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Italia tra periferie e riscatto

Biennale Architettura: il Padiglione Italia della prossima mostra di Venezia si intitola “Taking care”. Gli ideatori: progettare per il bene comune riduce esclusione e marginalità.
Architettura come servizio alla comunità, attenzione agli individui, attenzione agli spazi, ai luoghi e alle risorse. Ecco la spinta propulsiva che ha portato alla creazione del Padiglione Italia dal titolo: «Taking care», sottotitolo, Progettare per il bene comune, che sarà aperto per la 15. Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, presentata (lunedì 4 aprile) a Roma. «Un’architettura che faccia la differenza» è il proposito di TaMassociati, il team curatoriale dell’edizione 2016 del Padiglione, composto da Massimo Lepore, Raul Pantaleo e Simone Sfriso. «Un’architettura partecipata e intelligente, in grado di scardinare gli status quo e di immaginare un futuro migliore». Un progetto proposto alla Biennale Architettura 2016 con l’intenzione di radicarsi e riprodursi al di fuori di essa, per generare una nuova consapevolezza civica. Un’architettura al servizio del bene comune sociale, baluardo contro le frontiere create da marginalità ed esclusione.
Un progetto molto apprezzato dal Ministro Dario Franceschini, ospite alla presentazione assieme al presidente della Biennale Venezia Paolo Baratta. E proprio il Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo ha sottolineato quanto questo procedere per il bene comune debba interessare soprattutto le periferie, in quanto rappresentano «la vera sfida del XXI secolo, luoghi in cui vive lavora e sogna la grande maggioranza degli abitanti delle nostre città. Organizzare questi spazi, connetterli ai grandi flussi metropolitani rispettandone le identità, restituire loro bellezza e armonia è il grande ruolo che gioca l’architettura in questo contesto». Politiche perciò, volte a sostenere processi virtuosi di riqualificazione.
Il tema di Biennale Architettura 2016 è stato scelto dal Direttore artistico Alejandro Aravena, proprio perché indagasse la necessità di comprendere in un unico insieme, l’architettura con la qualità della vita delle persone. E infatti il presidente Baratta avverte: «Abbiamo temuto che l’architettura rischiasse di non avere altre alternative, oltre a quella della realizzazione di interventi spettacolari o di bricolage. Questa Biennale vuol dirci che l’architettura è partecipe di una grande finalità: dar forma allo spazio comune».
All’interno del Padiglione Italia, venti progetti di studi italiani in cui si evidenziano differenti approcci. La selezione spazia in campi come l’abitare, il lavoro, la salute, l’istruzione, la cultura e valorizza il rapporto con la committenza, pubblica o privata, associativa o civica. Nel percorso espositivo, una rassegna di scatti fotografici e cinque progetti inediti realizzati in un lavoro congiunto tra progettisti e associazioni nazionali impegnate nel contrasto alla marginalità in aree periferiche del Paese.

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Oggi Gesù abita nelle periferie

Esce il libro di Andrea Riccardi.
Nel volume lo storico esplora la nuova frontiera della Chiesa nel mondo globale
Vivere il Vangelo tra la gente dei quartieri degradati, l’impegno indicato dal Papa.
Pubblichiamo un estratto dal saggio dello storico Andrea Riccardi «Periferie. Crisi e novità per la Chiesa» (Jaca Book), che esce giovedì 7 aprile. Un viaggio nelle realtà marginali che si richiama agli appelli di Papa Francesco.

La condizione umana è cambiata rapidamente nel XX secolo: ai primi del Novecento solo un decimo degli abitanti del mondo viveva nelle città, soprattutto nel Nord America e in Europa, mentre nel 2030 si prevede che quasi il 60% della popolazione mondiale sarà urbana. Il pianeta è una realtà ormai urbanizzata: nel secolo scorso si è avviata la grande svolta, che ha invertito il rapporto tra città e campagne. Nel 2007, in pieno processo di globalizzazione, per la prima volta nella storia umana, gli abitanti delle città hanno superato quelli delle campagne: il mondo è divenuto essenzialmente urbano. Ma tutto questo è avvenuto in modo molto particolare: gran parte della popolazione delle città vive ormai nelle periferie. Paolo Sellari osserva che le città del Terzo Mondo tendono a riprodurre la dialettica centro-periferia che in larga parte caratterizza ancora oggi il mondo socio-economico, non solo nei centri urbani ma in interi Paesi.

La periferia caratterizza in profondità il mondo contemporaneo con agglomerati che si addensano attorno alle città. Infatti il processo di urbanizzazione globale induce un fenomeno caratteristico della città contemporanea: la cosiddetta slumizzazione. Nel 2003, il 71,9% della popolazione dell’Africa subsahariana vive negli slum. Questa è la condizione urbana più diffusa nel continente: quella di periferico. A livello mondiale gli abitanti degli slum accolgono oggi il 31,6% della popolazione. È un popolo enorme. Un mondo che non ha voce, ma riceve costanti messaggi da un centro («mediatico»), che attrae verso standard di vita peraltro non praticabili. I periferici sono un popolo di «esclusi», che vengono continuamente sollecitati e messi a contatto con modelli non raggiungibili.

I problemi concreti posti dal rapido cambiamento della condizione di vita della popolazione mondiale sono numerosi: da quelli inerenti agli approvvigionamenti alimentari, a quelli della diminuzione o dell’inquinamento delle risorse idriche, alla difficoltà dei trasporti urbani (inadeguati o estremamente carenti in alcune città), agli ovvi, ma drammatici, problemi del lavoro. La realtà umana e sociale della città del XXI secolo è fortemente diversa da quella della città novecentesca. La presenza di grossi agglomerati di proletariato (quindi di periferici) nella città novecentesca spesso era in rapporto dialettico o conflittuale con il «centro» attraverso la realtà della lotta politica e sindacale, ma in fondo si ritrovava — pur in contrapposizione — all’interno di un orizzonte comune. Attraverso lo scontro e la politicizzazione delle aspirazioni della periferia, si veniva a creare un processo integrativo.

Oggi è molto diverso. Le periferie, che sono molto più integrate da un punto di vista di comunicazione rispetto a quelle del secolo scorso, sono invece distaccate e non rappresentate da un punto di vista sociale e politico. Qui spesso le reti sociali sono scadenti o assenti. Il controllo sugli spazi urbani periferici risulta complesso e difficile, tanto che vaste aree — specie nelle megalopoli — finiscono sotto il dominio di mafie e di cartelli internazionali o nazionali del crimine.

La città del XXI secolo è sempre meno una comunità di destino. Anzi, mentre una parte di essa viene assorbita nei flussi globali e procede sulla via dell’internazionalizzazione, un’altra resta ai margini e fuori dai circuiti di integrazione, se non sprofonda in una condizione di isolamento. Sono i quartieri abbandonati dove spesso le persone vivono per l’intera esistenza e dove forse i figli faranno la stessa vita dei genitori. L’universo delle megalopoli si è strutturato in modo che molto spazio abitato diventi luogo di esclusione. La megalopoli produce costantemente periferie urbane e periferizzazioni umane. Di fronte a questa realtà, specie nel Sud del mondo, lo Stato e le istituzioni sovente rinunciano ad un controllo reale di questi spazi. Diventa un mondo perduto, in cui i drammi umani e sociali si annodano con reti criminose e ribellismi endemici, nel quadro di una cultura della sopravvivenza.

Il cristianesimo — su impulso di papa Bergoglio — ha la possibilità di comprendere in modo nuovo la condizione umana e urbana del XXI secolo. Certo questo processo richiede profondi cambiamenti. Non è più possibile affrontarlo con la mappatura territoriale, tipica di altre età, fortemente influenzata dal mondo delle campagne, che divideva lo spazio in circoscrizioni predefinite. L’idea stessa di territorio come habitat esclusivo dell’uomo e della donna è rimessa in discussione dalla mobilità umana e dai trasporti, oltre che dalle comunicazioni via internet. Il sistema pastorale si rivela inadeguato.

Dopo il Vaticano II, sulla scorta del rinnovamento dell’eccelesiologia, si è molto insistito sulla dimensione della Chiesa locale, ma è stato un rinnovamento a metà. La Chiesa locale, a sua volta, ha spesso una visione centralistica che non dà spazio alle periferie. Non basta dividere le diocesi e rendere il centro più prossimo alle periferie. Occorre suscitare nuove realtà cristiane nelle periferie, accettandone la storia e la configurazione. Non tutto può essere programmato dal centro. E la diversità delle esperienze cristiane sullo stesso territorio non significa competitività. Il vero punto focale è quello di un cristianesimo inserito nella cultura e nella realtà urbana, soprattutto, delle periferie.

Papa Francesco, parlando ai superiori generali delle comunità religiose, ha fatto un’importante affermazione: «Io sono convinto di una cosa: i grandi cambiamenti della storia si sono realizzati quando la realtà è stata vista non dal centro, ma dalla periferia. È una questione ermeneutica: si comprende la realtà solamente se la si guarda dalla periferia, e non se il nostro sguardo è posto in un centro equidistante da tutto».

La «chiave ermeneutica» di Franceso non è un progetto di riforma della Chiesa attraverso strutture più decentrate. È una proposta che va recepita e realizzata con costruttività, inaugurando o continuando percorsi nelle periferie e con una visione dal basso. Bisogna infatti chiedersi che cosa significa vivere il Vangelo in un mondo urbano globale così cambiato, anzi vorrei dire in una «civiltà» per tanti aspetti nuova, come quella introdotta dalla globalizzazione. Per compiere questa operazione così importante, che rappresenta un passaggio storico, occorre dislocarsi nelle periferie come vissuto cristiano e come punto di partenza per un’intelligenza della realtà. Non si tratta di una posizione ideologica, ma di ripensare una storia che può e deve ricominciare da queste posizioni e di maturare una visione in questi ambienti.

Il tema delle periferie e quello della città globale segnano un passaggio fondamentale da una concezione ecclesiastica della Chiesa e della pastorale, che faticosamente e con contraddizioni ha provato a recepire il Concilio Vaticano II, a una concezione di Chiesa di popolo. Non si tratta certo di sottovalutare il ministero sacerdotale, ma di non concentrare in esso tutta la responsabilità pastorale (come si fa generalmente, nonostante i tanti discorsi di segno contrario e quelli ricorrenti contro il clericalismo). Si deve far emergere un popolo che, nella sua complessità e interezza, sia capace di comunicare il Vangelo, di viverlo nelle periferie delle città, di dar origine a percorsi cristiani diversi, anche se convergenti nell’unica grande famiglia della Chiesa.

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Il progetto di Vigne Nuove a Roma, missione incompiuta

L’ho vissuto sulla mia stessa pelle: parlare a chiunque del Piano di Zona n°7 Vigne Nuove a Roma, soprattutto a chi abita nella zona, significa quasi inevitabilmente sentirsi rispondere: Ma qual è? Dici quello brutto con le torri cilindriche? Silenzio.

Beh sì, a malincuore sono costretta ad ammettere che effettivamente si tratta proprio di quello. Ma da lì solitamente mi apro in una digressione architettonica per difendere un progetto che mi sta a cuore ed una delle pochissime realizzazioni a Roma di un modo di fare architettura che, per quanto criticabile e mal riuscito, fa parte del percorso teorico-sperimentale di questa disciplina.

E’ interessante partire proprio dall’immagine che la collettività ha di questo progetto. Al di là del gusto personale di ognuno e del fatto che la maggioranza non sia “addetta ai lavori”, è evidente che, se il pensare comune reputa così negativamente un’architettura, qualcosa non ha funzionato. E questo è avvenuto non necessariamente nella dimensione ristretta dell’alloggio, bensì piuttosto nella totalità dell’intervento. E’ per questo che tratterò più diffusamente dello spazio pubblico che il progetto ha generato.

Ci troviamo nella periferia Nord di Roma, nell’attuale III Municipio, a ridosso delle borgate storiche Tufello e Val Melaina. Il progetto, commissionato dall’ IACP (Istituto Autonomo Case Popolari), è del ben noto Lucio Passarelli dello Studio Passarelli di Roma, a capo di un gruppo di progettazione più vasto.

Erano gli anni ’70, gli anni dei forse più noti e sfortunati progetti di Corviale e Laurentino 38 a Roma, i quali condividevano con Vigne Nuove i finanziamenti straordinari GESCAL del 1969 per la costruzione in via sperimentale di alloggi e servizi collettivi. Vigne Nuove, per quanto sia il meno conosciuto dei tre, fu il primo ad entrare in attuazione: nel 1971 fu redatto un primo progetto a cura dell’ IACP, profondamente modificato dal successivo progetto Passarelli, approvato nel 1972 ed infine realizzato tra il 1973 e il 1979.

Come i suoi cugini romani, anche il progetto di Vigne Nuove sorprende per i suoi numeri:

Superficie complessiva dell’intervento: 77.360 mq (quasi 8 ettari)
Abitanti insediati: 3333 (in 524 alloggi)
Densità territoriale: 416 abitanti per ettaro (piuttosto alta rispetto a tutti gli altri Piani di Zona)

Questo d’altronde non deve stupirci, perché siamo negli anni delle sperimentazioni sulla grande dimensione: costruire edifici giganteschi, nuovi monumenti suburbani, significava da un lato tentare di risanare il tessuto senza regole delle periferie anche grazie all’inserimento di nuovi servizi pubblici, dall’altro garantire con un solo edificio la vivacità sociale di una vera e propria città. La grande dimensione rispondeva però anche all’emergenza della produzione economica in tempi rapidi di un gran numero di alloggi popolari, così come voluto dalla L. 167/1962, che istituì proprio i Piani di Zona. Questo fu reso possibile anche grazie all’adozione di moderni sistemi di prefabbricazione (giunti tuttavia in ritardo in Italia e già superati altrove), che permettevano la produzione in serie dei componenti, un’elevata standardizzazione ed una notevole rapidità del cantiere.

Come purtroppo tanti altri casi analoghi, Vigne Nuove è percepito oggi come quartiere insicuro ed abbandonato dall’amministrazione. Vorrei tuttavia lasciare fuori dal ragionamento le motivazioni, diremmo, politiche e le scelte gestionali per cui ciò è avvenuto. E’ indubbio che un insediamento di queste proporzioni, all’epoca alle ultime propaggini della periferia, destinato alla fascia di popolazione meno abbiente e costruito con evidente economicità di materiali, ponga già in nuce alti rischi di emarginazione; se ci si aggiunge la carenza di controllo, di gestione e di rinnovamento negli anni da parte dell’autorità centrale si ottiene facilmente il quadro attuale.

Tuttavia, poiché su questa scia si aprirebbe una discussione complessa che non è materia di mia competenza, vorrei approfondire l’aspetto prettamente architettonico, cercando di capire se i presupposti del parziale insuccesso attuale di Vigne Nuove fossero già presenti nella sua concezione.

Sulla carta, il disegno planivolumetrico del progetto si fonda sulla compenetrazione di tre sistemi:

la quota zero, in cui sono presenti le aree verdi interne (in verde) ed in cui sono intelligentemente “relegati” mobilità carrabile e parcheggi;
la quota sopraelevata, totalmente pedonale, dei piani porticati sotto gli edifici e dell’asse rettilineo strutturante Est-Ovest, su cui si attestano ordinatamente a pettine le attrezzature collettive a due piani (in arancio);
la linea spezzata degli edifici residenziali a 7-8 piani (in grigio), posizionati ai margini del lotto per lasciare ampio spazio libero al suo interno.

Il tutto è realizzato con una grande unità visiva e materica, attraverso l’uso del calcestruzzo a vista, come si legge nella Relazione Generale:

«Si è ritenuto che l’insieme volutamente omogeneo e lineare degli edifici avesse una validità espressiva, contenuta nello stesso segno unitario dei volumi.».

L’intervento doveva quindi porsi come un segno forte, una quinta a chiusura del costruito esistente, divenendo contemporaneamente un polo visuale e d’aggregazione sociale (fig.4):

«La disposizione dei volumi principali favorisce aperture visuali nella doppia direzione nord-sud, collegando contestualmente tra loro le corrispondenti zone limitrofe e rendendole nel contempo partecipi della più attrezzata vita comunitaria nel complesso IACP [in azzurro in fig.3, ndr]. Tale vita comunitaria è prevista lungo il filo conduttore di alcuni principali servizi collettivi […]».

In merito proprio ai servizi collettivi, era stata prevista una dotazione significativa ed organizzata in modo chiaro e lineare: centro commerciale, centro civico con A.S.L., asilo nido, scuola materna ed elementare, servizi sociali e consorziali, una palestra comunale con area sportiva all’aperto.

A questo punto, la domanda che viene spontaneo porsi è: cosa non ha funzionato quando l’interessante progetto è stato tradotto in concreto?

Le difficoltà principali sono state e sono ancora legate al rapporto degli edifici con il lotto, caratterizzato morfologicamente da forti dislivelli sia Nord-Sud sia soprattutto Est-Ovest (25 m.). Il costruito, infatti, è stato fin dal principio tenuto ben separato dal terreno, allo scopo di «[…] evitare forti rimodellamenti del terreno; evitare problemi di discontinuità nell’attacco a terra dei fabbricati; consentire una soluzione non costosa per gli accessi ai box e la fruizione delle attrezzature […]».

Al giorno d’oggi si tende a ragionare con il genius loci, a sfruttare il sito come un materiale o come una guida della forma architettonica, in modo che ogni progetto possa essere costruito lì e non altrove. Al contrario, come era diffuso all’epoca, a Vigne Nuove ha governato una progettazione in planimetria che ha preferito limitare le relazioni con il terreno. Ma in un lotto così in pendenza degli aggiustamenti o, più spesso, delle forzature nell’articolazione degli spazi sono stati inevitabili; è così che, quella che sulla carta era una linea dritta, nella pratica si è trasformata in una linea inclinata, un percorso in piano si è trasformato in una rampa o si è dovuto troncare.

Questo è avvenuto in primo luogo lungo l’asse pedonale strutturale, la spina su cui si concentrano tutti i servizi. Fintanto che il percorso pedonale si mantiene in piano, la linearità e l’ordine sono ben leggibili, come ad esempio nel centro commerciale (fig.5 a sinistra), ma quando il percorso deve superare la grande differenza di quota, esso è costretto a spezzarsi e ad avvolgersi su sé stesso in modo poco visibile e chiaro (fig.5 a destra). Ancora più difficoltosa è la lettura della direzionalità quando l’asse si infila sotto gli edifici residenziali, generando situazioni caotiche, con pilastri in mezzo al passaggio e varchi che portano ad abbandonarlo erroneamente (fig.6 in alto). Significativo l’episodio della cavea coperta che, occupata al centro da un vano scala, si è trasformata da luogo di ritrovo ad angusto luogo di degrado.

La diretta conseguenza di questa distorsione è stata generare passaggi bui e labirintici, a loro volta premessa di insicurezza, vandalismo ed incuria. E quando la popolazione comincia ad evitare certi percorsi, è evidente che, oltre ad accelerarsi il processo di degrado, i servizi da essi distribuiti vengono privati del loro elemento portante.

La situazione attuale degli edifici pubblici non è, infatti, molto confortante. Le attività del centro commerciale hanno sempre avuto difficoltà a decollare e sono quasi tutte chiuse (anche perché poco visibili dall’esterno del lotto), per cui lo spazio è poco frequentato, malridotto ed i vani interni sono stati occupati da abitazioni, che spesso si sono appropriate dei percorsi di distribuzione (fig.7). Anche gli altri servizi originari hanno cambiato destinazione d’uso nel tempo e vengono utilizzati a malapena: la scuola materna e l’asilo nido sono diventati un centro anziani ed un’unità riabilitativa infantile; i servizi sociali e consorziali sono anch’essi abitati ed ospitano la Comunità di Sant’Egidio (attualmente chiusa). Unici servizi che richiamano quotidianamente un gran numero di abitanti del quartiere, anche giovani, sono il centro civico (con la A.S.L., la farmacia, un bar) ed il centro sportivo con palestra, per quanto necessitino anch’essi di un’adeguata manutenzione .

L’altra idea base del progetto che ha incontrato grosse difficoltà nella sua traduzione reale, è stata il rapporto con l’esistente. Indubbio attrattore visuale per la sua imponenza e per le sue peculiarità architettoniche, Vigne Nuove non si è trasformato anche in quell’attrattore sociale che si era auspicato. E questo non solo per lo scarso successo delle sue attrezzature, ma soprattutto perché non si è realizzata quella connessione col resto del costruito che i progettisti si erano immaginati.

Dal lato Sud, l’area non si è mai collegata al quartiere di Tufello, a causa del mancato completamento nel lotto confinante di una porzione del P.d.Z. n° 7 definita “ter”, che ha lasciato così uno spazio abbandonato tra i due tessuti (fig.9 in alto). Dal lato Nord, invece, ancora una volta non aver tenuto conto del dislivello del terreno ha reso inaccessibile dalla strada il parco interno, chiuso da un muro, ad una quota ribassata e quasi privo nel suo disegno di attraversamenti trasversali Nord-Sud (fig.9 in basso). Questa inclusione fisica non ha fatto altro che rafforzare il senso di isolamento dell’area, completando il quadro delle cause che, a livello progettuale, hanno compromesso il buon esito della visione originale.

In conclusione, quindi, Vigne Nuove è stato sicuramente un progetto innovativo e coraggioso, perfettamente inserito nelle sperimentazioni e nelle teorie architettoniche del suo tempo, che tuttavia non è riuscito come si era pensato, mostrando in breve i suoi difetti sia intrinseci che gestionali. Ho cercato di indossare i panni dell’architetto prima e del fruitore dopo, con un duplice obiettivo: raccontare agli architetti di come Vigne Nuove non sia solo il progetto innovatore che abbiamo studiato sui libri di architettura; raccontare a tutti i non architetti di come Vigne Nuove non sia solo “quello brutto con le torri cilindriche“.

In ogni caso, sperando in una futura rigenerazione dell’area, sarà importante ragionare proprio sui punti di forza e partire da questi per rilanciare il sistema dei servizi e degli spazi pubblici e da lì tutta l’area. Nel far ciò si dovrebbe cercare di dare risposta ai vari segnali di esigenze reali e di riassorbire l’area nel contesto urbano, coinvolgendo soprattutto i giovani.

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La Street art colora la periferia

Anna Magnani sulla casa dei “nonni uderground” di Corcolle.
La palazzina è stata tirata su con tanti sacrifici, nel lontano 1968. Una delle prime ad essere costruite a Corcolle. Certo, nessuno avrebbe potuto immaginare che a distanza di quasi 50 anni, una delle sue pareti sarebbe diventata la “tela” di un’opera d’arte. Nemmeno loro, ormai ribattezzati come “i nonni uderground di Corcolle”.

Per Michele Vivilecchia, classe 1928 , e sua moglie Maria Mazzenca, classe 1936, avere uno splendido apertura nonni underground corcollemurales gigante con ritratto il volto della bellissima attrice Anna Magnani, è una gioia. E una grande soddisfazione. “L’altro giorno mi sono affacciata e ho sorpreso due ragazzi mentre facevano una foto alla mia casa, mi sono messa a piangere dalla commozione – racconta Maria –. I ragazzi erano arrivati fin qui da Tor Bella Monaca, solo per ammirare questo disegno”.
L’arte urbana, che riqualifica e da colore alle periferie, può anche essere un affare di famiglia. È il caso di questi due splendidi nonni che, sotto suggerimento del nipote, Danilo Proietti, hanno accettato di concedere la parete della loro casa all’artista peruviano Carlos Atoche, reduce da un altro intervento di street art nella vicina Castelverde. Li, Carlos, aveva dipinto un colorato Rino Gaetano sul muro adiacente alla Corriera Stravante, rino gaetano castelverdeconosciuto pub di zona che, ogni anno, promuove numerose iniziative a favore di cultura e musica di periferia. “Visto quel bel murales, e vista la necessità di dare colore alle nostre periferie ho proposto subito la cosa ai nonni e al resto della famiglia – spiega Danilo -. Il dipinto è magnifico, ma soprattutto la reazione dei miei che, all’alba dei 90 anni, si sono dimostrati di vedute molto più aperte di tante altre persone più giovani del quartiere”.
Ma non solo, perché per Michele, l’occasione è stata importante anche per fare una nuova amicizia. “Sono stato tutti i dieci giorni di lavoro accanto a Carlos – racconta – Gli passavo gli attrezzi, gli tenevo la scala, e gli portavo anche da mangiare, i piatti che mia moglie preparava anche per lui. Mi sono divertito e sono anche molto contento del risultato. Anna Magnani è un’attrice a cui io e mia moglie siamo molto legati, perché racconta la nostra giovinezza, e con questo murales siamo i più originali di tutta Corcolle”.

Il prossimo a Villaggio Prenestino?
Certo, lo stesso Michele fa una distinzione importante: “Sono contrario a chi scrive su muri e treni solo per il gusto di rovinare qualcosa – spiega -. Questa invece è arte, e ci sentiamo due nonni speciali”.
La prossima periferia ad essere dipinda? Probabilmente Villaggio Prenestino, dove l’associazione di quartiere ha recentemente avviato un sondaggio tra i residenti per vedere cosa ne pensavano in merito. “Il sondaggio è durato un mese – spiega Stefano De Prophetis, dell’associazione -. Hanno votato 146 persone rispondendo positivamente ben 125, ovvero l’85,6%”. Dopo la scelta dell’artista, Alice Pasquini, romana apprezzata in tutto il mondo, è arrivata la scelta del muro: una cabina Acea in via Fosso dell’Osa. “Siamo in attesa del via libera di Acea, che abbiamo contattato” conclude De Prophetis.
Esiste già una mappa che raccoglie i murales della zona del versante prenestino, che il prossimo punto sia proprio quello in via Fosso dell’Osa?. La periferia che si colora attarverso la street art.

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Piccoli comuni che rivivono con l’accoglienza dei rifugiati

Rinascita di piccole città, recupero di vecchi mestieri, collaborazione per la cura del territorio. Sono alcuni degli effetti positivi dell’accoglienza nei progetti Sprar. Oltre a Riace, non vanno dimenticati Satriano, Capua, Sant’Alessio in Aspromonte, Chiesanuova, Santorso e Santa Marina.
Il sindaco di Riace, comune di 1.820 abitanti in provincia di Reggio Calabria, è stato inserito nell’elenco delle 50 personalità più influenti del mondo stilato dalla rivista americana Fortune. Il motivo è ovviamente legato all’esperienza dello Sprar, i progetti di accoglienza per richiedenti asilo, che a Riace hanno favorito la collaborazione tra rifugiati e residenti, risollevando l’economia del paese. Ma Riace non è l’unico esempio, come ha ricordato Daniela Di Capua, direttrice del Servizio centrale in un intervento a “Tutta la città ne parla” in onda su Radio 3: “Quella di Riace non è un’utopia ma una strada percorribile come dimostrano esperienze analoghe in altre realtà locali. Basti pensare che degli 800 comuni coinvolti nella rete Sprar circa la metà sono realtà di piccole e medie dimensioni con potenzialità simili a Riace”. Le altre realtà locali a cui fa riferimento Di Capua sono Satriano (Catanzaro), Santorso (Vicenza), Sant’Alessio in Aspromonte (Reggio Calabria), Chiesanuova (Torino), Santa Marina (Salerno) e Capua (Caserta) dove, grazie all’arrivo di rifugiati e richiedenti asilo sono stati riattivati servizi, riaperte scuole, rivalorizzate le attività locali.

Agenzia giornalistica
Accoglienza migranti, flop del bando Sprar, Cnca: così non si esce dall’emergenza
Pavia, borse studio per 14 rifugiati accolti in Sprar
AREA ABBONATI
Adnan è di origine pakistana, è stato accolto in un progetto Sprar a Satriano, comune di circa 3 mila abitanti in provincia di Catanzaro, dove ha iniziato a lavorare come parrucchiere. Insieme a lui sono stati accolti altri ragazzi, sempre dal Pakistan e dal Burkina Faso, alcuni stanno frequentano un corso da operatore socio-sanitario per il volontariato. Quando l’avranno terminato potranno assistere le persone in condizioni di disagio. Il lavoro di un giovane rifugiato pakistano ha permesso di far rivivere il laboratorio di falegnameria di Zio Michele a Sant’Alessio in Aspromonte (Reggio Calabria), dove si riparano mobili. Santorso nel vicentino di abitanti ne conta circa 6 mila a cui si aggiungono i rifugiati coinvolti nel laboratorio di sartoria Atelier Nuele dove si realizzano abiti e accessori. Tra di loro c’è anche un rifugiato iracheno che dopo aver terminato il percorso di formazione è stato assunto nell’atelier e oggi fa da tutor agli altri ospiti.

Tra i ‘veterani’ dell’accoglienza c’è Chiesanuova, comune di 200 abitanti in provincia di Torino, che festeggia 15 anni prima nel Programma nazionale asilo e poi nello Sprar. Il comune ospita 25 persone di cui 7 famiglie provenienti da Ucraina e Cecenia. Il progetto di accoglienza garantisce agli ospiti Sprar un abbonamento mensile all’autobus per potersi spostare nei paesi vicini: in questo modo non sono state soppresse le linee. Inoltre la presenza di bambini ha consentito di lasciare aperta la scuola del paese. In provincia di Salerno da un anno è stato attivato, in collaborazione con il Comune di Policastro, un servizio di scuolabus che va da Policastro a Santa Marina, dove si trovano le scuole, per i bambini residenti e per quelli accolti nello Sprar. A Capua, comune di 20 mila abitanti in provincia di Caserta il progetto Sprar ha attivato un laboratorio di restauro di vecchi mobili che coinvolge richiedenti asilo e rifugiati accolti sul territorio: grazie alle competenze acquisite, i rifugiati sono impegnati nel restauro dei mobili del Duomo di Capua.

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Il gusto della scelta

SABATO 9 APRILE ORE 10.00
Il gusto della scelta. Nell’ambito del progetto “Percorsi di Pace”. Un documentario di Roberta Sanseverino.

Come possiamo sfuggire alle trappole della pubblicità e imparare a fare scelte responsabili?




Corviale, l’utopia di un quartiere in un palazzo

Domenica 17 aprile 2016, ore 10.30 incursione urbana a Corviale sulle tracce del progetto interrotto di Mario Fiorentino, attraverseremo uno stereotipo e cercheremo di collocare la progettazione dell’edificio negli anni in cui venne ideato. Progetto in collaborazione con il Mitreo/Iside spazio culturale a Corviale tappa della passeggiata. Info e prenotazioni obbligatorie
iranaldi1973@gmail.com
Contributo: 15 euro compresa tessera annuale a “Ottavo Colle”.




Le periferie d’Europa e la profezia (inascoltata) del Papa

Da Molenbeek e Saint Denis, le periferie delle capitali europee sono associate al terrorismo. Ma Francesco aveva avvertito: nessuna ’intelligence’ ci salverà se abbandoniamo una parte della società. Il degrado facilita la manipolazione da parte di organizzazioni criminali. La necessità di abbattere le barriere dell’egoismo per costruire legami solidali e comunità aperte.
Le periferie, tema chiave del magistero di papa Francesco, sono tornate di stringente attualità nel corso dell’ultimo anno e mezzo, da quando cioè una serie di attentati terroristici sanguinosi e drammatici, ha devastato due grandi capitali europee – Parigi e Bruxelles – e le indagini condotte dalle forze dall’ordine hanno portato a ricercare gli autori delle stragi nelle periferie delle stesse città colpite. In particolare di Bruxelles abbiamo imparato a conoscere il quartiere di Molenbeek, della capitale francese è tornato più volte il nome dell’area di Saint Denis, piena banlieue, già centro negli anni passati di proteste e scontri. Entrambe le zone, come molte altre in vari Paesi europei, sono segnate da una forte concentrazione di immigrati di nuova o vecchia generazione, dove un crescente disagio sociale fatto di disoccupazione, degrado ambientale e sociale, assenza di politiche per l’integrazione, si è sommato a fattori endogeni quali resistenze culturali, fondamentalismi, rifiuto del concetto di cittadinanza, un collasso crescente della legalità.
Secondo il parere convergente di molti osservatori e studiosi, è in contesti come questi che è cresciuto un islam settario, più ideologia politica totalizzante che fede religiosa, più simile a una forma di sfogo anti-sistema criminale e violento che a una lettura tradizionalista del Corano. Francesco, da parte sua, ha parlato fin dal principio del suo pontificato, delle periferie sociali, urbanistiche, degli scartati, e poi delle periferie esistenziali, avvertendo per tempo il nostro mondo – che forse non l’ha saputo ascoltare – di come le periferie del mondo non fossero solo quelle di Paesi africani o asiatici, ma di quanto anzi erano vicino a noi, bastava sollevare lo sguardo verso i confini delle nostre città.
E’ allora da rileggere per la sua clamorosa attualità e preveggenza uno dei passaggi forse più difficili da assorbire per un lettore europeo del documento «Evangelii gaudium», nel quale il papa a pochi mesi dalla sua elezione, tracciava un programma per il pontificato. Francesco affrontava il tema della violenza in rapporto a temi come l’urbanizzazione e l’integrazione: «Quando la società – locale, nazionale o mondiale – abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence – spiegava – che possano assicurare illimitatamente la tranquillità. Ciò non accade soltanto perché l’inequità provoca la reazione violenta di quanti sono esclusi dal sistema, bensì perché il sistema sociale ed economico è ingiusto alla radice».
«Come il bene tende a comunicarsi – aggiungeva – così il male a cui si acconsente, cioè l’ingiustizia, tende ad espandere la sua forza nociva e a scardinare silenziosamente le basi di qualsiasi sistema politico e sociale, per quanto solido possa apparire. Se ogni azione ha delle conseguenze, un male annidato nelle strutture di una società contiene sempre un potenziale di dissoluzione e di morte». Difficile non vedere la precisione dell’analisi che forse poteva apparire troppo forte e dura, ma oggi ci accorgiamo corrisponde in modo fin troppo preciso alla realtà. Non per caso, allora, Francesco, da Scampia a Napoli, a Manila, a Ciudad Juarez, a Castelnuovo di Porto frequenta le periferie, incontra le persone e distingue fra terroristi e vittime, scegliendo di umanizzare e non di criminalizzare i territori e coloro che ci vivono.
Importante poi come il tema periferia veniva affrontato anche nell’enciclica «Laudato sì», sotto il profilo del rapporto fra condizione umana e ambiente circostante, fra qualità della vita, modelli di comportamento e valori condivisi. «…E’ provato inoltre – affermava il pontefice – che l’estrema penuria che si vive in alcuni ambienti privi di armonia, ampiezza e possibilità d’integrazione, facilita il sorgere di comportamenti disumani e la manipolazione delle persone da parte di organizzazioni criminali. Per gli abitanti di quartieri periferici molto precari, l’esperienza quotidiana di passare dall’affollamento all’anonimato sociale che si vive nelle grandi città, può provocare una sensazione di sradicamento che favorisce comportamenti antisociali e violenza». «Tuttavia – aggiungeva – mi preme ribadire che l’amore è più forte. Tante persone, in queste condizioni, sono capaci di tessere legami di appartenenza e di convivenza che trasformano l’affollamento in un’esperienza comunitaria in cui si infrangono le pareti dell’io e si superano le barriere dell’egoismo. Questa esperienza di salvezza comunitaria è ciò che spesso suscita reazioni creative per migliorare un edificio o un quartiere».
Insomma la risposta era in una comunità virtuosa e non chiusa, nella costruzione di legami solidali. Anche per questo il papa indicava alla Chiesa la strada delle periferie, cioè dell’uscita verso gli altri e il mondo, anche se, aggiungeva, occorre farlo in modo non casuale. Allo stesso tempo, spiegava Francesco, la periferia è alla base stessa dell’esperienza cristiana: «Tutto il cammino della nostra redenzione – afferma Bergoglio in un altro brano di Evangelii Gaudium – è segnato dai poveri. Questa salvezza è giunta a noi attraverso il ’sì’ di una umile ragazza di un piccolo paese sperduto nella periferia di un grande impero».

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Abitare è un gesto politico e le città si cambiano raccontandole diversamente

Via Padova, Giambellino, Quarto Oggiaro: per lo scrittore e architetto milanese Gianni Biondillo i “quartieri difficili” di Milano non sono paragonabili ai quartieri ghetto del Belgio e della Francia: «Abbiamo fatto le cose all’italiana, paradossalmente è per questo che ci salviamo».

Architetto, narratore, nato e cresciuto a Quarto Oggiaro, tra gli organizzatori di Sentieri Metropolitani, un programma di camminate di riscoperta cittadina, Gianni Biondillo è probabilmente la persona migliore, a Milano, con cui discutere di periferie e il salotto di casa sua, una vecchia casa di ringhiera all’inizio di via Padova, è il luogo perfetto per cominciare.

«Le case di ringhiera servivano per garantire la massima resa in un minimo spazio», ci racconta, «ma anche per cercare, sotto la spinta di un’idea architettonica positivista, di gestire l’igiene cittadina in un contesto di massiccio aumento della popolazione. Poi, un po’ per questioni di estrazione sociale, un po’ per condizioni tipologiche dell’edificio si erano create in quegli edifici delle aggregazioni sociali e dei sistemi di comunità molto interessanti.

Non c’era dietro un ragionamento di architettura sociale o un tentativo di costruire un nuovo tessuto sociale inclusivo per i nuovi abitanti di Milano che ci venivano a vivere quindi?
No, non credo proprio. E infatti, quegli stessi edifici, oggi abitati da classi sociali diverse, non hanno portato alla stessa dinamica di inclusività sociale. Tutt’altro: i cortili si sono svuotati dei bambini che ci giocavano, le porte sono blindate, è tutto pulitissimo, perfetto, e nessuno sta più sui ballatoi, perché ormai quelli che erano piccoli bilocali si sono trasformati, per fusione tra loro, in loft enormi con l’aria condizionata. Questo dimostra come la tipologia di una abitazione non sia sufficiente a innescare dinamiche inclusive di comunità.

Da quanto vivi in via Padova? Come mai hai scelto questo quartiere?
La mia scelta di abitare in via Padova è stata una scelta politica. Ci siamo trasferiti qui quando De Corato aveva istituito il coprifuoco, nel 2010, in seguito a una storia di omicidio che, così come ce lo avevano raccontato, aveva visto protagonisti due immigrati che abitavano in via Padova, salvo poi risultare che né la vittima né l’assassino abitavano qui. Avevano bisogno di fare del terrorismo psicologico, avevano bisogno di una storia da raccontare per stigmatizzare questo quartiere. È stato per quello che in quel momento abbiamo deciso di venire a vivere qui. E oggi che sono passati ormai sei anni sono contentissimo della scelta.

Perché?
Perché non è affatto vero che questo è un quartiere pericoloso, per prima cosa. E poi perché è un quartiere vivo, dinamico, ricco. Guarda solo questo cortile, è ricchissimo: c’è una famiglia albanese, una srilanchese qua sotto, una peruviana, una cubana, più in là ci sono anche delle prostitute ucraine. Questo quartiere è perfetto per la gentrificazione e in effetti sta accadendo, il processo si è innescato, perché Via Padova è un luogo che ha una qualità urbana altissima.

Hai parlato di gentrificazione, una parola molto usata negli ultimi anni, che dinamica identifica?
La gentrificazione è una dinamica tipica delle metropoli e seppur sia una parola abusata, in realtà la dinamica che le soggiace è complessa. Coinvolge quartieri che per ragioni storiche o topografiche non sono appetibili per le fasce sociali più ricche, ma che a un certo punto si trasformano. Succede che, a causa dei prezzi bassi, arriva nel quartiere una nuova tipologia di persone con spazi mentali differenti, artisti, intellettuali, studenti. A quel punto la gentrificazione è partita, i prezzi cominciano piano piano a salire, il quartiere diventa attrattivo, vitale e dinamico, attira attività commerciali e, nel giro di un po’ di anni, passa dall’essere iperpopolare all’essere esclusivo. Questo è quello che è successo a Brera negli anni Sessanta, ma anche, più recentemente, all’Isola.

Perché via Padova, come altre periferie di Milano, è considerata da tanti come un posto pericoloso, una cosiddetta “periferia a rischio”?
C’entra l’ignoranza, ma anche il racconto che ne fai. Pensa che sono andato qualche mese fa a Londra, nei quartieri più etnici, quelli che si celebrano per i mercati di cianfrusaglie, di vestiti a poco prezzo, di street food. Mi sono guardato intorno e ho pensato: “Ma questa è via Padova”. È un po’ ridicolo pensare che le stesse tipologie di luoghi, a Londra li consideriamo attraenti e particolari, mentre qui a Milano li consideriamo pericolosi.

E qual è la differenza?
Come la racconti.

Ovvero?
Prima di tutto permettimi di dire che, quando si parla di periferie, io metto mano alla pistola.

Perché?
Perché le periferie non esistono e perché ognuno di questi luoghi ha una sua storia specifica, un suo sviluppo, un suo modo di essere che li rendono non paragonabili tra loro. Non si può confrontare via Padova con il Giambellino, o il Giambellino con Quarto Oggiaro. Hanno distanze differenti, hanno origini diverse e abitanti diversi. Chi le considera tutte uguali evidentemente non è mai uscito dal suo quartierino borghese e pensa che, appena fuori dal centro storico, sia un grande Hic sunt leones, popolato da mostri con tre teste e sei braccia. È gente che va a fare shopping milionario in via Montenapoleone, senza sapere che un secolo fa era la zona più malfamata di Milano. La cosa di cui possiamo ridere è che i nipoti di questa gente probabilmente compreranno proprio queste case, una volta che la gentrificazione sarà completata.

Che storia ha questo quartiere?
Via Padova ha sempre avuto come vocazione l’accoglienza della gente che arrivava in città. Prima degli immigrati stranieri di oggi e prima ancora di quelli meridionali degli anni Cinquanta, quelli che venivano da Est, soprattutto dal Veneto, la regione più povera d’Italia alla fine dell’Ottocento, si fermavano qui in via Padova. Era la strada che portava alla dogana di porta Venezia. Sempre su questa via, ma in fondo, a Cascina Gobba, c’era la cosiddetta Corte d’America, un cortile dove ci si ritrovava per prepararsi a emigrare in America.

Poi cosa è successo?
Negli anni successivi, anche le altre ondate di migranti sono state accolte da questa via, che ha mantenuto una vitalità molto forte e che, soprattutto in questi ultimi anni, non è affatto un posto pericoloso. È una via dove la sera la gente cammina, mentre nel centro storico, la sera, non ci cammina nessuno.

Perché in centro non ci abita più nessuno?
Perché c’è stato un cambio di funzione, ma soprattutto un mare di investimenti da parte di banche che hanno comprato migliaia di immobili.

Qual è la specificità di via Padova?
Via Padova è lunga 4 chilometri e mezzo, non si può pensare che sia un quartiere omogeno. E infatti è un quartiere fatto a macchie, perché la nuova immigrazione è arrivata in maniera maculare.

Cosa significa?
Le prime ondate di immigrazione erano state gestite politicamente da una città che aveva molti più soldi e aveva costruito appartamenti, servizi. Certo, con tutti i problemi del caso, visto che spesso erano quartieri difficili come Quarto Oggiaro, quello dove sono cresciuto io, ma pur essendo “quartieri dormitorio” costruiti per accogliere i lavoratori delle fabbriche, in fondo hanno retto.

Perché?
Perché tutti avevano una casa, in fondo. Tutti sono riusciti ad andare a scuola, hanno avuto accesso ai servizi. E c’era un tessuto sociale.

Cosa è cambiato ora?
All’epoca c’erano le sedi di partito, le case del popolo, gli oratori che erano dei presidi territoriali impressionanti — e la Chiesa, bisogna dirlo, è tuttora un’istituzione che si sobbarca molti degli sforzi di accoglienza — e poi le fabbriche, che sapevano costruire un tessuto sociale. Tutto ciò è sparito ora.

E quindi?
E quindi la nuova immigrazione, quella degli ultimi vent’anni, non è stata gestita per niente dalla politica, che ha lasciato che il mercato risolvesse il problema. Ma il mercato non ha il dovere, come la politica, di essere etico, il mercato cerca il profitto e quindi i nuovi arrivati si sono stabiliti in città a macchie, senza un ordine o un disegno preciso. E infatti questa nuova immigrazione non si è vista nei palazzi, non è stata una variazione topologica, è stata una variazione antropologica: sono cambiate le facce, i sapori, i colori, non i palazzi. L’ultimo cambiamento topografico di Milano, quello che ha coinvolto quartieri e palazzi, ha origini completamente diverse, private, commerciali e di investimento. E infatti tutte le nuove case che abbiamo costruito negli ultimi anni sono quelle che hanno ridisegnato lo skyline del centro, come il Bosco Verticale, case che costano più di 10mila euro al metro quadro, stiamo costruendo grattacieli. E i soldi vengono dalla Russia, dai paesi del Golfo, dalla Cina.

Eppure negli ultimi mesi quartieri-ghetto come Molenbeek a Bruxelles si sono rivelati essere molto pericolosi…
Io faccio di cognome Biondillo e sono figlio di un campano e di una siciliana, quindi il classico figlio del boom economico. Sono nato a Milano da due genitori che sono venuti a Milano, che si sono conosciuti a Milano e sono milanese fino al midollo, e quando vedo che i compagni di classe stranieri delle mie figlie vengono identificati come immigrati di seconda generazione mi viene da ridere. È come se io venissi definito come meridionale di seconda generazione. È ridicolo. E così capisci che spesso i ghetti sono definizioni, parole, racconti. I ghetti iniziano nella testa. Il problema è che a un certo punto diventano reali e generano quello che abbiamo visto a Bruxelles, o qualche anno fa a Parigi.

I nostri quartieri “difficili” sono paragonabili a quelli? Secondo c’è il rischio che via Padova diventi la Molenbeek italiana?
No, per niente. Sono contesti decisamente diversi. Ed è proprio la macularità che ci “salva” da quella situazione.

Ovvero?
La nuova immigrazione in Italia non ha avuto una gestione politica dal punto di vista dell’emergenza abitativa. E quindi si è infilata dove le è capitato. A macchie. Non ha formato quartieri ghetto, anche se ha generato tantissime situazioni di degrado sociale. Quindi, proprio per questa capacità tutta italiana di fare le cose a caso, senza programmare e senza pensare al lungo periodo, ci siamo ritrovati con una situazione molto meno esplosiva di quella francese o di quella belga. In quei paesi la struttura centralista è molto forte e il centro comanda per davvero, i quartieri sono etnicizzati — c’è il quartiere dei filippini, quello dei maghrebini, quello dei pakistani — è una vera e propria ghettizzazione.

E a Milano?
A Milano, dove questa cosa non è successa se non in Paolo Sarpi, i quartieri sono veramente multiculturali. E basta fare un giro in via Padova, per esempio, per notare facce di tutti i paesi: indiani, maghrebini, africani, cinesi, slavi, russi, sudamericani e così via. Perché ti faccio questo discorso? Perché è vero che non abbiamo il mix sociale, ma abbiamo il mix etnico e in un momento come questo io credo che sia un bene, perchè stiamo mettendo le basi di una società più meticcia, più dinamica, e in fondo più sana. Non è un caso che siano proprio i quartieri monoetnici, i ghetti come Molenbeek a Bruxelles, quelli dove cresce il disagio sociale e, con lui, i giovani terroristi. In un pezzo che scrissi una decina di anni fa, raccolto in Metropoli per principianti, affrontavo il tema delle cosiddette periferie in fiamme, che all’epoca erano le banlieue parigine. All’epoca in molti mi chiedevano di intervenire sull’argomento e chiedevano quasi tutti se avremmo dovuto aspettarcele anche qui da noi quelle rivolte. Io rispondevo e rispondo ancora che no, che quelli che incendiavano le banlieue francesi erano quelli che vengono chiamati impropriamente immigrati di “seconda generazione”, e che spesso addirittura di terza.

Perché impropriamente?
Perché quelli erano francesi come io sono milanese. Avevano passaporti francesi, erano nati sul suolo francese, avevano frequentato le scuole francesi e che in quel momento dalla Francia non ricevevano nulla, neppure il riconoscimento linguistico di essere cittadini. E se i loro genitori o i loro nonni questa cosa l’avevana accettata, questi ragazzi non la accettavano più e protestavano.

Cosa è cambiato da allora?
In realtà molto poco. E infatti gli attentatori di Parigi e di Bruxelles non erano siriani o iracheni o sauditi. Erano di Molenbeek, erano di Bruxelles. È gente che non è cresciuta in moschea, ma in strada, nei bar, a fumare canne, bere birre e giocare alla playstation. Sono dei disadattati. Questi ragazzi quando le banlieue scoppiavano erano bambini, ora sono cresciuti e non li abbiamo saputi includere nella società e questa è la reazione. Purtroppo si è verificato quello che dicevo all’epoca: se saremo bravi sapremo gestire il cambiamento, scrivevo, se non lo saremo il cambiamento ci gestirà. In Francia e in Belgio è andata così, per noi è stato meno traumatico proprio per quel modo all’italiana — che René Ferretti direbbe alla cazzo di cane — con cui facciamo tutto in questo paese e che, almeno in questo caso, ci ha riparato dalla ghettizzazione etnica. Certo, probabilmente abbiamo creato una ghettizzazione sociale, di classe, ma, almeno per ora, è una aggregazione meno esplosiva. Non possiamo escludere che lo sarà tra qualche anno, ma non ora.

All’inizio dell’intervista hai detto che le periferie non esistono. Che cosa intendi dire?
Che quando parliamo di via Padova o del Giambellino, anche se abbiamo in mente il Cerutti Gino di Gaber, non stiamo parlando di periferie di Milano. La metropoli milanese ormai non è più quella del Comune, quella nata dall’allargamento degli anni Venti. La metropoli di Milano parte da Novara e arriva a Bergamo, ma anche a Lugano e a Genova. Ormai è un’area metropolitana che è extra cittadina, ma anche extra provincia, extra regione e extra nazione. In un certo senso anche Courmayeur è un quartiere di Milano, non si chiama Nolo, ma Curma. Come Santa, per Santa Margherita. Questa metropoli che abitiamo ha 6 milioni abitanti e se stiamo ancora qui a dire che Giambellino o Lambrate sono in periferia io mi lancio per terra e mi sbellico dalle risate. Questi quartieri sono nel centro più assoluto della città. E quando Renzo Piano, persona che stimo e conosco, fa un discorso intelligente come quello del rammendo delle periferie, ma lo fa sul Giambellino, a me fa tenerezza. Mi fa tenerezza perché il Giambellino è sì un quartiere popolare, ha sì le sue criticità, ma ha una identità talmente forte che è quello che ha meno problemi. I quartieri problematici di Milano sono il continuum di villette monofamiliari della Brianza o nelle aree residenziali dell’hinterland milanese, è lì che devi costruire una nuova narrazione perché è quella che è la nuova fabbrica dell’infelicità.

Cosa credi che si debba fare praticamente per cambiare?
Nel 2009 ho fatto con Michele Molina il giro delle tangenziali di Milano. Bene, quelle non sono più tangenziali. Quelle formano la circonvallazione più esterna della città. È quella l’unità di misura che dobbiamo avere in mente, perché la città consolidata arriva fino a lì. Dobbiamo lavorare su questa scala dimensionale, favorire la mobilità veloce pubblica e la mobilità dolce privata (piedi e bicicletta), ma soprattutto abbattere l’uso della macchina e della mobilità privata. A tutti i costi, perché è quella che ci sta uccidendo tutti. Il centro di Milano è una città piccolissima, si può attraversare a piedi. E poi, ripeto, la chiave è tutta nelle narrazioni. E ci sta aiutando anche il web. Paradossalmente anche Facebook, dove si moltiplicano le pagine “identitarie” dei quartieri di Milano, come Sentieri Metropolitani, Milano Sparita, o anche come l’ultima arrivata Yolo in Nolo, e che ha lanciato una nuova etichetta per questo quartiere, un’etichetta che funziona e che sta girando, ma che soprattutto sta dando una nuova narrazione a questa area. Una narrazione che nasce virtuale su internet, ma che si fa fisica, che esce in strada, negli eventi, nelle gallerie, nei mercati. È anche così che si cambiano i quartieri.

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Rigenerazione urbana e crescita economica: si può

L’incontro organizzato da Planimetrie culturali sul “Distetto popolare evoluto” (svoltosi a Bologna il 18 marzo) ha visto anche la partecipazione di Paolo Venturi, esperto di impresa sociale. A lui abbbiamo posto alcune domande sul valore economico della rigenerazione urbana.

Come può la rigenerazione urbana diventare anche un’occasione di sviluppo economico?

“Siamo in un momento storico in cui sono in crisi i tradizionali modelli di produrre valore. Le leve tradizionali in mano allo Stato e al Mercato (per come li abbiamo conosciuti negli ultimi 20 anni) usate per attivare nuovi percorsi di sviluppo non funzionano più e in molti casi non sono più attivabili ( basti pensare allo strutturale decremento della spesa pubblica e alla trasformazione di intere filiere produttive come l’edilizia). In questo contesto una visione duale, Stato- Mercato, non è più sufficiente ma occorre recuperare un ingrediente, fino ad oggi attivato solo in maniera residuale, ossia il ruolo della società e della comunità. La crisi (etimologicamente significa ‘passaggio’) ci consegna un’evidenza: lo sviluppo si costruisce ‘con’ la comunità non solo ‘per’ la comunità. Un esempio lampante ci viene dall’enorme quantità di beni immobili, di spazi, di quartieri, di borghi abbandonati. Prima l’opzione ‘urbanistica’ in quanto tale poteva essere perseguibile per i proprietari di immobili ( in gran parte privati ..) oggi questi beni se non incrociano una finalità sociale, culturale legata alla vocazione e ai bisogni della geo-comunità in cui sono inseriti, difficilmente possono essere ri-generati.

Sono spazi che posso diventare contenitori di nuove filiere di prodotti e di servizi rivolti alla comunità, luoghi di animazione sociale e di nuovo mutualismo ( prima avevamo le case popolo e i circoli..), asset da destinare alla sperimentazione e all’imprenditorialità. Ecco che quindi la rigenerazione non è più un atto speculativo (costruisco e rivendo)… ma un atto generativo.”

Come possono operare insieme soggetti pubblici come le amministrazioni, ed i privati?

“Per attivare questi nuovi processi di rigenerazione, che si tratti di una periferia, di un casa cantoniera, di una stazione abbandonata, di un ex-fabbrica dismessa, non basta il governo (ossia l’intervento della PA) occorrono policy di governance ossia processi di collaborazione fra una pluralità di soggetti che non sono solo portatori di interessi, ma di risorse e di istanze di cambiamento. In questo senso la PA diventa quel soggetto capace di abilitare, accompagnare e valutare processi che nascono dal basso e che hanno istanze e proposte concrete legate al diverso uso dei nuovi spazi.. Istanze ibride e plurali. Sono, infatti, fortemente eterogenee le soluzioni che spesso convivono dentro i nuovi spazi rigenerati dove il nuovo artigianato convive con la dimensione culturale e lo spazio associativo con quello imprenditoriale; però senza un comune “tèlos” ( fine comune) non si costruiscono governance. E’ quindi indispensabile alimentare, prima di qualsiasi intervento, processi di condivisione senza i quali è difficile generare valore.
Oltre alla governance, è indispensabile semplificare e allineare le normative ad un diverso uso degli spazi: la legislazione che abbiamo oggi(nonostante l’innovazione introdotta dal regolamento sui beni comuni del Comune di Bologna) sono pensate per un mondo che non c’è più. Oggi abbiamo beni immobili che non hanno praticamente più mercato e sono all’origine del degrado sociale di molte città, per non parlare di borghi abbandonati che vendono case a poche centinaia di euro e nello stesso tempo registriamo una crescente quantità di persone che non hanno accesso alla casa.. mi sembra un paradosso che non possiamo permetterci. La ri-generazione diventa quindi una grande occasione per dare vita a nuova era di distretti caratterizzati da un diverso modo d’intendere la produzione: “la produzione come fatto sociale”

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