper class) che, attraverso varie modalità, cerca di rinnovare la città a proprio uso e consumo o come propria forma di rappresentazione. I processi più recenti di rinnovamento e trasformazione urbana si muoverebbero dunque in continuità con questa linea di tendenza. Proprio per questo il libro – e questo è senza dubbio uno dei suoi pregi – è attento alle questioni immobiliari (anche dal lato degli imprenditori edili), troppo spesso trascurate dalla ricerca sociale sul tema, al mutare del significato di abitare e ai cambiamenti intervenuti nel mondo del lavoro che hanno implicazioni sull’abitare. L’andamento dei valori immobiliari rappresenta sempre una significativa misura degli esiti indotti dalle azioni di trasformazione urbana e costituisce un indizio di possibili mutamenti in atto. In fondo gli imprenditori del settore edilizio non sono solo tutti speculatori, ma soggetti che ogni serio approccio di policy analysis non può trascurare, dato che – come ad esempio nel caso torinese del Quadrilatero Romano – intuiscono potenzialità di un luogo e nuovi caratteri della domanda.

Riferimenti
Giovanni Semi, Gentrification. Tutte le città come Disneyland? Il Mulino, Bologna, 2015

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Mia madre

biblioteca nicolini

Biblioteca Renato Nicolini – Mercoledì 23 Marzo ore 17:00

Proiezione film: Mia madre, regia di Nanni Moretti

È previsto l’intervento dell’attore Renato Scarpa, grande caratterista italiano.

Proiezione Riservata ai Possessori Bibliocard




Re-Block, il progetto che salverebbe le periferie

Una soluzione elaborata per il quartiere di Tor Sapienza ancora mai presa in considerazione dalle istituzioni.
In un periodo come questo, che precede le amministrative a Roma e non solo, si percepisce, diffusissima, la convinzione che nulla nel panorama urbano possa cambiare. Vari volti si alternano, più o meno carismatici, più o meno conosciuti, ma il fortissimo tasso di astensionismo manifesta che la popolazione avverte come poco rilevanti questi cambiamenti, quindi non ne partecipa.

Come dare torto a chi si astiene: fattaeccezione per l’appartenenza a una certa zona politica come può il singolo scegliere il proprio candidato? I programmi sono tutti uguali, le inadempienze sempre le stesse. In particolare, guardando più da vicino Roma, il candidato di turno a richiesta risponde “Ce ne occuperemo”, come se le soluzioni si potessero improvvisare, come se una realtà complessa come la nostra potesse essere “guarita” da due interventi promessi quasi per caso in campagna elettorale.

Ai cittadini vorremmo dare una buona notizia: se le istituzioni volessero accoglierle, le risposte e i piani d’attuazione –studiati, provati, scientifici- esistono. Oggi parleremo del più illustre tra questi, il Re-BLOCK, già annunciato alle periferie, in particolare fatto conoscere a Tor Sapienza, ma evidentemente non compreso e non fattivamente utilizzato.

re-blockProcediamo per punti al fine di tracciare una panoramica su un progetto immenso e dettagliato, ma di cui si possono fornire poche e semplici linee generali adatte anche a chi non ha le competenze e l’esperienza della docente Maria Prezioso (Espon Contact point Italia, professore ordinario di Geografia Economica e Pianificazione del Territorio, Dipartimento di scienze e tecnologia della Formazione, Università degli Studi di Roma Tor Vergata), colei che porta la filosofia di Re-BLOCK in giro per l’Europa.

– ESPON raccoglie domande e risposte

L’osservatorio europeo ESPON, attivo dal 2002, connette dati, statistiche e studi relativi alle problematiche territoriali più disparate al fine di facilitare la progettazione di strategie risolutive dei problemi oppure adatte a amplificare le potenzialità di un determinato territorio. Per fare una semplificazione, per esempio, il Presidente di uno dei nostri municipi quando si rendesse conto che il suo territorio ha caratteristiche sociali, urbanistiche e problematiche simili a una cittadina nel sud della Francia, potrebbe ispirarsi alle strategie adottate lì, o suggerire ai francesi altre osservazioni che emergono dall’analisi del nostro territorio. In questo modo la pianificazione (in campi come il cambiamento climatico, l’uso del suolo, l’energia, la demografia, l’urbanistica) parte dal basso, è studiata e perfezionata all’interno della piattaforma ESPON e è a disposizione delle istituzioni, che avrebbero serviti su un piatto d’argento i dati su cui lavorare e le idee da prendere in prestito.

– STEMA fornisce le strategie di attuazione pratica

Processo metodologico specifico che definisce le modalità di organizzazione/gestione ambientale e territoriale sostenibili – STeMA. Sintetizzato in step logici, lo SteMA può essere applicato alla scala nazionale (macro), regionale (meso) e provinciale/sub-regionale (micro). L’obiettivo è la coesione del territorio e con questa “scaletta”, chi governa può fissare gli obiettivi specifici e identificare con facilità i mezzi pratici con cui raggiungerli, anche grazie alla possibilità di calcolare i potenziali effetti di determinati atti sul territorio.

– URBACT Re-BLOCK è il risultato CONCRETO

Dieci città in zone molto diverse dell’Europa partecipano al progetto e stanno già ottenendo risultati con una serie di interventi finalizzati a promuovere una rigenerazione efficiente ed efficace degli insediamenti urbani, dei quartieri ad alta densità abitativa e degli edifici di edilizia pubblica migliorando la loro qualità ambientale attraverso l’attivazione di un processo partecipativo (vi ricordo che l’analisi parte dai territori).

Il progetto europeo Urbact Re-Block nasce circa tre anni fa da un’idea e un lavoro di sviluppo coordinato dall’Università di Roma Tor Vergata in collaborazione con oltre 40 realtà culturali, sociali e ambientali locali e punta alla riqualificazione urbana e sociale.

Il progetto non a caso è stato presentato da Maria Prezioso a Tor Sapienza, esiste in concreto uno studio e una proposta pronta per essere attuata riguardo l’area di viale Morandi e viale De Chirico, che ha ottenuto le adesioni del V° Municipio e degli Assessorati alla Trasformazione Urbana e Ambientale di Roma Capitale. Dalle aree verdi, allo smaltimento dell’amianto, all’utilizzo della ex Vittorini come punto di concentramento delle attività delle ONLUS locali e luogo di laboratori artigianali per ragazzi e spazio per papà separati.

Peccato che nulla sia realmente successo, che nessun bando per i fondi europei sia stato vinto (i progetti per la riqualificazione delle periferie sono potenzialmente a costo zero per l’amministrazione capitolina). Il progetto era stato selezionato a livello europeo come migliore piano sulle periferie insieme a quello di Malaga, mancava solo la firma di Ignazio Marino (il bando Ue prevede che sia il comune a percepire l’accredito che si impegna a usare nel progetto), ma per una serie di sfortunati eventi è rimasto nel cassetto.

“E’ come avere in tasca il biglietto vincente della lotteria e non incassarlo”, spiega il presidente dell’Agenzia di Quartiere Alfredo Di Fante. La parola d’ordine è sostenibilità e Re-BLOCK è il progetto in cui essa può essere attuata. Non possiamo permettere che la cittadinanza continui ad assuefarsi a questa disperata deriva: l’esasperazione è alle stelle e le periferie sono polveriere pronte a scoppiare alla minima scintilla. Come al solito, rimaniamo indietro (pur avendo Maria Prezioso così vicina e disponibile!).

Le risposte ai quesiti sui trasporti, sul decoro urbano, sullo sviluppo in tutti i campi sono tutte a portata di mano (e anche i fondi europei lo sono se i progetti sono validi), stiamo ancora aspettando che qualcuno se ne accorga e le faccia proprie. E’ provato e comprovato che le improvvisazioni dei nostri sindaci e gli slogan troppo distanti dalla realtà non hanno minimamente scalfito i numerosi disagi romani. E’ importantissimo che i cittadini siano informati e pretendano una pianificazione sostenibile, partecipata e interdisciplinare che cambi davvero le cose in questa città.

La nostra città non può espandersi a caso, non può essere oggetto di norme completamente sconnesse le une dalle altre, di interventi privi di logica più che mai nelle grandi città e in zone problematiche come le periferie occorre procedere con un progetto tecnicamente valido come Re-BLOCK.

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Aree produttive dismesse, proposti incentivi per rigenerarle

La misura in un emendamento dei relatori al disegno di legge sul consumo di suolo.
Incentivi fiscali per la rigenerazione delle aree produttive dismesse in aggiunta alle misure per la riqualificazione delle periferie. La proposta è contenuta in un emendamento al disegno di legge sul consumo di suolo, ora all’esame della Commissione Ambiente della Camera.

Il pacchetto di proposte presentate dai relatori del provvedimento, Massimo Fiorio e Chiara Braga, mira ad accelerare l’iter della norma, iniziato da più di due anni.

Rigenerazione delle aree produttive dismesse
L’emendamento presentato non entra nel dettaglio, ma prevede che per incentivare questi interventi siano individuate “misure tali da determinare per un congruo periodo una fiscalità di vantaggio”.

La misura richiama la riqualificazione delle periferie, già presente nel disegno di legge, basata sul riuso di edifici e spazi pubblici attraverso la demolizione e ricostruzione e la sostituzione degli immobili esistenti, cui seguirà la creazione di aree verdi e piste ciclabili. Iniziative per cui sono previsti bandi e concorsi rivolti agli architetti.

Sul tema, lo ricordiamo, è intervenuta anche la Legge di Stabilità per il 2016 che ha stanziato 500 milioni di euro per la riqualificazione urbana e la sicurezza. La legge ha previsto un bando, atteso per il 31 gennaio, ma ad oggi non ce n’è traccia.

Consumo di suolo, i contenuti del disegno di legge
La norma prevede che il consumo di suolo sia possibile, per un periodo massimo di tre anni dall’entrata in vigore della legge, solo per i lavori e le opere inseriti negli strumenti di programmazione delle amministrazioni aggiudicatrici e per le opere della Legge obiettivo considerate prioritarie. Successivamente, non potrà essere superiore al 50% della media di consumo di suolo di ciascuna Regione nei cinque anni antecedenti. Chi ha ottenuto un titolo abilitativo prima dell’entrata in vigore della nuova legge potrà costruire sul suolo inedificato.

I proventi derivanti dal pagamento degli oneri di urbanizzazione o dalle sanzioni per gli interventi eseguiti in difformità dal titolo abilitativo dovranno essere utilizzati esclusivamente per la riqualificazione.

Un capitolo importante è dedicato alla riqualificazione delle periferie, basata sul riuso di edifici e spazi pubblici attraverso la demolizione e ricostruzione e la sostituzione degli immobili esistenti, cui seguirà la creazione di aree verdi e piste ciclabili. Per la progettazione degli interventi sono previsti bandi e concorsi rivolti agli architetti.

Consumo di suolo, critiche e segnalazioni
Ricordiamo che nei vari passaggi nelle Commissioni competenti, al ddl è stato contestato di dare troppi oneri ai Comuni e di non raccordarsi con i piani paesistici regionali. Sotto accusa, in particolare, il censimento degli immobili sfitti o abbandonati da poter riutilizzare e riqualificare. Operazione per cui gli enti locali non sembrano avere le risorse necessarie.

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L’ex-Asilo Filangieri ed il governo dei beni comuni

Labsus intervista gli attivisti dell’ex-Asilo Filangieri di Napoli.
Con la delibera 893/2015 il Comune di Napoli ha riconosciuto il Regolamento d’uso collettivo dell’ex-Asilo Filangieri, portando un inedito modello di governo dei beni comuni all’interno del nostro ordinamento.
La delibera riconosce autonomia di organizzazione e produzione ai fruitori del bene.

Tale regolamento infatti è stato prodotto in maniera autonoma dalla collettività di riferimento che usufruisce del bene, e pone l’autogestione della struttura come uno dei principi cardine della sua gestione. Abbiamo intervistato gli attivisti dell’Asilo, per capire gli aspetti più importanti e le novità che questo regolamento porta nella pratica teorico-giuridica dei beni comuni.
La storia

L’ex-Asilo Filangieri, ora L’asilo, è un centro di produzione interdipendente dedicato all’arte e alla formazione, autogestito dalla comunità di riferimento, ossia i lavoratori dell’arte e della cultura.
L’edificio storico, patrimonio Unesco nel cuore di Napoli, nonché demanio comunale, era stato scelto come sede del Forum delle Culture, di fatto dato come fondo di garanzia ad una fondazione privata.
Sulla scia delle diverse esperienze legate agli spazi culturali autogestiti che ha investito l’Italia, nel 2012 i lavoratori e le lavoratrici dello spettacolo e della cultura occupano l’immobile che viene così riconsegnato alla cittadinanza e riconosciuto dal comune di Napoli tramite la delibera 400/2012, in cui non solo si riconosce l’importanza della cultura come bene comune, ma si riconosce “ai lavoratori e alle lavoratrici dell’immateriale” la possibilità di gestire in maniera partecipata e trasparente uno spazio pubblico dedicato alla cultura. Nasce così l’esperimento dell’Asilo e dopo tre anni di tavoli pubblici, la comunità che usufruisce dello spazio, con l’aiuto di studiosi e giuristi, dà alla luce il Regolamento collettivo d’uso civico e collettivo urbano, convertito in atto amministrativo tramite la delibera 893 /2015.
Il Regolamento e i beni comuni

Tale Regolamento d’uso pone delle basi giuridiche al concetto di bene comune, diffuso nella prassi ma di difficile categorizzazione a livello giuridico. Partendo dalla nota definizione della Commissione Rodotà, dove il bene diventa comune se legato all’esercizio dei diritti fondamentali della persona, si è aggiunta un’interpretazione estensiva della tradizione degli usi civici, dove l’uso collettivo di un bene è strettamente legato alla partecipazione diretta della collettività (come già riconosciuto dalla Corte Costituzionale nella sent. 345/1997). Come ci spiega Giuseppe, “Noi volevamo che fosse riconosciuto il bene monumentale ex Asilo Filangieri come bene comune e per noi un bene diventa tale quando è legato ad un determinato regime di governo, ossia quando è presente una particolare forma di fruizione che garantisce ai cittadini non solo un potere di accesso, ma un metodo codecisorio per quanto riguarda le pratiche e la gestione degli spazi”. La partecipazione diretta della comunità diventa quindi un punto fondamentale per definire la categoria dei beni comuni, dove “la comunità si crea attraversando lo spazio, ossia nel momento in cui si mettono insieme le risorse, i mezzi di produzione artistico-culturali, le competenze” e che si autoregola tramite assemblee e tavoli di lavoro aperti alla cittadinanza tutta.
L’uso civico della struttura si basa sulla capacità di autonormazione civica di tale comunità e si fonda sui principi di imparzialità, inclusività, accessibilità e autogoverno della comunità, in quanto “gli operatori della cultura devono essere autonomi nelle scelte che fanno, vale a dire non essere soggetti a nessuna ingerenza da parte della partitocrazia né da parte dell’economia, ossia dalle logiche del profitto”, sottolinea Nicola.
Per un nuovo pubblico

“Tale sperimentazione”, si legge nel Regolamento, “si configura come demanialità rafforzata dal controllo popolare”. Il bene in questione rientra quindi in uno “speciale regime pubblicistico”, in cui lo Stato non è gestore dall’alto della struttura (come ad esempio con il meccanismo del bando pubblico), ma, tramite un meccanismo di sussidiarietà orizzontale, diventa garante del funzionamento della struttura stessa, riconoscendo l’autonomia di gestione dei fruitori dello spazio e assumendosi lui stesso oneri e responsabilità relativi al funzionamento del bene. Un pubblico che risponde quindi all’ articolo 3 della Costituzione, pronto a rimuovere ciò che può ostacolare il godimento collettivo della struttura da parte della comunità e della cittadinanza tutta. Il concetto di utilizzo collettivo del bene rientra nella volontà di “declinare i beni comuni a livello relazionale”, ci spiega Nicola, “ossia mettere in evidenza che la singola persona nell’esercizio legato ai diritti dei beni comuni non può che relazionarsi ad altri soggetti”.
Quindi uso collettivo di uno spazio pubblico, affidato alla gestione della comunità di riferimento tramite la condivisione degli oneri e delle responsabilità tra tale comunità e le istituzioni che hanno la titolarità del bene. E qui si evidenzia l’importanza del regolamento: la sua esistenza assicura infatti la pubblicità del bene, e permette un’amministrazione diretta da parte della collettività tramite modelli di democrazia partecipativa, che possano durare nel tempo indipendentemente da chi attraversa lo spazio. A livello pratico, ciò si traduce da una parte nell’introduzione di un elemento di terzietà (ossia il controllo delle istituzioni del rispetto di tale Regolamento), e dall’altra si riconosce il credito che tale struttura dà alla cittadinanza, di fatto tramite la partecipazione del Comune ai costi di gestione della struttura (come ad esempio l’utilizzo di dipendenti comunali per aprire e chiudere l’edificio o eventuali lavori straordinari legati a problemi dello stesso). “L’edificio deve essere tenuto come una piazza e sta all’istituzione garantire che le persone lo possano utilizzare”, ci spiega Giuseppe. Si riducono quindi i costi minimi della produzione teatrale e allo stesso tempo si riconosce una redditività civica del bene in questione, garantendo autonomia di organizzazione e produzione ai suoi fruitori.

L’esperimento de L’Asilo porta sicuramente nuovi spunti nel dibattito sui beni comuni (e il conseguente ruolo che possono avere le istituzioni) e per quanto sia legato ad una situazione specifica, può essere d’esempio nella creazione (e continua sperimentazione) di nuove forme di democrazia partecipata e di autogestione di quei beni che, per privatizzazioni o gestione centralistica statale, vengono di fatto sottratti alla collettività.

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La biblioteca delle cose

Gli spazi nei quali mettere in comune utensili, saperi e tempo stanno emergendo un po’ ovunque nel mondo. Si tratta in primo luogo di luoghi comunitari di creatività. Ecco come nascono e come funzionano.
In media i trapani elettrici vengono usati per soli tredici minuti nella loro durata di vita. Chiaramente non è necessario che ciascuno ne possegga una e in primo luogo spesso sono troppo cari per molti da comprare, comportando inoltre molta creatività non sfruttata e una enorme quantità di spreco di denaro. E il trapano non è l’unico oggetto a raccogliere costosamente polvere sugli scaffali.

Per contrastare questo curioso mix di iper-rifornimento e sotto-disponibilità, le esperienze di condivisione di utensili (tool-sharing libraries) stanno emergendo un po’ ovunque nel mondo. Queste realtà concedono ai loro membri di accedere a un’ampia gamma di utensili per un costo nettamente inferiore a quello pagato per l’acquisto individuale e possono divenire veri e propri centri comunitari creativi.

Uscendo da una cabina di polizia stile Dr. Who vicina al porto cittadino, la Edinburgh Tool Library va avanti dagli inizi del 2015 e ora conta 1.200 utensili, 180 membri e cresce molto in fretta. Abbiamo raggiunto il suo fondatore, Chris Hellawell, per scoprire come trasformare una vasca da bagno in un pezzo di arredamento, lavorando per attirare giovani padri insieme ai loro figli e quant’altro ha contribuito al successo della “biblioteca” di utensili.

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Perché un’esperienza di condivisione di utensili? Perché gli utensili si rivela adatti per un’iniziativa del genere?

Si possono evidenziare diversi aspetti. C’è un aspetto umano basilare nell’utilizzo di utensili per fare le cose più efficientemente o qualcosa che non potresti fare senza di essi, quell’impulso creativo che tutti noi abbiamo. Come esseri umani, vogliamo realizzare cose.

Vi è anche un importante aspetto psicologico, quel senso di benessere, salute e conquista correlato all’atto creativo. Penso che culturalmente ci stiamo allontanando da esso. La cultura in Occidente è molto più incentrata sui consumi – possedere e avere cose – piuttosto che sull’idea di condivisione. L’istinto ci porta ad andare e comprare un prodotto piuttosto che dire “Come posso realizzarlo da me?”.

L’atto di fare è veramente terapeutico, e se puoi offrire alle persone questo processo senza che gli costi una fortuna, allora ne beneficeranno sia sul piano dei risultati concreti, rendendo le loro abitazioni più belle, che in termini di benessere mentale.
È importante che la gente abbia facile accesso a questi utensili, proprio in virtù di quel senso di conquista che deriva dalla capacità di fare. Una delle grandi cose della condivisione degli utensili è che molto spesso le persone vengono a prenderli in prestito perché in realtà non sanno bene cosa vogliono realizzare o perché necessitano di un particolare strumento che non hanno mai utilizzato prima.

Per quanto riguarda la questione prezzo: la media delle famiglie inglesi spende ogni anno 110 sterline in attrezzi, mentre noi chiediamo un pagamento annuale di 20 sterline ma, se sei disoccupato o persona a basso reddito, puoi pagare in base alle disponibilità.
Abbiamo avuto una artista che ha usato i nostri utensili per realizzare un set di tre pezzi di arredamento da giardino ricavato da un vecchio bagno. Ha preso in prestito una molatrice angolare, che non aveva mai utilizzato prima, e ha sezionato una vasca per realizzare un sofà.

Ora la sta usando per vendere il suo lavoro e la sta portando con sé in giro nei festival del paese. Non le sarebbe mai venuto in mente di fare una cosa simile: in pochi si metterebbero a comprare un arnese così grande come una molatrice angolare solo per provare.

Che tipologia di persone sono i vostri soci?

Penso vi sia un’equa ripartizione tra coloro che sono interessati al discorso della sostenibilità e le persone a basso reddito, che vengono per risparmiare. Dal punto di vista della campagna ambientalista, è molto interessante perché quelle persone solitamente poco sensibili alle tradizionali campagne di riciclo, vengono comunque da noi per risparmiare soldi e perché non possono andare e comprare queste cose.

E cosa ha spinto te a farlo?

Ho studiato scienze ambientali e silvicultura, ma ho sempre lavorato per molti enti di beneficienza che si occupavano di disoccupazione e disabilità, aiutando le persone che non avevano le stesse opportunità degli altri. Così, dal mio punto di vista, sono contento di avere la possibilità di unire le due cose.

Come funziona la struttura dell’organizzazione?

Al momento, io faccio la maggior parte del lavoro, ma vorrei farla crescere in modo da renderla autosufficiente. Abbiamo cinque soci in consiglio: un presidente, un tesoriere, un segretario e abbiamo appena eletto uno dei nostri soci come tramite per veicolare gli interessi dei soci.

Incluso il consiglio d’amministrazione, vi sono circa dodici volontari che offrono il loro aiuto il sabato. Altri volontari sono tra i soci che vengono per aiutare quando collaboriamo con i gruppi delle varie comunità. Recentemente, abbiamo lavorato con uno di questi che ha costruito una wiki-house – una casa per una comunità open-source – e il progetto è stato realizzato con l’aiuto di alcuni nostri volontari e dei nostri utensili.

Come si svolgono normalmente?

Principalmente online. Una volta a settimana, il sabato mattina, affittiamo una cabina di polizia, che sarebbe il nostro punto ritiro e consegna. Le persone possono venire per registrarsi e versare la quota associativa, a seconda di quanto puoi permetterti. Gli spieghiamo le regole e così possono accedere al nostro database online. Se, ad esempio, vogliono una molatrice angolare, fanno una ricerca e gli appare quante ne abbiamo a disposizione; a quel punto loro posso richiederla e, se nessun altro l’ha prenotata, io confermo la richiesta. A quel punto il sabato la consegno alla cabina di polizia, il che vuol dire che tutto quello che dobbiamo fare è portare gli attrezzi solo una volta la settimana.
Attualmente abbiamo 180 membri. A questi livelli non abbiamo bisogno di avere qualcuno in sede tutti i giorni e questo si adatta alle esigenze delle persone perché la maggior parte preferisce dedicare il weekend a lavorare ai propri progetti. Questo programma settimanale, inoltre, fornisce alle persone una scadenza per i loro progetti, cosa estremamente utile. A molti piacciono le biblioteche dove si sa che è necessario finire un libro entro una certa data; allo stesso modo le persone tendono a completare le loro cose perché devono restituire gli utensili in una settimana. Spesso ci dicono che se avessero avuto quegli utensili di proprietà, ci avrebbero impiegato tre o quattro mesi, fino a farsi passare la voglia di farlo. Penso che abbiamo salvato un bel po’ di relazioni!

Vi sono altri in Edimburgo che vorrebbero fare lo stesso? Il vostro è un modello che chiunque può copiare?

Come impresa sociale, abbiamo comunque bisogno di generare economie e pertanto abbiamo qualcuno che si occupa di fundraising e del modello che utilizziamo. Voglio dimostrare che questo modello funziona e, se noi riusciamo ad avere un colpo di fortuna, non vuol dire che sia così per tutti, per cui dobbiamo dimostrare che non si tratta di un caso fortuito.

Attualmente siamo l’unica realtà del genere in Gran Bretagna e questo ci dà molto prestigio e visibilità, ma se qualcun altro dovesse aprirne uno in un’altra parte del paese, probabilmente non avrebbe la stessa visibilità e questo potrebbe diminuire il successo. Io vorrei che altri adottassero lo stesso modello, ma voglio che noi continuiamo a fare le cose per primi. Stiamo sviluppando uno schema di occupabilità basato sul rapporto tutor-allievo che pensiamo rappresenti una novità assoluta nel settore. Speriamo poi di riuscire a condividerlo con le altre esperienze di condivisione di utensili, molti dei quali sono in Nord America.

Ve ne sono circa ottanta in Canada e negli Stati Uniti – tutti con diverse strutture, dimensioni e capacità, dai capanni a enormi magazzini – quello che è interessante è che si può adattare alle esigenze locali. Possono persino essere fatti all’interno di nuovi insediamenti residenziali. Se costruisci un nuovo insieme di appartamenti, ha senso che ciascuno che vi abita abbia il proprio trapano o non sarebbe meglio mettere un armadietto così che li si può condividere?

Sei molto coinvolto anche in molti progetti locali come Dads Rock.

Dads Rock è un ente di beneficienza che lavora per far avvicinare di più i padri ai figli, attraverso il gioco e la qualità del tempo speso insieme. Nel progetto con cui noi abbiamo collaborato, i padri erano giovani che sono diventati genitori all’età di quindici o sedici anni. I giovani a quell’età spesso attraversano periodi di grande caos e questo potrebbe riflettersi anche sulle relazioni con i figli. Per cui il nostro progetto era quello di realizzare con loro una biciclettina per bambini: l’idea era che fosse qualcosa che potessero seguire fino in fondo perché stavano costruendo qualcosa per i loro figli.
La bicicletta è un regalo classico da fare ai bambini, ma questa volta sono stati i loro papà a costruirla per loro. Molti papà hanno personalizzato le biciclette in base agli interessi dei loro figli, una era in stile Harley-Davidson, un’altra era in stile motocross e a tema Minions.

Il progetto è durato otto-dieci settimane e, con il passare del tempo, potevi vederli presentarsi a ciascun incontro un po’ più cresciuti e alti della volta scorsa. È diventato il punto di riferimento della loro settimana: un vero e proprio senso di scansione del tempo, di ordine e attenzione. Quando il progetto è finito, hanno detto che non erano pronti per vederlo finire e per questo ora stanno lavorando per organizzare un weekend residenziale per fare qualcosa a beneficio della comunità in cui vivono.

Ciò che temo rispetto a questi progetti a breve termine come questo, è cosa accade dopo. I tuoi programmi per il futuro della tua esperienza sono collegati a questo?

Si. Vogliamo trasformarlo in un in un workshop in cui possiamo creare uno spazio dove i giovani possano venire ogni settimana, dove si sviluppano progetti aperti in cui siano le persone a stabilire il programma, dove si pratica il mutuo aiuto e dove non vi sia alcun giudizio.

La condivisione degli utensili è una passione ambientalista ma anche sociale. Voglio evitare che i giovani disoccupati siano trascurati, quando invece possiamo affiancargli persone che possano formarli.

Voglio far incontrare formatori e tirocinanti e dimostrare che si può tratte un mutuo beneficio da tale incontro. Vi sono più di 80.000 persone sopra i sessantacinque anni in Scozia che si sentono soli per la gran parte del tempo. Vogliamo creare un programma tutor-tirocinante in cui quelli con esperienza, i tutor più anziani con una formazione nel commercio e che sono a rischio esclusione e isolamento, possano lavorare fianco a fianco con i giovani tirocinanti, che devono affrontare i cambiamenti per riuscire a ottenere un lavoro. Insieme potrebbero catalogare e prendersi cura degli utensili, mostrare come utilizzarli e gestire parte dell’accoglienza del workshop.

Una volta acquisita sufficiente fiducia con il lavoro e capacità dimostrabili, possiamo lavorare insieme ai tirocinanti per scrivere il loro curriculum e aiutarli a trovare lavoro.

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